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    CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELLA PRIMA ENCICLICA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI "DEUS CARITAS EST"

    Alle ore 12 di questa mattina, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, ha luogo la Conferenza Stampa di presentazione della prima Enciclica del Santo Padre Benedetto XVI dal titolo "Deus Caritas est".

    Intervengono: l’Em.mo Card. Renato Raffaele Martino, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, S.E. Mons. William Joseph Levada, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e S.E. Mons. Paul Josef Cordes, Presidente del Pontificio Consiglio "Cor Unum".

    Ne pubblichiamo di seguito gli interventi:

    INTERVENTO DELL’EM.MO CARD. RENATO RAFFAELE MARTINO

    1. Sono particolarmente lieto e onorato di prendere parte alla presentazione di questa prima Lettera Enciclica del Santo Padre Benedetto XVI, intitolata Deus caritas est, che propone una profonda e illuminante riflessione sull’amore cristiano, considerato nei suoi aspetti filosofico-teologici, spirituali, pastorali ed etico-culturali. Si tratta indubbiamente di un’Enciclica programmatica, nel senso più alto ed impegnativo che si deve attribuire all’aggettivo programmatico. Ricordando che Dio è carità, il Santo Padre invita tutti ad andare al centro della fede cristiana: "All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Nel suo Vangelo Giovanni aveva espresso questo avvenimento con le seguenti parole: "«Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui…abbia la vita eterna» (3,16)" (n. 1). Si tratta, inoltre, di un’Enciclica pervasa, soprattutto nella prima parte, da un grande afflato spirituale, che, di fronte al rischio di un attivismo sociale e caritativo senza anima, richiama tutti alla coltivazione delle ragioni e motivazioni spirituali dell’essere Chiesa e dell’essere cristiani, che danno senso e valore al fare e all’agire. Afferma il Santo Padre in uno dei passi più suggestivi del documento: "L’amore è divino perché viene da Dio e ci unisce a Dio e, mediante questo processo unificante, ci trasforma in un Noi che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio sia «tutto in tutti» (1Cor 15, 28) (n. 18).

    2. Dopo queste brevi riflessioni di carattere generale, vorrei attirare la vostra attenzione sui numeri che vanno dal 26 al 29, dove il Santo Padre affronta il tema del rapporto tra giustizia e carità, con una serie di puntuali e stimolanti orientamenti sulla competenza della Chiesa e della sua dottrina sociale e, quindi, sulla competenza dello Stato nella realizzazione di un giusto ordine sociale. Per esigenza di chiarezza espositiva, procederò richiamando alcuni punti.

    2.a Valore della dottrina sociale nella storia a partire dall’Ottocento. Il Santo Padre ricorda che - alle problematiche sorte nell’Ottocento con l’avvio dell’industria moderna, che si concentravano nell’esigenza di stabilire un giusto ordine sociale - la Chiesa ha dato il suo contributo, non solo attraverso l’azione di alcuni pionieri, ma soprattutto con l’entrata in scena del Magistero sociale pontificio con la Rerum Novarum di Leone XIII. Nel numero 27 dell’Enciclica il Santo Padre registra questo atto di nascita della dottrina sociale cattolica, valutandolo come l’inizio di un fecondo itinerario reso ricco dagli insegnamenti successivi di Pio XI, di Giovanni XXIII, di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, fino a giungere al 2004 quando viene pubblicato, da parte del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, che, di questa dottrina, ne è l’esposizione organica e aggiornata alle situazioni e ai problemi sempre nuovi. Il numero 27 assume un valore ermeneutico di grande significato per l’interpretazione che offre di un difficile e cruciale periodo storico contrassegnato dall’influenza del marxismo. "Anche se i rappresentanti della Chiesa hanno percepito solo lentamente che il problema della giusta struttura della società si poneva in modo nuovo", riconosce onestamente Benedetto XVI, Egli, altrettanto onestamente, riconosce che il "sogno – quello marxista - oggi è svanito". In questo nuovo scenario storico, il Papa afferma che la dottrina sociale "nella difficile situazione nella quale oggi ci troviamo anche a causa della globalizzazione dell’economia,… è diventata un’indicazione fondamentale, che propone orientamenti validi ben al di là dei confini di essa: questi orientamenti – di fronte al progredire dello sviluppo – devono essere affrontati nel dialogo con tutti coloro che si preoccupano seriamente dell’uomo e del suo mondo" (27). A coloro che accusavano la Chiesa di aver perso il treno della storia, la storia stessa si è incaricata di mostrare che quel treno la Chiesa lo aspettava una stazione più avanti di dove era arrivato. In questo riconoscimento, non c’è nessun compiaciuto trionfalismo, ma solo l’onesto esercizio di una corretta ermeneutica storica.

    2.b La competenza della Chiesa e della sua dottrina sociale nella costruzione di un giusto ordine sociale. Il tema viene affrontato al n. 28 dell’Enciclica. Facendo tesoro degli insegnamenti sull’autonomia delle realtà terrene della Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, il Santo Padre afferma che "la giustizia è lo scopo e quindi anche la misura di ogni politica…La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica". Affermata la competenza della politica e dello Stato nella costruzione di un giusto ordine sociale, e quindi l’incompetenza della Chiesa e della sua dottrina sociale in tale costruzione, il Santo Padre si premura subito a delineare la competenza specifica della Chiesa e della sua dottrina sociale. Gli insegnamenti di papa Benedetto su questo punto – insegnamenti che fanno tesoro di quelli dei suoi Predecessori – potrebbero essere riassunti in questo modo: poiché la ragione pratica, nel suo incessante prefigurarsi un giusto ordinamento sociale, è costantemente sollecitata ad interrogarsi su che cos’è la giustizia, essendo di fatto continuamente insidiata dal prevalere dell’interesse e dal potere, tale ragione deve sempre essere di nuovo purificata. La dottrina sociale della Chiesa, con le sue profonde e caratterizzanti istanze formative, si propone come risposta a questa permanente esigenza di purificazione della ragione pratica. A questo punto è bene far parlare il Santo Padre: "…la costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili" (n.28).

