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    Predefinito Le origini del comunismo italiano


    Appunti sulle origini del comunismo italiano
    di P.F.B.

    Non è un mistero per nessuno che il comunismo italiano nacque, nella sostanza, dall’incontro di due elementi fondamentali: l’ala più radicale del massimalismo socialista d’Italia e gli effetti ideologici e organizzativi internazionali (sul movimento operaio organizzato) della rivoluzione bolscevica in Russia. Elementi amalgamatisi via via nel contesto determinato dagli sconvolgimenti politici e sociali causati dalla grande guerra mondiale.
    Il primo di questi elementi, come direbbe il Togliatti, viene “da lontano” se si pensa che già nell’Italia pre-unitaria operavano delle “Società Operaie”, in origine sorte a fini “assistenziali”, ma trasformatesi via via in associazioni di tipo sindacale.
    La prima tendenza politica che conquistò una seppur temporanea egemonia politica ed ideologica sulla gran parte delle “Società Operaie” fu quella repubblicana mazziniana che prevalse, nel congresso di Firenze del 1861, sia rispetto all’ala più moderata che a quella anarchica del Cafiero.
    Il primo periodico marxista a pubblicarsi in Italia fu “LA PLEBE” di Lodi, del Bignami, che si definiva “repubblicano, razionalista, socialista” e che entrò da subito in corrispondenza con Federico Engels, distinguendosi quindi in modo sempre più chiaro sia dal “socialismo umanitario” interclassista, che dal repubblicanesimo mazziniano, che dall’anarchismo.
    Quando nel 1873 si riunirono a Ginevra due distinti congressi dell’Internazionale, la quasi totalità delle sezioni partecipò alla riunione dei “bakuninisti”. Solamente quelle di Lodi e L’Aquila aderirono al congresso dei “marxisti”.
    E’ del 1880 la fondazione della rivista “Critica Sociale” da parte di Filippo Turati.
    A Rimini fu fondato nel 1881, dall’ex leader anarchico Andrea Costa, il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna. Sempre nel 1881 a Cesena il medesimo Costa fondò anche il quotidiano socialista “Avanti!”. L’anno successivo a Milano, nacque il Partito Operaio Italiano, che riunirà tuttavia il proprio primo congresso soltanto nel 1885 su impulso di Costantino Lazzari. Mentre il partito socialista rivoluzionario romagnolo aveva un programma apertamente rivoluzionario, marxista, radicale, decisamente volto alla lotta politica, in origine il partito operaio fu, appunto, di tendenza “operaista”, definendosi come “partito economico”, agnostico nel campo della lotta elettorale e politica, genericamente “socialista”.
    Nel 1890 Antonio Labriola tenne all’università di Roma un corso sulla filosofia del “materialismo storico” contribuendo così alla diffusione, fra le avanguardie intellettuali del progressismo italiano, del pensiero di Marx ed Engels.
    Dalla confluenza dei socialisti rivoluzionari di Costa e Anna Kuliscioff e degli operaisti di Lazzari e Turati, nel frattempo maturati politicamente, fu fondato nel 1892 a Genova il Partito Socialista Italiano (in un primo momento denominato Partito dei Lavoratori Italiani, e solo dal congresso di Parma del 1895 diventato ufficialmente P.S.I.) che si separò definitivamente dal movimento libertario (il quale diede vita in quel medesimo momento e nella stessa citta’ ad un partito con lo stesso nome).
    Quello di Genova fu per molti anni, nell’estrema diversità delle interpretazioni ideologiche, l’invariato programma politico del Partito Socialista. Esso si incardinava sui “principi” ideologico-politici della lotta di classe, della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, dell’organizzazione del proletariato in partito politico indipendente.
    La genericità di questi postulati, tutti comunque discendenti dal marxismo rivoluzionario, si prestava tanto ad interpretazioni radicali che ad interpretazioni più moderate e quindi, via via, sempre più apertamente riformiste.
    Il radicalismo originario del Partito Socialista Italiano si andò progressivamente affievolendo e passata l’ondata “reazionaria” del governo del generale Pelloux e dei cannoni di Bava Beccaris contro i moti operai milanesi del finire del vecchio secolo (con il contraltare dell’assassinio anarchico del “re buono” da parte di Gaetano Bresci, il 29 luglio 1900), si volse, spente le lotte nelle piazze e l’ostruzionismo parlamentare dei deputati socialisti contro le misure “antioperaie”, inesorabilmente verso il riformismo pratico e teorico.

