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  1. #1
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    Predefinito Alcuni problemi di Prodi

    Milano. Man mano che la scadenza elettorale s’avvicina, la nebbia si dirada sui programmi e s’inizia a capire quali saranno le direttrici che assumerà l’azione di governo nel caso di vittoria dell’uno o dell’altro schieramento.
    Al centro della scena ci sono, in particolare, tre temi.
    Riguardo alla tassazione delle rendite finanziarie, è ormai chiaro che l’Unione è intenzionata ad elevare l’aliquota al 20 per cento: la manovra colpirà i titoli di stato di nuova emissione (con un gettito che si aggirerà secondo le stime intorno ai 200 milioni di euro, e sarà dunque assai inferiore ai 2,5 miliardi di euro che il centrosinistra si riprometteva di recuperare per destinarli
    alla riduzione di circa un quarto della parte di cuneo fiscale su cui si voleva intervenire).
    Secondo tema, la reintroduzione dell’imposta di successione sulle “grandi fortune”. Sembra ormai certa: la soglia potrebbe essere (forse) quella dei 500 mila euro – che è comunque una soglia che tende verso il basso – ma Fausto Bertinotti a Ballarò ha parlato di 180 mila euro.
    Circostanza che mette molto in imbarazzo il centrosinistra, tanto da costringere Romano Prodi a limitare i danni: “Bertinotti oggi ha detto che rispetterà il programma e che il suo era solo un esempio ipotetico”.
    Bertinotti è riuscito anche a imporre alla campagna elettorale il tema del posto fisso, giocando sulla percezione che la flessibilità, declinata nel peggiorativo sociale “precarietà”, abbia minato ogni forma di certezza (sebbene le statistiche ufficiali suggeriscano il contrario). Su una questione tanto spinosa la navigazione del vascello unionista si fa più incerta: da un lato non è politicamente possibile invertire la rotta rispetto all’accelerazione impressa dall’ala sinistra, dall’altro c’è la consapevolezza che la flessibilità è un valore aggiunto, che peraltro affonda le radici nel quinquennio del centrosinistra.
    Dice Nicola Rossi dei Ds: “Romano Prodi ha messo bene in chiaro che il nostro obiettivo è quello di rendere la flessibilità una libera scelta dell’imprenditore, slegandola da eventuali risparmi contributivi. Ciò sarà possibile attraverso l’omogeneizzazione delle aliquote tra i contratti di lavoro a tempo indeterminato e altre forme di lavoro flessibile”.
    Che la questione della flessibilità sia decisiva nel rapporto con il sistema industriale, almeno quanto la riduzione del costo del lavoro, e che non vada sottovalutata dall’Unione, è stato confermato ieri da una dichiarazione di Luca di Montezemolo, che ha detto: la legge Biagi non si tocca, serve semmai completarla con un capitolo sugli ammortizzatori sociali.
    Da un certo punto di vista, la campagna elettorale riprende i temi del 2001.
    Allora Silvio Berlusconi fece passare con strepitosa capacità di persuasione l’idea che avrebbe rintuzzato la macchina burocratica, restituito agli italiani il frutto del loro lavoro con la riforma fiscale, e trapiantato in Italia un sogno di mobilità all’americana.
    Oggi il centrosinistra lavora a quello che spera sarà un referendum contro il Cav., e sceglie come parole d’ordine il rovesciamento dei simboli berlusconiani: ecco allora che gli obiettivi polemici sono una politica fiscale contrabbandata come favorevole ai ricchi, la legge Biagi, e quella che nell’immaginario di una sinistra pauperista, un po’ arrabbiata (soggetta a una forma di incoercibile visione classista della società), è la legge ad personam per antonomasia: l’abolizione dell’imposta di successione. Il tema fiscale, confina in una zona d’ombra altri temi cruciali per il futuro del paese: il contenimento della spesa pubblica, le riforme della scuola e della sanità, il rapporto con l’Europa, la debolezza infrastrutturale, le liberalizzazioni – restano alla periferia del dibattito.
    Come sottolinea Carlo Scarpa, questo dipende in parte da una sorta di analfabetismo sulla cultura della concorrenza. Però è ancora una volta il Cav. a dettare l’agenda: nel 2001 la questione fiscale era il suo asso nella manica, oggi l’Unione lo rincorre su questo terreno.
    Si trova così spiazzata rispetto al suo elettorato di riferimento. La battaglia per l’imposta di successione solletica il ventre della sinistra più a sinistra: ma tutti sanno che avrebbe scarsi risultati in termini di gettito e quindi non sarebbe in grado di aiutare a tamponare l’eccesso di spesa pubblica. La crisi dello stato sociale è particolarmente dolorosa per quelli che del welfare state hanno fatto una bandiera e che non trovano, da parte dei loro uomini in politica, una risposta convincente.
    Alberto Cattaneo, esperto di marketing politico, sostiene che Berlusconi e Prodi sono stati efficaci nel motivare i loro elettori, ma quando si è trattato di passare agli indecisi “nessuno dei due è riuscito a cambiare il prodotto che offriva e soprattutto il linguaggio con cui l’offriva”.
    La competizione elettorale sa di dejà vu anche perché la sinistra non sa offrire ai suoi quello che il Cav. mise sul piatto cinque anni fa: l’idea che un altro mondo è (davvero) possibile.