    2.c Nel contesto di questa riflessione sulla competenza della Chiesa e della sua dottrina sociale nella costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, il Santo Padre offre alcune stimolanti riflessioni riguardanti la natura stessa della dottrina sociale della Chiesa, soprattutto per quanto riguarda la sua collocazione e il suo modo di argomentare. Per quanto riguarda la collocazione, il Santo Padre radica la dottrina sociale nella fede e nella sua azione purificatrice della ragione: "… la fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente - un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell’ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi accecamenti e perciò l’aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. È qui che si colloca la dottrina sociale cattolica" (n. 28). Quando con la sua dottrina sociale la Chiesa si rivolge all’uomo, pensa a lui "non solo nella luce della esperienza storica, non solo con l’aiuto dei molteplici metodi della conoscenza scientifica, ma in primo luogo alla luce della Parola rivelata del Dio vivente" (Laborem exercens n. 4). Il suo stesso appartenere fin dall’inizio all’insegnamento della Chiesa e il suo essere un patrimonio tradizionale sono conseguenti al suo essere prima di tutto radicata nella fede. La dottrina sociale è fatta "alla luce della fede e della tradizione ecclesiale" (Sollicitudo rei socialis, n. 41). Per il suo modo di argomentare, il Santo Padre afferma che " La dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano" (n. 28). Mi pare che si possa fare qui una sottolineatura assai importante sul piano epistemologico: il rapporto della dottrina sociale con la filosofia e, soprattutto, con l’antropologia filosofica va considerato come nativo. A questo riguardo, permettetemi una citazione del Compendio della dottrina sociale, che afferma: "Essenziale è, anzitutto, l’apporto della filosofia, già emerso dal richiamo alla natura umana quale fonte e alla ragione quale via conoscitiva della stessa fede. Mediante la ragione, la dottrina sociale assume la filosofia nella sua stessa logica interna, ossia nell’argomentareche le è proprio. La filosofia è strumento idoneo e indispensabile ad una corretta comprensione di concetti basilari della dottrina sociale - quali la persona, la società, la libertà, la coscienza, l’etica, il diritto, la giustizia, il bene comune, la solidarietà, la sussidiarietà, lo Stato -, comprensione tale daispirare un’armonica convivenza sociale. È ancorala filosofia a far risaltare la plausibilità razionale della luce che il Vangelo proietta sulla società e a sollecitare l’apertura e l’assenso alla veritàdi ogni intelligenza e coscienza" (n. 77).

    2.d Il Santo Padre afferma che compito della Chiesa, con la sua dottrina sociale, nella costruzione di un giusto ordine sociale è quello di risvegliare le forze spirituali e morali. A quali forze si riferisce il Santo Padre? Ascoltiamo la sua parola: "Il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è invece proprio dei fedeli laici. Come cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica. Non possono pertanto abdicare «alla molteplice e svariata azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune». Missione dei fedeli laici è pertanto di configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità. Anche se le espressioni specifiche della carità ecclesiale non possono mai confondersi con l'attività dello Stato, resta tuttavia vero che la carità deve animare l'intera esistenza dei fedeli laici e quindi anche la loro attività politica, vissuta come «carità sociale»" (n. 29). La presenza del fedele laico in campo sociale viene qui concepita in termini di servizio, segno ed espressione della carità, che si manifesta nella vita familiare, culturale, lavorativa, economica, politica, secondo profili specifici. Ottemperando alle diverse esigenze del loro particolare ambito di impegno, i fedeli laici esprimono la verità della loro fede e, nello stesso tempo, la verità della dottrina sociale della Chiesa, che trova la sua piena realizzazione quando è vissuta in termini concreti per la soluzione dei problemi sociali. La stessa credibilità della dottrina sociale risiede infatti nella testimonianza delle opere, prima che nella sua coerenza e logica interna. Da notare anche il costante riferimento e richiamo che il Santo Padre fa ai Santi, proposti come esempi da imitare anche dai fedeli laici attraverso la coltivazione di un’autentica spiritualità laicale ispirata dall’amore, che li rigeneri come uomini e donne nuovi, immersi nel mistero di Dio e inseriti nella società, santi e santificatori. Una simile spiritualità edifica il mondo secondo lo Spirito di Gesù: rende capaci di guardare oltre la storia, senza allontanarsene; di coltivare un amore appassionato per Dio, senza distogliere lo sguardo dai fratelli, che si riescono anzi a vedere come li vede il Signore e ad amare come Lui li ama. Il Santo Padre sollecita una spiritualità che rifiuti sia lo spiritualismo intimista sia l’attivismo sociale e sappia esprimersi in una sintesi vitale che conferisca unità, significato e speranza all’esistenza.

    3. Desidero terminare con il richiamo ad un passo molto bello dell’Enciclica, che riassume, con disarmante realismo, quella che possiamo descrivere come l’utopia cristiana dell’amore: "L’amore - caritas - sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore…… Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente - ogni uomo - ha bisogno: l’amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell'amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell'anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale" (n. 28.b). Grazie.

    INTERVENTO DI S.E. MONS. WILLIAM JOSEPH LEVADA

    Nella sua prima Lettera enciclica Deus caritas est, Sua Santità Benedetto XVI ha voluto far dono alla Chiesa di un testo forte sul "centro della fede cristiana", intendendo con ciò l’immagine cristiana di Dio e quella di uomo che ne scaturisce. "Testo forte" che vuole opporsi all’uso sbagliato del nome di Dio e all’ambiguità della nozione di "amore" che è così evidente nel mondo odierno. Il Santo Padre ha scelto l’amore come tema della sua prima Enciclica – come diceva lunedì scorso ai partecipanti al Convegno sulla Carità – perché "la parola ‘amore’ oggi è così sciupata, così consumata e abusata che quasi si teme di lasciarla affiorare sulle proprie labbra. Eppure è una parola primordiale, espressione della realtà primordiale; noi non possiamo semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo riprenderla, purificarla e riportarla al suo splendore originario, perché possa illuminare la nostra vita e portarla sulla retta via."

    Per essere compresa in tutta la sua ricchezza dottrinale e nelle sue implicazioni per l’agire di carità della Chiesa, l’Enciclica avrà sicuramente bisogno di essere letta, meditata e studiata a fondo. Per il momento, vorrei ripercorrere con voi l’insieme del Documento nella sua struttura e nei suoi dati essenziali.

    Per capire la novità dell’amore cristiano, il Santo Padre cerca dapprima di illustrare la differenza e l’unità che esiste fra i due concetti che incontriamo nel campo del fenomeno dell’amore già dai tempi della filosofia dei Greci antichi, l’eros e l’agape. Il Santo Padre vuole dimostrare come i due concetti non si oppongano, ma si armonizzino tra di loro per offrire una concezione realista dell’amore umano, un amore che corrisponde alla totalità – corpo e anima – dell’essere umano. L’agape impedisce all’eros di abbandonarsi all’istinto, mentre l’eros offre all’agape le fondamentali relazioni vitali dell’esistere dell’uomo.

    Questa unità della nozione di amore la troviamo espressa nella Bibbia. Essa rappresenta una novità che si manifesta anzitutto in una nuova immagine di Dio. Nell’Antico Testamento, Dio è unico; è il Creatore dell’uomo che a lui è caro. Elegge Israele al servizio di tutta l’umanità. Questo amore si manifesta insieme come eros e agape, agape che eccede sovente l’eros come quando, di fronte alla rottura dell’Alleanza, Dio perdona o passa, per amore, sopra la sua giustizia, annunziando in tal modo la Croce. La novità inoltre si manifesta anche in una nuova immagine dell’uomo, creato da Dio per l’amore. Nel matrimonio indissolubile tra uomo e donna quest’amore umano trova la sua forma radicata nella stessa creazione.

