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    Predefinito Persona e atto: Wojtyla, genio tomista, in dialogo con la modernità

    GIOVANNI REALE

    Se l'agire rivela la persona

    Da Rusconi l'opera teorica più importante scritta da Giovanni Paolo II prima di diventare sommo pontefice
    Uno studio sull'uomo che ribalta il metodo di analisi della metafisica tradizionale
    Una originale ricerca ontologica svolta nello stile di Husserl, Scheler e Ingarden





    La filosofia cristiana ha assunto ambedue questi paradigmi: i Padri della Chiesa hanno cercato di operare una loro mediazione, ma mantenendo la superiorità dell'Uno sull'Essere, gli Scolastici hanno dato preminenza pressoché assoluta alla metafisica dell'essere. Tuttavia, proprio nell'ambito del pensiero cristiano è nato un paradigma, quello della metafisica della persona.
    Si ricordi che la "persona" in quanto tale nel pensiero ellenico non è stata portata a livello di assoluta superiorità assiologica nell'ambito degli enti. Aristotele scrive: "Vi sono altre cose più divine dell'uomo per natura, conte, per restare alle più visibili, gli astri di cui compone l'universo".
    Solo sulla base del messaggio cristiano l'uomo ha scoperto di avere valore assoluto come persona: Cristo, il figlio di Dio che s'incarna nell'uomo, conferisce all'uomo, inteso come persona una sacralità in senso totale. E in Agostino, come anche in Tommaso, tutta la problematica metafisica ruota attorno all'uomo, assumendo di conseguenza una "sporgenza" di notevole consistenza rispetto a quella dei Greci.
    Questo libro di Wojtyla, a mio Giudizio, si impone proprio come uno dei più bei libri di "metafisica della persona". Raramente si sono scritte opere con una difesa dell'uomo così forte e così convincente.
    La filosofia, dicevano gli antichi, nasce dalla "meraviglia" che suscitano i fenomeni della natura; e Woityla riprende questo concetto, ma puntando proprio sull'uomo, in quanto ben si può dire che l'uomo si è sforzato di comprendere le cose più ancora di sé, e che quindi resta sempre in attesa di attesa di nuove e penetranti analisi su ciò che lo riguarda.
    Il metodo fenomenologico con cui Wojtyla studia l'uomo in questo libro, applicato con finezza, con analisi dettagliate e puntuali descrizioni dell'esperienza della coscienza fin nei minimi particolari, capovolge il metodo dell'analisi metafisica tradizionale. Questa, infatti, si incentrava sullo studio della struttura ontologica della persona, deducendo tutta una serie di conseguenze concernenti le sue azioni; l'analisi fenomenologica che Wojtyla segue non parte dalla persona, ma giunge ad essa: studia l'azione umana e fa vedere come proprio nell'azione e mediante l'azione si riveli a persona. Dunque, il procedimento seguito non è dalla persona all'atto, bensì dall'atto alla persona.
    Proprio dalla ricchezza di analisi dell'atto emerge in modo nuovo l'eminenza della persona e lo sbocco nel presupposti ontologici come spiegazione ultimativa. In particolare, l'actus humanus viene spiegato da Wojtyla mediante il riferimento alla dottrina metafisica aristotelico-tomista della "potenza e atto". La "potenza" dell'uomo viene intesa nel senso forte, ossia come quel "nocciolo irriducibile" dell'uomo, quel nucleo ontico (essenza) che si esplica appunto nell'atto, e proprio nell'atto l'uomo fa esperienza di sé come essere persona.
    Wojtyla dà grande rilievo al concetto di "partecipazione", inteso come l'azione che ciascun uomo compie in unione con altri uomini, raggiungendo obiettivi che solo mediante l'agire in comunanza con gli altri sono raggiungibili. La "partecipazione" si configura, quindi, come la capacità che l'uomo come persona ha di instaurare rapporti con gli altri uomini come persone, nella maniera più varia, più complessa e più ricca.
    Le due forme di negazione pressoché totale dello spirito della "partecipazione" sono l'"individualismo" e il "totalismo". Il primo costituisce l'errore morale che l'uomo commette, quando concepisce il proprio bene come nettamente separato dal bene degli altri, vale a dire dal bene comune, e addirittura in antitesi rispetto a esso. In secondo costituisce l'errore opposto, in quanto considera l'individuo di per sé non disposto ad agire in modo costruttivo insieme con gli altri: di conseguenza, secondo il totalismo, per realizzare il bene comune non resterebbe altra via se non quella di costringere con la forza l'uomo ad agire in un determinato modo.
    Strettamente connesso con il concetto di "partecipazione" è quello di "solidarietà", che consiste nella disponibilità dell'uomo a svolgere la parte che gli compete all'interno di una comunità per il bene comune, senza invadere il territorio in cui si esplicano le parti che spettano ad altri. Si dà il caso, però, che si imponga la necessità che qualcuno assuma, in certi momenti, qualche compito che va oltre le sue abituali responsabilità, e questo proprio per il bene comune. E, in tal caso, la solidarietà impone all'uomo il dovere, di accertare questo compito per la comunità.
    Conviene richiamare alla memoria del lettore l'impotenza che questa concezione ha assunto in Polonia anche dal punto di vista socio-politìco mediante il movimento "Solidarnosc", e le conseguenze storiche di portata epocale che ne sono derivate.
    Wojtyla dà grande rilievo al concetto di "trascendenza". Questo termine indica "oltrepassamento", ossia andare al di là di una certa soglia. Ma questo "oltrepassamento", ossia andare assume due significati: quello fenomenologico e quello più propriamente metafisico.
    Nel linguaggio fenomenologico la "trascendenza" indica il varcare il limite del soggetto procedendo verso l'oggetto, sia nell'atto conoscitivo che in quello volitivo. Wojtyla denomina questo tendere del soggetto verso l'oggetto "trascendenza orizzontale".
    Ma vi è una forma di "oltrepassamento" che non costituisce un procedere del soggetto verso l'oggetto esterno, bensì un rivolgersi del soggetto verso il proprio interno, mediante cui si scopre come causa libera del proprio agire, coglie la verità e i supremi valori e tende verso di essi, Wojtyla la chiama "trascendenza verticale", e con essa egli cerca di esprimere il contenuto essenziale e fondamentale dell'esperienza.
    In effetti l'esperienza della "trascendenza verticale" della persona nell'atto porta a rendersi conto del fatto che la persona non è riducibile alla pura materialità, e quindi porta a una visione della sua spiritualità.
    Il metodo fenomenologico seguito da Wojtyla sfocia, pertanto, in una concezione "ontologica" dell'uomo, ossia in una tesi (o se si preferisce in una ipotesi conclusiva) che dà senso a tutta l'analisi fenomenologica: l'unità dell'essere della persona dipende dall'essere dello spirito. Ed è appunto dallo "spirito" che deriva la straordinaria ricchezza della "persona" e del suo "atto".
    Il succo dell'opera di Wojtyla si può esprimere in modo perfetto con la bellissima affermazione di San Tommaso, "la persona significa ciò che è più perfetto in tutta la natura, in quanto natura razionale".
    E appunto questo il connotato essenziale della "metafisica della persona".

