«El pronunciamento»
Maurizio Blondet
17/04/2006
Donald Rumsfeld
WASHINGTON - Quando sei generali chiedono, in una mossa evidentemente concertata, le dimissioni del ministro della Difesa, la sola parola che descrive tale azione è: «pronunciamento», l'annuncio del colpo di Stato.
Ma non accade in Sudamerica, né nella Spagna anni '20.
Accade negli Stati Uniti.
E la cosa è nello stesso tempo positiva e gravissima.
Positiva perché i sei generali stanno tentando il tutto per tutto per scongiurare la guerra all'Iran, che sanno benissimo imminente.
Gravissima, perché si tratta di una sedizione militare che non ha precedenti nella storia USA.
Il precedente più prossimo risale al 1951: il generale MacArthur, comandante supremo della guerra di Corea, disse, rispondendo a una commissione senatoriale, che «la Casa Bianca» gli «legava le mani» nella guerra.
Harry Truman (che allora occupava la Casa Bianca) pretese le dimissioni del generale: MacArthur si dimise senza fiatare (1).
Ma per un attimo, dato l'immenso prestigio e la popolarità del generale - uno dei vincitori della seconda guerra mondiale - si temette il golpe.
Oggi, i sei generali sono stati attenti a non accusare la «Casa Bianca», anzi a rivolgersi a Bush perché li liberi di Donald Rumsfeld, il ministro della Difesa incapace.
Ma l'hanno fatto in termini di durezza estrema.
Rumsfeld, ha detto il generale Paul Eaton, che ha presieduto le fasi preparatorie della guerra in Iraq fino al 2004, «si è mostrato incompetente in senso strategico, operativo e tattico».
Ha aggiunto che il ministro ha reso tutto più difficile alienando «gli alleati», essenzialmente Francia e Germania.
Conclusione: «deve andarsene».
Il tenente generale Gregory Newbold dei Marines, direttore operativo degli Stati Maggiori Riuniti all'inizio dell'invasione, ha chiesto le dimissioni non solo di Rumsfeld, ma «di diversi altri che non vogliono cambiare in modo decisivo il loro approccio»: evidente allusione ai «consiglieri» neocon israeliti, capeggiati da Richard Perle, membri dell'American Enterprise, che hanno di fatto imposto la guerra in Iraq «con una boria e noncuranza che è propria di chi non ha dovuto mai condurre missioni di guerra, né seppellirne i risultati».
Il generale John Riggs ha parlato di «Rumsfeld e della masnada che gli sta attorno» i quali dovrebbero essere «licenziati», per avere «del tutto sottostimato quel che occorreva per un conflitto sostenuto».
«Abbiamo sprecato tre anni: assolutamente, Rumsfeld deve dimettersi», ha detto il generale dei Marines Anthony Zinni, già capo dell'US Central Command.
Il generale Wallace Gregson, già comandante dei Marines per il teatro del Pacifico, ha aggiunto che «una quantità» di altri generali «sono profondamente frustrati. Rumsfeld ha dato l'impressione di non richiedere né desiderare consigli dai militari».
Il generale Charles Swannack, già comandante della leggendaria 82ma Aerotrasportata, ha accusato Rumsfeld di fare il dilettante stratega: «dava ordini tattici (micromanaged) ai generali sul campo».
Il generale John Batiste, capo della storica Prima divisione di fanteria («The Big Red One») in Iraq fino al 2005: «abbiamo bisogno di una leadership che rispetti i militari com'essa pretende di essere rispettata da loro».
Alludendo a uno stile di comando di Rumsfeld basato sull'intimidazione degli alti ufficiali di carriera (2).
E' vero che i generali in rivolta sono in pensione.
Ma molti di loro si sono messi a riposo appunto per poter pronunciarsi in questo modo reciso - se l'avessero fatto mentre erano in servizio, il loro comportamento avrebbe configurato tradimento e sedizione - e parlano, come hanno detto chiaramente, a nome dei colleghi che sono ancora nei ranghi.
David Ignatius, editorialista del New York Times, sostiene che le opinioni dei rivoltosi sono condivise dal 75 % «e forse più» degli ufficiali impegnati in Iraq.
Del resto un generale in servizio attivo, John Vines, ha rivelato che un rapporto degli alti comandi sulla natura dell'insorgenza in Iraq smentiva, già nel 2004, l'ostinata visione di Rumsfeld e di Cheney, secondo cui i ribelli erano «jihadisti stranieri» e «gli ultimi fedelissimi di Saddam».
E davvero una simile rivelazione - di una frattura fra i comandi militari e i loro capi civili - può costare, a un militare in carica, la corte marziale.
Donald Rumsfeld e Bush (che ha difeso il suo incapace ministro) hanno sottolineato che i sei generali non hanno avuto il coraggio di esprimere le loro obiezioni mentre erano al comando attivo, e di aver aspettato di essere in pensione: insinuando insomma la loro viltà e il loro carrierismo.
Ma l'insinuazione è bugiarda.
