di Andrea Rossetti
Enzo Bianchi, il barbuto priore della Comunità di Bose, appartiene di diritto a quella “congrega” di cattolici che ho altrove e sbrigativamente definiti “cattocomunisti”.
Sia chiaro a tutti i tartufi in agguato: non nutro alcun odio personale nei loro confronti in quanto singoli ma li ritengo dei massimalisti ignoranti, degli ottusi irresponsabili che invocano il Vangelo – che non conoscono o che interpretano con una disinvoltura teologica tanto allarmante quanto triviale - come foglia di fico per un’ideologia filantropica e vagamente pacifista, in bilico tra deriva materialistica e generica utopia da corteo.
Ciò è ben evidente nel ripudio pressoché totale della storia della Chiesa Cattolica – della quale, pure, si dichiarano parte – fino al Concilio Vaticano II, percepito come nuova e principale Pentecoste, nonostante le “scorie” gerarchiche e le inibizioni conservatrici del magistero di Wojtyla e Ratzinger, e nella lettura irenistica – fondata sul costante travisamento del precetto evangelico dell’Amore - dell’ecumenismo e dei rapporti col mondo secolarizzato.
Bianchi, teorico de “La differenza cristiana” (Einaudi), è appunto uno dei più noti esponenti italiani di tale “congrega”.
L’insufficienza della sua teoria è palese nel momento in cui si trova ad affrontare la questione del rapporto col mondo islamico.
Egli, col suo consueto stile retorico tanto ricco di parole quanto povero di sfumature e di lucidità, afferma senza mezzi termini che il cristiano non può invocare alcuna “reciprocità” di trattamento, in quanto contraria al mistero dell’Amore incondizionato di un Dio crocifisso, e deve pertanto aprirsi all’altro cosciente della possibile sopraffazione che da tale apertura può derivargli, disposto ad accettarla in un atteggiamento di perdono preventivo ispirato a quello di Gesù.
Apparentemente tutto sembrerebbe filare: Bianchi parrebbe essere l’interprete fedele del dono cristiano di sé, dono che, sull’esempio di Cristo, deve spingersi all’occorrenza sino all’estremo sacrificio. E invece no. Le enunciazioni di questo signore sono un cumulo di grossolane sciocchezze, concepite alla scuola di una teologia maldestra e nutrite da un’ermeneutica dei Vangeli a dir poco superficiale.
E’ vero, infatti, che il cristiano deve amare chiunque e senza condizioni ma è anche vero che il significato teologico dell’Amore cristiano è quello di interrompere la “circolarità” del male. L’Amore cristiano - testimonianza tangibile dell’essenza del Dio trinitario - non è fine a se stesso ma rappresenta una frattura, un elemento di virtuosa discontinuità nell’effetto domino che caratterizza la propagazione delle conseguenze del peccato. Dio chiama l’uomo a cooperare al Regno con un ruolo attivo e non trasformandosi nel riflesso sommario di un concetto universale. L’Amore cristiano comporta quindi un’assunzione di responsabilità da parte dell’uomo e tale responsabilità non può essere che razionale, deve, cioè, derivare, da una valutazione attenta delle circostanze. Direi, anzi, che proprio tale valutazione appassionata, sincera e seria è la condizione prima dell’autenticità evangelica dell’Amore umano e deve nascere dal rapporto costante tra la preghiera, che è l’abbandono fiducioso e filiale a Dio, e l’analisi razionale, che è il riconoscimento della nostra diretta responsabilità nel contingente. L’Amore è uno ma le sue manifestazioni non possono che essere molte. Nella storia, nel tempo, le sfumature possono avere un peso decisivo e spesso condizionano la fattibilità e addirittura la bontà dei progetti, ma Bianchi e quelli che sragionano come lui preferiscono barricarsi dietro una costruzione patetica e sentimentale, fondata su una “poeticità” dell’Amore cristiano che lo condanna all’imprecisione utopistica e ai deragliamenti dell’azione irresponsabile.
La dedizione assoluta del sacrificio di Gesù Cristo assume pieno significato nel disegno di salvezza della ragione divina e l’imitazione di tale generosità, alla quale in quanto cristiani siamo tutti chiamati, non può prescindere dalla nostra valutazione razionale delle contingenze, affinché la fedeltà sia piena in sostanza e non sconsiderata e fanatica conformità letterale.
Che conseguenze ha tutto questo nel caso dei rapporti tra cristianesimo e Islam? In primo luogo occorre notare un errore fondamentale di Bianchi (che denuncia in modo inequivocabile la sua inattendibilità): la sovrapposizione, malamente sintetica, tra vocazione e comportamenti individuali e politiche generali. La questione della “reciprocità” di trattamento nei rapporti fra cristianesimo e Islam e l’idea di limitare l’immigrazione proveniente dai paesi musulmani a causa del fallimento dell’utopia multiculturale e della difficile integrazione delle comunità islamiche anche a generazioni di distanza (come dimostrano gli arresti di anglo-islamici per gli attentati compiuti e progettati in Gran Bretagna e quelli, recentissimi, in Danimarca, nonché la vicenda della scuola islamica di Milano, le prese di posizione dell’UCOII e quelle di Adel Smith) sono infatti problemi di natura politica e come tali vanno affrontati in vista di soluzioni adeguate ed efficaci. Bianchi, invece, banalizza e semplifica come al solito rimproverando ai cristiani che sostengono tali posizioni appunto una prospettiva politica nell’affrontare un problema politico: per lui, che da sempre legge il Vangelo con un occhio sostanzialmente secolarizzato e al di fuori del disegno razionale dell’intelligenza divina, cristianesimo significa infatti inadeguatezza radicale del linguaggio alla circostanza. Ma non è tutto. Tenendo conto di ciò che si è appena detto sull’Amore cristiano e avendo chiara la dimensione politica nella quale ci troviamo a ragionare, proprio il richiamo alla “reciprocità” e l’attenzione alla salvaguardia dell’omogeneità culturale dell’Europa, che non implicano affatto odio, chiusura o rifiuto dell’altro in quanto tale, rappresentano il modo migliore per dare realtà storica all’Amore di Dio senza considerarlo, come fa Bianchi nella sua sterile riduzione ideologica del cristianesimo, antitetico alla prudenza e al senso di responsabilità proprie della ragione umana ma, anzi, in perfetta e complementare sintonia con quest’ultima.