  2. #2
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    Il metodo fenomenologico-trascendentale è il vero metodo del tomismo, sapientemente esplicitato nella modernità.

    I razionalisti, sedicenti tomisti, che partono dai loro principi per dedurre la realtà, tradiscono san Tommaso e si vendono a squallide tradizioni di pensiero.

    Wojtyla ha rivelato bene come perfettamente si coniuga il tomismo con il metodo fenomenologico-trascendentale, coniugandolo in un tomismo trascendentale, realizzazione della philosophia perennis.

    Tomismo trascendentale che, partendo dal basso, dall'esperienza opportunamente descritta, si chiede le condizioni di possibilità di essa ed approda alla metafisica.

    Il contrario di chi parte con un principio metafisico (intuito o preso da chissà dove) per poi dedurre da esso la realtà, che sarà inevitabilmente conforme al principio, cioè a immagine e somiglianza del "pensatore" stesso.

  3. #3
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  4. #4
    INNAMORARSI DELLA CHIESA
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    IL PAPA CHE CI HA RESTITUITO
    L'ORGOGLIO DI DIRCI CRISTIANI


    Il Giorno 18 ottobre 2003

    www.avvenire.it


    Con l'inizio del Processo di Beatificazione:
    http://www.avvenireonline.it/shared/...one/index.html

    Avvenire sta iniziando a raccogliere del materiale interessante che nel tempo forse si è un pò dimenticato.....Buona meditazione!



    Sembra ieri. A Parigi, la notte chiara del 23 agosto di alcuni anni or sono. Il Papa incontrava i giovani. E aveva scelto proprio quel giorno, l'anniversario della terribile Notte di San Bartolomeo del 1572, quando i cattolici massacrarono 20000 ugonotti in tutta la Francia di cui 3000 solo a Parigi.

    Le Chiese protestanti erano in subbuglio: com'era mai possibile che il capo della Chiesa cattolica osasse convocare i suoi giovani proprio in quella notte, in quella città? Quale provocazione, quale truce rivendicazione di un lontano eppur mai dimenticato delitto era mai quella?

    Poi, il Papa parlò. Fu una sconvolgente rivelazione per tutti con quale umiltà, con quale coraggio seppe parlare. Ricordò quell'orribile massacro, chiese perdono a nome dei cattolici di tutti i tempi. I più arcigni prelati delle Chiese protestanti reagirono prima increduli, poi commossi: e risposero che ora spettava a loro fare un passo analogo, perché di Notti di San Bartolomeo nella storia ce ne sono state tante e nessuno è innocente.

    Tuttavia, nessuno ha mai avuto la forza e l'onestà di portare avanti il discorso della richiesta di conciliazione e di perdono come l'hanno fatto la Chiesa cattolica e questo Papa. La verità è che ci vuole una forza immensa per far queste cose.

    Non è mai stato semplice comprendere sino in fondo le scelte di Giovanni Paolo II. Anche perché esse sono sempre state semplici, concrete, ispirate a una profonda coerenza: e gli osservatori scaltriti, i vaticanisti illustri, gli esperti raffinati sono stati regolarmente presi contropiede da questa linearità.

    Non c'è dubbio che, dopo il tormentato periodo pontificale di Paolo VI e la breve parentesi di Giovanni Paolo I, nella Chiesa si desiderasse un momento di pausa e di riflessione. Ci si rivolse pertanto all'arcivescovo di Cracovia, del quale si conoscevano l'energia ma anche lo spirito conservatore: e i primi passi del nuovo Papa sembrarono rivolgersi appunto nella direzione del consolidamento delle istituzioni e delle tradizioni. L'enciclica Redemptor hominis del '79 con i suoi fermi richiami all'ortodossia dottrinaria e alla disciplina liturgica, la forza con la quale aiutò il suo paese a scrollarsi di dosso quel che restava del comunismo e contribuì ad avviare la crisi del sistema sovietico, il severo intervento del 1984 contro la 'teologia della liberazione' parvero andare tutti nella direzione di un cattolicesimo restauratore: al punto che qualcuno sperò, senza osar dichiararlo, che l'attentato del 13 maggio 1981 mettesse davvero definitivamente fuori gioco quel pontefice che rischiava di riportare la Chiesa 'all'indietro', e contro il quale si ersero nel gennaio del 1989 la 'Dichiarazione di Colonia' dei teologi progressisti tedeschi e olandesi e, nel maggio successivo, il documento dei teologi e intellettuali italiani che denunziavano il tradimento allo spirito del Concilio.