    saluti

  2. #2
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    Predefinito Il silenzio di Prodi

    Milano. Perché i banchieri italiani non esprimono chiaramente la loro opinione a proposito del progetto prodiano di aumentare le tasse sui rendimenti dei Bot e di diminuirle sui conti correnti? E’ la domanda che ha posto ieri sul Giornale Nicola Porro, secondo il quale il silenzio del sistema bancario è ancora più strano alla luce di una circostanza, un documento preparato dall’Associazione bancaria italiana, in cui si esprime “dissenso, in linea con la posizione
    già espressa in passato dal comitato esecutivo, per quanto riguarda il progetto di uniformare il sistema di tassazione delle rendite finanziarie, prevedendo un livello intermedio tra l’attuale tassazione sui depositi bancari e quella sulle altre attività finanziarie, con l’esclusione dei redditi di piccoli patrimoni, in coordinamento con l’imposizione societaria e la tassazione di dividendi e plusvalenze azionarie”.
    All’organizzazione che rappresenta il sistema del credito, dunque, l’idea di uniformare il sistema di tassazione delle rendite finanziarie a un livello intermedio fra l’attuale tassazione delle rendite finanziarie e quella sui conti correnti, non piace.
    Così come non piace neppure – secondo quanto c’è scritto nello stesso documento che il Foglio ha potuto consultare – la posizione unionista riguardo alla class action, l’istituto giuridico in uso nel sistema di common law che consentirebbe azioni legali collettive per il risarcimento del danno.
    Una soluzione invocata dalle associazioni dei consumatori anche contro le banche (nei recenti casi Parmalat e Cirio), ma che all’Abi non piace: sulla class action, dice il documento, il programma unionista “è da valutare negativamente”.
    Giudizio altrettanto critico viene espresso in merito alla posizione del centrosinistra sulla questione della flessibilità: “Il netto giudizio di contrarietà alla legge Biagi non è condivisibile... l’intenzione di sottoporre il lavoro a progetto alle regole dei diritti definiti dalla contrattazione collettiva”. Dunque, il sistema bancario nutre perplessità sul programma, a partire da un tema di stretta competenza, le rendite finanziarie, ma le banche non si esprimono.
    Un riserbo che – notano alcuni osservatori – non si era visto in altri casi di pertinenza: per esempio, quando il Tesoro ipotizzò una stima troppo bassa – secondo le banche – del valore della partecipazione degli istituti privati in Banca d’Italia, la voce degli istituti di credito si fece sentire.
    Per capirne di più il Foglio ha cercato di avere una risposta ufficiale sull’argomento da alcune tra le principali banche del paese, Banca Intesa, Unicredito, SanPaolo, Montepaschi, Capitalia, Bnl, oltre che naturalmente dall’Abi. Senza ottenere alcun risultato.
    Come mai le banche sono così restie a esprimersi? La spiegazione potrebbe anche essere molto banale: non capiscono ancora se hanno da perdere o da guadagnare da un cambiamento della tassazione sulle rendite finanziarie e dall’armonizzazione al 20 per cento, anche per i depositi.
    Così aspettano di vederla spiegata nei dettagli nero su bianco prima di esporsi con un giudizio di merito. Gli effetti pratici di una misura del genere, infatti sembrano ancora suscitare molto dubbi, e c’è chi sostiene che agli istituti di credito potrebbe addirittura andare meglio di oggi.
    Spiega Andrea Anesini, ex responsabile marketing di Banca Intesa e ora consulente di alcune fra le maggiori banche italiane: “Quel che le banche ricavano dal collocamento dei titoli di stato è di gran lunga inferiore ai proventi dei conti correnti e ai certificati di deposito inferiori ai 24 mesi, che oggi sono tassati al 27 per cento. Ragion per cui una misura del genere potrebbe consentire agli istituti di credito di fare più concorrenza di oggi allo stato con i loro prodotti per i risparmiatori”. Se le cose stanno così, non si capisce perché l’Abi abbia maturato un giudizio negativo sull’ipotesi di riforma. Nel mondo dei tecnici bancari, qualcuno ritiene che una diminuzione della pressione fiscale sui depositi potrebbe essere malvista dalle banche perché attirerebbe l’attenzione dell’opinione pubblica sulla scarsa generosità con cui vengono remunerati in Italia i conti correnti. Da questo punto di vista, è interessante notare come la cosa più simile a una presa di posizione sull’argomento, risale ad alcuni giorni fa, ed è quella espressa da un istituto estero, Ing Direct Italia, presente sul nostro mercato con il conto Arancio, una formula ad alta remunerazione per i depositi bancari. Il general manager di Ing Direct Italia, Christian Miccoli, aveva dichiarato nei giorni scorsi: “Il sistema di tassazione italiano al 27 per cento penalizza il piccolo risparmiatore. Questo non avviene in molti paesi d’oltralpe, in cui esiste progressività nella tassazione e in cui il deposito è la forma primordiale di risparmio. Per importi molto piccoli i depositi sono addirittura esentasse”. Ing oggi è un pericolo per il sistema bancario. C’è anche una ipotesi meno tecnica. Secondo molti osservatori, il silenzio delle banche è determinato soprattutto da una questione di opportunità politica. La maggior parte dei grandi istituti bancari nazionali è guidata da uomini che non hanno mai nascosto le loro simpatie politiche, e che in alcuni tratti delle loro carriere sono stati anche esplicitamente collaterali al sistema di potere incardinato intorno a Ds e Margherita.
    E nessuno vuole mettere in imbarazzo Romano Prodi con una critica alla vigilia delle elezioni.