    Già durante il congresso di Roma, dell’8 settembre 1900, le tesi della corrente “di destra” del partito, sulla tattica elettorale, promosse da Treves, Modigliani e Prampolini prevalsero con 109 voti contro i 69 della frazione di sinistra e 2 astenuti.
    Fu a Bologna, nel 1904, che il nuovo congresso del Partito Socialista Italiano vide la dura contrapposizione fra i riformisti e la sinistra “intransigente” dominata, in quel frangente, dalla tendenza sindacalista-rivoluzionaria (“anarcosindacalista”).
    Una prima votazione vide il confrontarsi di due mozioni “estreme”, l’una di destra riformista spinta e l’altra radicale di sinistra, che ottennero quasi gli stessi voti (12.000 circa ciascuna) con un ampio fronte intermedio di 7.000 astensioni. Nella seconda votazione le mozioni a confronto furono entrambe annacquate, cercando ciascuna di conquistare i voti del “centro” che si era astenuto.
    Il Centro-Sinistra (mozione Ferri) prevalse sul Centro-Destra (mozione Rigola) per 16.304 voti contro 14.844.
    Nel 1907 i sindacalisti rivoluzionari (tra cui spiccano, tra gli altri, i nomi di Michele Bianchi e Alceste De Ambris) abbandonarono il Partito Socialista (avevano intanto fondato l’Unione Sindacale Italiana), anche se alcuni esponenti della sinistra che avevano votato e sostenuto le loro mozioni e posizioni rifiutarono la scissione (valga per tutti il nome di Costantino Lazzari). Nel 1908 i socialisti riformisti si imposero al Congresso della Confederazione Generale del Lavoro (C.G.L.).
    Senza più “fra i piedi” i sindacalisti-rivoluzionari, avendo il controllo del gruppo parlamentare socialista e della C.G.L. l’ascesa dei riformisti divenne a quel punto irresistibile.
    Infatti, nel 1908, nel corso del X congresso del Partito, riunitosi a Firenze durante il mese di settembre, Turati e Rigola giocarono a carte scoperte in favore del socialismo evoluzionista e del “sindacalismo riformista” contro le posizioni di una sinistra intransigente (Lazzari, Ratti) indebolita dalla scissione anarcosindacalista e ancora in un certo stato confusionale.
    La Destra Riformista ottenne 18.000 voti, contro i 6.000 del centro “integralista” e i 5.400 della Sinistra intransigente (O.d.G. di Serrati, Lerda e Musatti).
    Scrive Luigi Cortesi: “ I due fatti che dominarono la vita politica italiana nel 1911 – il programma del nuovo ministero Giolitti, con la promessa di un ampio suffragio maschile, e l’inizio della guerra libica – ebbero nel Partito Socialista Italiano ripercussioni di grande importanza. Le dispute interne sulla priorità degli obiettivi di lotta avevano sempre, in definitiva sacrificato il suffragio universale a riforme di meno vasta portata ma più aderenti, dal punto di vista della maggioranza, alle esigenze dei lavoratori organizzati ”. Giolitti prese in contropiede il PSI e ritenendo ormai irreversibile il processo di “assorbimento” del partito socialista italiano nello Stato Liberale, aveva addirittura offerto al riformista di destra Leonida Bissolati (costretto a rifiutare) la collaborazione diretta al governo che doveva portare verso il suffragio universale maschile.
    Nel suo discorso dell’otto aprile 1911, Giovanni Giolitti aveva annunciato che “ Carlo Marx è stato mandato in soffitta ” dai socialisti italiani, e in una coeva intervista su LA VOCE il filosofo liberale Benedetto Croce aveva teorizzato la “morte del socialismo” in quanto dottrina rivoluzionaria.
    Il Gruppo Parlamentare Socialista, dominato dai riformisti, si indusse quindi a votare a favore del gabinetto Giolitti affidando al Bissolati l’onere della dichiarazione di voto alla Camera dei Deputati.
    La Direzione del Partito approvò a maggioranza una mozione di approvazione dell’opera del Bissolati.
    A sinistra l’iniziativa degli intransigenti si manifestò con la pubblicazione di un organo di stampa che fu significativamente chiamato “La Soffitta”, sebbene non si mostrasse molto interessato al dibattito teorico in difesa del marxismo rivoluzionario quanto, piuttosto, alle battaglie politiche contro la prassi del revisionismo riformistico della destra socialista.
    Il 29 settembre 1911 l’Italia di Giolitti dichiarava guerra alla Turchia dando inizio alla conquista della Libia e inducendo il PSI di Turati a promuovere un ordine del giorno contro l’impresa coloniale, da cui si dissociarono però i riformisti “di destra” come Bissolati, De Felice, Bonomi, Cabrini e Podrecca (i cosiddetti “tripolini”).
    Anche tra i sindacalisti rivoluzionari alcuni, come Arturo Labriola, Orano e Olivetti, furono favorevoli alla guerra.
    Il successivo congresso straordinario del P.S.I. che si svolse in ottobre, fu condizionato da quella complicata situazione politica, e vide il crearsi irrimediabile della frattura fra la “destra riformista” Bissolatiana e la “sinistra riformista” Turatiana. La lotta verteva sulle questioni legate all’atteggiamento del socialismo verso la guerra coloniale e su “ministerialismo” e “ministeriabilismo”.
    In ogni modo, fu nei primi mesi del successivo anno 1912 che si venne alla resa dei conti fra le due ali del riformismo socialista italiano, tra i seguaci del Turati e quelli del Bissolati (ostinatamente contrari a passare all’Opposizione contro il governo di Giolitti, seppur disposti a prendere inziative di pressione sulla questione libica). La rottura si consumò in Parlamento sul diverso atteggiamento assunto da Turati e da Bissolati riguardo al voto sul decreto di annessione delle province d’oltremare nord-africane al Regno d’Italia e fu formalizzata dal Congresso di Reggio Emilia del luglio 1912. In quel contesto si fece luce, tra i giovani combattenti della sinistra intransigente antimilitarista e antiministerialista la figura di Benito Mussolini, che invocò a gran voce l’espulsione degli “ultrariformisti” (sollecitato dal giovanissimo Bordiga ad inserire nell’elenco dei proscritti anche il Podrecca) e denunciò il “cretinismo parlamentare” a cui la gestione riformista aveva condotto la politica del Partito Socialista, prediligendo invece, da rivoluzionario, “altre forme di lotta”. Fu così che il futuro “duce del fascismo” si guadagnò la direzione del quotidiano del Partito Socialista “Avanti!” grazie al successo delle, seppur eterogenee, posizioni della frazione della Sinistra intransigente. A Reggio Emilia la mozione “rivoluzionaria” del Mussolini si guadagnò 12.566 voti, contro i 5.633 del Reina, i 3.250 del Modiglioni e 2.027 astenuti (i bissolatiani). Gli ultrariformisti furono espulsi. Il 10 luglio 1912 detti “riformisti di destra” fondarono il Partito Socialista Riformista Italiano, eleggendosi come segretario Pompeo Ciotti.


    continua.....

  2. #2
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    Sull’organo del bolscevichi russi (la “PRAVDA” del 28 luglio 1912) Lenin così commento’ le vicende del socialismo italiano: “ Una scissione è una cosa grave e dolorosa. Ma qualche volta è necessaria e, in questi casi, ogni debolezza, ogni sentimentalismo…è un delitto. Se per la difesa dell’errore si forma un gruppo che calpesta tutte le decisioni del partito, tutta la disciplina dell’esercito proletario, la scissione è indispensabile. Il Partito Socialista Italiano, allontanando da sé i sindacalisti e i riformisti di destra, ha preso la strada giusta ”.

    Mentre l’Europa intera si stava avviando verso la tragedia della prima guerra mondiale, il congresso socialista di Ancona (aprile 1914) fu insolitamente unitario. Le schermaglie fra riformisti turatiani e la sinistra intransigente (con le sue varie componenti) non mancarono, ma furono tutto sommato assai meno acute che nel recente passato. Una vasta maggioranza trasversale si costituì intorno alla mozione di espulsione dei massoni dal PSI, così come anche intorno ad invocazioni “antimilitariste” su cui si cimentarono in diversi, sia riformisti come il Treves (che sarà presto incline al “socialpatriottismo”), che giovani intransigenti come il Ciani (che seguirà, di lì a pochi mesi, il Mussolini nella sua svolta verso l’interventismo). Ad Ancona si mise in evidenza anche un giovane socialista napoletano di origini piemontesi, leader del circolo dei “socialisti rivoluzionari” partenopei “Carlo Marx”, tal Amedeo Bordiga, che propose una lettura marxista della “questione meridionale”, inserita completamente nel contesto dello sviluppo del capitalismo italiano e della lotta di classe. Tale lettura si differenzierà nettamente tanto da quella dei “meridionalisti” riformisti, che da quella che verrà (più avanti), dall’elaborazione gramsciana (che sarà incapace di cogliere, per i bordighiani, la natura capitalistica e non feudale dell’arretratezza delle regioni meridionali d’Italia).
    Nel movimento dei giovani socialisti il Bordiga si era contrapposto, mirando ad una netta distinzione del materialismo marxista dal razionalismo illuministico borghese, alle tesi intellettualistiche e “culturiste” di un altro giovane intransigente di sinistra, tal Angelo Tasca, promotore di quell’impostazione che sarà largamente ripresa e condotta avanti dal Gramsci. La contrapposizione fra le due principali future anime del comunismo italiano delle origini era già presente, in potentia , in quel diverso approccio rispetto al ruolo della cultura e dell’educazione.
    Con la pubblicazione sull’Avanti del 18 ottobre 1914 dell’articolo dal celeberrimo titolo de “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante” si ebbe il passaggio del Mussolini a favore dell’intervento dell’Italia nella guerra mondiale, con la scelta del cosiddetto “male minore”, dell’appoggio alla causa di Francia e Inghilterra contro gli Imperi Centrali. La defezione dell’ex giovane leader della sinistra intransigente socialista si completò nei giorni seguenti con il suo isolamento negli organi direttivi socialisti, la sua rimozione dalla direzione dell’Avanti! e quindi, la sua espulsione dal PSI. Il 15 novembre 1914 uscì il primo numero del nuovo quotidiano dei “socialisti interventisti” fondato dal Mussolini: “Il Popolo d’Italia”. Per diverso tempo Mussolini continuò a definirsi socialista, richiamandosi anche alla scelta di gran parte dei partiti dell’Internazionale Socialista di appoggiare la difesa della propria Patria, sostenendo i propri rispettivi governi nello sforzo bellico.
    La maggioranza del Partito italiano oscillo’ tuttavia dal neutralismo radicale al filo-intesismo più o meno velato, e si assestò sulla parola d’ordine del “Ne’ aderire, Ne’ sabotare” (motto promosso dal vecchio Costantino Lazzari).
    Il giovane Antonio Gramsci, su il GRIDO DEL POPOLO, scimmiottò in un primo tempo, essendo come molti giovani socialisti radicali influenzato evidentemente dal Mussolini, persino nel titolo dell’articolo, lo scritto scandaloso del Mussolini che aveva provocato la defenestrazione del futuro “duce del fascismo”, mentre il Bordiga su l’Avanti del 18 agosto 1914 aveva sostenuto con il pezzo intitolato “Al nostro Posto”, gli argomenti contro la guerra e per l’internazionalismo socialista rivoluzionario.
    Il 24 maggio 1915 per i soldati italiani “Il Piave mormorò” e i socialisti che qualche giorno prima si erano riuniti a convegno, confermarono la loro opposizione alla guerra. Il Partito Socialista Riformista Italiano di Leonida Bissolati e degli “ultrariformisti tripolini” fu invece interventista e “socialpatriota”, mentre il “rinnegato” Mussolini mantenne la sua linea di “interventismo rivoluzionario”.


