La fede: sacrificio ragionevole
Pensare che, per acquistare la fede, occorre rinunciare alla ragione, è cattiva teologia,
sebbene molto diffusa nella modernità.
La fede è obbedienza, non annullamento dell'intelletto
Rm 12, 1: "Obsecro itaque vos, fratres, per misericordiam Dei, ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem,
rationabile obsequium vestrum... "
La vita secondo la fede è un sacrificio a Dio e più ancora la fede stessa è sacrificio concernente addirittura la parte più nobile dell'uomo, la sua intellettualità. Eppure, se è vero che, nel
credere, la ragione umana si piega all'infinita, divina, Verità compiendo un ossequio che scaturisce dalla ragione e, realizzandosi sotto la sua guida, merita di essere chiamato "ragionevole", tale ossequio non comporta per nulla l'annientamento dell'umano
intelletto, ma ben al contrario la sua somma e nobilissima elevazione. La ragione, aderendo alla Rivelazione, non diventa meno, ma più che mai ragionevole. Pensare che, per acquistare la fede,
occorre rinunciare alla ragione, è cattiva teologia ' sebbene molto diffusa nella modernità segnata dal programma kantiano di "limitare la ragione per far spazio alla fede". Queste parole che leggiamo
senza battere un ciglio, con ingenua noncuranza, allarmerebbero i nostri antenati medievali come vere e proprie "bestemmie ereticali". La fede è obbedienza, non annullamento dell'intelletto (cf. Rm 1,5) e la sottomissione non è certo abbrutimento a meno che non si parta dal presupposto alquanto pessimistico che il mondo alla pari della
società è governato dal puro arbitrio e da vicendevoli sopraffazioni. La fede può essere, si, "distruzione di ragionamenti"
(cf. 2 Co 10, 5), ma solo di ragionamenti sragionanti, quelli "che si levano contro la conoscenza di Dio" e per conseguenza non sono veri. Il vero non contraddice il vero, il vero soprannaturale della
fede non può essere smentito da quello naturale della ragione.
Tuttora, sebbene non vada certo per la maggiore essere apertamente
cattolici, è ancora un po' di cattivo gusto essere francamente atei.
Si sente allora dire "io sono credente, ma a modo mio". Se già la religione, ch'è connaturale all'uomo, può essere plurima solo secondo le umane opinioni, mentre è unica nella sua obiettiva
verità, quanto più sarà sottratta all'arbitrio delle scelte umane, la fede, ch'è religione divina, connaturale a Dio solo, soprannaturale riguardo ad ogni creatura! I pagani avevano qualche
sano istinto naturale e perciò erano (spesso fin troppo) religiosi, ma non avevano ancora la fede. La religione è una dimensione naturale dell'anima, la fede è dono gratuito di Dio. Gli atei
moderni ci provano, con strani contorcimenti di animo, ad essere "indifferenti" rispetto a Dio senza mai riuscirci, perché la natura è più forte delle loro velleità. Per non credere invece basta
deliberatamente resistere alla divina grazia.
La fede è una conoscenza intellettiva e precisamente una conoscenza
di Dio nella Sua Essenza inaccessibile ad ogni intelletto creato o
creabile. Credere significa conoscere Dio come Dio solo si conosce,
è un entrare nel segreto intimo della Mente divina. Infatti, "per
alcuni effetti della Divinità l'uomo è aiutato a tendere nel
godimento divino" (S. Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, 11-11, 1,
c.). Dio ci vuole beati non solo della nostra, ma della Sua, divina ed infinita, beatitudine e il primo passo che facciamo in quella direzione è appunto quello della fede.
Ciò che si crede in ogni proposizione di fede è l'Unico Dio, Prima Verità, e tutto ciò che di non divino entra nella fede ne fa parte solo in ordine a Dio. Con tutto ciò le formule dogmatiche (tanto
deprecate in ogni salotto che si rispetti) rimangono indispensabili, perché solo tramite esse avviciniamo il mistero. Dato poi che il falso non può far parte del vero né il male del bene, nella fede
tutto è vero, perché essa tutto vede alla luce dell'infinito Essere e dell'infinito Intelligibile.
L'oggetto della fede non è però "visto" né "saputo" dall'intelletto umano. La verità divina non è adeguatamente afferrabile dalla
concettualità umana. L'eccesso della divina intelligibilità acceca gli occhi deboli della mente creata, un effetto, questo, che i
mistici descrivono come "caligine" o "tenebra" della fede.
L'atto interiore del credere consiste in un "riflettere con assenso" (cum assensione cogitare). La fede implica da un lato una ferma adesione alla verità e così differisce dall'opinione (timore che il
contrario sia vero), sospetto (beve probabilità) e dubbio (indecisione della ragione). Essa differisce però anche della scienza, perché la sua certezza, pur essendo dalla ragione, non è
però solo intellettualmente fondata, ma deriva dalla volontà mossa a volta dalla divina grazia.
La fede si presenta allora come una certezza che tuttavia non giunge alla chiara visione del suo oggetto. Affermare che il credente deve
rinunciare ad ogni certezza per metterla in questione nell'ambito di un fraterno dialogo, dire che non si deve bloccare il dinamismo della continua ricerca con verità fisse ed acquisite una volta per sempre ed altri discorsi simili porta a dei luoghi comuni non solo
oltremodo banali, ma che hanno altresì il gravissimo torto di non essere per nulla veri. Sarà anche intolleranza, ma S. Tommaso, come
ogni buon cattolico, è convinto che la fede è una certezza e il credere un dovere morale indispensabile per l'eterna salvezza. La fede non poggia su motivi personali del tipo "mi butto nel buio,
perché me n'è venuta la voglia" - né tradizionali sullo stile "sono credente, perché lo è la mia famiglia" né infine folcloristici -"credere è un valore positivo, perché fa parte del patrimonio culturale del nostro popolo" - come per dire che, alla fine dei
conti, anche i musei hanno il loro posto nella vita. Per giungere alla visione di Dio l'uomo non può fare a meno di lasciarsi condurre come un discente da Dio Docente per le vie della rivelazione e della
fede.