    saluti

  3. #3
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    Predefinito Dietroooooo.....

    .....froooont!!!

    Il pluripresidente (di Confindustria, Fiat, Ferrari, Fieg eccetera) Luca Cordero di Montezemolo comincia ad accorgersi che le rose dell’Unione hanno molte spine. Sembra che solo ora si sia reso conto che il centrosinistra avversa la flessibilità del mercato del lavoro e intende modificare radicalmente (secondo Romano Prodi) o addirittura abrogare del tutto (secondo Fausto Bertinotti, Oliviero Diliberto e la Cgil) la legge Biagi.
    Si vede che quando l’Italia era percorsa da colossali manifestazioni che contestavano quella legge, Montezemolo si era distratto.
    In questi giorni, però, durante un viaggio in Brasile, ha avuto modo di colmare questa lacuna informativa, ha allora alzato la mano e chiesto lumi:
    “La legge Biagi deve essere completata con una riforma degli ammortizzatori sociali, ha detto, ma non modificata. Su questo tema aspettiamo risposte più chiare dal centrosinistra”.
    Se il professor Prodi si spiegherà su questo argomento con la stessa chiarezza con cui ha risposto a chi gli chiedeva dove intende prendere le risorse per abbattere il cuneo fiscale, Montezemolo può mettersi il cuore in pace.
    Prima delle elezioni ognuno dice la sua, dopo conteranno i rapporti di forza e nel centrosinistra i detrattori della legge Biagi sono la stragrande maggioranza.
    Non vorremmo che la speranza di Montezemolo si appuntasse a un’unica correzione: un codicillo che consenta alla Fiat di utilizzare ad libitum la mobilità lunga.
    Il presidente di Confindustria (non solo lui in verità) cerca di cancellare quello che non gli piace. Così ha cercato di far sparire dalla memoria l’assemblea di Vicenza, persino intimando agli associati di non parlarne più.
    Però gli interessi degli imprenditori non coincidono con quelli della Fiat, e anche dopo Vicenza, con ogni probabilità, hanno trovato modo di farsi sentire da Montezemolo.
    Così ha difeso qualche riforma del centrodestra (oltre alla riforma Biagi, quelle della scuola e del regime fallimentare) arrivando a chiedere spiegazioni a Prodi.
    Auguri.

    Ferrara su il Foglio del 31 marzo

    saluti

 

 

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