    continua....

  3. #3
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    Impossibilitato a riunirsi a Congresso durante quasi tutto l’intero periodo bellico, il PSI partecipo’ alle conferenze internazionali dei socialisti anti-sciovinisti di Zimmerwald e Kienthal e promosse, nel febbraio 1917 a Roma, un convegno (legale) che approvò un documento genericamente pacifista che iniziava con queste parole: “ Il Convegno Nazionale Socialista si sente sicuro interprete del proletariato italiano e mondiale nell’invocare la fine della presente e micidiale guerra, la cui continuazione è in antitesi con gli intenti e le aspirazioni delle classe lavoratrici ”e si concludeva con un appello “ a tutti i compagni e a tutti gli organi del Partito, perché contro gli allettamenti e le minacce avversarie sappiano compiere intero il loro dovere in nome della solidarietà internazionale dei lavoratori e per l’avvento immancabile del socialismo” .
    Decisamente permeata dall’impostazione marxista rivoluzionaria del Bordiga fu invece la mozione della sezione napoletana del PSI (del 18 maggio 1917) in cui si dichiarava la guerra come una “ diretta conseguenza del regime capitalistico in tutti i paesi ” riaffermando con ciò il principio della tattica internazionalista “ che non ammette sospensione della lotta di classe del proletariato contro gli istituti della borghesia in qualsiasi stato belligerante ” e aggiungendo che “ I socialisti di ogni paese devono consacrare i propri sforzi alla cessazione della guerra, incitando il proletariato a rendersi cosciente della sua forza e a provocare con la sua azione intransigente di classe l’immediata cessazione delle ostilità, tentando di volgere la crisi al conseguimento degli scopi rivoluzionari del socialismo ”. Il documento napoletano si concludeva con un’aperta insoddisfazione per il comportamento, definito incerto, insufficiente e inadeguato, della direzione nazionale del Partito Socialista Italiano, disapprovandone la linea fino ad allora perseguita.
    Il “neutralista” e “pacifista” onore dei socialisti italiani fu davvero messo a dura prova nei mesi successivi, quando la disfatta di Caporetto vide molti vecchi capi del Partito, non solo i riformisti, fortemente tentati dal “concedere una tregua” al “nemico di classe”, per consentire al Paese di resistere all’urto dello straniero. La frazione della sinistra intransigente si mobilitò per impedire la “disfatta patriottarda” del socialismo e, sostanzialmente, ci riuscì. Naturalmente i vecchi dirigenti riformisti del gruppo parlamentare socialista non si lasciarono condizionare più di tanto, e Turati accettò l’idea della “unità nazionale” e il motto di Vittorio Emanuele Orlando: “Grappa e’ la nostra Patria!”, suscitando scandalo fra la base del partito, e guadagnandosi il commosso abbraccio del Bissolati e la riprovazione della direzione del PSI, decimata frattanto dai provvedimenti dell’autorità giudiziaria contro “i sediziosi” e i disfattisti.
    A poche settimane dalla storica vittoria di Vittorio Veneto (e quindi al concludersi della grande guerra), il PSI si riunì a Congresso in Roma.
    Scrive il Bordiga: “ Repossi, vecchio sinistro, tenne il più deciso discorso per Lenin e per la dittatura proletaria (significativamente i destri avevano evitato il minimo accenno alla rivoluzione bolscevica, i cui bagliori accendevano gli entusiasmi dei congressisti) e per la messa in stato di accusa del Re e del governo […]. La tesi di estrema sinistra fu svolta dall’avvocato Salvatori, di Livorno, che deprecò che fin dall’inizio della guerra, non ci fosse stata rottura aperta fra le due ali estreme e che il partito si fosse adagiato nella formula non aderire, ne’ sabotare: * Voi – disse rivolto ai destri – dovevate aderire alla guerra; noi dovevamo sabotarla fin dal principio immediato *. ”.
    Ecco dunque incombere, sul primo dei due elementi che invocavamo al principio di questo prologo, l’ombra prepotente del secondo: la rivoluzione leninista con le sue parole d’ordine marxiste, internazionaliste, disfattiste.

    Su l’Avanti del 24 novembre 1917 fu pubblicato uno scritto del giovane Gramsci sul colpo di Stato bolscevico in Russia. L’articolo portava il titolo di “ La Rivoluzione contro il *Capitale* ”, ove con il termine capitale non si intendeva un sistema economico-sociale da abbattere e trasformare, ma proprio “Il Capitale” di Carlo Marx, la “bibbia” del “socialismo scientifico”.
    Nel testo dell’immaturo saggio il Gramsci scrive fra l’altro: “ Il Capitale di Marx era in Russia il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell’azione esplicita, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato. Eppure c’è una fatalità anche in questi avvenimenti, e se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del CAPITALE, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono “marxisti”, ecco tutto; non hanno compilato sull’opera del maestro una dottrina esteriore, di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche. ”.
    In realtà questa interpretazione al contempo intelligente ma anche un poco ingenua e idealistica della rivoluzione d’ottobre non tiene conto della natura della formazione ideologica del partito bolscevico e di Lenin in particolare, e la visione strategica che questi aveva dei compiti del proletariato russo nel contesto della lotta di classe internazionale nell’epoca “dell’imperialismo e delle guerre imperialistiche”.
    La rivoluzione bolscevica fu concepita dai suoi artefici come “la rottura dell’anello più debole” della catena imperialistica, come “inizio della rivoluzione socialista mondiale”, come unica via di completamento dei compiti borghesi della rivoluzione russa, data la sterilità della borghesia e il contesto mondiale generato dalla grande guerra, su cui necessariamente si innestavano già ineludibili compiti “socialisti”. Questa impostazione era intesa da Lenin e Trotzky come perfettamente marxista, anzi l’unica posizione conseguentemente e radicalmente marxista che potesse permettere al proletariato russo di svolgere il suo ruolo di propulsore del movimento mondiale.