    Questa novità dell’amore nell’Antico Testamento si precisa nel Nuovo. Il modo di agire di Dio prende la forma della persona stessa di Gesù Cristo: Dio che si unisce all’umanità sofferente e smarrita. Dal fianco aperto di Cristo crocifisso si comprende che «Dio è amore».

    Ma, si domanda il Santo Padre, è possibile amare un Dio invisibile? La risposta dell’Enciclica è: Dio si è reso visibile nel Figlio fatto uomo, morto e risorto, nella sua Parola, nei sacramenti, nella Chiesa, e anche nel prossimo bisognoso (Matt. 25, 31ss). Di conseguenza, amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili e si condizionano reciprocamente. Sono un unico comandamento.

    L’amore del prossimo, radicato nell’amore di Dio, è un compito non solo per ogni singolo fedele, ma anche - e così passiamo alla seconda parte dell’enciclica – per la comunità dei credenti, cioè per la Chiesa. Dallo sviluppo storico dell’aspetto ecclesiale dell’amore fin dalle origini della Chiesa, possiamo ricavare due dati: il servizio della carità appartiene all’essenza della Chiesa, e in secondo luogo nessuno deve mancare del necessario nella Chiesa e fuori di essa. La parabola del buon samaritano è qui un sicuro paradigma.

    Il Santo Padre offre i suoi commenti illuminanti su alcuni aspetti del servizio di carità – diakonia – della Chiesa nei tempi moderni.

    o Egli risponde all’obiezione secondo cui l’esercizio della carità verso i poveri sarebbe di ostacolo all’equa distribuzione dei beni del mondo a tutti gli uomini.

    o In relazione al vero rapporto fra la giustizia e il servizio della carità, il Papa spiega che secondo la dottrina sociale della Chiesa, Stato e Chiesa sono sfere distinte, ma in relazione reciproca. Lo Stato ha come compito fondamentale la realizzazione della giustizia, ma ha bisogno della fede che purifica la ragion pratica. A ciò dobbiamo aggiungere che non c’è società giusta che possa rendere superfluo il servizio della carità, l’opus proprium della Chiesa.

    o Il Papa, inoltre, loda le nuove forme di collaborazione fruttuosa tra istanze statali ed ecclesiali, facendo riferimento al fenomeno del "volontariato". Quanto alla questione già accennata del volto specifico della carità della Chiesa, possiamo dire che il suo programma è un cuore che vede, il che naturalmente non esclude la programmazione, la previdenza, la professionalità. Sono esclusi, però, i legami con le ideologie di ogni genere.

    In conclusione, come potremmo riassumere il dono che ci ha dato il Santo Padre con questa Enciclica?

    1) L’Enciclica ci offre una visione dell’amore per il prossimo e del compito ecclesiale di operare la carità come compimento del comandamento dell’amore, che trova le sue radici nell’essenza stessa di Dio, che è Amore.

    2) L’Enciclica invita la Chiesa ad un rinnovato impegno nel servizio della carità (diakonia), come parte essenziale della sua esistenza e missione.

    Offrendo alla Chiesa e al mondo il dono di questa sua prima Enciclica, il Santo Padre rivela di essere Pastore nella mente e nel cuore: egli ci invita a conoscere meglio ciò che la nostra fede professa quando diciamo: "Dio è amore" (1 Gv 4, 16) e ad aprire i nostri cuori per riconoscere i bisogni del nostro prossimo e per rispondere al grande comandamento dell’amore di Dio e del prossimo, secondo il modello di Cristo Buon Samaritano e Buon Pastore.

    INTERVENTO DI S.E. MONS. PAUL JOSEF CORDES

    1. Fin dalla propria fondazione, la Chiesa manifesta nella sua missione l’opera della salvezza: proclama la redenzione operata da Gesù Cristo, lo testimonia mediante la carità, e celebra il dono della salvezza nella liturgia. La Martyria, la Diakonia e la Leiturgia costituiscono quindi la triplice attuazione del suo unico compito. Questi tre servizi si compenetrano a vicenda, per cui, se a quanto la Chiesa opera se ne toglie uno, resta un moncherino.

    Gesù stesso riconduce questa Sua missione al Padre. Nella Sua prima comparsa a Nazareth indica in Jahwé l’origine della Sua opera salvifica: "Il Signore mi ha inviato per proclamare la buona novella ai poveri, la liberazione ai prigionieri, e la luce ai ciechi, per liberare gli oppressi ed annunciare un anno di salvezza del Signore" (Lc 4, 18s). E la Chiesa continua queste sue buone azioni.

    Un esempio concreto: con legittima fierezza abbiamo visto recentemente l’ampia reazione, anche da parte dei cattolici, al dramma dello tsunami. La "Confederazione Caritas" nel mondo è stata in grado di raccogliere da sola quattrocento milioni di dollari USA, già adoperati in progetti, il che sta a confermare in modo impressionante la forza della sua carità di fronte alle necessità umane. Non occorre ricordare inoltre quanto i cristiani fanno nel silenzio per i poveri.

    2. Signore e signori, queste erano note preliminari nel presentarvi oggi l’Enciclica "Deus caritas est" di Papa Benedetto sedicesimo. Così come i Suoi Predecessori, anche ora il Santo Padre intende tracciare, con questo primo documento di Magistero, le linee fondamentali del proprio pontificato appena iniziato. Allo stesso tempo si deve prendere nota che il testo di oggi è la prima enciclica in assoluto sulla carità. Sua Santità perciò ha voluto affidarne la presentazione alla stampa anche al Presidente del Suo Consiglio Cor Unum. Perché al nostro Dicastero? Forse perché il nostro servizio comprende l’esecuzione delle iniziative personali del Papa quale segno della Sua compassione in certe situazioni di miserie.

    3. Voi, come quelli che conoscono i compiti di Cor Unum, probabilmente non vi aspettate dal sottoscritto, che, mentre rende pubblico questo documento, tracci un trattato teologico sulla nostra "filosofia". La carità della Chiesa è fatta di interventi concreti, come di recente in Pakistan o nel Darfur sudanese, che ho visitato in nome del Santo Padre. Comprende iniziative politiche, come quelle per la rimessa dei debiti nei paesi più poveri. Vogliamo promuovere la coscienza della giustizia nella società e invitare i fedeli a dare il loro contributo con collette in casi di catastrofe. Tutto ciò sta ad indicare quanto la Chiesa opera e lotta già in favore di coloro che soffrono. Qualcuno può pensare dunque che, per impegnarsi in modo efficace per il bene dell’umanità, siano sufficienti le attività che vi ho elencate. Cioè: che agire per i poveri significa mettere in moto processi di ordine pratico, tecnico, amministrativo. Che l’azione non ha bisogno di una teoria che l’accompagni. Che per aiutare l’altro basta fare. In breve: ci si accontenta dell’ortoprassi.