    Erano i tempi del 'Wojtylaccio', l'invettiva di Roberto Benigni. Che, adesso, ha completamente cambiato opinione su questo Papa.

    E non è stato l'unico. Eppure, se fin da allora si fosse considerato con attenzione quel ch'egli andava dicendo e scrivendo, si sarebbe capito in che direzione ci si stesse movendo. Le encicliche 'Laborem exercens' del 1981 e 'Sollecitudo rei socialis' del 1988, con la loro decisa difesa del primato del lavoro sul capitale e della dignità dei lavoratori e il loro richiamo alla necessità della solidarietà internazionale, non erano per nulla un escamotage demagogico. La decisione con cui si difendeva ogni forma di vita, con ciò condannando l'aborto e la contraccezione come appare chiarissimo dall'enciclica 'Evangelium vitae' del 1995, e che fu vista al momento come un modello di chiusura reazionaria alla realtà e alle necessità del mondo, specie dei poveri dell'Africa e dell'America latina, era solo un aspetto d'una politica molto forte in favore dei diritti umani: la limitazione delle nascite non poteva essere il risultato d'un'umanità che si piegava e si rassegnava alla miseria, mentre esisteva nel mondo, dall'altra parte, la società del consumo e dello spreco.

    Non si poteva chiedere ai quattro quinti del mondo di rinunziare anche alla prole per consentire al 20 % dell'umanità, ai privilegiati, di continuar a vivere nell'opulenza.

    Il Pontefice si dava frattanto a un programma intenso di visite pastorali: in Europa, a cominciare dalla sua diletta Polonia; ma anche in Asia, in Africa, in America, in tutto il mondo. Fu a Sarajevo e sostenne la necessità dell' 'ingerenza umanitaria' nella guerra civile in Bosnia-Erzegovina; visitò il Libano, un paese che egli aveva sempre molto amato, e dove —- a Beirut come a Sarajevo — sottolineò come le guerre e la nascita di nuove incomprensioni avessero distrutto una pacifica intesa tra culture e religioni diverse che, finmo ad allora, era stata esemplare. Non ebbe paura di avvicinare i 'mostri', non si fece intimidire da alcuna forma di political correctness: incontrò Pinochet e Castro, affrontando le rampogne di chi sperava, da destra e da sinistra, di strumentalizzarlo.

    Entrò nelle sinagoghe e nelle moschee, pregò con ebrei e con musulmani, ribadì che le tre religioni abramitiche, insieme, avrebbero potuto e dovuto essere un bastione di fede e di civiltà contro l'imbarbarirsi e l'ateizzarsi del mondo.

    Da parecchi mesi, la frontiera più avanzata di questo Pontefice instancabile è la terra, nell'accezione più ampia del termine. Il Papa affronta ormai direttamente, con coerenza e con coraggio crescenti, i grandi problemi del mondo: la dilagante ingiustizia, le crescenti sperequazioni tra ricchi e poveri, l'inquinamento ambientale e le sue origini nel desiderio di arricchirsi e di sfruttare risorse e ricchezze agendo senza scrupoli, le mostruose contraddizioni che impediscono ad esempio che i poveri possano curarsi a buon mercato perché la logica dei brevetti determina un alto costo di medicine che potrebbero esser prodotte a prezzi accessibili.

    Le guerre volute dall'amministrazione Bush in Afghanistan e in Iraq hanno incontrato la ferma ed esplicita condanna del Papa e avviato un vero e proprio clima di guerra fredda tra governo Usa e Vaticano: il finanziamento statunitense alle sette protestanti di tutto il mondo e la montatura degli scandali a proposito della diffusione della pedofilia nel clero americano ne sono state conseguenze.

    Questo è un Papa scomodo, un Papa che fa scandalo.

    E' l'uomo che, inginocchiato sulla Porta Santa, ha aperto il Terzo Millennio del Cristo. Credo che chi l'ha visto lo ricorderà sempre così, curvo sotto il peso degli anni, della malattia e di tutti i mali del mondo. Un combattente meraviglioso, una guida dolce e sicura. Per molti fra noi cattolici, Giovanni Paolo II è l'uomo che ci ha restituito l'orgoglio di dirci cristiani.


    di Franco Cardini


    Fraternamente Caterina
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  5. #5
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    SULLA SOGLIA DELLO STUPORE
    La Stampa (12 ottobre 2003)



    C’E’ una parola che riappare a intervalli regolari, nel pontificato di Giovanni Paolo II, ed è forse la più misteriosa. E’ stata l’orma che egli ha lasciato sui venticinque anni trascorsi da quando gli furono affidate le chiavi di Pietro. E’ stata la sua promessa, il suo dono, la sua disciplina anche in quest’ultimo scorcio di sacerdozio che è così teso nello sforzo di continuare a esserci, di continuare a patire. La parola è: soglia. Tutto sta a vivere sulla soglia, ha detto di recente, nel poema intitolato Trittico Romano.

    Il primo fu Abramo di Ur, che varcò il limine per andare incontro a Dio e per amarlo più ancora di quanto amasse Isacco, il proprio figlio. Abramo abbandonò le sue terre, fra il Tigri e l’Eufrate, e con lui cominciò tutto: la ricerca nomade del Dio unico, il duro confrontarsi con le sue infinite lontananze, con le sue inattese vicinanze. «Se oggi percorriamo questi luoghi, da cui, tempo fa, era partito Abramo, dove aveva udito la Voce, dove si era compiuta la promessa, solo perché potessimo fermarci sul limine... per attingere al principio dell’Alleanza», così nel Trittico. Fermarsi sul limine vuol dire scrutare dentro di sé le radici dell’Alleanza: alleanza di Dio con il popolo d’Israele, poi incarnazione in Gesù, poi profezia di Maometto. Fermarsi sul limine è mettersi in attesa, esporsi alla visione e anche al dolore della visione.