    ............continua................

  4. #4
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    La fine “ingloriosa” della Seconda Internazionale Socialista, con il trionfo del “socialpatriottismo” (il celebre “tradimento socialsciovinista”, secondo la definizione leniniana) fece inoltre dei bolscevichi i sostenitori più radicali e infaticabili della lotta per una Terza Internazionale conseguentemente marxista rivoluzionaria, anti-imperialista, sostenitrice della trasformazione della guerra imperialista in guerra di classe per la dittatura rivoluzionaria del proletariato, tendenzialmente su scala mondiale.
    Dopo la rivoluzione d’ottobre, per Lenin e seguaci, la necessità e l’urgenza di una “Terza Internazionale” del proletariato rivoluzionario diventeranno palesi nella misura in cui assurgeranno al ruolo di uno degli strumenti fondamentali della lotta politica del potere bolscevico per espandersi su scala mondiale, difendendosi così dai nemici interni ed esterni.
    La radicalizzazione delle lotte sociali negli ex paesi belligeranti, determinata dalle contraddizioni immani del dopoguerra e dalle devastazioni (anche morali) causate dal conflitto, si alimentò con “l’esempio” proveniente dalla Russia bolscevica, la sua carica ideologica internazionalista ed eversiva. Gli echi della rivoluzione d’ottobre investiranno, a diversi gradi, il movimento socialista europeo e mondiale, e influenzeranno in modo progressivamente sempre più evidente anche la frazione di sinistra del socialismo italiano.
    Diversamente dal Gramsci, in un articolo su L’Avanti del 25 maggio 1918, Amadeo Bordiga individuava nelle “direttiva della rivoluzione russa”, l’espressione del più conseguente “marxismo rivoluzionario”. Il Bordiga vide nella politica pragmatica del governo dei soviet (che aveva portato la Russia bolscevica a piegarsi alle pretese tedesche con la dolorosa pace di Brest Livstok) una necessità strettamente connessa al “principio storico internazionalista e zimmerwaldista”. Così su “L’Avanguardia” del 26 maggio 1918 il medesimo Bordiga si faceva apertamente sostenitore della fondazione di una nuova Internazionale. L’articolo si concludeva con queste significative parole: “ I fondamenti positivi su cui dovrà basarsi la nuova Internazionale [..]così ci proviamo a riassumerli: DOTTRINA: interpretazione marxista della storia e della società; PROGRAMMA: conquista violenta del potere ed esercizio di esso per attuare la socializzazione dei mezzi di produzione; METODO: azione politica intransigente di classe con disciplina collettiva. . Gli elementi ideologici fondamentali del comunismo italiano delle origini erano già tutti presenti in queste affermazioni.

    Nel marzo 1919 a Mosca fu fondata la “Terza Internazionale Comunista”. Nel suo brevissimo discorso di chiusura del primo congresso mondiale, Lenin arditamente dichiarò: “ La vittoria del proletariato in tutto il mondo è assicurata. Si approssima la fondazione della repubblica sovietica internazionale ”.

    Sull’onda del “dopoguerra rosso”, il Partito Socialista Italiano aveva aderito a questa nuova organizzazione rivoluzionaria internazionale, sebbene al proprio interno vi fossero ancora diverse e distinte tendenze, tra le quali resisteva un’importante e influente minoranza riformista, guidata da Filippo Turati. I bolscevichi russi, che ricordavano ancora l’espulsione della destra riformista di Bissolati e dei “tripolini” nel 1912, non avevano piena consapevolezza, in quel momento, che nel PSI l’influenza del riformismo era ancora tutt’altro che trascurabile, soprattutto nella direzione del sindacato, nel gruppo parlamentare, nel movimento cooperativistico e anche in parte della stampa socialista.

    L’adesione all’Internazionale di Lenin fu del resto criticata aspramente dai riformisti come “illegittima e intempestiva” (Treves); frattanto il 15 aprile del 1919 la sede de “L’Avanti” di Milano era stata assaltata e incendiata dagli arditi in camicia nera e dai nazionalisti, inducendo il Mussolini a parlare apertamente, su “Il Popolo d’Italia” (ormai quotidiano dei “fasci di combattimento”) di “ primo episodio della guerra civile ” fra la nazione e l’antinazione.

    Se i riformisti speravano in una trasformazione democratica delle relazioni internazionali che permettesse lo sviluppo di una via intermedia fra il comunismo bolscevico e il capitalismo imperialistico, non tutti gli “intransigenti di sinistra”, tutt’altro, erano dei marxisti rivoluzionari conseguenti, e il loro “comunismo” appariva spesso improvvisato, confuso, qualche volta decisamente “parolaio”.
    Le tendenze più conseguentemente rivoluzionarie erano quelle raccolte intorno ad Amadeo Bordiga e al giornale “Il Soviet” di Napoli, ad Antonio Gramsci e al gruppo de “L’Ordine Nuovo” di Torino, e anche al gruppo rivoluzionario milanese di Fortichiari e Repossi. Fra gli altri dirigenti della sinistra socialista massimalista, si distinguevano soprattutto, oltre al vecchio Lazzari, anche il Serrati e il Bombacci.
    L’intransigenza rivoluzionaria spinse presto il Bordiga a propugnare la scelta astensionista alle tornate elettorali, ciò che costituirà motivo di contrasto con la tattica di Lenin e della maggioranza della Terza Internazionale sull’utilizzo dei parlamenti borghesi come “tribune rivoluzionarie” da parte dei comunisti (nel quadro della tattica della “combinazione del lavoro legale con quello illegale” promossa dai bolscevichi sulla base della propria esperienza). Nonostante le notevoli differenze con le correnti “comuniste di sinistra” di Germania, Olanda, Regno Unito, quella bordighiana fu associata da Lenin e Trotzky alla medesima “malattia infantile” del “sinistrismo” (o estremismo). Tuttavia il Bordiga era, a differenza degli altri “sinistri”, un sostenitore del ruolo del Partito, della sua disciplina e dittatura, del lavoro nei sindacati e, per certi versi, era semmai il Gramsci (con la sua concezione dei “Consigli di Fabbrica” come “contropotere” operaio) ad avere punti in comune con talune correnti “sinistroidi” come il tribunismo consigliare. Il Gramsci era però tatticamente assai più predisposto dei “comunisti di sinistra” consigliari (e dello stesso Bordiga) ad assimilare il “tatticismo” leniniano. Infatti, il comunista sardo, con i suoi compagni de “L’Ordine Nuovo”, fu contrario da subito all’opzione astensionista e ne contrastò le istanze nello stesso socialismo di sinistra torinese.
    Nel clima del pieno “dopoguerra rosso” e della “questione fiumana” si tenne, nell’ottobre 1919 a Bologna, il nuovo congresso del Partito Socialista Italiano (al momento membro della Terza Internazionale Comunista). Scrive Luigi Cortesi che “ Le vicende del socialismo internazionale dominavano la mente dei congressisti, un grande ritratto di Liebknecht campeggiava nella sala del Teatro comunale gremita di delegati e vecchi e nuovi militanti; grandi evviva alla Russia rivoluzionaria e a Lenin accolsero il presidente provvisorio Bacci allorché costui aprì i lavori. Fu letta una lettera del comitato centrale del partito russo, firmata da Bucharin, nella quale si ringraziavano i socialisti italiani per il loro sciopero del 20-21 luglio e si ripeteva la richiesta di un aiuto dei compagni stranieri, resa più drammatica dalla caduta degli esperimenti rivoluzionari sovietici nell’Europa centrale. ”. Contrastando la marea di rivoluzionari intransigenti e massimalisti “parolai” il capo dei riformisti Filippo Turati dichiarò che “ Il massimalismo è il nullismo, la corrente reazionaria del socialismo ”, rivoltando addosso ai propri avversari l’accusa di uccidere lo spirito del socialismo e l’iniziativa politica del proletariato.