    4. Papa Benedetto XVI ha invece voluto illuminare l’impegno caritativo con un fondamento teologico. Ci avverte di badare allo spirito che ci guida nel dare le nostre risposte ai sofferenti. E’ convinto che la fede ha delle conseguenze sulla persona stessa che agisce e quindi anche sul modo e l’intensità della sua azione di aiuto. Intende introdurre nella nostra visione dell’aiuto umanitario elementi specifici ai quali un cristiano deve stare attento. Sa tener conto infatti che i mezzi terreni non bastano agli uomini e alle donne per soddisfare i propri bisogni. Come dice l’autore Maurice Sendak: "Nella vita, c’è bisogno di più del massimo".

    5. Come delineato, l’esercizio della carità fa parte integrante dell’eredità del Salvatore. Come mai solo in questo nostro secolo appare una enciclica su tale tema? Questa domanda è assolutamente legittima. Ma la sorpresa si spiega se diamo uno sguardo alla storia della Chiesa.

    I primi Apostoli e messaggeri della nuova salvezza intesero imitare nella loro missione, sull’esempio di Gesù, la bontà del Padre. Perciò vollero anche venire incontro ai bisogni dell’uomo. Questo fatto fu da loro compreso e realizzato al fine di dare maggiore credibilità al loro annuncio del nuovo tempo della salvezza. L’autore della Lettera a Diogneto, che risale all’anno 160 dopo Cristo, ci dice: "Colui che prende su di sé il carico del prossimo, colui che vuole assistere il debole, colui che dona ciò che ha ai bisognosi, diventa un dio per chi riceve, è imitatore di Dio. Solo così vedrai sulla terra che in cielo regna un Dio." (Cap. 10) In tal modo, i membri della Chiesa si fecero carico fin dall’inizio dei bisogni dei sofferenti, sia in modo individuale, sia collettivo. "Fare la carità" diventava pertanto eo ipso il riflesso dell’annuncio della salvezza.

    6. Nell’Ottocento, l’industrializzazione ha provocato un tale aumento di povertà e miseria da ritenere che unicamente nuove ed incisive strutture sociali più giuste ne potessero far fronte. Nella Sua enciclica, Papa Benedetto ammette che i pastori compresero solo poco a poco tutta l’urgenza della questione sociale e vi presero posizione. Si riferisce all’opera profetica del Vescovo von Ketteler di Magonza (deceduto nel 1877) ed ai numerosi istituti religiosi che già fin dall’inizio del secolo diciannovesimo lottavano contro la povertà, le malattie e si impegnavano nell’opera educativa. Nel 1891 apparve l’enciclica Rerum novarum di Papa Leone decimo terzo, documento base della dottrina sociale della Chiesa, da considerarsi costitutivo per questa nuova disciplina teologica: contiene chiare esigenze per una maggiore giustizia sociale. I Papi successivi nei loro documenti magisteriali completarono tale insegnamento con ulteriori principi etici, fino al Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, che il nostro Papa indica come "Suo grande Predecessore", e che ci ha lasciato addirittura tre encicliche sull’argomento. Aveva in mente – e lo seppi direttamente da Lui stesso – anche un’enciclica sulla carità, ma non poté portarla a termine.

    I documenti della dottrina sociale della Chiesa contengono innumerevoli appelli per lottare comunitariamente ed individualmente contro le sofferenze umane. Ma allora, perché oggi queste dichiarazioni papali sulla carità, e tali da distinguersi nettamente dal genere delle encicliche sociali per tono ed argomenti? Permettetemi di avanzare qualche risposta.

    7. La dottrina sociale della Chiesa e la teologia della carità si richiamano senza dubbio a vicenda, ma non coincidono del tutto. Infatti la prima enuncia principi etici per la ricerca del bene comune, e quindi si muove su un livello piuttosto politico e comunitario. Invece il prendersi cura individualmente, ed insieme, delle sofferenze del prossimo, non esige una dottrina sistematica. Nasce, invece, dalla parola della fede. Ed è per tale motivo che nella storia della Chiesa l’azione della carità non è come una struttura accademicamente pianificata, ma è presente naturalmente accanto alla propagazione del kerygma. Tale azione si realizza, inoltre, mediante la persona che mette a disposizione se stessa per l’altro. Interpreta l’insegnamento del Nuovo Testamento e trae motivazione per i fedeli dalle sue immagini, così esistenziali e così eloquenti.

    8. Viste le sfide che ci vengono oggi dalla società, pare giunto il momento di definire con precisione, in modo teologico, ciò che la Chiesa intende e realizza quando opera a favore dell’uomo. Dobbiamo radicare infatti con maggiore convinzione il senso della carità cristiana nei nostri cuori. E ciò non tanto per un problema esterno, perché lo Stato o il potere costituito neghino i principi fondamentali della dignità umana. La questione è un’altra: il sentire comune diffuso nella nostra società è molto filantropico, per fortuna, ma può rappresentare una trappola: si può pensare che non abbiamo bisogno delle nostre radici bibliche per vivere la carità! Oggi molti sono pronti ad aiutare chi soffre – e lo registriamo con gratitudine e soddisfazione; ma ciò può insinuare presso i fedeli l’idea che la carità non rientra in maniera essenziale nella missione ecclesiale. Senza un solido fondamento teologico, le grandi agenzie ecclesiali potrebbero essere minacciate, in pratica, di dissociarsi dalla Chiesa, e di allentare i loro legami coi Vescovi; potrebbero preferire di identificarsi come organismi non governativi (NGO). In tali casi, la loro "filosofia" e i loro progetti non si distinguerebbero dalla Croce Rossa o dalle agenzie dell’ONU. Ciò è, però, in contrasto con la storia bimillenaria della Chiesa e non tiene conto del rapporto intimo tra azione ecclesiale per l’uomo e credibilità dell’annuncio del Vangelo. Ecco un primo ambito nel quale ci vuole una interpretazione magisteriale del versetto biblico "Deus caritas est".

    Dobbiamo andare oltre, al di là della chiarificazione teologica: l’attuale sensibilità di tante persone, soprattutto dei giovani, contiene anche un "kairos apostolico". Apre notevoli prospettive pastorali. Sono innumerevoli i volontari e non pochi giungono a scoprire l’amore di Dio nel loro donarsi al prossimo con amore disinteressato.

    9. L’Enciclica "Deus caritas est" è dunque un evento opportuno e felice per la missione della Chiesa. Era ora di riferire a questa fonte. Anche se non è privo di rischi fondare la carità espressamente in Dio. Può far tornare in mente la critica di Karl Marx a riguardo delle pie "sovrastrutture", introdotte per nascondere le fondamenta economiche di ogni indigenza. Ma ciò non convince. Anzi il Papa respinge espressamente la teoria marxista della miseria e la definisce una "filosofia disumanizzante". Il documento esprime – e non solo una volta - che la fede dà una dinamica singolare all’impegno per l’altro. Quando ad esempio mi muovo a dare una mano al mio vicino, solo per un buon sentimento: cosa succede quando il mio prossimo mi ripugna, come posso resistere senza la grazia di Dio? O se di fronte alla drammatica vastità dell’indigenza umana uno perde il coraggio, dove ritrovo le motivazioni per continuare, se non nel fatto che Dio è Padre buono e ama ogni uomo?

