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    Predefinito Un estratto di Preve dal prossimo numero di "Comunitarismo":da leggere....!!!

    Questo è un estratto tratto da un intervento molto lungo di Preve che troverete integralmente riportato sul prossimo numero in preparazione di "Comunitarismo"....


    Buona lettura e commento.


    di Costanzo Preve
    .Il nesso fra nuovo individualismo e nuovo comunitarismo nel contesto della globalizzazione economica e della dissoluzione irreversibile del comunismo storico novecentesco (1917-1991).
    In questo ultimo paragrafo imposteremo finalmente il problema dello scenario attuale, sia pure ovviamente in modo largamente ipotetico-dubitativo. Comincerò prima chiarendo perché a mio avviso sia il fascismo sia il comunismo sono fenomeni storici che appartengono al passato, e perché dunque sia l’antifascismo sia l’anticomunismo sono residui storici di un tempo irreversibilmente trascorso che vengono tenuti in vita come zombies per adempiere a ben altri scopi. Indagherò poi due fenomeni che invece sono realmente attuali, il fenomeno politico impropriamente chiamato terrorismo ed il fenomeno filosofico impropriamente chiamato relativismo. Infine, cercherò di mostrare come non si ponga oggi l’alternativa fra società dell’individualismo e società del comunitarismo, ma come un nuovo individualismo ed un nuovo comunitarismo legati insieme siano in realtà la sola alternativa alla società globalizzato del capitalismo senza classi in cui l’integrazione è perseguita attraverso il consumismo performativo.
    Parlare di «fascismo» in Italia è ancora estremamente difficile, perché il termine è usato come una sorta di concetto-ripostiglio demonologico privo di ulteriori determinazioni. Così «fascisti» sono i pregiudizi etnici ed i comportamenti familiari autoritari, i seguaci di Bossi, Berlusconi e Fini e gli squadroni della morte latino-americani, il populismo peronista argentino ed il Baath panarabo (classica è l’idiozia sul «fascista» Saddam Hussein), eccetera. Questa bestiale bulimia definitoria non sarebbe neppure tanto grave se non contribuisse ad impedire qualsiasi analisi storica e politica differenziata. Ma è appunto questa che non si vuole. Mi rendo perfettamente conto che definire il fascismo in modo soddisfacente è molto difficile e controverso, perché ci sono stati molti «fascismi» diversi ed inoltre perché pochi antifascisti mistici e metafisici sono disposti ad accettare almeno la plausibilità della tesi dello storico israeliano Zeev Sternhell, per cui il fascismo propriamente detto non fu né di destra né di sinistra, ma un’altra cosa da definire. Di «destra» sono invece indiscutibilmente i regimi che il romanziere americano Jack London descrisse nel suo affascinante racconto Il tallone di ferro, e si tratta di regimi di repressione capitalista pura e feroce, che hanno probabilmente davanti a sé ancora un brillante ed inquietante futuro, in quanto anche un capitalismo privo delle vecchie classi tradizionali (borghesia e proletariato), ma sempre fondato su differenziali di potere, reddito e consumo mostruosi, può sempre averne bisogno. Per quanto mi riguarda, dal momento che odio nascondermi dietro l’alibi opportunistico della «complessità» (pur sapendo bene che la complessità esiste), il minimo comun denominatore dei fascismi storici propriamente detti è a mio avviso la dittatura nazionalistica dei ceti medi, in un’epoca di residuale sovranità monetaria e culturale. I regimi tradizionalisti delle classi agrarie o delle bande oligarchiche (ad esempio gran parte dei «fascismi» latino-americani) si possono chiamare fascisti solo per estensione impropria. In questi casi non si ha nessuna mobilitazione dei ceti medi, laddove mi sembra che questa mobilitazione sia un fattore storico indispensabile per poter definire il fascismo in modo determinato. Il nazionalismo è sempre presente nel fascismo, mentre il razzismo può anche non esserci, anche se generalmente c’è. È invece interessante studiare i vari gradi di interclassismo più o meno egualitario nei regimi fascisti, cosa che gli storici fanno raramente. Un mio zio paterno, che fu preso prigioniero