    ..........continua............

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    Il Bordiga, nel suo intervento, oltre a sostenere la propria posizione astensionista e a proporre le tesi del comunismo rivoluzionario, avanzò a gran voce la richiesta di epurazione del partito dai riformisti, mentre da parte sua il Serrati propose ed ottenne la ratifica per acclamazione dell’adesione del PSI alla Terza Internazionale Comunista.
    Alle votazioni si presentarono alla fine tre distinte mozioni.
    La mozione “massimalista” del Serrati, sulla quale confluirono anche i comunisti “elezionisti”, ottenne infine 48.966 voti, quella “centrista” del vecchio Lazzari, (sulla quale erano ripiegati anche i riformisti) ne prese 14.935, quella dei comunisti “astensionisti” del Bordiga se ne guadagnò solamente 3.359.
    Alle successive elezioni politiche il PSI, con oltre 1.800.000 voti, pari a quasi il 30% delle preferenze espresse dagli elettori italiani, si confermò il primo partito politico della nazione. Il Partito Socialista si era presentato agli elettori ostentando come simbolo “lo stemma della Repubblica russa dei Soviet”, secondo il volere della nuova Direzione politica, che aveva scelto Nicola Bombacci come proprio segretario.
    Nel luglio del 1920 si riunì a Mosca il Secondo Congresso della Terza Internazionale Comunista che stabilì la condizioni di ammissione dei partiti nazionali alla medesima, intendendo con ciò respingere la minaccia “ di un’invasione di gruppi oscillanti e irresoluti, che non si sono ancora sbarazzati dell’ideologia della II Internazionale ” e affrontare la questione di “ alcuni grandi partiti (l’italiano e lo svedese), nei quali la maggioranza accetta i principi del comunismo ” ma che hanno ancora al loro interno “ un’ala riformista e socialpacifista considerevole che aspetta solo l’occasione per rialzare la testa, per iniziare un attivo sabotaggio della rivoluzione proletaria e, in questo modo, aiutare la borghesia e la II Internazionale ”.
    Le condizioni di ammissione sancivano infatti l’obbligo, per tutti i partiti membri della III Internazionale o che volevano aderirvi, di “ allontanare metodicamente i riformisti e i *centristi* da qualsiasi posto che comporti una qualche responsabilità nel movimento operaio (tesi n* 2) e di “ riconoscere la necessità di una rottura completa e definitiva con il riformismo e con la politica del *Centro* e svolgere la propaganda per questa rottura fra gli iscritti al partito (tesi n*7). La quindicesima condizione sanciva l’obbligo per tutti i partiti terzointernazionalisti b] “ di sostenere le Repubbliche Sovietiche nella loro lotta contro le forze controrivoluzionarie [/b], e la diciottesima condizione imponeva loro il dovere di portare il nome di Partito Comunista, affermando che “ la questione del nome non è soltanto una questione formale, ma ha una grande importanza politica ” infatti “ L’Internazionale Comunista muove una lotta decisiva contro tutti i partiti socialdemocratici gialli . La diciannovesima condizione invitava tutti i partiti a convocare un loro proprio congresso straordinario per ratificare detti principi e doveri imprescindibili e la ventunesima recitava che “ quei membri del partito che respingeranno le condizioni e le tesi formulate dall’Internazionale Comunista debbono essere esclusi dal partito ”.
    Intervenendo dalla tribuna congressuale sulle Condizioni di Ammissione, il 30 luglio 1920, Lenin polemizzò duramente con il Serrati affermando che il discorso tenuto da questi, in difesa dell’unità del Partito Socialista Italiano e del suo stesso nome ..:” è di quelli che si sentivano anche nella II Internazionale . “ Con asprezza Lenin concluse la sua requisitoria contro i massimalisti del PSI, rappresentati appunto dal Serrati. Le parole di Lenin contenevano una non tanto velata minaccia e un invito che aveva il tono dell’ordine: “ [i] la tendenza riformista non ha niente in comune con il comunismo. Vi preghiamo, compagni italiani, di convocare il vostro congresso e di leggervi le nostre tesi. Sono certo che gli operai italiani vorranno restare nell’Internazionale Comunista” [i].
    Lenin, che in precedenza (nel suo opuscolo “L’estremismo, malattia infantile del comunismo”) aveva respinto l’astensionismo del Bordiga, lodando però di quest’ultimo la sua decisa richiesta di epurare il partito dai riformisti, dimostrò di approvare, fra i lavori dei socialisti italiani di sinistra che aveva potuto leggere, il programma della sezione del PSI torinese, pubblicato dalla rivista gramsciana “L’Ordine Nuovo”.
    Bordiga, che in commissione ripropose, insieme ad altri “sinistri”, le proprie tesi astensioniste, venne sconfitto con 80 voti contro 11.
    Nonostante le tirate d’orecchie di Lenin, il Serrati venne eletto membro del Comitato Esecutivo dell’Internazionale.
    Scrive Paolo Spriano che “ Il II Congresso è stato considerato, quasi unanimemente, non soltanto il primo vero Congresso del Komintern, ma quello che ha l’importanza storica maggiore, una sorta di Manifesto Generale del Comunismo. Ne’ è ancora data a vedere una contraddizione tra il suo impegno universalistico e le contigenze della prevalenza russa (di Stato oltrechè di movimento operaio). Piuttosto è facile vedere come le delegazioni straniere non rappresentino nessun partito comunista di massa: o si tratta di grandi partiti come l’italiano e il francese che comunisti non sono ancora, oppure di partiti ristretti come il tedesco, o ancor più l’inglese, o l’americano, il cinese, il norvegese e altri. Le *Ventun Condizioni* (..) raccogliendo il significato politico e teorico dei lavori congressuali, e dell’egemonia bolscevica, rispecchiano appunto questa esigenza: di suscitare la creazione di Partiti Comunisti dell’Occidente che si ispirino alle tesi approvate e al modello rappresentato dall’esperienza rivoluzionaria russa, con tutta quella vocazione didascalica e quel rigore di principio che ne sono le componenti essenziali: disciplina, organizzazione ferrea e centralizzata, azione portata tra le masse, i contadini, tra i sindacati, nell’esercito. “.
    Nel settembre 1920 le lotte sociali in Italia raggiunsero l’apice con l’occupazione delle fabbriche, rispetto alla quale apparve palese ai bolscevichi russi “l’impotenza rivoluzionaria” del PSI e del sindacato italiano (egemonizzato dai riformisti) e l’assenza, nella stessa sinistra rivoluzionaria, di una leadership marxista all’altezza. Fatto sta che il moto rientrò senza che assumesse una direzione concretamente rivoluzionaria.
    Il 15 ottobre 1920 le varie tendenze comuniste della sinistra socialista, astensioniste ed elezioniste, confluiscono per fondare la Frazione Comunista del Partito Socialista Italiano.