    10. Un acuto pensatore, qual è Papa Benedetto, evidentemente non teme neanche di affrontare l’ultimo quesito che riguarda la fede: che senso ha la sofferenza nel mondo, e come conciliarla con l’amore di Dio? Non è tormentato forse ogni filantropo dalla obiezione di Giobbe quando, al cospetto di Dio, si manifesta la terribile sciagura mondana? Dice Giobbe nell’Antico Testamento, pieno di preoccupazione e pena: "Verrei a sapere le parole che mi risponde, e capirei che cosa mi deve dire. Con sfoggio di potenza discuterebbe con me? … per questo davanti a lui sono atterrito… Dio ha fiaccato il mio cuore, l’Onnipotente mi ha atterrito" (Gb 23, 5ss). Spesso ci manca la risposta per capire il male, e non sappiamo perché il braccio di Dio recede e non interviene. Eppure fare di Dio semplicemente l’oggetto del nostro ragionamento non corrisponde alla relazione di amore che Dio mi offre. Dobbiamo rimanere fermi davanti al Suo cospetto, anche se perplessi, fermi in dialogo orante. Il nostro gemito non presuppone un errore divino, una sua debolezza o indifferenza. Anzi, il grido del nostro cuore a Lui proclama di nuovo la Sua sovranità. Il Papa perciò ci ricorda la frase forte e geniale di Sant’Agostino: "Si comprehendis, non est Deus – se lo capisci, non è Dio" (Sermo 52, 16. PL 38, 360).

    Senza dubbio la domanda su Dio è la sfida decisiva per l’uomo di oggi che rifletta sulla sua condizione. La cosiddetta "teodicea" inquieta il cuore dell’uomo, che pure non di rado si considera padrone di sé. Viene a colpirci in circostanze di ingiustizia, di ostilità o di catastrofi naturali. Ma nonostante tutto ciò, quando i cristiani si danno da fare per combattere il male nelle sue molteplici forme, lo fanno in definitiva perché Dio in Gesù ci ha rivelato la salvezza. Tentano di ripetere quei segni che hanno contrassegnato il Signore come Messia. Questa capacità viene loro dalla verità "Deus caritas est".

    Basta ricordare la risonanza della Beata Madre Teresa. Questa donna ci convince, che molti contemporanei hanno fame di essere amati. Le sue azioni dimostrano il dinamismo che la carità può scatenare nella nostra società. La fondatrice delle Suore della Carità, così attenta ai desideri più profondi dell’uomo, conferma che Papa Benedetto dà con la Sua prima enciclica un messaggio di grande attualità.

    11. La pubblicazione dell’Enciclica è sembrata al Pontificio Consiglio Cor Unum occasione unica per riflettere con tutta la Chiesa su come il contenuto del documento possa incidere e rimotivare la nostra azione caritativa. Affinché l’uomo di oggi capisca sempre più che Dio è amore. Perciò abbiamo invitato i Responsabili delle opere caritative della Chiesa da tutto il mondo – Vescovi, sacerdoti, religiosi e laici – ad un Congresso. Si è tenuto in Vaticano il 23 e 24 gennaio nell’Aula Nuova del Sinodo. Ha trattato della collaborazione tra le istituzioni pubbliche e le agenzie cattoliche e presentato la multiforme ampiezza del servizio ai poveri mediante testimonianze di operatori, volontari o a tempo pieno. Hanno inoltre preso la parola due personaggi del cinema e della televisione che hanno interpretato la sensibilità moderna su EROS e AGAPE. Sono intervenute personalità di interesse: Cardinale Etchegaray, Roma; il Cardinale George, Chicago; l’Arcivescovo Diarmuid Martin, Dublino; l’ex-Presidente della Banca mondiale, James Wolfensohn; il Presidente di Caritas Internationalis, Denis Viénot; last but not least l’affermata regista Liliana Cavani. Il Dottor Navarro-Valls ha dato il suo contributo come moderatore.

    Come sapete, lo stesso Santo Padre ci ha ricevuto ed indirizzato la Sua parola. È evidente che Gli sta molto a cuore una buona diffusione della Sua prima Enciclica. Spero molto che tutti voi ci aiuterete in questo.

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    SINTESI DELLA PRIMA ENCICLICA DI PAPA BENEDETTO XVI "DEUS CARITAS EST" SULL’AMORE CRISTIANO

    «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Gv 4,16). Queste parole, con cui inizia l’Enciclica, esprimono il centro della fede cristiana. In un mondo nel quale al nome di Dio a volte viene collegata la vendetta o perfino l’odio e la violenza, il messaggio cristiano del Dio Amore è di grande attualità.

    L’Enciclica è articolata in due grandi parti. La prima offre una riflessione teologico-filosofica sull’«amore» nelle sue diverse dimensioni – eros, philia, agape – precisando alcuni dati essenziali dell’amore di Dio per l’uomo e dell’intrinseco legame che tale amore ha con quello umano. La seconda parte tratta dell’esercizio concreto del comandamento dell’amore verso il prossimo.

    Prima parte

    Il termine «amore», una delle parole più usate ed anche abusate nel mondo d’oggi, possiede un vasto campo semantico. Nella molteplicità di significati, però, emerge come archetipo di amore per eccellenza quello tra uomo e donna, che nell’antica Grecia era qualificato col nome di eros. Nella Bibbia, e soprattutto nel Nuovo Testamento, il concetto di «amore» viene approfondito – uno sviluppo che si esprime nella messa ai margini della parola eros in favore del termine agape per esprimere un amore oblativo. Questa nuova visione dell’amore, una novità essenziale del cristianesimo, non di rado è stata valutata in modo assolutamente negativo come rifiuto dell’eros e della corporeità. Anche se tendenze di tal genere ci sono state, il senso di questo approfondimento è un altro. L’eros, posto nella natura dell’uomo dal suo stesso Creatore, ha bisogno di disciplina, di purificazione e di maturazione per non perdere la sua dignità originaria e non degradare a puro «sesso», diventando una merce. La fede cristiana ha sempre considerato l’uomo come essere nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda, traendo da ciò una nuova nobiltà. La sfida dell’eros può dirsi superata quando nell’uomo corpo e anima si ritrovano in perfetta armonia. Allora l’amore diventa, sì, «estasi», però estasi non nel senso di un momento di ebbrezza passeggera, ma come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: in questo modo l’eros può sollevare l’essere umano «in estasi» verso il Divino. In definitiva, eros e agape esigono di non essere mai separati completamente l’uno dall’altra, anzi quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano il loro giusto equilibrio, tanto più si realizza la vera natura dell’amore. Anche se l’eros inizialmente è soprattutto desiderio, nell’avvicinarsi poi all’altra persona si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre più la felicità dell’altro, si donerà e desidererà «esserci per» l’altro: così si inserisce in esso e si afferma il momento dell’agape.