dagli inglesi ad El Alamein nel 1942, insisteva molto sul fatto che l’esercito tedesco aveva un’unica mensa militare da Rommel all’ultimo soldato, mentre quello italiano ne aveva tre distinte, per ufficiali, sottufficiali e soldati. Se questo è vero, questa osservazione ci avvicina alla comprensione storica più di dieci libroni di specialisti. All’interno dei fascismi c’erano probabilmente due tendenze opposte, una che spingeva verso una sorta di comunismo razzista nazionale e non universalistico (mi spiace di doverlo dire, so che posso pagarla cara, ma mi sembra che nell’essenziale il sionismo sia una sorta di fascismo ebraico moderatamente egualitario all’interno della razza eletta), e l’altra che invece spingeva verso la conservazione delle gerarchie sociali tradizionali premoderne. Oggi non mi sembra che un simile scenario sia ancora attuale, per il semplice fatto che la base di classe dei vecchi fascismi, i ceti medi schiacciati fra la vecchia borghesia ed il vecchio proletariato, non esistono più. Esistono certamente nuovi differenziali di potere e di reddito altrettanto e forse ancora più feroci, ma non vedo come il moderno capitalismo senza classi possa ancora auspicare e favorire una mobilitazione politica dei ceti medi, che danneggerebbe inevitabilmente i delicati meccanismi di mercato dell’accumulazione globalizzato. Comunque, solo chi vivrà vedrà.
    Dare una definizione unitaria di un fenomeno diversificato come il comunismo storico novecentesco (da tenere ovviamente ben distinto dalla utopia scientifica di Marx – l’ossimoro è ovviamente volontario) è molto difficile. Tuttavia, come nel precedente caso del fascismo, preferisco rischiare una definizione controversa piuttosto che nascondermi dietro il grottesco alibi opportunistico della cosiddetta «complessità». Storicamente parlando, il comunismo novecentesco è stato un tentativo legittimo di costruire con mezzi politici una società universalistica senza classi avendo come base sociale e di massa la classe operaia, salariata e proletaria oppure dei suoi equivalenti funzionali, come le masse contadine povere. Lo chiamo «legittimo» perché considero legittimo essersi opposti agli scatenamenti omicidi di guerre imperialistiche fra popoli o allo sfruttamento coloniale. In quanto alla classe operaia propriamente detta, la considero un gruppo sociale in buona parte «transitorio» (almeno come potenziale numerico nel complesso dei lavoratori sociali), per sua natura riformistico e certamente non rivoluzionario, che trova nella socialdemocrazia e nel populismo sociale i suoi riferimenti automatici ed è inoltre particolarmente incline all’integrazione attraverso il consumismo performativo. Altra cosa è il «mito della classe operaia», che è un prodotto autonomo dell’elaborazione filosofica della coscienza infelice universalistica della piccola borghesia (due soli esempi fra i moltissimi: Lenin e Gramsci). Il massimo rappresentante novecentesco della classe operaia e proletaria è stato a mio avviso Stalin (il che per me non è una lode o un’adesione, ma semplicemente un fatto sociologicamente verificabile), ed infatti i nuovi ceti medi sovietico prodotti dalla sua stessa industrializzazione hanno progressivamente abbattuto il suo sistema ultra-operaistico fino alla tragicomica dissoluzione gestita dall’ubriacone russo Eltsin. Non è assolutamente un caso che formalmente il «comunismo» esista ancora soltanto in paesi in cui da sempre la classe operaia era socialmente e culturalmente minoritaria (Cina, Cuba, Vietnam, eccetera). Questa classe sociale transitoria, il cui «universalismo» richiede l’innesco politico da parte di gruppi di piccola borghesia religiosa seguace di una forma secolarizzata del messianesimo ebraico-cristiano formulata nel doppio linguaggio dell’economia politica ricardiana e di una versione semplificata del pensiero di Hegel, ha mostrato storicamente un’incapacità di egemonia storica che può tranquillamente essere vista come qualcosa di tragico o di comico, a seconda di come lo si voglia vedere. Questo peraltro non significa assolutamente (e vorrei scriverlo in tutti gli alfabeti possibili della storia, compreso il runico