    ....continua...

  6. #6
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    Alla fine di novembre si svolse ad Imola la Conferenza Generale della Frazione Comunista. Scrive Luigi Cortesi: “ Il Bordiga illustrò la mozione da presentarsi al congresso nazionale, che alla fine risultò approvata all’unanimità. Essa confermava l’adesione del Partito italiano all’Internazionale, impegnandolo a conformarsi alle condizioni approvate a Mosca; proponeva un programma che modificava quello di Bologna; stabiliva il mutamento del nome del partito; affermava la incompatibilità della presenza nel PCd’I dei riformisti della Concentrazione e di tutti coloro che avessero dato voto contrario al programma comunista e all’osservanza delle *21 Condizioni*; ribadiva i criteri tattici e i compiti elencati nel manifesto-programma dell’Ottobre ”.
    Nel frattempo il Serrati scrisse a Zinoviev, a nome della sua frazione massimalista, chiedendogli un incontro diretto per giungere ad un chiarimento sulla posizione dei suoi “comunisti unitari” (ossia coloro che non intendevano espellere i riformisti e accettare in toto le 21 condizioni), ribadendo che nessuno di loro voleva uscire dalla Terza Internazionale. Il segretario del Komintern si dichiarò disponibile all’incontro. Tuttavia, il 20 dicembre 1920 lo stesso Zinov’ev pose i “comunisti unitari” innanzi all’alternativa secca di scegliere fra l’unità con i riformisti e quella con la frazione comunista conseguente (e quindi con la Terza Internazionale di Mosca). Zinoviev era ottimista e pensava così di indurre Serrati e i suoi a passare senza ulteriori indugi con Bordiga e Gramsci, rompendo con Turati e i “socialtraditori” del riformismo.
    Il 15 gennaio 1921 si aprì a Livorno, al teatro “Goldoni”, il XVII Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano. Contrariamente alle speranze dei bolscevichi, apparve ormai chiaro che Serrati e i suoi massimalisti della frazione dei “comunisti unitari” non intendevano adeguarsi alle direttive di Mosca e soprattutto respingevano l’idea di buttare fuori dal partito Turati, Treves e i riformisti. Durante il congresso, ogni tentativo di mediazione fra i massimalisti serratiani e i comunisti risultò vano e apparve immediatamente chiaro che “gli unitari” preferivano, tutto sommato, la compagnia dei riformisti, con i quali condividevano l’idea della impossibilità concreta di una rivoluzione proletaria in Italia sul modello “soviettista”.
    Per i riformisti l’impossibilità era assoluta, definitiva, e anche gradita mentre per gli unitari era contingente, ma questa differenza ideologica non risultò decisiva. Quando il delegato della Terza Internazionale ribadì, infine, che chi non accettava le condizioni di Mosca doveva ritenersi fuori, gli unitari risposero in coro che non intendevano prestare ubbidienza al “legato pontificio” inviato dal “Vaticano” di Mosca, rivendicando la loro autonomia.
    Alla fine la mozione dei “comunisti unitari” di Serrati ottenne 98.028 voti, contro i 14.695 della mozione riformista e i 58.783 della mozione comunista.
    Annunciati questi risultati, il Bordiga dichiarò a nome della Frazione Comunista che la maggioranza del Congresso del PSI si era posta “fuori dall’Internazionale Comunista”, e annunciò la fondazione del Partito Comunista d’Italia che si sarebbe tenuta il giorno stesso, al teatro San Marco di Livorno, da parte dei delegati comunisti che abbandonavano pertanto il partito socialista e il suo congresso. Al “San Marco” Bruno Fortichiari lesse i 10 punti delle tesi di fondazione del Partito Comunista – sezione italiana della Terza Internazionale. Il punto 3 del programma della nuova organizzazione rivoluzionaria recitava: “ Il proletariato non può ne’ infrangere, ne’ modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione, da cui deriva il suo sfruttamento, senza l’abbattimento violento del potere borghese ” e il punto 6: “ Dopo l’abbattimento del potere borghese, il proletariato non può organizzarsi in classe dominante che con la distruzione dell’apparato statale borghese con la instaurazione dello Stato basato sulla sola classe produttiva ed escludendo da ogni diritto la classe borghese. ”. Venivano infine ribaditi i principi leninisti della dittatura rivoluzionaria del proletariato e della successiva “estinzione dello Stato”.
    Il comitato esecutivo del Partito Comunista d’Italia fu composto da Amadeo Bordiga, Umberto Terracini, Bruno Fortichiari, Luigi Repossi e Ruggero Grieco, mentre del comitato centrale facevano parte, fra gli altri, anche Antonio Gramsci, Nicola Bombacci, Luigi Polano, Ludovico Tarsia. Il Togliatti non figurava fra i componenti dei massimi organi direttivi.
    Fu così che anche l’Italia si trovò ad avere il suo Partito Comunista, parte integrante del movimento comunista internazionale guidato dai bolscevichi russi.



    ....continua......

  7. #7
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    Il Partito Comunista d’Italia, sezione della Terza Internazionale Comunista, nacque a Livorno nel gennaio 1921 su impulso della sinistra rivoluzionaria intransigente del partito socialista, mentre l’onda lunga del dopoguerra rosso stava ormai refluendo e la rivoluzione bolscevica, dal canto suo, stava vincendo la lunga e sanguinosa guerra civile. Fondando il Partito Comunista, i rivoluzionari marxisti italiani adempivano alle 21 condizioni del Secondo Congresso dell’Internazionale di Mosca per l’adesione e/o la permanenza dei partiti nel movimento mondiale guidato dai comunisti russi. Le forze della sinistra socialista che non se la sentirono di adeguarsi, e preferirono rimanere unite alla destra riformista, piuttosto che seguire gli intransigenti nel nuovo partito, rappresentavano la maggioranza massimalista del socialismo italiano, e non mancheranno di rimarcare la loro contrarietà all’esclusione dalla Terza Internazionale e la loro ammirazione per la rivoluzione russa e i suoi artefici.
    Mentre l’ondata fascista, alla cui testa c’erano diversi ex rivoluzionari di sinistra, socialisti o anarcosindacalisti (primo fra tutti quel Benito Mussolini che aveva stravinto il congresso del PSI del 1912, facendosi promotore della cacciata dei riformisti “tripolini” di Bissolati) divampava in modo sempre più violento e chiassoso, le sinistre marxiste italiane si dividevano e si combattevano accanitamente.
    Lenin aveva spinto i comunisti italiani verso la scissione, in una fase in cui i bolscevichi erano ancora relativamente ottimisti circa la possibilità di una rapida estensione internazionale del processo rivoluzionario, con la Germania e l’Italia fra le prime candidate a raccogliere il testimone dell’insurrezione vittoriosa e della costituzione di repubbliche sovietiche in grado di soccorrere la russia arretrata e affamata. Ci si aspettava anche che nel movimento socialista italiano, alla fine, il prestigio della rivoluzione russa e dei suoi condottieri prevalesse sui distinguo fra le correnti massimaliste e intransigenti, e assicurasse al nuovo partito comunista la maggioranza dei consensi rispetto al vecchio PSI. Il Secondo Congresso della Terza Internazionale dell’estate 1920 aveva visto, infatti, concentrati gli sforzi dei massimi capi bolscevichi contro il riformismo socialdemocratico e lo “spirito della seconda internazionale”, denunciando anche il “centrismo intermedistico” dei massimalisti, che oscillavano fra il riformismo e il comunismo e assumevano posizioni verbali radicali accanto a politiche concrete relativamente moderate e comunque inconcludenti. Certo, durante il secondo congresso mondiale, Lenin aveva anche sviluppato le critiche all’infantilismo di sinistra (secondo le linee che aveva elaborato poco prima ne “L’Estremismo, malattia infantile del comunismo”), preoccupandosi di contrastare un altro genere di rivoluzionarismo parolaio, quello del sinistrismo estremistico “semi-anarchico”, improduttivo sul piano tattico in quanto legato a parole d’ordine astrattamente rivoluzionarie, intese per di più in modo rigido e slegato dalla realtà concreta delle dinamiche sociali e delle lotte di classe. Il tutto era, nella strategia internazionale di Lenin, finalizzato ad accelerare la formazione di partiti comunisti maturi e in grado di influenzare fortemente le grandi masse operaie e semiproletarie, e quindi di porsi alla testa, rapidamente e vigorosamente, di percorsi rivoluzionari assolutamente urgenti per la visione che i massimi dirigenti bolscevichi avevano dello sviluppo della loro medesima rivoluzione.
    Alla testa del partito comunista d’Italia si trovarono tuttavia, in maggioranza, degli esponenti della sinistra marxista intransigente che si distinguevano per molti aspetti dal “semi-anarchismo” del “comunismo di sinistra” presente nell’Internazionale, così come da Lenin descritto e denunciato, ma per altri versi ne ricalcavano alcuni evidenti “vizi”, e comunque dimostravano di avere una visione della relazione fra principi rivoluzionari e tattica politica concreta piuttosto diversa dal manovrismo pragmatico di Lenin, Zinoviev e dello stesso Trotzky.