    In Gesù Cristo, che è l’amore incarnato di Dio, l’eros-agape raggiunge la sua forma più radicale. Nella morte in croce, Gesù, donandosi per rialzare e salvare l’uomo, esprime l’amore nella forma più sublime. A questo atto di offerta Gesù ha assicurato una presenza duratura attraverso l’istituzione dell’Eucaristia, in cui sotto le specie del pane e del vino dona se stesso come nuova manna che ci unisce a Lui. Partecipando all’Eucaristia, anche noi veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione. Ci uniamo a Lui e allo stesso tempo ci uniamo a tutti gli altri ai quali Egli si dona; diventiamo così tutti «un solo corpo». In tal modo amore per Dio e amore per il prossimo sono veramente fusi insieme. Il duplice comandamento, grazie a questo incontro con l’agape di Dio, non è più soltanto esigenza: l’amore può essere «comandato» perché prima è donato.

    Seconda parte

    L’amore del prossimo radicato nell’amore di Dio, oltre che compito per ogni singolo fedele, lo è anche per l’intera comunità ecclesiale, che nella sua attività caritativa deve rispecchiare l’amore trinitario. La coscienza di tale compito ha avuto rilevanza costitutiva nella Chiesa fin dai suoi inizi (cfr At 2, 44-45) e ben presto si è manifestata anche la necessità di una certa organizzazione quale presupposto per un suo più efficace adempimento. Così nella struttura fondamentale della Chiesa emerse la «diaconia» come servizio dell’amore verso il prossimo esercitato comunitariamente e in modo ordinato – un servizio concreto, ma al contempo anche spirituale (cfr At 6, 1-6). Con il progressivo diffondersi della Chiesa, questo esercizio della carità si confermò come uno dei suoi ambiti essenziali. L’intima natura della Chiesa si esprime così in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro.

    Fin dal secolo XIX, contro l’attività caritativa della Chiesa è stata sollevata un’obiezione fondamentale: essa sarebbe in contrapposizione – s’è detto – con la giustizia e finirebbe per agire come sistema di conservazione dello status quo. Con il compimento di singole opere di carità la Chiesa favorirebbe il mantenimento del sistema ingiusto in atto rendendolo in qualche sopportabile e frenando così la ribellione e il potenziale rivolgimento verso un mondo migliore. In questo senso il marxismo aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua preparazione la panacea per la problematica sociale – un sogno che nel frattempo è svanito. Il magistero pontificio, a cominciare con l’Enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891) fino alla trilogia di Encicliche sociali di Giovanni Paolo II (Laborem exercens [1981], Sollicitudo rei socialis [1987], Centesimus annus [1991]) ha affrontato con crescente insistenza la questione sociale, e nel confronto con situazioni problematiche sempre nuove ha sviluppato una dottrina sociale molto articolata, che propone orientamenti validi ben al di là dei confini della Chiesa.

    La creazione, tuttavia, di un giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica, quindi non può essere incarico immediato della Chiesa. La dottrina sociale cattolica non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato, ma semplicemente purificare ed illuminare la ragione, offrendo il proprio contributo alla formazione delle coscienze, affinché le vere esigenze della giustizia possano essere percepite, riconosciute e poi anche realizzate. Tuttavia non c’è nessun ordinamento statale che, per quanto giusto, possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Lo Stato che vuole provvedere a tutto diventa in definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare il contributo essenziale di cui l’uomo sofferente – ogni uomo – ha bisogno: l’amorevole dedizione personale. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo.

    Nei nostri tempi, un positivo effetto collaterale della globalizzazione si manifesta nel fatto che la sollecitudine per il prossimo, superando i confini delle comunità nazionali, tende ad allargare i suoi orizzonti al mondo intero. Le strutture dello Stato e le associazioni umanitarie assecondano in vari modi la solidarietà espressa dalla società civile: si sono così formate molteplici organizzazioni con scopi caritativi e filantropici. Anche nella Chiesa cattolica e in altre Comunità ecclesiali sono sorte nuove forme di attività caritativa. Tra tutte queste istanze è auspicabile che si stabilisca una collaborazione fruttuosa. Naturalmente è importante che l’attività caritativa della Chiesa non perda la propria identità dissolvendosi nella comune organizzazione assistenziale e diventandone una semplice variante, ma mantenga tutto lo splendore dell’essenza della carità cristiana ed ecclesiale. Perciò:

    - L’attività caritativa cristiana, oltre che sulla competenza professionale, deve basarsi sull’esperienza di un incontro personale con Cristo, il cui amore ha toccato il cuore del credente suscitando in lui l’amore per il prossimo.

    - L’attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti ed ideologie. Il programma del cristiano – il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù – è «un cuore che vede». Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente.

    - L’attività caritativa cristiana, inoltre, non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi. Ma questo non significa che l’azione caritativa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte. Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. L’inno alla carità di San Paolo (cfr 1 Cor 13) deve essere la Magna Carta dell’intero servizio ecclesiale per proteggerlo dal rischio di degradare in puro attivismo.

    In questo contesto, e di fronte all’incombente secolarismo che può condizionare anche molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo, bisogna riaffermare l’importanza della preghiera. Il contatto vivo con Cristo evita che l’esperienza della smisuratezza del bisogno e dei limiti del proprio operare possano, da un lato, spingere l’operatore nell’ideologia che pretende di fare ora quello che Dio, a quanto pare, non consegue o, dall’altro lato, diventare tentazione a cedere all’inerzia e alla rassegnazione. Chi prega non spreca il suo tempo, anche se la situazione sembra spingere unicamente all’azione, né pretende di cambiare o di correggere i piani di Dio, ma cerca – sull’esempio di Maria e dei Santi – di attingere in Dio la luce e la forza dell’amore che vince ogni oscurità ed egoismo presenti nel mondo.

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    25 gennaio 2006

    «La Chiesa non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica»
    Eros e politica nella prima enciclica del Papa
    «Deus caritas est» affronta il rapporto tra l'uomo e il corpo, ma tocca anche temi sociali, dallo Stato giusto alla globalizzazione


    CITTA' DEL VATICANO - «L’eros degradato a puro sesso diventa merce, una semplice cosa che si può comprare e vendere, anzi, l’uomo stesso diventa merce. E’ quanto scrive Papa Ratzinger in uno dei passaggi salienti della sua prima enciclica, «Deus caritas est». L’uomo, spiega Ratzinger, è fatto di «anima e corpo» e «diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità»: per questo «la sfida dell’eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita».

    Papa Benedetto XVI (Emblema)
    Anche se «oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato di esser stato avversario della corporeità; di fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state - osserva il Pontefice - ma il modo di esaltare il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole». «Se l’uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca - spiega il Pontefice -, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d’altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza». «Sì, l’eros vuole sollevarci in estasi verso il Divino - conclude Papa Ratzinger-, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni».