    Il Verbo stesso è soglia, la Bibbia stessa è «soglia che aspetta una sua immagine, un suo Michelangelo». Stiamo sulla soglia del Libro, dice ancora il Papa, allo stesso modo in cui sostiamo, «passando dallo stupore allo stupore», davanti agli affreschi della Cappella Sistina che raffigurano il Giudizio divino: «Bisogna che Michelangelo insegni al popolo». Bisogna ritrovare quella capacità di stupirsi, che è alla base della fede come anche della ragione. Il Papa stesso, con il suo carico di fatica e sofferenza, vive da molto tempo sulla soglia. Questo è il suo modo di durare, che le telecamere scrutano quasi ogni sera, impietose anche quando sono devote. Il Papa è sulla soglia tra l’esistere e lo svanire. Da quel limine contempla le visioni che si fanno bellezza, in Michelangelo.

    Da quel limine ricorda i versi dell’amato Orazio, guardando il mondo con quella che Pietro Citati chiama la «sorridente saggezza della Chiesa cattolica»: Non omnis moriar, ha detto qualche giorno fa ad alcuni amici. Non omnis moriar multaque pars mei vitabit Libitinam - Non morirà tutto di me, e gran parte di quel che sono eviterà la funebre Dea.

    Tutti siamo scossi e anche turbati, dall’immagine della sua fragilità fisica, del suo farsi sempre più impotente, taciturno, immoto. Ma se lo guardiamo avendo in mente l’idea di soglia, ecco che il suo morire si trasfigurerà, preludendo a una specie di vittoria sulla morte. Il suo è un disporsi a partire dal mondo e però anche a sostare sugli orli estremi, in bilico tra essere e non essere, tra il non meravigliarsi più e il meravigliarsi che non s’interrompe mai. E’ un invocare salvezza e un contemplare, un affrettarsi e un illimitato pazientare. Con questi movimenti apparentemente contraddittori ci possiamo preparare alla morte: è quasi un ossimoro il suo vivere, durare, patire, ed è l’ultimo, scintillante suo insegnamento.

    Forse è un bene che non abbia ricevuto il premio Nobel della pace. Che il suo sostare sull’orlo dell’essere sia così solitario, spoglio di spettacolari riconoscimenti esterni. Ci assomiglia ancora di più, in questa sua solitudine. Ci fa vedere le segrete forze dell’impotenza: «Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è proprio allora che sono forte» (Paolo , lettera ai Corinzi II, 12: 10). Dice ancora il Pontefice nel Trittico: Omnia nuda et aperta sunt ante oculos Eius. Tutto è nudo e aperto dinanzi agli occhi di Lui. In questi venticinque anni, il Papa polacco è stato più volte sull’orlo di divenire kathekon del mondo, unico riordinatore e imbavagliatore del male dotato di autorità globale.

    Non vi è riuscito sempre, e forse è qui la sua grandezza. Non ha riordinato cristianamente il mondo, perché sotto il suo pontificato si è addirittura accentuato il distacco della Chiesa dal potere temporale-politico, e questo nonostante la sua immensa, personale influenza politica. Già Paolo VI e Giovanni XXIII avevano detto che la perdita del potere temporale era stata evento provvidenziale, nella storia della Chiesa: l’aveva costretta a concentrarsi sulle cose dell’anima, sul potere spirituale, e molto più sull’uomo interiore che su quello esteriore.

    Giovanni Paolo II ha ancor più dilatato questa vocazione relativamente nuova del cristianesimo romano, facendosi pellegrino nel mondo e congedandosi dall’identificazione della Chiesa con le nazioni o con le guerre religiose. Ha dimostrato di essere una lampada di luce per le altre fedi, sia quando visitò Israele sia nelle terre musulmane. L’uomo interiore cui ha dedicato tanta sua cura ha finito col divenire lo spazio laico all’interno del quale cristianesimo, ebraismo e Islam potevano pregare insieme per la pace, a Assisi, sotto lo sguardo d’un Papa romano. Anche la sua opposizione alla guerra americana in Iraq andava in questo senso. In nome di Dio non erano ammesse né guerre, né azioni condotte da nazioni o religioni elette. In nome di Dio si poteva solo dire il mea culpa, per il male arrecato all’uomo interiore. Il Papa che infila un bigliettino nelle fessure petrose del Muro del Pianto, a Gerusalemme, simboleggia questo agire all’insegna della colpa e della giustizia, della responsabilità e della domanda di perdono. Se la guerra in Iraq e la caduta di Saddam sono rimaste un evento politico-strategico, non legato al cristianesimo e non identificabile con le guerre sante che Bin Laden vorrebbe suscitare, è grazie al rifiuto opposto dal Papa a una guerra che poteva esser interpretata come conflitto tra cristianesimo e Islam.

    Non aveva dissentito sempre, dalle guerre. Negli Anni Novanta, aveva anzi chiesto agli occidentali di fermare militarmente il possibile genocidio dei musulmani di Bosnia: un genocidio cui il cristianesimo ortodosso serbo aveva dato il suo assenso. Una guerra contro le crociate era dunque ammessa, anche e soprattutto quando a minacciare massacri erano i cristiani, mentre radicalmente invise erano le guerre che facevano un uso politico del simbolo della croce. Pur mettendo in guardia contro il nuovo pericolo totalitario rappresentato dal terrorismo, questo Papa ha obiettato quando Bush diede il nome di crociata alla guerra antiterrorista, e si è opposto a quelle sette evangelicali americane che cercano di combinare, in Iraq, gli aiuti umanitari con l'evangelizzazione. La condanna del genocidio dei musulmani ceceni ancora non è venuta: quel popolo continua a sperare nelle parole del Santo Padre. Anche in questo il Papa raccoglie un’eredità dei predecessori e al tempo stesso innova. Si muove sulle orme di Benedetto XV, che definì la prima guerra mondiale un’«inutile strage», inimicandosi tante Chiese nazionali, e per questa via prende le distanze dalla politica dei singoli Stati e dal progetto di un ordine mondiale istituito dal cristianesimo.