    Amadeo Bordiga, giovane ingegnere napoletano di origini piemontesi, fu il primo vero leader del Partito Comunista italiano, il più convinto artefice della scissione di Livorno (e della rottura con riformisti e “centristi”), un intransigente teorico marxista lontano da ogni concezione evoluzionistica della (e…nella) teoria socialista e convinto della stretta dipendenza della tattica politica dai presupposti teorici e dottrinali della “scienza” del materialismo storico. Per Bordiga la preservazione della purezza del “programma comunista” doveva guidare tutta la politica del Partito rivoluzionario, e le manovre tattiche erano da utilizzarsi con estrema moderazione e circospezione, essendo ogni attuazione concreta della linea politica necessariamente volta al perseguimento dello scopo finale rivoluzionario e necessariamente coerente con questo ultimo.
    I maggiori dirigenti del partito comunista russo (bolscevico), se avevano in comune con il Bordiga l’intransigenza ideologica e la concezione del marxismo come “scienza” della rivoluzione, conservavano una visione politica più duttile, pragmatica e disponibile alla manovra.

    ..............continua................

  8. #8
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    La concezione del partito di Lenin faceva, sin dal 1902, della tattica-piano dei “rivoluzionari di professione” (ossia la strategia rivoluzionaria) uno strumento volto in primo luogo all’elevazione della coscienza politica socialista delle masse attraverso la lotta politica a tutto campo. Uno strumento prezioso che non era legato semplicemente alla mera enunciazione e diffusione del programma comunista e dei principi marxisti, ma alla denuncia politica quotidiana “di tutte le ingiustizie” del sistema politico e sociale “qualunque ne fosse la classe colpita”. Per i bolscevichi le grandi masse non si conquistavano alla rivoluzione che dimostrando nella pratica, nella lotta giorno per giorno per la difesa dei propri interessi, che i comunisti erano gli unici in grado di indicare gli strumenti e gli obiettivi giusti e che pertanto erano in grado di guidarli al loro raggiungimento in modo coerente. In quanto dimostratisi sul campo avanguardia di lotta e forza organizzativa affidabile, i comunisti potevano conquistarsi la fiducia di larghi strati del mondo del lavoro e del “popolo sfruttato”.
    Per questo Lenin trovava inaccettabile “l’antiparlamentarismo” astensionistico proposto dal Bordiga (pur condividendo la stessa idea del Bordiga sulla natura e ruolo dei “parlamenti borghesi” in regime di democrazia capitalistica). Per Lenin era essenzialmente nella prassi, partecipando alla vita parlamentare e utilizzando il parlamento come “tribuna rivoluzionaria” che si dimostrava alle masse operaie che detto strumento appartiene a pieno titolo al “nemico di classe” e che non può essere positivamente utilizzato dai comunisti per migliorare le condizioni di vita e lavoro della classe lavoratrice e per trasformare la società in senso socialista.
    Combattendo il “cretinismo parlamentare” dei riformisti e dei “centristi” Lenin non rinunciava ad utilizzare il parlamento nel quadro della “combinazione del lavoro legale con quello illegale” proprio della strategia rivoluzionaria di un partito comunista maturo, volto alla conquista della “maggioranza della classe operaia” per dirigerla verso l’abbattimento violento dello “Stato borghese” e all’instaurazione della cosiddetta “dittatura rivoluzionaria del proletariato”.
    Quando nel 1921 nacque il PCd’I sotto la stella di Bordiga, la Terza Internazionale si stava allontanando dal suo secondo congresso e avvicinando al terzo, ed iniziavano a venire al pettine i problemi del ritardo della rivoluzione in occidente e della inconcludenza, immaturità e mancanza di influenza effettiva sulle grandi masse dei partiti comunisti europei. L’offensiva contro “la destra” del movimento operaio e socialista lanciata dai bolscevichi al secondo congresso mondiale appariva una necessità che andava in qualche modo completata con una più chiara lotta contro il “sinistrismo”, non senza una sostanziale correzione della tattica internazionale. Le seguenti parole del dirigente bolscevico Karl Radek illustrano lo stato d’animo dei sovietici in questa fase: “ Il cammino della rivoluzione europea e mondiale sarà più lungo, e sotto certi aspetti, più arduo della nostra rivoluzione. La vittoria sulla borghesia e sull’ideologia riformista sarà più difficile di quanto non sia stata la nostra. Per cui la lotta esige metodi di cui noi non avemmo bisogno. ”.
    Replicando, nell’estate del 1921, durante il terzo congresso mondiale del Komintern ad Umberto Terracini, intervenuto in rappresentanza del partito italiano, Lenin si scaglierà contro “gli errori” e “le sciocchezze di sinistra” con una durezza ponderata piena di invettive e sarcasmo. Questo dopo che qualche giorno prima lo stesso Lenin aveva duramente respinto le argomentazioni del vecchio Costantino Lazzari, in rappresentanza della sinistra massimalista rimasta nel PSI.
    Contro Terracini Lenin enunciò il principio che non era immaginabile vincere in occidente se i partiti comunisti non lavoravano per assicurarsi alla propria causa la “maggioranza della classe operaia e dei lavoratori” e mostrò un’evidente irritazione ricordando che “ Le nostre tesi, proposte dalla delegazione russa, sono studiate e preparate nel modo più scrupoloso e sono il risultato di lunghe riflessioni e riunioni con molte delegazioni. Esse hanno per scopo di stabilire la linea fondamentale dell’Internazionale Comunista e sono necessarie soprattutto ora che abbiamo condannato i veri centristi, non solo, ma li abbiamo anche espulsi dal partito. ”.