e la lineare B) che sia illegittimo o impossibile il perseguimento di una società universalistica e non più capitalistica senza classi. Questo perseguimento, a mio avviso, resta ontologicamente possibile ed assiologicamente auspicabile, e con questo prendo le distanze dalla generazione di mascalzoni passata in due decenni dalle grida rauche in favore di un comunismo totalitario, violento e senza libertà alle grida stridule in favore di un neoliberismo capitalistico globalizzato che bombarda unilateralmente gli stati e i popoli in nome dei diritti umani. Verranno certamente altre generazioni più libere ed in grado di riposizionarsi in modo strategico su queste questioni, anche se non ritengo che questo avverrà presto.
    In ogni caso, se la definizione storica di comunismo che ho dato è solo parzialmente pertinente, mi sembra chiaro che il comunismo storicamente esistito è un fenomeno chiuso e conchiuso, chiuso e conchiuso insieme con la specifica base di classe e di massa che l’ha propiziato ed ancor più chiuso e conchiuso con il tramonto della costellazione ideologica che ha prodotto un Lenin e un Gramsci, costellazione fondata su di una crisi di egemonia di una classe specifica, la grande borghesia. Considerarlo chiuso e conchiuso, lungi da significare un abbandono della critica teorica e pratica al capitalismo, ne è invece paradossalmente un presupposto, perché significa criticare il capitalismo di oggi, e non un simulacro archeologico nel frattempo estinto.
    Mentre i militanti nostalgici ed identitari del fascismo e del comunismo rifiutano di prendere atto del carattere storicamente conchiuso di questi fenomeni, e continuano a mettere in scena scontri simulati (la società dello spettacolo apprezza particolarmente le battaglie di bastonatori in passamontagna che si sfidano con la mano aperta e/o con il pugno chiuso, ignari del fatto che Canne, Lepanto e Waterloo sono già finiti), il circo mediatico al servizio della servitù volontaria all’impero sa bene che si tratta solo di rievocazioni storiche in costume, e che oggi il problema si chiama non più fascismo o comunismo, ma terrorismo e populismo. Il terrorismo è indicato come un’illegittima resistenza dal basso contro una preventiva legittima aggressione dall’alto (per cui, ad esempio, i marines americani in Iraq non sono terroristi, mentre i resistenti iracheni lo sono). Purtroppo l’incredibile sproporzione asimmetrica fra le rispettive potenze militari fa sì che alcune organizzazioni di oppressi pensino di conseguire vittorie militari contro gli oppressori massacrando civili completamente innocenti, come è avvenuto a Madrid nel 2004 ed a Londra nel 2005. In questo i terroristi seguono il glorioso insegnamento di Hiroshima, e cioè non limitarti ai militari in divisa ma massacra soprattutto i civili innocenti. Con questo, ovviamente, non intendo in nessun modo giustificare il terrorismo che colpisce civili innocenti, perché non seguo la stupida teoria per cui «saremmo tutti colpevoli», dalla povertà del terzo mondo alla crescita dell’inquinamento atmosferico. Colpevoli sono solo i gruppi strategici dominanti. La plebe postmoderna integrata attraverso il circo mediatico di manipolazione quotidiana ed il consumismo performativo differenziato in quantità ed in qualità non è a mio avviso colpevole. Se fossimo «tutti colpevoli», come dicono i no-global, i preti veltroniani ed i moralisti mediatici allora avrebbero ragione i terroristi a farci saltare in aria di tanto in tanto. Per essere colpevoli bisogna essere coscienti e consapevoli. La plebe postmoderna unificata dal consumismo performativo che ha sostituito la vecchie identità storiche alto-borghese, medio-borghese, piccolo-borghese, proletaria, eccetera, è invece del tutto priva di memoria storica, che il sistema scolastico distrutto dai pedagogisti pazzi non trasmette più, in quanto la legittimazione consensuale al potere non avviene più per via grande-narrativa (su questo il vecchio Lyotard ha ragione), ma si realizza sulla base di un eterno presente dei consumi costellato di centri commerciali e di concerti rock. E questo ci porta necessariamente al problema del cosiddetto «relativismo etico» di cui oggi tanto si parla.