Il generale Eric Shinseki era in carica come capo degli Stati Maggiori riuniti quando disse a Rumsfeld che per invadere l'Iraq occorrevano non 150 mila, ma 400 mila uomini: e Rumsfeld lo licenziò sui due piedi.
Tale azione mandò a tutti gli altri generali il messaggio: tacete e obbedite, se no vi sostituiamo.
Ma ancor più, il fatto che i sei generali si siano messi in pensione per chiedere le dimissioni di Rumsfeld da semplici cittadini, dice della loro correttezza politica: nelle forze armate USA, gli alti comandi hanno ben chiaro che sono i civili, eletti dal popolo, a governare.
Generali in servizio che mettano in discussione il loro ministro hanno davanti due strade: o affrontare la corte marziale (e anche il plotone d'esecuzione), o arrestare i ministri e instaurare un governo militare.
Qualcosa che può accadere in Cile, non a Washington.
Evidentemente, i sei sediziosi non hanno questa intenzione.
Ma, come nota Pat Buchanan, il loro pronunciamento mette Bush in una posizione insostenibile.
Se il presidente, come sta facendo, sostiene Rumsfeld, egli «si pronuncia contro dei generali la cui credibilità è oggi maggiore della sua» (3).
Se Bush licenziasse Rumsfeld, i generali avrebbero comunque messo a segno un putsch: costretto il presidente e comandante in capo a piegarsi alla loro volontà.
Sarebbe la «castrazione» del comandante supremo George W. Bush.
E peggio, lo spettacolo offerto al mondo intero, amici e nemici, che il comando supremo americano è profondamente spaccato, che la politica mondiale americana è allo sbando, che le forze armate - impegnate in due conflitti, e presto in un terzo - non hanno alcuna fiducia dei loro leader civili.
E che, ancora una volta ma più tragicamente, la Casa Bianca avventurista sta perdendo la guerra sul fronte interno, prima ancora che in Iraq.
Benchè i media - come al solito servili verso i poteri occulti (e Israele) - trattino la faccenda come una serie di fatti di colore, questa è la crisi più grave che gli USA abbiano dovuto affrontare nella loro storia.
E la responsabilità di questa frattura è non solo di Bush, Cheney e Rumsfeld e del loro disprezzo dell'opinione pubblica e di quella dei professionisti della guerra; ma dell'avventurismo dei neocon (Richard Perle, e gli ex viceministri del Pentagono Paul Wolfowitz, Douglas Feith e Dov Zakheim) che hanno spinto l'America a una guerra insensata, senza preparazione e senza mezzi adeguati, per «proteggere» Israele da un nemico potenziale (4).
A prezzo di far correre all'«unica superpotenza rimasta» il rischio di una sedizione militare.
Certo a Pechino e Mosca stanno ricavando utili insegnamenti da questi eventi.
In questa situazione, gli stessi gruppi, personaggi e lobby stanno spingendo l'America alla nuova guera: contro l'Iran.
Premono, insistono ancora in queste ore.
Incuranti o incoscienti che questo passo può davvero far precipitare il putsch, spaccare gli Stati Uniti, farli precipitare in una crisi morale e politica di imprevedibili conseguenze.
Risulta infatti che il generale Peter Pace, che presiede oggi gli Stati Maggiori riuniti, abbia ricevuto una lettera firmata da «generali e ammiragli in servizio attivo» i quali hanno reso noto che - se riceveranno l'ordine di colpire militarmente l'Iran - daranno in massa le dimissioni.
E questo non è più il «pronunciamento» di prestigiosi pensionati: è il rifiuto di obbedienza di comandanti in carica, nel corso di un conflitto.
Maurizio Blondet
Note
1) Dal punto di vista strategico, MacArthur aveva ragione: gli era vietato attaccare i nemici nord-coreani nel loro «santuario» sopra il fiume Yalu, ossia in Cina. Sapeva che perciò la guerra non poteva essere vinta.
2) Katrina van den Heuvel, «The general's revolt», The Nation, 15 aprile 2006.
3) Patrick Buchanan, «The general's revolt», WorldNetDaily, 15 aprile 2006.
4) Quando fu licenziato il generale Shinseki nel 2003, fu Paul Wolfowitz a dire che i 400 mila uomini richiesti dal generale erano «assolutamente privi di senso», perché gli americani sarebbero stati accolti «come liberatori»; in Iraq non c'erano mai stati precedenti di «conflitti inter-etnici», e che Paesi «come la Francia» avrebbero partecipato alla ricostruzione dell'Iraq, «perché era nel loro interesse». Si noti che il generale Shinseki aveva comandato la «Forza di Stabilizzazione» in Kossovo, dove la NATO, per controllare una piccola regione con 5 milioni di abitanti, aveva dispiegato 50 mila uomini. L'Iraq è parecchio più vasto dell'Italia, ed ha 26 milioni di abitanti. Se c'è qualcuno che merita il plotone d'esecuzione, è Wolfowitz. Invece è stato messo a capo della Banca Mondiale.
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