Di chi, senza colpa, non poté udire la predicazione del Vangelo si incaricherà Dio stesso. Certo, nemmeno costoro si salvano senza la fede, almeno implicita e misteriosamente comunicata dall'alto.
Epperò, più che pensare a come Dio salvi l'umanità, i Cristiani dei paesi largamente evangelizzati dovrebbero meditare piuttosto sulla loro parte del dovere. Che ne sarà di noi, se rifiutiamo la fede
così facilmente accessibile? Quali responsabilità abbiamo dinanzi ad una società più pagana che ci sia, ovvero pagana dopo essere stata
una volta cristiana? Basta che ci compiacciamo di essere "pochi, ma buoni" o dobbiamo fare nostro il mandato di "andare ed ammaestrare
tutte le genti"? Dio vuole che siamo democratici non in cose da poco come la politica, ma in ciò, che veramente conta qual è la salvezza
dell'anima. Questa sì che è una possibilità, anzi, un dovere, uguale per tutti.
Dato l'intervento della volontà, e per conseguenza della libertà, nell'atto di fede, questo risulta certamente meritorio a condizione di rivestirsi della carità. La fede si compie nel conoscere il
mistero di Dio, il che può verificarsi anche senza amare Dio al di sopra di tutto. Anche un peccatore può e deve credere, ma la carità c'è solo nei giusti. Spesso i semplici con fede meno esplicita, ma
più "affettuosa", guadagnano più meriti dei dotti che con freddezza di cuore allontanano l'intelletto troppo compiaciuto dì sé dalla sottomissione alla Rivelazione. Se infatti la ragìone pretendesse di
sostituirsi alla volontà di credere, ne sminuirebbe il merito, se essa al contrario esplora il mistero della fede cui la volontà ha già prestato la sua ubbidiente ed amorosa adesione, ciò diventa
segno di una scelta più determinata e quindi anche di un merito più grande.
"La fede è fondamento (sostanza) delle cose che si sperano e prova (argomento) di quelle che non si vedono" [Eb, 11, 1 ]. Quel che si
spera non si possiede ancora, ma in qualche misura può già essere iniziato in chi ha speranza, Così la volontà del credente è già protesa alla divina promessa dì cui non si ha ancora il pieno
adempimento, ma la si possiede nel suo inizio, dato che la fede è il primo passo che conduce all'eterna beatitudine. L'intelletto credente non vede ancora il suo oggetto, ma vi aderisce con certezza
convinto, più ancora che se si trattasse di una prova rigorosa, dall'autorità di Dio che ci svela il Suo mistero.
Nella fede l'intelletto aderisce alla verità rivelata mosso dalla volontà che già ama il mistero del Dio che si rivela, cosicché la virtù della fede suppone una buona disposizione sia nell'intelletto
che nella volontà. Eppure immediatamente la fede trova il suo soggetto proprio nella facoltà intellettiva, perché il suo oggetto
non è un bene, ma piuttosto un vero. L'atto di fede è dunque ordinabile, al di là del suo oggetto proprio, ch'è il vero divino, a quel bene soprannaturale che è ancora Dio, ma questa volta Dio-Sommo
Bene in sé, oggetto della carità. Così la carità risulta "forma" della fede e la virtù che, ispirando la fede, la connette con il fine ultimo della vita umana. Da sola, checché ne dica Lutero, la fede non giustifica. Anche il peccatore che non ama Dio può e deve
credere ed otterrà il perdono solo quando la sua fede si rivestirà di nuovo del soprannaturale amore.
Quanto spesso si sente dire "non ha importanza quel che uno crede, importante è solo che gli uomini sì amino tra loro". L'amore senza fede e senza verità - ecco, secondo san Pio X che in quella materia
era un intenditore, là quintessenza del modernismo. Dì fatto non è possibile amare il bene soprannaturale, se non si ha la previa conoscenza, altrettanto soprannaturale, del bene suddetto. In altre
parole, se è vero che la carità oltrepassa la fede, sempre rimane che, senza la fede, almeno rudimentale, ma vera e divinamente
rivelata, si ha semmai una presunzione di carità, ma non la carità secundum veritatem. Inutile aggiungere che la filantropia naturale, anche se per assurdo fosse spinta fino all'eroismo, a nulla
gioverebbe, perché non sarebbe all'altezza del soprannaturale e quindi non meriterebbe davanti a Dio, sebbene sia per il resto umanamente lodevolissima. E' facile allora capire che cosa pensa la dottrina autenticamente cattolica di altri luoghi comuni come "è un ateo, sì, ma anche una gran brava persona" (sarà, certo, brava
persona, in tutto, ma disgraziatamente non proprio nel suo ateismo) o meglio ancora, perché più personale, "io in Chiesa non ci vado, ma
con tutto ciò sono molto più onesto di tanti bigotti" (prova inconfondibile che la razza dei farisei è difficile a morire), oppure "non sono un praticante, ma ho una mia onestà" (e c'è infatti da temere che quella "onestà" sia un po' troppo a misura delle
vedute personali dell'ego stimatissimo).
