«Nulla anteporre all’amore di Cristo»

«Nihil amori Christi praeponere». Questa ripetuta indicazione della Regola lega papa Benedetto XVI al santo patrono d’Europa. Un articolo dell’abate del monastero di Santa Scolastica di Subiaco



di dom Mauro Meacci


«Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo… Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce, a ritornare e a fondare, a Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo. Così Benedetto, come Abramo, diventò padre di molti popoli». Quando il cardinale Joseph Ratzinger il 1° aprile 2005, a Subiaco, terminava con queste parole la sua prolusione “L’Europa nella crisi delle culture”, nessuno poteva immaginare quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
Il giorno dopo moriva l’amatissimo papa Giovanni Paolo II e dopo pochi altri giorni, il 19 aprile, il cardinale Ratzinger veniva eletto Vescovo di Roma e quindi supremo pastore della Chiesa cattolica assumendo il nome di Benedetto XVI.
Con questo nome il Papa si ricollegava al predecessore Benedetto XV, impegnato nella difesa della pace e nell’evangelizzazione di tutto il mondo e, in modo tutto particolare, a san Benedetto, legislatore del monachesimo occidentale e patrono d’Europa. La devozione personale e la condivisione di quella profonda spiritualità espressa dalla ripetuta citazione del capitolo 4, 21 della Regola – «Nihil amori Christi praeponere» – legano il Santo Padre al santo di Norcia.
Tutto questo ha fatto nascere in molti il desiderio di conoscere un po’ meglio la figura e l’opera di san Benedetto, figura tanto esaltata quanto poco frequentata per l’apparente distanza che la separa dalla vita comune e per la lontananza cronologica da noi.
Di san Benedetto sappiamo quello che ci dice nel Secondo Libro dei Dialoghi il papa Gregorio I Magno (590-604) e possediamo un solo scritto autografo, la Regula monachorum.
Benedetto nacque intorno al 480 a Norcia. Dopo un periodo di studi a Roma si ritirò a Subiaco ove visse per circa tre anni come eremita in una grotta presso il monastero del monaco Romano. Intorno al 500 iniziò a raccogliere discepoli fondando, a partire dai ruderi della Villa neroniana, tredici monasteri di dodici monaci ognuno, riuniti intorno a un abate, secondo il modello apostolico. Varie vicende e una nuova visione della vita monastica come unica famiglia intorno a un solo abate lo porteranno nel 529 a lasciare Subiaco per dirigersi a Montecassino ove fonderà quella “Città sul monte” di cui tutta la tradizione monastica va fiera. Là, il 21 marzo 547, mentre pregava in piedi sorretto da due discepoli, morì.
Oggi san Benedetto è conosciuto come patrono d’Europa, eppure a ben vedere ci sono aspetti della sua vicenda personale e degli intenti della sua opera che potrebbero rendere difficile cogliere la congruità di questo patronato.
Infatti quando san Benedetto nacque, l’Impero romano d’Occidente era da poco scomparso e l’Europa romanizzata era divisa in numerosi potentati locali in guerra con la parte latina e spesso anche tra di loro. Occorrerà attendere l’VIII-IX secolo per incontrare di nuovo il progetto di qualcosa che si richiamasse a una unità territoriale “europea”.
Inoltre san Benedetto ha vissuto tutta la sua vita in una regione piuttosto ristretta intorno a Roma e, benché avesse relazioni con persone importanti del tempo, non risulta che abbia viaggiato o conosciuto altri contesti culturali.
Infine, lo scopo dell’istituzione che san Benedetto concepì mirava a favorire non un rilancio dell’antica cultura o un rinnovato slancio missionario della Chiesa in mezzo alle tribù barbariche, sforzi tentati da coeve realtà monastiche, ma la ricerca di Dio come unico scopo della vita. “Quaerere Deum”, questo è l’ideale che san Benedetto propone al fratello che domanda di entrare in monastero, e per favorire questa ricerca egli organizza la comunità attorno alla lettura meditativa delle Sacre Scritture, alla preghiera e a quell’insieme di attività che permettono la vita pratica e lo sviluppo delle relazioni di carità fraterna.
Dov’è l’Europa in tutto questo? Dov’è quel programma riuscito di integrazione tra romanità e mondo germanico e slavo?
Da nessuna parte come consapevolezza, in ogni sua parte come premessa e radice.
