Interessante articolo di Magister che riporta anche due interviste dell'Avvenire di qualche tempo fa:


Anche Iran e Cina cadono sotto i giudizi del papa
Nel discorso al corpo diplomatico Benedetto XVI non li ha citati per nome. Ma ha detto chiaro come li giudica: sul metro di verità e libertà. Un’intervista del vescovo di Hong Kong

di Sandro Magister





ROMA, 13 gennaio 2006 – Nel suo discorso di quattro giorni fa al corpo diplomatico, il primo del suo pontificato, Benedetto XVI ha taciuto i nomi di Iran e Cina. E il silenzio sull’Iran è stato inizialmente rilevato con disappunto dall’ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede, Oded Ben-Hur, in una dichiarazione poi corretta e purgata da ogni accento polemico.

Ma sia all’Iran che alla Cina papa Joseph Ratzinger s’è riferito in almeno tre passaggi.

Alla Cina s’è riferito quando ha chiesto “che si tolga ogni ostacolo all’accesso all’informazione a mezzo della stampa e dei moderni mezzi informatici” e ha denunciato l’assenza di libertà religiosa: “anche in stati che pure possono vantare tradizioni culturali plurisecolari”.

Quanto all’Iran, là dove il papa ha rivendicato che “lo stato d’Israele deve poter sussistere pacificamente in conformità alle norme del diritto internazionale” era facile leggere una condanna della pretesa iraniana di “cancellare” Israele, formulata di recente dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad.

Ma un riferimento a entrambi questi paesi poteva essere colto anche in un altro passaggio chiave del discorso del papa.

È il passaggio in cui Benedetto XVI ha additato in “sistemi politici del passato, ma non solo del passato, [...] un’amara esemplificazione” di un dominio “che vive di menzogna e che – a livello nazionale e internazionale – ha tante volte segnato la storia dell’umanità”.

La verità e il suo rifiuto hanno fatto da asse dell’intero discorso papale.

Commentandolo su “Avvenire”, Vittorio E. Parsi, l’esperto di relazioni internazionale del quotidiano della conferenza episcopale italiana, ha scritto che proprio nel suo porre “la verità a far da cardine della politica estera "il discorso del papa al corpo diplomatico si è rivelato“nello stile e nei contenuti fortemente ratzingeriano”.

In effetti, è tipicamente ratzingeriana la tesi che “la verità può essere raggiunta solo nella libertà”. Da cui discende che “nessun governo può dispensarsi dal compito di garantire ai propri cittadini adeguate condizioni di libertà, senza pregiudicare per ciò stesso la propria credibilità come interlocutore nelle questioni internazionali”. In queste parole del papa, Parsi ha ravvisato “una perorazione quanto mai autorevole della superiorità etica dei sistemi liberali e democratici”.

Sia l’Iran che la Cina – come anche altri stati – cadono in pieno sotto questi giudizi taglienti del papa, incardinati sul nesso verità-libertà.

Ma il papa non è solo. In piena sintonia con i suoi giudizi, “Avvenire” – quotidiano molto vicino al cardinale Camillo Ruini – ha pubblicato con grande evidenza, il 5 gennaio, un editoriale di prima pagina e un’importante intervista esclusiva: l’editoriale sull’Iran e l’intervista sulla Cina, due paesi cruciali dove sia la verità che la libertà sono gravemente negate, non senza responsabilità anche dell’Occidente.

Ecco qui di seguito entrambi questi testi, usciti sul quotidiano della CEI: il primo interessante soprattutto per il taglio dell’analisi, il secondo ricco anche d’informazioni aggiornate sui cambiamenti in atto nella Chiesa cinese.


1. Il caso Iran. Come si arriva lontano negando la verità

di Adriano Pessina


Le agenzie di stampa hanno diffuso la notizia che a Teheran verrà organizzata una conferenza internazionale per valutare se “l’Olocausto degli ebrei sia avvenuto o meno”. L'iniziativa, secondo il quotidiano “Siasat-e-Rouz”, è dell’Associazione dei giornalisti musulmani dell'Iran, e fa seguito alle dichiarazioni del presidente Mahmud Ahmadinejad, che ha definito l'Olocausto una “leggenda” e ha proposto di spostare lo stato di Israele in Europa o negli Stati Uniti d’America.

Si tratta di un passo strategico di qualche importanza: dopo aver negato l'Olocausto, Teheran finge di chiedersi se sia esistito, ammantando così la propria volontà di menzogna con la forma democratica della discussione.

Sembra in tal modo aver assimilato molto bene alcuni modelli teorici tipici della cultura occidentale. E infatti l'Occidente rischia di trovarsi ora impreparato di fronte a questa macchina della menzogna che veste i panni della cultura.