    Per capirci qualcosa bisogna prima di tutto impostare il problema storicamente. Nell’epoca dell’egemonia indiscussa di una religione monoteistica (medioevo europeo, Islam contemporaneo, eccetera) o del conflitto plurale fra gli apparati simbolici e valoriali di grandi-narrazioni rivali e confliggenti (i tre secoli recenti della modernità europea) il cosiddetto «relativismo etico» non ha molto spazio, anche se ovviamente non mancano mai alcuni suoi isolati difensori, perché il dominio assoluto degli apparati valoriali assume o la forma dell’egemonia monoteistica oppure la forma della rivalità fra grandi narrazioni organizzate (nel linguaggio di Lyotard, il triangolo costituito dalle grandi narrazioni 1, 2-4 ed infine 3-5). Le cose sono ovviamente molto diverse in assenza (o in debole presenza) di una egemonia monoteistica data e/o di uno scenario di conflitti grande-narrativi più o meno secolarizzanti. Questo scenario di relativa «assenza» si è dato almeno due volte nella storia spirituale dell’occidente, al tempo degli antichi greci e nel presente tempo del capitalismo globalizzato senza classi basato sull’integrazione attraverso il consumismo performativo (e che non ha quindi più bisogno né nel fondamento monoteistico trascendente né della legittimazione grande-narrativa). La differenza fra questi due scenari sta nel fatto che il primo era soprattutto politico, mentre il secondo è soprattutto economico. Ma spieghiamoci meglio.
    La filosofia occidentale è nata in gran parte sulla base della critica di Socrate al relativismo etico dei sofisti e sulla successiva elaborazione di questa critica fatta da Platone, che vi aggiunse il retroterra pitagorico (il modello «scientifico» di allora era di tipo geometrico, e non ancora fisico, chimico o biologico). Il relativismo etico dell’antica Atene aveva come sua base materiale la democrazia assembleare ateniese posteriore alle riforme di Clistene, in cui le decisioni erano prese a maggioranza e gli incarichi pubblici erano conferiti per sorteggio. Su questa base non fu difficile a Socrate far notare che i due principi della maggioranza assembleare e del sorteggio delle cariche non garantivano il valore etico e veritativo del funzionamento costituzionale della polis. La vittoria di Socrate con punteggio tennistico rispetto a Protagora e Gorgia si fonda sul fatto che le obiezioni di Socrate erano assolutamente ragionevoli e soprattutto teoricamente ineccepibili. Altra cosa invece è la valutazione sull’alternativa politica proposta da Platone (la repubblica retta dai filosofi-re sulla base della conoscenza del vero e del bene e non più sulla base della decisione maggioritaria assembleare e sulla rotazione per sorteggio delle cariche). Questa alternativa era semplicemente impraticabile ed utopica, ed infatti non fu applicata storicamente mai.
    La battaglia di Socrate contro il relativismo etico del tempo era di tipo squisitamente politico, per il semplice fatto (messo in luce a suo tempo da Karl Polanyi) che l’economia di quei tempi era integrata ed incorporata (embedded) nella politica. Ma oggi non è più così. Oggi la politica è stata svuotata e ridotta ad una sceneggiata di legittimazione ex post di meccanismi economici sovrani ed autonomizzati. È allora evidente che lo stesso problema del relativismo etico si pone oggi in modo radicalmente diverso da come si poneva al tempo di Socrate.
    In un capitalismo senza classi privo di legittimazione religiosa e/o grande narrativa ed in cui l’integrazione è ottenuta attraverso l’imposizione anche militare di un modello di consumismo performativo di tipo sostanzialmente privatistico ed individualistico il relativismo etico è prima di ogni altra cosa la ricaduta «morale» di una sovranità assoluta del mercato. Tutto è relativo, ma siccome tutto è sempre relativo rispetto a qualche altro parametro di riferimento (non esiste infatti per principio una relatività assoluta autoreferenziale con sé stessa), in questo caso il parametro di riferimento si riduce alla capacità di consumo del valore di scambio offerto dal mercato. La vecchia famiglia borghese è sostituita da