La fede è più certa della prudenza e dell'arte, perché conosce l'eterno e l'assolutamente necessario, non il fattibile contingente.
Per la causa della sua certezza, ch'è Dio, essa è più certa anche della stessa scienza. Per la debolezza dell'intelletto umano invece avviene che essa sia troppo elevata e quindi meno connaturale
rispetto alla mente creata e persino legata all'esperienza sensibile
qual è la mente umana. La Santa Chiesa, convinta della ragionevolezza e nel contempo della soprannaturale mistericità della
fede, insegna che, se la ragione non può certo dimostrare i dogmi nei loro rispettivi contenuti, essa però può e deve accertarsi della loro credibilità. Tra le proposizioni della morale lassista condannate dal papa Innocenzo XI (1679) leggiamo anche
questa: "L'assenso della fede soprannaturale e salutare può aver luogo assieme alla nozione solo probabile della rivelazione, anzi,
assieme al timore che Dio non abbia parlato" [DS 2121].
Il Magistero del Concilio ecumenico Vaticano I (cf. DS 3009 ss.) sottolinea la dipendenza della ragione creata dall'uomo da quella
increata e creatrice di Dio e per conseguenza H dovere di prestare l'ossequio dell'intelletto e della volontà a Dio che si rivela. La fede, inizio dell'umana salvezza, costituisce una virtù
essenzialmente soprannaturale, per mezzo della quale, con l'aiuto della divina grazia, crediamo essere veri i misteri rivelati da Dio.
Questo non per la intrinseca verità delle cose intelligibile alla luce naturale della ragione, ma per l'autorità del Dio rivelante che
non può né ingannarsi né ingannare. Epperò, per rendere ragionevole
l'ossequio della nostra fede, Iddio volle aggiungere all'ispirazione interiore dello Spirito Santo degli argomenti convincenti della sua rivelazione, dei fatti divini, anzitutto i miracoli e le profezie, che dimostrano abbondantemente (luculenter) l'onnipotenza e l'infinita scienza di Dio, così da costituire segni certi della rivelazione divina, adatti all'intelligenza di ogni uomo.E cosa risaputa che dinanzi ai prodigi del Signore Gesù la folla si
spaccava in due: alcuni dicevano che un grande profeta era in mezzo a loro e che Dio ha visitato il suo popolo, altri invece bestemmiavano accusando il Salvatore di scacciare i demòni a nome di Beelzebub, il capo dei demòni. Vi sono alcune cose, prodigiose e nel contempo buone e sante, che solo Dio può fare e che il demònio, benché possa mimare delle meschine imitazioni di segni soprannaturali (ì maghi del faraone riescono a produrre dei serpenti, ma il serpente di Mosè se li mangia tutti), non farebbe
mai a meno di contraddire se stesso e quella triste intelligenza non
è capace di nessuna incoerenza logica. Nella natura appaiono dunque dei segni di una potenza che oltrepassa la natura e che, essendo
infinita e inoltre moralmente retta, non può che derivare da Dio.
Tutto ciò può anche andare bene, si dirà, ma come c'entriamo noi che dei miracoli non ne abbiamo visti? Ebbene, beati coloro che, pur non
avendo visto, crederanno. La loro fede non sarà senza ragionevole
appoggio, perché ogni mente priva di pregiudizi farà la giustizia accordando ai Vangeli un'assoluta attendibilità storica. Così, quando san Giovanni ci racconta della risurrezione di Lazzaro, siamo
noi stessi che lo vediamo uscire dal sepolcro e quando ci dice che entrò nella tomba vuota di Gesù e vide e credette, anche noi crediamo, ma prima ancora assieme a lui vediamo le bende per terra e
il sudario piegato messo in disparte. Il fatto della risurrezione è un fatto storicamente e perciò razionalmente accertabile, sempre
misterioso invece ne rimane il profondo significato nell'economia della salvezza.
Ma non si raccontano dei miracoli anche in altre religioni? Sì e come, ma l'intelligenza umana è in grado di discernere tra il vero e il falso, tra la realtà obiettiva e le invenzioni fantastiche.
D'altronde un potente motivo di credibilità è la stessa connessione dei misteri cristiani tra loro, lo splendore razionale che sprigiona da sé l'analogia della fede e che non si trova in nessun'altra
religione puramente naturale ed umana. Questi segni e prodigi però
andavano forse bene per quei sempliciotti che erano i nostri rozzi antenati, noi uomini critici possiamo ancora ritenerli attendibili?
Possiamo e dobbiamo, essi infatti sono argomenti che dimostrano il fatto della rivelazione abbondantemente adattandosi ad ogni umano
intelletto senza differenze (dovute a quel razzismo diacronico che condanna il passato a nome del magico progresso) tra intelletti più
o meno aggiornati. L'incredulità ha trovato un nuovo mito, quello della demitizzazione. I farisei accusavano Gesù di essere preda di
Beelzebùb, il criticismo bultmanniano lo accusa di essere preda di
un mito. Le due invettive in fondo si equivalgono, solo che quella
moderna, più sofisticata, è per ciò stesso anche più diabolica.
La ragione non dimostra allora la fede il cui atto rimane sempre
libero, tant'è vero che persino testimoni oculari dei prodigi di
Cristo ne rifiutavano la missione divina, ma essa è in grado di
accertarsi che credere è molto ragionevole, perché la fede è molto
credibile. Per credere basta sottomettere la ragione a Dio, per non
credere bisogna farle violenza piegandola su se stessa. La ragione
dei credenti è certo più ubbidiente, ma quella degli increduli è
infinitamente più sacrificata e lo è per giunta sull'altare più
profano che ci sia - quello dell'adorazione che l'uomo dà a se
stesso.