    E anche quando accetta la beatificazione di Pio XII, non manca di mettere in causa i compromessi col totalitarismo cui il Vaticano acconsentì durante l’ultima guerra. A più riprese questo Papa si è elevato contro il male, in veri salmi imprecatori contro l'odio etnico o quello religioso, contro il crimine di mafia e il crimine di Shoah o del Gulag. E i salmi imprecatori, come ricorda Enzo Bianchi, «sono sempre un antidoto al gravissimo male dell’indifferenza al male». Troppo grande è stato il compromesso cristiano con gli Stati nazione, troppo grande la tentazione della Chiesa a divenire il braccio morale delle potenze terrene: da queste tentazioni il Papa si congeda, complicando il trono di Pietro e rendendolo più esaltante. Al centro di tutto, il Papa ha rimesso la persona umana: con le sue impotenze e le sue forze, con la sua coscienza sempre minacciata dai totalitarismi e con la sua auto-nomia, con la legge che l'uomo è chiamato a dare a se stesso.

    La morale di questo pontefice appare rigida e inflessibile, a molti: soprattutto la morale sessuale. Ma egli sa l’imperfezione dell’uomo, sa che non si può chiedergli l’impossibile. Con la sua insistenza su rigide leggi morali vuol tuttavia indicare una meta ideale, rispetto alla quale misurarsi.

    Vuol mostrare qual è l’orizzonte del dover essere, anche quando non si raggiunge la perfezione etica. Possiamo legiferare sull’aborto, ma dobbiamo sapere che con l’aborto si uccide una vita. Questo deve destare in noi tremore e stupore anziché certezze, perché è in questo stupore che si cela la grandezza dell’uomo.

    Fin dai tempi di Platone, la filosofia nasce dall'attitudine a meravigliarsi. A non accontentarsi di un mero, indifferente «esistere e trascorrere». A vivere sempre e ancora sulla soglia dello stupore, come nei versi di Giovanni Paolo II: Non si stupisce una fiumara scendente, E silenziosamente discendono i boschi Al ritmo del torrente - però un umano si meraviglia. Il varco che un mondo trapassa attraverso l'uomo E’ dello stupore la soglia, (una volta, proprio questo portento fu nominato «Adamo».) Ed era solo, col suo stupore, fra le creature senza meraviglia - per le quali esistere e trascorrere era sufficiente. L’uomo, con loro, scorreva sull'onda dello stupore!

    di Barbara Spinelli
    Fraternamente Caterina
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  6. #6
    INNAMORARSI DELLA CHIESA
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    Parla Jaruzelski, ex dittatore comunista in Polonia:
    il Santo Padre non era un mio nemico
    «CON WOJTYLA VINSE L’EUROPA»
    Il Tempo 14 ottobre 2003

    www.avvenire.it

    IL GENERALE ha conservato la rigidità di un tempo. È ancora in piedi, granitico, gli occhiali quadrati che nascondono lo sguardo, l’eleganza militare trasferita in un gessato nero, le mani nascoste nella posa marziale. Un uomo che ha assaggiato la sconfitta, ma non è disposto a perdere la fierezza. «Come sta il Papa?», domanda. Nelle voce si legge un’ansia sincera, un accenno di commozione improbabile. Il dittatore che il 13 dicembre del 1981 metteva in stato d’assedio la sua Polonia, soffocando le speranze nate intorno alle bandiere di Solidarnosc è oggi un pensionato della Storia. Ogni mattina Wojciech Jaruzelski, scortato da due uomini, alle otto in punto varca il portone di un palazzo del centro di Varsavia. Uno di quegli edifici grigi, relitti dell’estetica comunista, che ancora ammoniscono i passanti. È nel suo ufficio al primo piano, dall’aria decadente, che il generale ci accoglie, per parlare di colui che «non è mai stato un nemico», ci spiega, «ma solo e sempre un avversario». L’atteggiamento nei confronti del cardinale Wojtyla, come del resto nei confronti di tutta la Chiesa, «era quello riservato ad un avversario ideologico, politico, personale».

    Lo conosceva dai tempi di Cracovia?
    Il cardinale era una figura della gerarchia ecclesiale ben conosciuta nella cerchia del potere. Era ritenuto una personalità di spicco, forte, un intelletto di rilievo... filosofo, pensatore... anche se si riteneva che lui non possedesse quella capacità propriamente politica propria del primate, Stefan Wyszynski. Per questo l’elezione di Karol Wojtyla a pontefice fu per gran parte di noi una doppia sorpresa. Da una parte era stato scelto un papa polacco, mentre eravamo tutti convinti che solo un italiano potesse diventare Papa. Poi era proprio il cardinale Wojtyla. Se anche qualcuno avesse preso in considerazione l’ipotesi di una scelta polacca in Vaticano certo avrebbe pensato al cardinale Wyszynski...

    Facciamo un passo indietro. Wojtyla era «sotto osservazione» anche prima della sua nomina a Metropolita di Cracovia?
    Sì, ma eravamo stati depistati. Basta pensare alla vicenda della sua nomina a Cracovia. A quei tempi nei paesi del blocco comunista era obbligatorio un principio di concordanza con l’autorità per le candidature ai posti più elevati nella Chiesa. Il primate in pratica presentava un paio di candidati e le autorità indicavano chi gli andasse. Sull’elenco presentato ai referenti governativi Wojtyla si trovava al terzo posto. Nonostante questo fu lui ad ottenere la preferenza. Tra i rappresentati del regime c’era un tale, membro del Politburo, segretario del Comitato Centrale del partito, Zenon Kliszko, che indicò proprio l’arcivescovo Wojtyla lasciandosi suggestionare dal fatto che lui era un intellettuale, impregnato di spiritualità e che quindi non avrebbe interferito nella poltica. Si pensava a lui come ad una figura neutrale e soprattutto non sembrava una minaccia per il regime.