convivenze flessibili, precarie e temporanee (sul modello appunto del lavoro flessibile, precario e temporaneo), dal matrimonio gay e lesbico e soprattutto dallo scollamento educativo fra genitori e figli e da una sistema scolastico cui una generazione criminaloide di pedagogisti pazzi di «sinistra» ha tolto ogni credibilità educativa, in nome ovviamente della fine dell’educazione detta «autoritaria» e della sua sostituzione con una «formazione» ricavata dalle richieste del «mercato» e delle imprese. Ognuno può consumare come vuole, purché (almeno per ora, ma non bisogna disperare del futuro, e come disse il marchese di Sade, francesi, ancora uno sforzo) non si desideri consumare direttamente pedofilia o cannibalismo. Tuttavia, ancora mezzo secolo di critica alla Foucault sull’inesistenza della natura umana e dovremmo arrivare anche a questo, di fronte a cui sorgerà probabilmente una reazione populista di massa che brucerà vivi gli intellettuali nichilisti in fuga.
    Di fronte a questo nuovo relativismo etico a base economica integrale ed in assenza di religione, politica e grandi-narrazioni sono impotenti sia grandi intellettuali come Ratzinger sia dilettanti della società dello spettacolo come Bertinotti. Il nichilismo non è uno stato d’animo pessimistico, o il frutto di un elaborato disincanto nicciano baffuto, ma è la necessaria ricaduta di una società che ha abolito il passato ed il futuro e si è integralmente «presentizzata». Divenuto il carpe diem un nuovo motto religioso di massa, e non solo l’insegna di un locale di spogliarello, ci si può chiedere quali possano essere le basi culturali su cui organizzare una resistenza sensata e non solo testimoniale. Papa-boys e militanti identitari nostalgici non possono infatti aiutarci.
    A questo punto questo breve saggio finisce, ed il discorso comincia. Sarebbe infatti poco serio che io promettessi una soluzione a tutto il casino che ho evocato. Ma sarebbe anche poco serio che io non indicassi almeno il terreno su cui si possono fare ipotesi costruttive.
    Il terreno è quello di nuovo «patto», inteso come un nuovo patto fra individuo e comunità. La cosiddetta «società», infatti, a mio avviso non esiste, o meglio esiste solo come spazio del rapporto fra individuo e comunità. Un individuo senza comunità è una semplice astrazione, dal momento che la stessa concepibilità di un individuo concreto, e come tale differenziato e differenziabile dagli altri, ci può essere soltanto all’interno di una relazione e di un rapporto sociale composto da almeno due persone. In caso contrario non c’è l’individuo con la sua peculiare determinatezza, ma solo il puro indeterminato, perché l’atomo è eguale a tutti gli altri atomi, e tale omogeneità impedisce ogni individuazione. Se si comprende quanto ho appena detto, si vedrà che l’individualismo metodologico originario non descrive mai una vera realtà, ma solo una sorta di «secessione», in cui si fantastica di una nostra impossibile originarietà per instaurare una comunità alternativa. Lo stesso Robinson Crusoé non è «originario», ma può pensare sé stesso soltanto per mezzo della comunità passata in cui è cresciuto (l’Inghilterra mercantile e puritana) ed una comunità futura auspicata (di cui il selvaggio Venerdì sarà il secondo membro).
    Le polemiche individualistiche contro il comunitarismo non possono pertanto distruggere l’evidenza storica e concettuale di quest’ultimo. Possono però segnalare utilmente delle possibili patologie del comunitarismo stesso. La più grave di queste patologie è l’organicismo identitario, ed è la patologia di cui è morto il comunismo storico novecentesco. La patologia del capitalismo senza classi in cui l’integrazione avviene attraverso il consumismo performativo è opposta alla precedente. Opposta sì, ma anche molto più complementare di quanto sembri.
    Abbiamo così messo a fuoco l’oggetto di una filosofia politica del futuro che non voglia semplicemente essere nostalgico-identitaria o utopico-normativa. Ci vuole un punto di partenza. Questo punto di vista programmatico ci sembra oggi il meno peggiore. E «meno peggiore» è una formulazione cauta e problematica per dire «migliore».