LE DIFFICILI VIE DELL'ETICA.
Nei risultati del Convegno sull'intolleranza (che riguardano
anzitutto la tolleranza in quanto la negazione risulta pienamente
conoscibile solo alla luce dell'affermazione) è sorprendente notare
che accenni etici, di principio, non mancano, certo, eppure sono ben
lontani dal ricevere quel primato che spetta loro di diritto dinanzi
alla. preponderanza di trattati per così dire "applicativi". Tutto
ciò sarà probabilmente da addebitare a quello spirito pragmatico
che, da Galileo in poi, non ama "tentare le essenze", eppure quella
della tolleranza è una questione soprattutto di principio, una
problematica squisitamente etica, anzi, metafisica, in quanto
riguarda l'agire umano e le sue motivazioni. Ci sia permesso dunque
di supplire un po' a tale mancanza osando sollevare anzitutto la
domanda del "che cosa è" prima di giungere a quelle altre del "come
si usa" e "dove si applica". In latino il verbo "tolerare",
suscettibile di molte sfumature, può essere globalmente tradotto con
il termine "sopportare". Sembra fuori dubbio che ognuno di noi abbia
molte occasioni di sopportare nella sua vita certe circostanze
generalmente dovute ad altre persone con cui viviamo, che
incontriamo, ecc. Portare pazienza appartiene alle esigenze della
vita di tutti i giorni e, se per convincersene non bastasse il buon
senso. l'autorità delle stesse divine Scritture è assai abbondante a
questo riguardo.
La pazienza inoltre, quella virtù che per eccellenza consiste nel
sopportare, viene indicata come effetto spontaneo della carità,
della comunione dell'uomo con Dio stesso. Detto ciò, subito si suole
elevare l'accusa dettata da superficialità se viene da ambienti che
si vantano del proprio laicismo, ma ulteriormente arricchita di
autolesionismo se proviene da chi continua a definirsi cristiano pur
battendo il petto non già a se stesso, ma preferibilmente alla Santa
Chiesa di Dio: "Ecco la purezza della dottrina evangelica che la
Chiesa-istituzione ha rinnegato assumendo atteggiamenti intolleranti
lungo il corso della sua storia!". Tali sempliciotti dimenticano che
lo stesso apostolo che canta l'inno alla carità, che è paziente,
prorompe in condanne decisamente "inquisitoriali" davanti ai
pericoli di eresia o di immoralità nella comunità cristiana. Dato
poi che, nonostante un carattere decisamente energico,
l'irrazionalità rientra nelle caratteristiche di San Paolo, forse
sarebbe il caso di astenersi da accuse affrettate concedendosi prima
una salutare pausa di riflessione.
Come mai la tolleranza può tollerare accanto a sé l'intolleranza? A
parte l'autorità scritturistica, la risposta starà forse nella
natura della tolleranza stessa. Dato che l'agire umano riceve la sua
determinazione dall'oggetto (fine), occorre chiedersi quale sia la
materia in cui si esercita la suddetta sopportazione. Ciò che si
tollera non è un bene, un valore autentico, bensì un male, un
qualcosa di pesante e di insopportabile in sé. Elevare alle stelle
la tolleranza e condannare altrettanto perentoriamente la
intolleranza suppone l'oblio dell'oggetto, spiegabile, certo,
nell'attuale clima soggettivistico, ma imperdonabile in chiunque
voglia affrontare la questione con spirito autenticamente critico.
Proviamo anzitutto ad esaminare l'atteggiamento, la forma mentis,
dell'uomo tollerante a livello individuale. Come abbiamo visto, si
tratta di pazienza e la pazienza è "la virtù dei forti", perché
appartiene alla virtù cardinale della fortezza. Essere moralmente
forti significa non abbandonare il bene onesto a causa di un timore
riguardante qualche danno nell'ambito dei beni utili. Tra l'altro si
tratta anche di conservare la pace d'animo dinanzi a dispiaceri di
ogni tipo il che richiede una certa grandezza spirituale
(magnanimità) che non bada alle piccole faccende più o meno
piacevoli dell'esistenza, ma le supera largamente attendendo
unicamente a qualche grande e nobile scopo che un uomo si propone di
realizzare nella sua vita. Non sorprende allora l'aggancio paolino
della pazienza alla carità se si pensa che quest'ultima unisce
l'anima a Dio, fine ultimo soprannaturale della vita umana.
Similmente è agevole scorgere nell'"anima paziente o tollerante" un
certo distacco da desideri e piaceri più immediati, una certa
disposizione "liberale" dell'anima che conferisce all'uomo che la
possiede un'indefinibile, ma spiritualmente intuibile, grandezza e
sublimità interiore. Ma il tollerante non è solo libero in se
stesso, riesce anche a circondare di un clima di libertà H suo
prossimo, è disposto alla benevolenza, perché possiede il senso
della libertà altrui il che altro non è se non H rispetto,
condizione e compimento di ogni buona amicizia.
Sembra facile allora, basta essere tolleranti e il gioco è fatto.