    LA CHIESA NON FA POLITICA - Ma la prima enciclica di Benedetto XVI si sofferma anche su temi più «politici». «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta e possibile» spiega il Papa ponendo limiti all'azione diretta della Chiesa in campo politico. Spetta, invece, agli uomini di Chiesa, afferma Papa Ratzinger, dare «un contributo specifico» attraverso «la formazione etica» affinchè «le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili». La separazione tra Chiesa e politica deve trovare applicazione anche nello statuto delle organizazioni caritatevoli promosse dalla Chiesa. Per il Pontefice infatti «L'attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti ed ideologie». Benedetto XVI si sofferma poi sulla natura dello Stato giusto. «Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia - ammonisce poi il Papa - si ridurrebbe ad una grande banda di ladri». Il concetto viene approfondito nella sezione sul rapporto tra giustizia, politica e fede.
    MARXISMO E GLOBALIZZAZIONE - Se il sogno marxista di una rivoluzione mondiale come panacea di tutti i mali è svanito, rimane aperto il problema della globalizzaizone economica rispetto al quale la dottrina sociale della Chiesa costituisce «un'indicazione fondamentale». I grandi orizzonti storici ed economici del nostro tempo sono così entrati nella prima enciclica di Benedetto XVI resa nota questa mattina. «Il marxismo - afferma Ratzinger - aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua preparazione la panacea per la problematica sociale: attraverso la rivoluzione e la conseguente collettivizzazione dei mezzi di produzione - si asseriva in tale dottrina - doveva improvvisamente andare tutto in modo diverso e migliore. Questo sogno è svanito». «Nella situazione difficile nella quale oggi ci troviamo - afferma ancora il Pontefice - anche a causa della globalizzazione dell'economia, la dottrina sociale della Chiesa è diventata un'indicazione fondamentale, che propone orientamenti validi ben al di lá dei confini di essa: questi orientamenti- di fronte al progredire dello sviluppo - devono essere affrontati nel dialogo con tutti coloro che si preoccupano seriamente dell'uomo e del suo mondo».

    FONTE: Corriere della Sera, 25 gennaio 2006

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    L'enciclica di Benedetto XVI

    "La Chiesa non faccia politica"


    CITTA' DEL VATICANO - "Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui". Con queste parole inizia l'enciclica di Papa Benedetto XVI, Deus caritas est. Il documento è articolato in due grandi parti. La prima offre una riflessione teologico-filosofica sull'"amore" nelle sue diverse dimensioni individuali, tra uomo e donna, familiari, collettivi e dell'amore di Dio per l'uomo. Qui Benedetto XVI mette i tasselli per declinare la seconda parte del documento che tratta dell'esercizio concreto del comandamento dell'amore verso il prossimo e la prassi con riferimenti alla società, all'economia, alla politica.

    Mentre nella prima parte è il grande teologo che parla citando i padri della Chiesa come Agostino e Tertulliano e contrapponendo le loro riflessioni più mistiche, umane e tormentate a Nietzsche e alla sua critica del cristianesimo privo di eros, nella seconda è il capo della Chiesa a far sentire la sua voce. E' vero, dice a un certo punto, che la Chiesa non deve fare politica, ma la sua presenza attraverso la dottrina sociale viene proposta come "un'indicazione fondamentale" dopo "il sogno svanito" del marxismo e nella "situazione difficile" che il mondo sta attraversando "a causa della globalizzazione dell'economia". Così come è vero che gli uomini di Chiesa devono saper dare il loro contributo alle coscienze.

    LA CATEGORIA AMORE
    Ratzinger compie un excursus su termine "amore" a partire da quello originario tra uomo e donna, che nell'antica Grecia era qualificato col nome di eros. La nuova visione dell'amore portata dal cristianesimo spesso è stata valutata come rifiuto dell'eros e della corporeità. Ma, sottolinea il Papa, non è così. L'eros ha bisogno di disciplina, di purificazione e di maturazione per non perdere la sua dignità originaria e non degradare a puro "sesso", diventando una merce. "L'eros rimanda l'uomo al matrimonio, a un legame caratterizzato da unicità e definitività; così e solo così si realizza la sua intima destinazione".

    MARXISMO SVANITO E GLOBALIZZAZIONE DIFFICILE
    "Il marxismo - è spiegato nell'enciclica - aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua preparazione la panacea per la problematica sociale", "ma questo sogno è svanito". E nella "situazione difficile" che il mondo sta attraversando "anche a causa della globalizzazione dell'economia", la dottrina sociale della Chiesa "è diventata un'indicazione fondamentale, che propone orientamenti validi ben al di là dei confini di essa: questi orientamenti, di fronte al progredire dello sviluppo, devono essere affrontati nel dialogo con tutti coloro che si preoccupano seriamente dell'uomo e del suo mondo".

    LA PREGHIERA
    Bendetto XVI invita i fedeli a non lasciarsi tentare dall'ideologia marxista e a trovare la forza di resistere a essa e alla tentazione opposta di abbandonare ogni impegno sociale con la forza della preghiera, come faceva Madre Teresa di Calcutta, citata più volte come esempio nel testo.

    LA CHIESA E LA POLITICA
    La creazione di un giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica, quindi non può essere incarico immediato della Chiesa, sottolinea il Papa. Ma quello che la Chiesa deve fare è "purificare e illuminare la ragione, offrendo il proprio contributo alla formazione delle coscienze, affinché le vere esigenze della giustizia possano essere percepite, riconosciute e poi anche realizzate".

    LO STATO SENZA AMORE
    Non c'è nessun ordinamento statale che, per quanto giusto, dice il documento, possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Lo Stato che vuole provvedere a tutto diventa un'istanza burocratica. O peggio, dice il Papa, se uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe a una grande banda di ladri".

    LA CARITA'
    Anche se non risparmia critiche alla globalizzazione, il Pontefice le riconosce un "positivo effetto collaterale" che si manifesta nel fatto che la sollecitudine per il prossimo, superando i confini delle comunità nazionali, tende ad allargare i suoi orizzonti al mondo intero attraverso le associazioni umanitarie. Ma è importante, avverte Ratzinger, che l'attività caritativa della Chiesa non perda la propria identità dissolvendosi nella comune organizzazione assistenziale e diventandone una semplice variante, ma mantenga tutto lo splendore dell'essenza della carità cristiana ed ecclesiale.

    INDIPENDENZA
    L'attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti ed ideologie, dice Benedetto XVI e inoltre, non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L'amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi.

    Ma questo non significa, aggiunge l'enciclica, che l'azione caritativa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte. Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l'amore.