    Quando vi siete accorti di averlo sottovalutato?
    Molto presto. Diventato metropolita Wojtyla ha rivelato una grande personalità: attirava una parte consistente dell’intellighenzja polacca, diventava di giorno in giorno sempre più famoso grazie alle diverse pubblicazioni, alle sue opere e agli interventi pubblici. Suscitava interesse negli ambienti più diversi, soprattutto tra gli intellettuali, la gente di cultura e di scienza. Cracovia era un centro catalizzatore, esercitava un grande fascino e allo stesso tempo influenzava la vita all’esterno. Le autorità cominciarono a nutrire un certo grado di preoccupazione, si pensava che tutto questo prima poi si sarebbe trasformato in un processo non gradevole per il regime.

    Consideravate il cardinale responsabile del fermento nella città?
    Vale la pena ricordare che a quel tempo le relazioni Stato-Chiesa erano, per dirla con un eufemismo, complicate. C’erano diversi conflitti. Il Cardinale Wojtyla non creava intenzionalmente quei conflitti ma era la vita stessa a porli. E quando attorno a lui iniziarono a riunirsi ambienti di diverso genere, il nostro nervosismo aumentò.

    Lei come ebbe la notizia dell’elezione?
    È successo tanto tempo fa, ma ricordo esattamente quel giorno. Allora ero ministro della Difesa ed avevo il mio ufficio nel ministero in via Klonowa, di fronte al Belvedere, un posto ben noto sia a Varsavia che in Polonia. Non ricordo l’ora precisa, ma ad un certo momento è entrato il mio aiutante di campo e ha detto: «Hanno eletto Wojtyla Papa». In un primo momento ho reagito dicendo: «Impossibile!»... Ero stordito. Perché ho reagito così? Perché, non avevamo minimamente preso in considerazione l’ipotesi che il Papa potesse non essere italiano. E poi, che fosse stato eletto un polacco, proveniente da un paese che non apparteneva al giro di quelli più grandi e che si trovava nell’orbita del blocco sovietico...beh era un fatto fuori da ogni logica!

    Il partito come si mosse nei primi istanti?
    Poco dopo si tenne una sessione che riunì i vertici degli organismi più autorevoli della Polonia: c’erano membri del Politburo, del Comitato Centrale, del Partito Operaio Unificato Polacco (PZPR) e dei rappresentanti del governo. Il fatto dell’elezione fu discusso per primo, come tema scottante. E le sensazioni erano miste. Da una parte c’era una gioia spontanea, perchè il Pontefice era un polacco. Si trattava di un evento che avrebbe fatto crescere il prestigio della Polonia, portato nuove possibilità, avrebbe fatto conoscere all’estero la nostra tradizione, la nostra storia, la nostra cultura. D’altro canto serpeggiavano non poche preoccupazioni: l’elezione avrebbe inasprito le relazioni Stato-Chiesa. La Chiesa polacca sarebbe potuta diventare più forte, avrebbe potuto avanzare pretese addizionali, avrebbe acquisito più popolarità. Erano eventualità che allora venivano considerate rischiose ed allarmanti, soprattutto in un momento di grave incertezza sociale. Bisogna ricordare che in Polonia si avvertivano già i primi sintomi della crisi economica e cresceva tra la gente l’insoddisfazione per le condizioni di vita.

    Intuiste subito il potenziale rivoluzionario in Wojtyla?
    Nonostante tutto Karol Wojtyla era conosciuto come un ecclesiastico dagli orizzonti estremamente ampi, un umanista. C’era la convinzione che non avrebbe appoggiato operazioni provocatorie, iniziative dalle ripercussioni politiche. Inoltre anche se decisamente anticomunista, negatore convinto del sistema, Wojtyla era allo stesso tempo un uomo che lo conosceva bene. Aveva vissuto nel paese per lunghi anni, nei periodi più duri come quello dell’occupazione, conosceva bene tutte le tragedie vissute dai polacchi. Confidavamo persino che si sarebbe reso conto di quanto le soluzioni offerte dal programma del socialismo reale fossero vicine all’insegnamento sociale della Chiesa, una volta a contatto con altre realtà. Insomma pensavamo che in paesi dell’ America Latina, Africa, Asia avrebbe notato l’altra faccia del capitalismo: la povertà, l’abiezione di completi strati sociali.

    Una bella dose di ingenuità...
    Molti di noi erano convinti che l’esperienza come Pontefice gli avrebbe permesso di valutare criticamente certi fenomeni del mondo capitalista, e magari di superare quello che nel blocco sovietico era in contrasto con la sua visione del mondo. Ciò che era in contraddizione con il Vangelo e con Dio stesso. A quei tempi per noi era una possibilità teorica, comunque almeno il giudizio negativo sul capitalismo, poi, è arrivato.

    Sorsero dei contrasti con Mosca, subiste delle pressioni nelle prime ore dopo l’arrivo della notizia sull’ elezione?
    Mosca espresse la tensione a diversi livelli, attraverso contatti, anche militari, ma sopratutto politici. Dominava una constatazione: era colpa del nostro atteggiamento liberale, della tolleranza mostrata verso la chiesa in Polonia, se era stato eletto un Papa polacco. Pensavano che Giovanni Paolo II sarebbe diventato per il sistema il cavallo di Troia: gli avevamo permesso di entrare e avrebbe combattuto contro il socialismo.