Mai come nella nostra epoca la nozione di verità è stata sottoposta a tanto discredito in nome della libertà di opinione, in nome della libertà di pensiero, in nome della stessa democrazia. Noi siamo, infatti, immersi in un latente negazionismo quotidiano. Abbiamo costruito un senso comune che pensa di poter garantire la tolleranza e il rispetto reciproco, la convivenza tra le persone e i popoli, facendo scempio dell'idea stessa di verità, negando le differenze tra errore e verità e tra errore e menzogna.

Ogni opinione – si dice – è rispettabile e ha il diritto di essere espressa perché ciò che conta è la libertà. E in questa tutela della libertà scissa dalla verità ha buon gioco la menzogna. Ma la libertà ha dei contenuti. Anche i falsificatori della storia, della politica, della finanza, della scienza sono liberi: si pensi alle recenti imposture del coreano Hwang Woo Suk sulle cellule staminali embrionali. Ma questi esercizi della libertà sono ignobili e degni di biasimo. La lode e il biasimo, questi grandi strumenti della vita democratica, si costruiscono nel riconoscimento del criterio della verità, di una verità che, a differenza della menzogna, non dipende dalla disinvolta volontà di un singolo o di un gruppo. Ma dall'effettiva realtà delle cose.

Il fondamentalismo e l'arroganza del potere assolutistico rischiano di trovarsi abbracciati in un'insolita e macabra danza con le forme del radicalismo liberale e dello scetticismo etico: non a caso l'Occidente sembra non trovare la misura per reagire e per rispondere a queste nuove forme di falsificazione di massa. Ci manca il coraggio di far tacere chi mente, il coraggio di stabilire un criterio di demarcazione tra quanti meritano il nostro rispetto e quanti meritano il nostro biasimo, perché abbiamo rinunciato all'idea normativa di verità. Interpretiamo il coraggio come violenza e interpretiamo la nostra debolezza come democrazia.

L'arroganza di Teheran ha un sapore familiare, ci ricorda da vicino il compiacimento di molti nostri intellettuali che esibiscono il loro scetticismo. Ma il sudore e il sangue di tutti coloro che sono morti nei campi di concentramento ci vietano di accettare che non c'è differenza tra il carnefice e la vittima, tra la verità e la menzogna.


[Adriano Pessina è professore ordinario di filosofia morale e direttore del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano]

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2. Il giogo cinese. Intervista con il vescovo di Hong Kong, Giuseppe Zen Ze-kiun

di Luigi Geninazzi


D. – Eccellenza, c'è chi ammira la Cina per il suo impetuoso sviluppo economico e chi la ritiene una minaccia per il mondo. Dal suo punto d'osservazione come la giudica?

R. – “Al di là di tante analisi, s'impone una constatazione: in Cina continua ad esistere un giogo molto pesante. Il partito comunista vuole controllare tutto, non solo le strutture ma anche la mente e il cuore dei cittadini. Oggi i metodi sono un po' cambiati ma la realtà di fondo è rimasta la stessa. Nessuno osa dire davvero quello che pensa. Prenda il caso di Hong Kong: il governo di Pechino ne garantisce formalmente l'autonomia e siamo ancora liberi di fare sentire la nostra voce. Ma giorno dopo giorno sta estendendo il suo controllo in modo molto netto e deciso. Non vorrei però sembrarle troppo pessimista. Da questo giogo ci si può anche liberare”.

D. – A chi si riferisce?

R. – “Alla Chiesa, evidentemente! La mia convinzione, che cerco di esprimere in modo sommesso perché potrebbe provocare la dura reazione di Pechino, è che i cattolici stanno vincendo. Con pazienza e tenacia stanno conquistando significativi spazi di libertà. Il governo comunista controlla le strutture, non più i cuori e le menti dei fedeli. Dopo tanti anni di separazione forzata in Cina la Chiesa cattolica di fatto è ormai una sola, tutti vogliono stare uniti al papa”.

D. – Chiesa ufficiale e Chiesa sotterranea rimangono però ancora distinte. Che cosa manca alla piena riconciliazione?

R. – “L'ostacolo è, come sempre, il controllo esercitato dal partito . Mi spiego. La Chiesa ufficiale cinese fa capo a due grandi strutture, la conferenza episcopale e l'Associazione patriottica dei cattolici, che in realtà è la longa manus del partito comunista per controllare la Chiesa. La conferenza episcopale da due anni è senza presidente; dopo la morte del titolare non riescono a trovarne uno che sia ‘affidabile’. Il capo dell'Associazione patriottica, il vescovo di Pechino Michele Fu, è malato e soprattutto è molto screditato agli occhi dei fedeli. Insomma, le due strutture ufficiali sono senza vertice. Chi comanda è il signor Liu Bai Nie, il segretario esecutivo dell'Associazione patriottica. Ma è un padrone che rischia di rimanere senza seguito”.