    (25 gennaio 2006)

    FONTE: La Repubblica, 25 gennaio 2006

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    26 gennaio 2006

    L'enciclica sull'amore

    Il manifesto del Papa: la politica a Cesare

    Giunto al pontificato alla soglia degli 80 anni e al vertice sia dell’approfondimento teologico che dell’esperienza ecclesiale, Joseph Ratzinger sembra deciso a non perdere tempo in questioni secondarie nella prospettiva globale della fede. Fautore della sobrietà, ha già sfrondato la sua agenda da impegni non indispensabili - viaggi, liturgie, incontri - e non intende neppure mantenere il ritmo di produzione dottrinale del pur amato predecessore. Preoccupato, poi, della situazione della fede (è l’indebolirsi di questa, secondo la sua diagnosi, che ha provocato la crisi della Chiesa), ha deciso di andare alle radici con la sua prima enciclica che, probabilmente, resterà a lungo l’unica. Così, ha scelto il cuore del cristianesimo, ha puntato dritto su Dio stesso, sulla Sua realtà e, di conseguenza, sull’immagine dell’uomo che ne deriva. La sua «lettera circolare» (questo il significato di enciclica) ai pastori della Chiesa, primi destinatari di simili documenti, focalizza l’attenzione su tre brevi parole di Giovanni che sono il marchio distintivo del cristianesimo e lo differenziano radicalmente da ogni altra religione.
    «Dio è amore»; con la conseguenza che ne trae l’apostolo: «Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui». Dunque, un ricominciare da capo, dai fondamenti del credere. Scoprendo poi - ma solo dopo che la scelta era stata compiuta - che il tema è di drammatica attualità visto che ci tocca vivere «in un mondo in cui al nome di Dio viene collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza». Riferimento esplicito al fondamentalismo islamico; ma, forse, non solo. Il testo è breve, rispetto alla media delle encicliche di Giovanni Paolo II: ancora una volta, la scelta ratzingeriana della sobrietà. Le non moltissime pagine, peraltro, sono di una densità che provocherà commenti corposi da parte degli esperti. Qui, dobbiamo limitarci ad indicare una chiave di lettura, una sorta di piccola «istruzione per l’uso» del documento. Soprattutto nella prima parte - la più dottrinale, quella volta a chiarire che si intenda per «amore» - al lettore avveduto appare evidente che l’estensore probabilmente unico è stato Benedetto XVI in persona. Precisazione che non deve stupire: di solito, per questi documenti, il Papa dà schemi e indicazioni e procede all’ultima stesura, mentre la struttura è redatta da un gruppo di collaboratori. Stavolta, non sembra il caso: tutto sembra redatto sul suo scrittoio. In questa serietà diligente, Joseph Ratzinger ha confermato la sua natura «tedesca». Mentre tutto il testo mostra sino a che punto la sua prospettiva di fede (istintiva e poi approfondita a Roma) sia «latina». Nel senso, almeno, di «cattolica», nel senso più pieno. Va infatti ricordato che la legge che presiede al cattolicesimo è quella che qualcuno ha chiamato «dell’et-et». La compositio oppositorum , il «sia questo che quello», «l’uno e l’altro», la sintesi e l’equilibrio tra gli estremi, sulla scorta di Gesù stesso, uomo e Dio al contempo, venuto «per completare, non per distruggere». E sulla scorta della croce stessa: et-et per eccellenza, composta com’è da un braccio verticale e uno orizzontale. A questa visione globale, che a nulla intende rinunciare («Sono cattolico perché voglio tutto», mi disse una volta Jean Guitton), il protestantesimo oppone il suo «aut-aut», richiede la scelta, il rifiuto, la condanna di molti aspetti della realtà. Ebbene, già ad una prima analisi, questa prima enciclica del papa tedesco mostra sino a che punto sia operante la prospettiva della compositio cattolica.
    Una unione degli opposti che sembra contrassegnare lo stile stesso che coniuga la consapevolezza pontificale a un tono quasi familiare, a espressioni talvolta quotidiane. Quanto ai contenuti, si sgrana la serie degli et-et: l’amore cristiano come sintesi dell’umano eros e della divina agape , dell’istinto carnale e dello slancio spirituale, in accordo del resto con la natura dell’uomo, sintesi inestricabile di corpo ed anima; un amore che si rivolge al contempo a una singola persona e all’umanità intera; che deve doverosamente dare e che, altrettanto doverosamente, vuole ricevere; che unisce mistica e prassi, utopia e realismo, culto ed etica, sentimento e volontà.
    L’amore, poi, che si fa carità militante, a sollievo del prossimo (è il tema della seconda parte), deve unire preghiera e azione, spontaneità e organizzazione, annuncio di fede e servizio silenzioso, dono del pane materiale e del pane spirituale. Uno sforzo continuo per una sintesi difficile, sempre precaria, eppure per questo feconda, una tensione verso la completezza, una ricerca del «centro», dove gli estremi, unendosi, perdono la loro pericolosa unilateralità e divengono benefici.
    Nessun aut-aut, dunque ma un continuo «sia questo che quello», e dove un’attenzione particolare è rivolta alla necessità di unire giustizia e carità. Alla illusione («ormai svanita», ricorda il Papa) di marxisti e soci che, per soccorrere l’uomo, occorresse battersi per la giustizia sociale, combattendo al contempo la «alienazione» della carità, Benedetto XVI dedica parole che ci sembrano tra le più toccanti e vere. Sono le sole che lo spazio ci permetta di riportare ma che danno idea della sapienza, non disgiunta da emozione, che pervade il testo:
    «L’amore - caritas - sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa renderlo superfluo. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine (...). Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica, che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente - ogni uomo - ha bisogno: l’amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell’amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell’anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale». Secondo una certa ossessione attuale, molti commentatori si eserciteranno soprattutto sui paragrafi che il papa dedica alla politica: espressione di amore essa pure, se ben intesa e praticata; ma che, ripete con decisione Benedetto XVI, non compete alla Chiesa in quanto tale.
    Qui pure, campeggia un et-et fondamentale: Dio e Cesare.
    La società ha bisogno di entrambi, nessuna contrapposizione tra loro, ma distinzione dei ruoli e delle vocazioni. Non vi è traccia di nostalgie per una christianitas dove Sacro e Profano si intreccino, c’è solo un’umile, discreta eppur convinta riproposta della dottrina sociale cattolica, che ha mostrato la sua sapienza davanti ai disastri delle ideologie politiche. Ma è cura del papa ripetere che, se la Chiesa propone la sua dottrina, è perché essa si basa «sulla ragione e sul diritto naturale»; su elementi, dunque, «conformi alla natura di ogni essere umano», quale che sia la sua fede o la sua incredulità. Una enciclica, dunque, nel segno dell’equilibrio, del «centro», della saggezza, dell’esperienza, della ricerca di ciò che è davvero fonte di pace, di gioia, di bene, di speranza. Se ci è permesso, con oggettività e senza alcuna tentazione apologetica: c’è, qui, una visione organica sull’uomo e sulla società che può convincere o meno, ma che non si riesce a scorgere da nessun’altra parte, tra orfani di ideologie crollate o adepti di religioni radicalizzate.

    Vittorio Messori

    FONTE: Corriere della Sera, 26.1.2006

 

 

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