    L’ipotesi del complotto americano come nacque?
    Legarono la vicenda dell’elezione alla persona di Zbigniew Brzezinski, (consigliere per la sicurezza nazionale di Carter di origini polacche) cosa che oggi sembra assolutamente pazzesca. A quei tempi era particolarmente criticato, preso costantemente di mira dai nostri alleati che ci rinfacciavano continuamente: «Brzezinski, il vostro Brzezinski». Non aveva niente a che fare con noi ovviamente, anzi ci attaccava in continuazione ed era uno dei nostri più agguerriti avversari politici. Ma nella logica dei nostri alleati di quel tempo, sopratutto dell’ Unione Sovietica, ma anche della Germania Est e della Cecoslovacchia, esisteva una teoria: era stato Brzezinski assieme agli Americani a tirare i fili durante il conclave, non lo Spirito Santo.

    Lei era ministro della difesa. Nelle ore successive, quando nel paese la notizia circolò, prese delle misure preventive? Aveva paura che la situazione potesse in qualche modo trascendere?
    No, l’atteggiamento da tenere riguardo all’elezione del Papa polacco era descritta nelle direttive centrali del Politburo ed era obbligatorio in tutti gli ambienti, anche nell’esercito. Consisteva in questo: si doveva manifestare la soddisfazione per l’elezione del Papa polacco, sottolineando, che proprio grazie al fatto di essere comunista la Polonia aveva aumentato il suo prestigio tanto da consegnare al mondo il nuovo Pontefice. Allo stesso tempo non bisognava eccedere nell’ostentare la retorica di regime. Si doveva evitare che la guida delle anime, soprattutto di molti soldati, passasse ad un'altra mano, quella della Chiesa. Purtroppo il risultato di tale politica fu evidente nella prima visita del Papa nel 1979, quando l’esercito impose rigori e restrizioni per evitare la partecipazione di massa agli incontri con il Pontefice. Ma eravamo membri del Patto di Varsavia, e un atteggiamento più disponibile poteva essere valutato in un modo sfavorevole dai nostri alleati.

    Che ricordo ha di quella visita?
    Si svolse in tempi di seria crisi economica, il popolo polacco aveva manifestato il proprio malessere, contestava il regime convinto della necessità di cambiamenti, auspicando un distacco dalle soluzioni che offriva quel sistema. E la forza morale, politica che stava dietro quel movimento era proprio quella della Chiesa e del Papa. Del resto nelle omelie del Papa esistevano certe espressioni indirette che favorivano tutto ciò: come quella più famosa «che venga il Tuo Spirito e cambi la faccia della terra, questa terra». Era chiaro il riferimento alla terra polacca. Durante quel viaggio, ci furono dei colloqui in cui gli fu chiesto espressamente di cambiare il modo in cui si esprimeva per non provocare la gente, non incitarla a combattere il sistema. In realtà tutta quella visita ebbe un accento anti-governativo e portò ad un inasprimento nelle relazioni tra il Papa, la Chiesa e il regime. Gli eventi avevano assunto una dimensione tale da mettere seriamente in crisi il sistema.

    Nel confronto personale con Giovanni Paolo II quale è stato il momento più duro?
    Il momento più difficile nei nostri rapporti fu certamente quello dell’introduzione della legge marziale. È una vicenda che merita un discorso a parte, ma posso dire che il Papa reagì in modo molto doloroso. Mi indirizzò una lettera poco dopo il 13 dicembre del 1981 in cui si riferiva criticamente a quella decisione. Si appellava affinchè fosse fatto di tutto perchè le conseguenze della legge marziale venissero ridotte al più presto. Invocava la riconciliazione e chiedeva che Solidarnosc potesse continuare la sua attività. Risposi all'inizio del gennaio 1982 con una lettera in cui spiegavo le mie motivazioni, le circostanze per cui l’introduzione della legge marziale si era rivelata necessaria. Le incomprensioni furono aggravate dal fatto che il Papa era ancora convalescente per l’attentato.

    Come valutaste l’atto di Alì Agca?
    L’attentato al Papa fu una grande tragedia per il paese perché caduto nel momento più critico, nella seconda metà del 1981, quando la situazione politica in Polonia si era aggravata, e in modo violento. Il Papa non era nel pieno della sua forza, gli mancava allora la vitalità e l’energia, era ancora convalescente e non poteva influire, almeno non nel modo in cui avrebbe potuto se fosse stato sano. Con lui si sarebbe potuto trovare un modus vivendi, ci saremmo accordati per trovare delle soluzioni che permettessero di evitare la legge marziale.

    Generale, sul campo di battaglia della storia e disposto oggi ad ammettere che c’è un vinto e un vincitore?
    La vincitrice è la Polonia, la vincitrice è l’Europa, hanno vinto i valori, che mi sembra siano la cosa più importante. Ammetto che il Papa abbia guardato più lontano e abbia visto più in profondità di me, di tutto il blocco a cui appartenevo. Dal punto di vista della competizione si puo dire che ha vinto, ma non penso che il Papa voglia svalutare la questione con queste categorie. Penso che lui la veda come l’affermazione di certi valori che propugnava, che ha immesso nella vita sociale della Polonia, e non soltanto in Polonia. E questi valori, passo dopo passo, si sono rafforzati, allargati portando grandi trasformazioni fino alla caduta del muro. Quella è stata sicuramente ciò che si può chiamare una vittoria. Ma non c’è stata capitolazione: anzi si tratta di una grande vittoria proprio perché la trasformazione si è svolta sulla base di un compromesso. E nel compromesso, per sua natura, non esistono né vincitori né vinti.