Ma, come generalmente accade, anche qui la via più ovvia e semplice
conduce, se non alla perdizione, almeno all'inganno. Di fatto il
magnanimo non insiste sulle piccolezze, cioè sulla maggior parte
delle vicende umane, ma risulta inamovibile su quelle poche cose che
sole contano per lui. Il benevolo rispetta certo l'amico, ma
rispetta più ancora quel bene superiore che, se condiviso, si pone a
fondamento dell'amicizia stessa. Paradossalmente si potrebbe dire
che l'intolleranza riguardo ad alcune realtà basilari condiziona e
rende possibile proprio la tolleranza autentica riguardo a tante
altre realtà derivate e secondarie. Ciò risulta più chiaro se si fa
attenzione all'essenza stessa della libertà che consiste nel dominio
delle proprie scelte. Scegliere infatti equivale a disporre dei
mezzi al fine e proprio perché chi sceglie vuole determinatamente un
fine, è in grado di sottomettergli i mezzi che conducono al suo
raggiungimento. Qualcosa di analogo si verifica anche
nell'intelligenza: solo l'evidenza dei principi permette di
raggiungere molteplici conclusioni. In entrambi i casi, quello
intellettuale e quello morale, la cosiddetta "apertura mentale"
poggia saldamente su una decisa adesione al vero e al bene. Al
contrario menti "aperte" a livello di principi risultano alquanto
ottuse, grette, litigiose ecc., sul piano di conseguenze pratiche.
Porre poi il limite alla libertà, dopo aver "liberato" l'uomo da
Dio, nella persona altrui, come ci si perita l'illuminismo francese,
non dà nessuna garanzia che la libertà suddetta non si trasformi
in "furia, distruttrice" in quanto non basta dichiarare che il
prossimo è da rispettare, occorre anche farne valere il motivo e la
norma morale regolatrice. Di fatto, di quale disposizione meschina e
tirannica sia l'anima dei cosiddetti "libertini", lo sa chiunque li
abbia minimamente esaminati dal punto di vista psicologico. La
libertà correttamente intesa, posta cioè nell'ambito dei mezzi e
radicata nella adesione ai fini, non solo non esclude, ma richiede
ed esige l'obbligo di migliorare se stessi: "Felix necessitas est
quae in meliora compellit" (S. Agostino). Perciò non si vede quale
utilità in vista della tolleranza vera potrebbe arrecare alla Chiesa
l'abbandono "del concetto tradizionale agostiniano
cosiddetto "positivo" della libertà", del quale si vuole negare
l'appartenenza al corpo dogmatico della Chiesa, mentre di fatto
affonda le sue radici nelle stesse divine Scritture.
La tolleranza o sopportazione del male non può essere nulla di
assoluto, dato che il male è talvolta, certo, da subire, ma altre
volte è da aggredire e da togliere di mezzo. Eccessiva tolleranza
diventa permissivismo, come un'esagerata intolleranza porta alla
tirannide. Entrambi gli estremi poi sono più vicini tra loro di
quanto comunemente non si pensi. La soluzione, attenta a salvare il
mondo ossia la natura umana, dovrà dunque porsi non semplicemente al
di là, ma al di sopra della alternativa "tolleranza-intolleranza",
impresa che sarà ben riuscita solo se si saprà relativizzare
quest'ultimo binomio, cosa tuttavia tutt'altro che facile in una
mentalità che, dimentica degli oggetti, bada solo ad atteggiamenti
soggettivi. Di fatto la tolleranza si relativizza solo se la si
restringe all'ambito che le spetta, quello cioè del soggetto, mentre
l'intolleranza al contrario viene incontro alle leggi e alle
esigenze dell'oggetto.
Ancora una volta occorre guardare al principio stesso dell'agire
umano. Di nuovo appare il rapporto soggetto (azione libera) -oggetto
(bene morale che le è dovuto). In ciò sta l'essenza stessa della
moralità. In una simile relazione l'oggetto è (moralmente) dovuto e
quindi crea attorno a sé come un'esigenza di intolleranza, al
contrario l'azione procedente dal soggetto operante è
(psicologicamente parlando) libera creando attorno a sé come
un'atmosfera di postulata tolleranza.
Nell'etica dunque libertà e dovere si appartengono a vicenda e
similmente la tolleranza richiesta dal soggetto e limitata ad esso
non potrà togliere di mezzo quella lodevole intolleranza con cui il
dover essere richiama perentoriamente i suoi diritti. Da ciò appare
come neppure tra la relatività della tolleranza e quella
dell'intolleranza vige perfetta parità, infatti l'oggetto si
costituisce come misura e regola del soggetto il quale gli si
sottomette, dimodoché l'intolleranza, a condizione che si eserciti
attorno ad un oggetto buono, sarà a sua volta buona se ulteriormente
moderata dalla prudenza, la tolleranza invece si fa avanti dalla
parte di un soggetto libero che tuttavia non si è realizzato a
dovere: se l'uomo liberamente aderisce al bene, è assurdo parlare di
tolleranza, questa si esercita nei riguardi di uno che
nell'espressione della sua libertà difetta dal realizzare il valore
morale dovuto, così che "tolleranza" sensu stricto è due volte
relativa, sia in quanto confinata alla sfera della libertà
soggettiva, sia in quanto realmente urgente.
Dato che ogni seria etica sociale parte dal dato incontrovertibile
che è l'individuo il fondamento della socialità, la quale dunque non
è una specie di sostanza a se stante né tanto meno un mostruoso
automaton la cui dialettica passa sopra le nostre teste e, se
occorre, sopra i nostri cadaveri, era necessario esaminare l'essenza
della tolleranza anzitutto sul piano della singola persona, soggetto
di moralità. Ciò non toglie tuttavia che la prima e privilegiata
applicazione della tolleranza (o intolleranza) si verifichi proprio
sul piano dei complicati rapporti sociali non solo degli individui
tra loro, ma anche e soprattutto nella relazione reciproca del
singolo alla comunità e viceversa. Tale delicato ordine del singolo
cittadino alla moltitudine politica non è dovuto al caso, né a
circostanze storiche, né a iniziative contrattuali ma ancora una
volta alla natura. immutabile in sé, il che non vuol dire inerte o
inattiva, che nell'uomo è sociale in se stessa.