    Costanzo Preve

  2. #2
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    Grande Preve!

  3. #3
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    Predefinito Re: Un estratto di Preve dal prossimo numero di "Comunitarismo":da leggere....!!!

    In origine postato da pietro

    Mi rendo perfettamente conto che definire il fascismo in modo soddisfacente è molto difficile e controverso, perché ci sono stati molti «fascismi» diversi ed inoltre perché pochi antifascisti mistici e metafisici sono disposti ad accettare almeno la plausibilità della tesi dello storico israeliano Zeev Sternhell, per cui il fascismo propriamente detto non fu né di destra né di sinistra, ma un’altra cosa da definire.


    non concordo con questa affermazione, secondo me, malgrado il fascismo sia sempre stato composto da molteplici correnti, queste sono sempre state accomunate tra loro, da caratteristiche ben precise, come la sacralizazione dello stato e delle istituzioni l'identificazione con esse, e di conseguenza l'imperativo dell'occupazione dello stato e della presa del potere, che per i fascisti costituisce lo scopo principale, e non il mezzo per raggiungere determinati obbiettivi, la visione gerarchica della società e dei rapporti umani, ed il contrapporre acriticamente alla società moderna, il passato chiamato tradizione e sacralizato proprio per non metterlo in discussione, tutto questo pone il fascismo in tutte le sue correnti tra i movimenti politici di destra

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    Predefinito Re: Re: Un estratto di Preve dal prossimo numero di "Comunitarismo":da leggere....!!!

    In origine postato da Spartaco
    non concordo con questa affermazione, secondo me, malgrado il fascismo sia sempre stato composto da molteplici correnti, queste sono sempre state accomunate tra loro, da caratteristiche ben precise, come la sacralizazione dello stato e delle istituzioni l'identificazione con esse, e di conseguenza l'imperativo dell'occupazione dello stato e della presa del potere, che per i fascisti costituisce lo scopo principale, e non il mezzo per raggiungere determinati obbiettivi, la visione gerarchica della società e dei rapporti umani, ed il contrapporre acriticamente alla società moderna, il passato chiamato tradizione e sacralizato proprio per non metterlo in discussione, tutto questo pone il fascismo in tutte le sue correnti tra i movimenti politici di destra
    " OMNIA SUNT COMMUNIA "

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    In origine postato da pietro
    Mentre i militanti nostalgici ed identitari del fascismo e del comunismo rifiutano di prendere atto del carattere storicamente conchiuso di questi fenomeni, e continuano a mettere in scena scontri simulati (la società dello spettacolo apprezza particolarmente le battaglie di bastonatori in passamontagna che si sfidano con la mano aperta e/o con il pugno chiuso, ignari del fatto che Canne, Lepanto e Waterloo sono già finiti), il circo mediatico al servizio della servitù volontaria all’impero sa bene che si tratta solo di rievocazioni storiche in costume...

 

 

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