D. – Che cosa è successo?

R. – “Molti vescovi, nominati dal governo di Pechino, non avevano pace nel loro cuore e desideravano essere riconosciuti dalla Santa Sede. A partire dagli anni Ottanta Giovanni Paolo II, con grande generosità, ha accolto tali richieste. Attualmente l'85 per cento dell'episcopato della Chiesa ufficiale cinese ha ottenuto la legittimazione dal Vaticano. Ormai i vescovi che non sono approvati da Roma si sentono emarginati, sono rifiutati dal clero e dai fedeli. La cosa nuova è che, mentre in passato erano i vescovi già nominati dal governo a chiedere l'approvazione pontificia, adesso sono i candidati all'episcopato della Chiesa ufficiale che si preoccupano d'avere la nomina della Santa Sede. È una situazione interessante ma non priva di rischi, in quanto non sempre il candidato scelto dal governo è il nome ideale per il Vaticano”.

D. – La Santa Sede ha ribadito recentemente la disponibilità ad allacciare rapporti diplomatici con la Cina comunista, rompendo con Taiwan e trasferendo il nunzio da Taipei a Pechino. Siamo vicini ad uno storico accordo?

R. – “La Chiesa universale è attenta ai milioni di fedeli della Cina comunista ed è pronta a compiere un passo molto doloroso. Ma dobbiamo spiegare bene ai fedeli di Taiwan che [il trasferimento della nunziatura] non è un tradimento ma una necessità imposta dalle cose. Insomma, non è una decisione da sbandierare a cuor leggero. E poi, cosa ci viene dato in cambio? Il governo di Pechino è pronto a concedere la libertà religiosa? Questo è il punto”.

D. – Qual è la sua impressione?

R. – “Io noto che, mentre il Vaticano spinge per un accordo, i comunisti cinesi non hanno alcuna fretta. Prima vogliono sistemare alcuni problemi, ad esempio le nomine episcopali in molte diocesi che sono vacanti. Ed ho l'impressione che l'Associazione patriottica tenterà di piazzare i suoi uomini per contrastare le nomine che ha dovuto subire negli ultimi tempi, come quella del vescovo ausiliare di Shanghai. Non vedo un'intesa dietro l'angolo, ci vuole ancora tempo”.

D. – È vero che papa Karol Wojtyla le chiese aiuto per realizzare un suo grande desiderio, quello di visitare la Cina?

R. – “Era l'inizio del 1997, conversammo a lungo ed il Santo Padre non faceva altro che ripetere: Voglio andare in Cina! Ma io risposi: Non posso fare nulla! Si parlò di un possibile viaggio a Hong Kong per la conclusione del sinodo asiatico. Ma il governo di Pechino disse subito di no”.

D. – La Cina ha sempre più peso e prestigio sulla scena internazionale, è entrata nella WTO e ospiterà le Olimpiadi nel 2008. Tutto questo può influenzare positivamente i rapporti con il Vaticano?

R. – “Non c'è una risposta univoca. La Cina non dev'essere isolata, d'accordo. Ma dobbiamo valutare attentamente gli effetti delle aperture internazionali. Ad esempio, quando Pechino organizzò i Giochi asiatici non ci fu una ventata di libertà. Anzi, ci furono vescovi e preti incarcerati. E ancora oggi le repressioni continuano contro i cattolici e i dissidenti”.

D. – Eccellenza, lei è sceso in piazza un mese fa insieme con i dimostranti che vogliono la piena democrazia per Hong Kong. Non teme l'accusa di coinvolgere la Chiesa in questioni strettamente politiche?

R. – “Mi ascolti bene: la Chiesa cattolica di Hong Kong ha preso parte alle manifestazioni di due anni fa contro il famoso articolo 23, il progetto di misure anti-sovversive che limitavano fortemente la libertà dei cittadini e delle associazioni e che alla fine fu ritirato. Adesso c'è in gioco la questione del suffragio universale. Secondo la legge fondamentale [che fa da costituzione per Hong Kong] esso poteva essere introdotto in modo graduale entro il 2008. Ma le autorità hanno bloccato tutto, proponendo un pacchetto di riforme che non ha alcun nesso con il suffragio universale. Io ho voluto semplicemente porre una domanda e l'ho fatto pubblicamente: Quando potremo arrivare a questo obiettivo? Ci avete detto: Non ora. Va bene, accettiamo, ma vogliamo sapere quando. È un diritto dei cittadini, un diritto che la Chiesa non può non difendere”.

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Lo stesso giorno, il 5 gennaio, in cui è uscita l’intervista del vescovo di Hong Kong ad “Avvenire”, la Kung Foundation e l’agenzia Asia News hanno dato notizia della sparizione del vescovo non ufficiale di Yongnian, monsignor Han Dingxian, detenuto dal 1999.

Con lui i vescovi cinesi di cui non si hanno più notizie sono oggi tre, tutti della regione di Hebei e appartenenti alla Chiesa non ufficiale. Gli altri due sono Giacomo Su Zhimin, della diocesi di Baoding, arrestato nel 1996, e Francesco An Shuxin, ausiliare della stessa diocesi, arrestato nel 1997.