Duplice è il fondamento della tendenza naturale alla vita sociale,
uno è legato all'amore detto di concupiscenza e consiste nella
necessità di lasciarci aiutare dai nostri simili, l'altro invece
scaturisce dalla naturale benevolenza o amicizia che ogni essere
umano prova, salvo eccezioni patologiche, per il suo prossimo,
quella benevolenza che si compiace nel fare del bene agli altri e,
si capisce, con la dovuta discrezione, lo desidera spontaneamente.
In tal modo l'unione di molti individui diventa società in virtù di
un ordine al fine sociale che è l'amicizia politica, un bene
condiviso da tutti, ma anche superiore a tutti, perché mentre è di
tutti insieme, non è, essenzialmente di nessuno in particolare,
anche se, e ciò è di capitale importanza, per partecipazione torna a
vantaggio di ciascuno: si tratta del noto "bonum commune omnium" di
tomistica memoria. Siccome poi tale bene, com'è ovvio, supera ogni
individuo, il singolo gli è organicamente sottomesso, il che
potrebbe far pensare ad una concezione totalitaristica, senonché
l'individuo, sottomesso al bene della società tutto, non lo è però
totalmente, vi è insomma in lui una dimensione, quella del bene
morale appunto, che, lungi dall'essere un mezzo rispetto alla
società, è, anzi, il fine di quest'ultima. San Tommaso ama
distinguere due tipi di bene comune, uno immanente che è la pace
sociale intrinseca al corpo politico, l'altro, più alto ancora,
trascendente, che è la piena realizzazione morale dell'uomo, il
conseguimento della sua beatitudine, del fine ultimo della sua vita.
E' noto come l'etica sociale della Chiesa poggi sul duplice
principio di solidarietà e di sussidiarietà: ebbene, il primo
esprime appunto la sottomissione del singolo al bene comune, l'altro
esprime invece il rispetto dovuto dalla parte della collettività
alle entità minori, e, in ultima analisi, ai singoli individui che
vivono in essa. Anche qui è agevole vedere come intolleranza
(adesione al bene comune) e tolleranza (rispetto
dell'individualità), lungi dall'escludersi a vicenda, si postulino
l'un l'altro. E una verità facilmente constatabile che grandi
società poggiano su grandi individualità e che grandi uomini trovano
il loro ambiente connaturale in società idealmente affascinate che
servono con amorevole dedizione.
Ciò che interessa in particolare è appunto quel bene, squisitamente
appartenente al "bonum commune omnium", che abbiamo chiamato con un
termine a prima vista enigmatico "società idealmente affascinata".
Si tratta di una realtà delicatissima, che capita alle grandi
nazioni in momenti fortunati della loro storia, e che comunemente
viene detta "cultura". L'inflazione attuale di tale parola
costituisce un signum mali ominis, perché solo culture decadenti
amano parlare troppo di cultura, quelle che l'hanno per così
dire "nel sangue" la vivono quasi inavvertitamente. Una lettura
anche superficiale di O. Spengler, dal quale si può dissentire su
tanti punti, ma al quale non si può onestamente negare il merito di
aver affrontato con profonda intuizione ciò che egli stesso
chiama "morfologia delle culture", convince subito d'un fatto
basilare: non c'è cultura dove un popolo non condivide un patrimonio
spirituale, ideale, e, in ultima analisi, religioso. Può dispiacere
ai cosiddetti laici (o laicisti), ma le religioni sono levatrici e
nutrici di tutti i popoli culturali. In tali epoche "di grazia"
nella vita di una nazione è superfluo e fuorviante parlare in
termini di tolleranza-intolleranza: tutti la pensano, in un certo
senso ovviamente, intelligentibus pauca, allo stesso modo, ma tutti
la pensano così, ed ecco la meraviglia, spontaneamente e senza
costrizioni. Le nazioni culturali non sono quindi né intolleranti né
tolleranti in se stesse, semmai lo sono rispetto a coloro che non ne
fanno parte.
Il rapporto individuo-società è anzitutto questione di giustizia
ossia di diritto-dovere. L'uomo è per natura soggetto di diritto,
perché in virtù della sua dimensione spirituale emerge dal mondo
circostante, non è posseduto, ma possiede. Nel contempo tuttavia il
singolo, dominatore delle cose in particolare, è sottomesso, non già
alle cose, ma al bene comune e globale della società di cui fa
parte. Ciò si esprime chiaramente nel diritto fondamentale alla
proprietà privata che San Tommaso concepisce come una facoltà di
acquisire e di dispensare, mentre nota che l'uso dei beni è per
natura comune, non certo nel senso che tutti usano
indiscriminatamente di tutto, ma nel senso che il benessere del
singolo deve ordinata a quello della collettività. Similmente il
singolo gode in sé di diritti inalienabili che la società non può
che approvare, ma nel contempo ha anche precisi doveri nei riguardi
di quest'ultima. Ciò vuol dire che ogni società correttamente
ordinata consiste in un regime di libertà o, meglio, per non
equivocare su un termine assai compromesso, di rispetto
dell'individuo, ma anche in un insieme di istituzioni che ordinano
il singolo al bene di tutti e qui non c'è da pensare al fisco od
altro, perché il bene comune più che nel reddito nazionale consiste
in beni di altro genere e di altro livello, in quel patrimonio
spirituale che il singolo si trova innanzi e nei riguardi del quale
deve avvertire il preciso obbligo di amministrarlo con saggezza e
non di sperperarlo con stolto disprezzo.