La ricerca seria di Dio suppone, per il monaco cristiano, la conoscenza di quegli insostituibili documenti della fede che sono le Sacre Scritture. Nell’armarium della sagrestia, nucleo delle biblioteche monastiche, si conservano oltre ai codici liturgici anche quelli contenenti la Bibbia e i principali commentari dei Padri della Chiesa. Ben presto la necessità di una migliore comprensione del testo sacro spingerà i monaci ad approfondire anche quelle conoscenze grammaticali e sintattiche che solo dallo studio degli autori classici e delle loro metodiche di interpretazione potevano mutuare. Tutto questo portò a quel mirabile fenomeno della conservazione della cultura antica di cui ancora si attribuisce il merito al monachesimo. Spesso però si dimentica come nel fervore del dibattito che avveniva nelle scuole monastiche si sviluppò una teologia peculiare, che padre Jean Leclercq chiamerà «sapienziale», erede della grande tradizione patristica e fortemente modellata dalla prassi della lectio divina, ove lo scopo del nutrimento spirituale avrà sempre la meglio rispetto all’accademia speculativo-scientifica.
La verità colta nella meditazione della sacra pagina ben presto rifulse nella creazione artistica la più varia e originale. I trascrittori dei codici liturgici e biblici presero l’uso di ornare i testi di splendide miniature, vere pause meditative ed esplicative. Così gli architetti delle basiliche e delle chiese monastiche trovarono modo di utilizzare i più svariati espedienti per riproporre la stessa verità evangelica. Che cosa sono certi capitelli romanici se non vere e proprie meditazioni della Parola fatte col mezzo della pietra? Che cosa sono i grandi cicli di affreschi delle chiese se non modi per mettere tutti nelle condizioni di avvicinare il testo sacro e per questo giustamente definiti Biblia pauperum? Che cosa è il canto gregoriano se non l’espressione riuscita di una meditazione musicata delle Sacre Scritture?
Tutto questo, ripreso e rilanciato dalla corte carolingia per opera di Alcuino e di san Benedetto di Aniane, diverrà, a partire dalla fine dell’VIII secolo e in maniera più convinta e sistematica nei primi decenni del IX secolo, patrimonio di tutti e, nello sforzo di dare unità culturale al rinnovato Impero, humus della rinascente cultura europea. I castelli, le cattedrali e le centinaia di monasteri diffusi ormai anche al di là del Reno e della Vistola diventeranno gli avamposti e i centri nodali di quella esaltante stagione storica che, malgrado le ombre del X secolo, darà i suoi frutti migliori nella grande fioritura del medioevo.
Anche le esigenze della vita comunitaria fecero sviluppare o affinare alcune categorie che saranno fondamentali per l’integrazione dei popoli nuovi con la classicità e per la loro crescita umana.
In primo luogo la concezione del tempo e dello spazio. Alle nuove genti per lo più nomadi, use a vivere sotto il cielo e nell’orizzonte di una terra da percorrere con le frecce e a cavallo, i monasteri offrivano l’esempio di una vita comunitaria in cui le varie occupazioni – la preghiera, lo studio, il lavoro, la refezione, la discussione, il riposo, ecc. – avvenivano nei tempi fissati e nei luoghi deputati. Non si potrà mai calcolare fino in fondo la forza civilizzatrice ed educatrice di questa operosa regolarità che dai monasteri si diffonderà ovunque con i rintocchi severi della campana che chiama alle varie occupazioni: «Perché l’ozio è nemico dell’anima».
San Benedetto ammonisce l’abate a ricordarsi sempre che deve guidare non dei forti o dei perfetti, ma delle persone deboli e peccatrici. Nasce di qui la preoccupazione di esser attento alle esigenze di ognuno e, pur nel dovere di orientare tutti secondo la Regola, di non farla tuttavia diventare un ostacolo per nessuno. Sarebbe lungo elencare i numerosissimi casi in cui la dialettica tra osservanza letterale e legittima eccezione si risolve, a giudizio dell’abate, nella scelta della soluzione più attenta al bisogno concreto del singolo o della comunità. In questo modo, pur nel rispetto della paternità dell’abate, espressione della paternità divina, il monaco si coglie come persona portatrice di una propria dignità inalienabile, con precisi diritti e doveri derivanti dalla legge divina e riconosciuti dalla Regola. Sicuramente il cammino verso la moderna concezione della persona e dei giusti rapporti con l’autorità è ancora lungo e dovrà passare attraverso vicende storiche dolorose; tuttavia vi è qui una base fondamentale perché siamo tutti figli di un unico Padre e siamo tutti fratelli in Cristo pur nell’espletamento di ruoli comunitari diversi.