    Nelle sue conclusioni Lenin fu esplicito nel ricordare che dopo aver battuto i centristi si trattava di affrontare le “sciocchezze” dei “sinistri”. Per Lenin gli emendamenti di Terracini, appoggiati da tre delegazioni erano il segno che non tutto andava per il meglio nel Komintern,e ciò autorizzava i sovietici a preoccuparsi, visto che i comunisti occidentali “ dovrebbero imparare a condurre una lotta effettivamente rivoluzionaria” , adempiendo al loro compito internazionalista.
    L’ottimismo relativo del II congresso era ormai superato, l’Armata Rossa era stata fermata alle porte di Varsavia e costretta a ripiegare dai polacchi, senza che la classe operaia di quel paese si fosse sollevata per solidarietà con la Repubblica sovietica. La rivoluzione ungherese era fallita.


    ...............continua..................

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    Allo stesso modo con il quale, sul fronte interno, Lenin aveva promosso la “ritirata strategica” della N.E.P. (nuova politica economica) per salvare la rivoluzione russa, così sul fronte esterno cercava di dare un nuovo impulso al movimento comunista mondiale affinché maturasse, crescesse e recuperasse il grave ritardo accumulato. Il problema del ritardo della rivoluzione in occidente con le sue ripercussioni sulla Russia sovietica e la sua politica diventerà centrale nel dibattito del Komintern e del partito bolscevico, tanto da indurre poi quei processi di revisione profonda della teoria e delle aspettative comuniste sovietiche che costituiranno il nucleo ideologico dello stalinismo (nel suo differenziarsi dalle altre correnti del partito) e quindi del cosiddetto “secondo bolscevismo”.
    Durante l’esecutivo allargato della Terza Internazionale del febbraio/marzo 1922, tuttavia, il “primo bolscevismo” era ancora in sella, e il capo formale del Komintern, il russo Zinoviev fu esplicito a proposito della linea politica alla base della nuova tattica del “Fronte Unico”:
    La tattica dell’Internazionale Comunista è orientata alla rivoluzione universale. E’ la tattica del Partito Comunista Mondiale che prepara la dittatura del proletariato in tutti i paesi. Il partito operaio ha vinto in Russia. La Russia rappresenta un sesto della superficie terrestre. Già per questa ragione, la rivoluzione russa ha un’enorme importanza per la rivoluzione mondiale; ancor meglio, ne è parte integrante. Il Partito Comunista Internazionale non può disinteressarsi della situazione in versa la rivoluzione proletaria nel paese dove ha riportato la vittoria. Così, se l’Armata della Russia dei Soviet avesse preso Varsavia nel 1920, la tattica dell’Internazionale Comunista sarebbe ora diversa. Ma ciò non è avvenuto. Dopo la sconfitta strategica, abbiamo avuto un riflesso politico dell’interno movimento operaio. Il Partito proletario di Russia è stato costretto a fare maggiori concessioni ai contadini e, fino ad un certo punto, anche alla borghesia. Questo fatto ha frenato lo sviluppo della rivoluzione proletaria, ma anche, inversamente: le disfatte patite dai proletari dei paesi occidentali tra il 1919 e il 1921 hanno, per parte loro, influito sulla politica del primo Stato proletario e rallentato la marcia della rivoluzione in Russia. Siamo dunque di fronte ad un duplice effetto. Le difficoltà del governo russo dei Soviet hanno il loro contraccolpo in tutti gli altri Partiti e quelle della lotta generale per l’emancipazione della classe operaia influiscono necessariamente sul complesso della sua politica. .
    Le svolte tattiche che i bolscevichi imposero all’Internazionale Comunista erano pertanto esplicitamente messe in relazione con i problemi posti alla Russia Sovietica dal ritardo della rivoluzione in occidente, ritardo che era ritenuto correlato alla incapacità dei comunisti occidentali di assumere la guida delle lotte di classe conducendole alla trascrescenza in rivoluzione socialista.
    I partiti comunisti, nella visione dei bolscevichi, erano sorti troppo tardi, erano immaturi, deboli, afflitti prima da esitazioni nel rompere con il “centrismo” e poi in modo sempre più esplicito da “infantilismi” di sinistra.
    I comunisti italiani, dominati dal “sinistrismo” bordighista, che era in questa fase portato avanti anche da “ordinovisti” come appunto il Terracini (e in certa misura dallo stesso Gramsci), si guardavano bene dal mettere in discussione Lenin e i bolscevichi, dai quali dissentivano, a loro modo di vedere, solo per applicazioni tattiche degli identici e comuni principi programmatici e teorici. Non così altre formazioni del “comunismo di sinistra” internazionale, che mettevano ormai apertamente in discussione l’autorità di Mosca e si spingevano ad analisi della rivoluzione d’ottobre che poneva in evidenza la sua oggettiva natura “borghese-giacobina”.
    Sul piano pratico però, il partito bolscevico si trovava nella necessità di condurre a fondo la lotta contro la “sinistra comunista” nel suo insieme, anche perché posizioni simili si erano diffuse largamente all’interno dello stesso partito comunista russo, con le frazioni dissidenti del cosiddetto “Centralismo Democratico” e della “Opposizione Operaia”. Proprio nel 1921 la direzione bolscevica era pervenuta alla decisione di sciogliere le frazioni organizzate all’interno del partito e di vietarne la costituzione e si era cimentata in una dura battaglia politica e ideologica contro le predette correnti dissidenti. E ancora nel 1921 la rivolta dei marinai rossi di Kronstandt contro la “dittatura comunista sul proletariato” con la parola d’ordine de “I soviet senza i bolscevichi”, aveva fatto affermare a Lenin e Trotzky che la controrivoluzione aveva ormai la capacità di indossare i panni del “sinistrismo” e appropriarsi di parole d’ordine ultracomuniste, ultrarivoluzionarie, “semi-anarchiche” dietro le quali vi erano almeno oggettivamente, secondo la mentalità tipica del totalitarismo rosso, le “guardie bianche” della reazione capitalistica e l’imperialismo straniero.

    Non è neppure da sottovalutare il fatto, che contestualmente a questi problemi, la Russia sovietica come Stato, in gravi difficoltà economiche, fortemente arretrata sotto molti aspetti, abbisognava di instaurare, in attesa della rivoluzione mondiale, relazioni commerciali con paesi capitalistici. Aveva bisogno più che mai delle tecnologia prodotta dal capitalismo.....e di tanti beni necessari a sfamare un popolo stremato. I partiti comunisti dovevano fare pressioni sui loro governi per indurli a commerciare con la Russia di Lenin, a riconoscerla diplomaticamente, a inviare aiuti agli affamati, a evitare qualsiasi intenzione aggressiva. La disciplina nell'Internazionale doveva essere restaurata anche per questo.

    .....continua......

  10. #10
    Cavaliere d'oro
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    Un pò lunghetto (forse meriterebbe una sintesi), ma interessante...
    Quando le armi saranno fuorilegge, solo i fuorilegge avranno le armi

 

 
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