T. Todorov propone una certa (e molto giusta) asimmetria tra
tolleranza ed intolleranza, ma usa purtroppo i termini illuministici
di libertà e di uguaglianza affermando la necessità di limitare la
prima e di stabilire incondizionatamente la seconda. Non è la
libertà da limitare, ma la tolleranza, in quanto libertà è scelta
sovrana indirizzata al bene, mentre tolleranza è sopportazione del
male ed è chiaro che il dominio del proprio agire è già in sé
moderato dall'indirizzo finalistico buono (se così non è, la libertà
si realizza psicologicamente, ma fallisce moralmente, e non è più
libertà in senso pieno), la sopportazione del male invece ha, sì,
dei precisi limiti dettati dalla prudenza politica ed esteriormente
imposti. L'uguaglianza poi non è certo quel valore assoluto per il
quale la si vorrebbe far passare 0, almeno, c'è bisogno di
chiarimento: l'unica uguaglianza vera è quella di tipo
metafisicoetico, in quanto la natura umana non ammette variazioni di
grado, o c'è o non c'è, ma non c'è più o meno, la quale poi si
esprime nell'uguaglianza davanti alla legge, ma la legge positiva,
se è, saggia, sa già distinguere all'interno del suo ordinamento tra
situazioni sociali diverse, poiché ed è qui il grande inganno
dell'illuminismo - sul piano sociale l'uguaglianza è più un anti-
valore che un valore, anzi, di essa vale proprio il detto summum
jus, summa injuria. Pretendere che tutti siano ugualmente forti,
sani, sensibili, intelligenti, raffinati nei gusti ecc. è contro
natura e, se imposto per vie di "utopia realizzata", genera violenza
e per di più violenza ingiusta. A livello sociale-politico
occorrerebbe piuttosto vedere la duplice linea ascendente di
solidarietà del soggetto con il bene comune (valore di obbligo,
dovere, fondato sulla giustizia legale) e quella discendente di
sussidiarietà che collega la collettività all'individuo da
rispettare e da proteggere nel contempo (valore di libertà, diritto,
fondato sulla giustizia distributiva). Solo quando i due movimenti
entrano in collisione (come accade in tempi di crisi culturale),
entra in scena l'intolleranza che richiama il singolo a rispettare
il patrimonio spirituale comune e la tolleranza proclamata dinanzi
alle istituzioni dalla parte di privati cittadini che non ne
condividono più l'impostazione.
I valori trascendentali sono in sé immutabili, eppure l'approccio
dell'uomo e delle nazioni ad essi è storico dimodoché ogni cultura
esprime temporalmente (e purtroppo anche temporaneamente) un
riflesso stupendo dell'oggettivo ed eterno Vero, Bene e Bello. Tali
Idee (per usare H linguaggio del grande Platone), senza le quali
muoiono le anime e intere popolazioni, prive di veri profeti,
periscono, hanno dei diritti che i loro opposti, anche se appoggiati
da una massa ormai assiologicamente svincolata, non potranno mai
reclamare; e su tali cose, inutile dirlo, non si decide in
plebisciti, anzi, il solo tentativo di farlo è prova eloquente che
se ne è persa la sensibilità.
Innanzitutto va accuratamente distinta la religione dalla fede:
entrambe obbligano moralmente l'uomo nei riguardi di Dio, ma su
piani ben diversi, in quanto la prima fa parte della stessa natura
umana, l'altra invece è dono soprannaturale e gratuito, ma, si badi
bene, comunemente obbligante (seppure in gradi diversi a seconda
della consapevolezza più o meno esplicita del dato rivelato) perché
universalmente proposto a tutti da Dio in Cristo, Signore e
Salvatore nostro. Una società apostata dalla fede perde un bene più
sublime, una collettività irreligiosa (empia) perde un bene più
fondamentale. Eppure, al di là della doverosa distinzione, sta il
fatto che la fede, proprio perché soprannaturale, suppone ed afferra
la natura con la sua dimensione religiosa così che, nel nostro
contesto culturale, perdere l'una significa perdere l'altra e
viceversa. E si faccia ben attenzione - a chi molto è stato dato,
sarà richiesto molto di più - un popolo con semplice religione può
ancora trovare la fede, ma un popolo che assieme alla sua fede perde
anche la sua religione si priva della sua anima stessa.
Dare il dovuto culto a Dio e, a rivelazione avvenuta e proclamata,
credere il Suo mistero, costituiscono precisi doveri obiettivi, ma
si tratta, com'è ovvio, di doveri di ordine morale, tali cioè che
obblighino ad una adesione soggettivamente libera e convinta. E'
inutile voler togliere di mezzo tale imprescindibile diritto di Dio
sull'uomo invocando, secondo la solita e per dir la verità un po'
noiosa antifona, i "tempi cambiati" (cambiati poi in che senso?
Moralmente certo non in meglio!). E recente la chiara e precisa
condanna del card. Ratzinger di quei tentativi che vorrebbero
dividere la storia della Chiesa in fantomatiche epoche pre e post-
conciliari. In questa luce (che ogni cristiano soprannaturalmente
credente avverte col sensus fidei) è per dir poco allucinante
(espressione di gergo giornalistico e di scarsa eleganza, ma che qui
trova il suo posto giusto) parlare di "mutamenti" nella Chiesa
riguardo a temi così basilari quali quelli della Rivelazione e di
errori dottrinali invocando persino l'autorità di Giovanni XXIII,
come fa G. Alberigo citando un brano del discorso inaugurale del
Concilio Ecumenico Vaticano II che basta leggere per esteso (cf.