Infine, come non ricordare la nuova dignità che la Regola dona al lavoro manuale? Sappiamo come nell’antichità fossero ritenute degne dell’uomo libero solo le attività relative al governo e quelle intellettuali e, presso i popoli nuovi, quelle della guerra. A fronte di questa mentalità i monasteri, spesso composti da monaci provenienti dal patriziato antico o dalla nobiltà nuova, offrivano la testimonianza di un lavoro manuale assunto come disciplina e come strumento di adattamento della realtà circostante alle esigenze della comunità, secondo il principio: «Ognuno viva del proprio lavoro». Anche in questo campo, secondo le complesse contingenze storiche che man mano si offriranno, la famiglia benedettina fornirà apporti fondamentali per il Medioevo europeo.
Da questi cenni è possibile comprendere come il farsi dell’Europa è inscindibilmente connesso con la forza irradiante e strutturante dell’intuizione spirituale di san Benedetto. Una convincente concretizzazione della fede evangelica che, quasi naturalmente, diviene cultura e lievito di scelte sociali che, ci si permetta l’espressione forse un po’ ardita, lasceranno intravedere dall’XI al XIII secolo – l’epoca di Cluny e di Cîteaux – il sogno realizzato di un’Europa civilizzata e unificata nel nome del Cristo.
Per concludere, vorrei tornare a quell’espressione che il Santo Padre ama ripetere: «Nihil amori Christi praeponere». Come già detto, questa frase, ma preferirei dire questo programma di vita, si trova nella Regola di san Benedetto che, a sua volta, la mutua dal celebre commento al Padre nostro di san Cipriano, vescovo di Cartagine e martire. Essa fonde la spiritualità dei martiri con quella dei monaci. Credo che il nostro tempo sia sensibile come pochi altri al fascino di questo messaggio. Quando il papa Giovanni Paolo II additava a tutti la sfida a ricercare e vivere una santità alta, invitava a percorrere i sentieri della verità e del coraggio, proprio come i monaci e come i martiri.
Come i monaci di ogni tempo, anche noi dobbiamo ricercare con fiducia e tenacia la verità, senza stancarci o impaurirci di percorrere in tutta la loro complessità i sentieri della cultura moderna, talvolta frammentati o interrotti ma sempre carichi di umanità, «per ducatum Evangelii».
E una volta che essa ci abbia sorpreso e avvinto, non dobbiamo aver timore o affanno nel proporla e nel testimoniarla. Lo faremo infatti non per affermare una nostra convinzione ma per documentare l’esistenza di un amore che tutti ci precede, tutti ci sostiene, tutti ci attende, imitando così le comunità monastiche medievali che, prossime alle grandi città o sperdute in mezzo alle foreste, collocate all’interno di contesti cristiani o sparse in lande pagane ostili o indifferenti, mantenevano il loro “passo” fatto di preghiera, di studio, di lavoro e di amore in attesa che…


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