    * inviata di Sat 2000


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    Predefinito Giovanni Paolo II, alias Karol Wojtyla

    Giovanni Paolo II, alias Karol Wojtyla

    di Fabrizio Gualco - 9 gennaio 2004

    Giustamente, Pier Giorgio Riva ha scritto di recente che se non fosse stato eletto pontefice, Karol Wojtyla sarebbe diventato uno degli esponenti di spicco della cultura europea contemporanea. Di fronte a questo grande e per certi versi ineguagliabile protagonista della storia umana, ci si trova di fronte ad una persona poliedrica, la cui storia possiede una varietà di componenti estremamente affascinante.

    L'esposizione mediatica sembra avere esaltato alcune sue qualità quanto aver messo in ombra altre, meno vistose ma di certo non meno importanti. Forse non tutti sanno che Giovanni Paolo II è stato il filosofo Karol Wojtyla, autore di saggi importanti di natura metafisica, morale, antropologica. A non tutti è noto che il vicario di Cristo sulla terra è anche un intellettuale al contempo raffinato e robusto.

    Oggi, lavori filosofici da lui redatti nell'arco di tempo che va dal 1948 al 1978 -ossia dall'anno in cui Wojtyla consegue presso l'Angelicum di Roma fino all'anno della sua elezione a Papa - sono raccolti in un unico libro, corposo e prezioso, curato da Giovanni Reale in collaborazione con Tadeusz Styczen e pubblicato dalla Bompiani (Karol Wojtyla, Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, a cura di Giovanni Reale e Tadeusz Styczeń, Bompiani, Milano 2003, pp. 1665), che si affianca a quello in cui sono riuniti i suoi scritti letterari.

    Giovanni Paolo II, quindi, alias Karol Wojtyla: insieme al pellegrino globale c'è la persona che, per dirla con Pascal, ha dimostrato di saper esercitare all'interno della propria stanza la stessa fecondità dimostrata nel bel mezzo del palcoscenico mondiale. Chiamato ad essere ponte fra la Gerusalemme terrena e quella celeste, egli ha pontificato, per così dire, anche fra fede e ragione, verità e bontà, unità e bellezza.

    Cartesio, pur con buone intenzioni, fu l'iniziatore di una tendenza razionalistica potenzialmente riduttiva che si determina nel dualismo tra interiorità ed esteriorità: in riferimento diretto a tale questione, Hannah Arendt può giustamente annotare che «l'evidenza storica mostra che gli uomini moderni non furono proiettati nel mondo, ma in se stessi. Una delle tendenze della filosofia moderna a partire da Cartesio, e forse il suo più originale contributo alla filosofia, è stato un interesse esclusivo per l'io, in quanto distinto dall'anima o dalla persona o dall'uomo in generale, un tentativo di ridurre tutte le esperienze, nei confronti del mondo come di tutti gli altri esseri umani, a esperienze tra l'uomo e se stesso».

    Attraverso il dualismo fra mondo interiore e mondo esterno, Cartesio inaugura, da un certo punto di vista, una tendenza intellettuale riduttiva che nel corso dei secoli altrettanto riduttivamente incide nell'ambito dell'azione umana, ossia sul poliedrico rapporto che l'essere umano intrattiene con il reale ed il mondo in cui vive ed agisce. L'uomo viene proiettato non nel mondo, ma in se stesso. Con il risultato di perdere coscienza che l'esperienza del mondo è strettamente collegata all'esperienza di se stesso. La linea cartesiana, anche attraverso l'esercizio estremizzato del dubbio metodico da parte di alcuni - che nel corso della storia indossa non di rado le vesti della dubbiosità cronica: vedi Freud o Marcuse - può condurre in equivoco, falsare il giudizio sul reale, far credere che ciò che accomuna gli uomini non è la realtà, così come essa è, ma la struttura della loro mente, così come essa si presume che sia. La mente inizia, in tal modo, un viaggio di allontanamento nei confronti della realtà che la porterà, in casi estremi, ad imprigionarsi nelle reti astratte che essa stessa è in grado di produrre: il meccanismo razionalistico della mentalità ideologica descritto nelle parti finali de Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt rappresenta in tal senso un frutto amaro di una mente che gioca con se stessa.

    I riduzionismi razionalistici ed i loro esiti nichilistici, Wojtyla fornisce un importante contributo, finalizzato a ripristinare la dissociazione fra pensiero e realtà e re-instaurare la dignità dell'esistenza e dell'esperienza umane al livello che ad esse competono: e di conseguenza evidenzia la possibilità concreta di instaurare contatti conoscitivi che per la persona risultano essere necessari ed imprescindibili per la sua piena affermazione. Percepiamo e siamo percepiti, viviamo e siamo vissuti: ma sempre e comunque come singoli, persone in relazione fra loro, in interazione con le cose e gli eventi. Viviamo e agiamo attraverso atti ed esperienze, interiori ed esterne, che collegano le persone fra loro su più livelli.

    Per non negare noi stessi agli altri ed gli altri a noi stessi, occorre comprendere che la presenza degli altri è capace di instaurare circoli virtuosi capaci di rendere la vita, anche nelle situazioni più difficili, davvero degna di essere vissuta.

    Giovanni Paolo II alias Karol Wojtyla è un pellegrino "globale" sia in senso orizzontale, sia in senso verticale: un viandante che mai rifiuta di camminare lungo strade, siano esse materiali o immateriali, che conducono e già parzialmente partecipano del vero, del bello, del buono: un viaggiatore attivo e contemplativo al tempo stesso, capace di percorrere in lungo ed in largo il globo terreste e, al contempo, di esplorare con amore paziente l'universo della persona, decifrando di essa parte dell'inesauribile mappatura metafisica, etica e pratica che connota l'umano nella sua predisposizione al divino. Un viator, insomma, conscio del primato della persona all'interno del creato, i cui i modi di fare rispecchiano con nitore il modo di essere: ed il cui essere si rivela attraverso il fare, donando concretezza operativa alla credibilità dell'amore come relazione essenziale fra Dio, uomo, mondo.

 

 

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