Enchiridion Vaticanum, vol. 1, Bologna - ed. Dehoniane 1976/10, p.
45, n. 55) per accorgersi che il rimpianto Pontefice, mentre auspica
formule pastorali, non solo non annulla (e come potrebbe?!) quelle
dottrinali, ma esplicitamente esige l'adeguamento di quelle a
queste, come pure rinuncia, sì, alle condanne, ma non perché non
siano più valide, bensì per il motivo della loro superfluità data la
maturità dottrinale dei cristiani (sicché ciò che cambia non è la
dottrina, ma le circostanze storiche in cui essa viene annunciata,
anche se, su quest'ultimo punto, l'ottimismo di Giovanni XXIII
fu "crudelmente deluso" secondo l'espressione dello stesso card.
Ratzinger). Lo stesso dicasi dell'esigenza espressa da L. Kolakowski
di reinterpretare il principio "extra Ecclesiam nulla salus", mentre
di fatto, quando tale principio era ancora in via di dogmatica
elaborazione e fissazione. San Tommaso conosce già
l'espressione "Deus non alligavit misericordiam suam sacramentis".
L'obbligo di onorare Dio e di sottomettersi alla sua parola non
cambia con il mutare dei tempi e non è dalla storia, bensì
dall'essenza delle norme morali che ci si può e ci si deve aspettare
un'equa soluzione del problema.
Abbiamo già avuto modo ci constatare che la cultura di un popolo è
sempre piena di riferimenti a concezioni decisamente religiose. Così
era anche per la Cristianità europea in cui la fede diede l'anima a
interi popoli che si riconoscevano fratelli in Cristo formando tra
loro una vera e propria res publica christiana. Le eresie
sovvertitrici della fede e della cultura, nel contempo (basta
pensare alla furia iconoelastica, dei vari settari di estrazione
pauperistica) disturbavano, ma non potevano danneggiare tale unità
religiosa ed istituzionale. Un mutamento decisivo, un crollo della
suddetta coesione spirituale, avvenne solo all'epoca della Riforma
dove non più movimenti più o meno esagitati, ma intere nazioni si
allontanavano dall'unità cattolica. Ed è allora e solo allora che
emerse da un lato l'intolleranza (il tentativo di dare alla società
l'uno o l'altro indirizzo religioso), ma dall'altro si fece avanti
anche la tolleranza (là dove una consistente minoranza non poteva
essere né convertita né sottomessa, essa era appunto "sopportata").
E' innegabile merito di A. Prosperi aver messo in luce questo stato
di cose.
In tali circostanze che perdurano tuttora, anche se l'apostasia nel
frattempo ha mietuto ben più vittime, assunto volti ben più
mostruosi e il deserto (spirituale) si è accresciuto a dismisura,
giova ricordare ancora una volta con N. Bobbio che se la tolleranza
ha le sue ragioni, l'intolleranza non è priva delle sue. E infatti
fuori dubbio che le istituzioni dello Stato devono educare i
cittadini alla virtù (il fatto che vi abbiano rinunciato già da un
bel po' non cambia nulla alla verità di questa asserzione) il che
comporta anche spronarli a mantenersi fedeli ai principi religiosi
ereditati dai padri. E la Gaudium et spes che imperterrita insegna
la necessità, eloquentemente ribadita dal regnante Pontefice nel suo
recente discorso a Loreto, di iscrivere la legge di Cristo nelle
istituzioni dello Stato. La distinzione del livello naturale da
quello soprannaturale esige giustamente che la religione rispetti
l'autonomia della vita politica (che appartiene all'ordine morale
naturale), ma la decadenza dell'umanità in seguito al peccato
originale vuole anche che la vita sociale si ispiri ai principi
della religione rivelata che sola è in grado di elargire ai singoli
e alle collettività la medicina della gratia sanans.
Ma che dire di coloro che non vogliono né credere né lodare Dio?
Ebbene, costoro vanno anzitutto invitati a correggersi, se poi, data
l'iniquitas temporum, non ci riescono, vanno tollerati, ma non
elogiati, vanno rispettati, ma solo come persone che onestamente
cercano la verità e non già in quanto non la trovano. D'altra parte
è proprio così che si configura l'esigenza della carità secondo la
dottrina tomistica: amare il prossimo in vista di Dio o perché è già
in Dio o affinché, se sfortunatamente non lo è ancora, lo sia al più
presto con una scelta libera, matura, convinta. Quanto poi alla
tolleranza elevata a principio, assolutizzata, vantata come
pluralismo e larghezza di vedute, è facile accorgersi in base
all'esperienza stessa come essa educhi all'indifferentismo, al
relativismo e, in ultima analisi, all'immoralità poiché infatti la
moralità e l'integrità sono un tutt'uno: per essere buoni occorre
essere integri, per essere cattivi basta il "pluralismo" di valori
fabbricati ad hoc secondo il proprio comodo: bonum ex causa integra,
malum ex quocumque defectu. E tale tolleranza assoluta, dove è
possibile, andrebbe emendata, dove nemmeno ciò risulta
sfortunatamente realizzabile va tollerata, ma tollerata proprio come
uno dei mali più gravi che possano capitare ad un popolo ricco di
tradizione e di cultura.
P. Thomas M. Tyn O.P.