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Discussione: Card. BIFFI

  1. #1
    torquemada
    Ospite

    Predefinito Card. BIFFI

    Pericolo Anticristo! Il cardinale Biffi dà la sveglia alla Chiesa
    L’arcivescovo emerito di Bologna rilegge il celebre racconto del filosofo russo Vladimir Solovev e lo applica al cristianesimo d’oggi. Bersaglio collaterale: il cardinale Martini

    di Sandro Magister





    ROMA, 3 giugno 2005 – Il cardinale Giacomo Biffi, 77 anni, arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2003, teologo e grande studioso di sant’Ambrogio, ha raccolto in un volume pubblicato in questi giorni da Cantagalli alcuni suoi scritti non strettamente teologici.

    Titolo del volume: “Pinocchio, Peppone, l’Anticristo e altre divagazioni”.

    L’Anticristo di cui dice il titolo è quello tratteggiato dal filosofo e teologo russo Vladimir Sergeevic Solovev nel suo ultimo libro scritto poco prima della morte nel 1900: “I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo”.

    Perché il cardinale Biffi vuole riproporlo oggi all’attenzione di tutti? Perché – scrive – “Soloviev preannunziò con antiveggente lucidità la grande crisi che ha colpito il cristianesimo negli ultimi decenni del Novecento”.

    Nella figura dell’Anticristo descritto da Solovev, infatti, Biffi ravvisa “l’emblema della religiosità confusa ed ambigua del tempo che oggi stiamo vivendo”. Vede delineati e criticati il “cristianesimo dei valori”, l’enfatizzazione delle “aperture”, l’ossessione del “dialogo” a qualunque prezzo, “dove pare che resti poco della persona unica e inconfrontabile del Figlio di Dio crocifisso per noi, risorto, oggi vivo. È la situazione che don Divo Barsotti ha denunciato con una frase tremenda e tremendamente vera, quando ha detto che ai nostri giorni nel mondo cattolico Gesù Cristo troppo spesso è solo una scusa per parlare d’altro”.

    Nel racconto di Solovev, l’Anticristo viene prima eletto presidente degli Stati Uniti d’Europa, poi è acclamato imperatore a Roma, si impadronisce del mondo intero, e alla fine si impone anche alla vita e all’organizzazione delle Chiese. Ma non è tanto su questa vicenda che il cardinale Biffi richiama l’attenzione, quanto sulle caratteristiche del personaggio. Ecco qui di seguito – in alcuni passi del suo saggio che comunque esige di essere letto per intero – come il cardinale le riassume e come trae da esse una lezione per la Chiesa d’oggi:


    Verranno giorni, e anzi sono già venuti...

    di Giacomo Biffi


    L’Anticristo era – dice Solovev – “un convinto spiritualista”. Credeva nel bene e perfino in Dio. Era un asceta, uno studioso, un filantropo. Dava “altissime dimostrazioni di moderazione, di disinteresse e di attiva beneficenza”.

    Nella sua prima giovinezza si era segnalato come dotto e acuto esegeta: una sua voluminosa opera di critica biblica gli aveva propiziato una laurea ad honorem da partre dell’università di Tubinga.

    Ma il libro che gli aveva procurato fama e consenso universali porta il titolo: “La via aperta verso la pace e la prosperità universale”, dove “si uniscono il nobile rispetto per le tradizioni e i simboli antichi con un vasto e audace radicalismo di esigenze e direttive sociali e politiche, una sconfinata libertà di pensiero con la più profonda comprensione di tutto ciò che è mistico, l’assoluto individualismo con un’ardente dedizione al bene comune, il più elevato idealismo in fatto di principi direttivi con la precisione completa e la vitalità delle soluzioni pratiche”.

    È vero che alcuni uomini di fede si domandavano perché non vi fosse nominato nemmeno una volta il nome di Cristo; ma altri ribattevano: “Dal momento che il contenuto del libro è permeato dal vero spirito cristiano, dall’amore attivo e dalla benevolenza universale, che volete di più?”. D’altronde egli “non aveva per Cristo un’ostilità di principio”. Anzi ne apprezzava la retta intenzione e l’altissimo insegnamento.

    Tre cose di Gesù, però, gli riuscivano inaccettabili.

    Prima di tutto le sue preoccupazioni morali. “Il Cristo – affermava – col suo moralismo ha diviso gli uomini secondo il bene e il male, mentre io li unirò coi benefici che sono ugualmente necessari ai buoni e ai cattivi”.

    Poi non gli andava “la sua assoluta unicità”. Egli è uno dei tanti; o meglio – diceva – è stato il mio precursore, perché il salvatore perfetto e definitivo sono io, che ho purificato il suo messaggio da ciò che è inaccettabile all’uomo d’oggi.

    Infine, e soprattutto, non poteva sopportare il fatto che Cristo sia vivo, tanto che istericamente ripeteva: “Lui non è tra i vivi e non lo sarà mai. Non è risorto, non è risorto, non è risorto. È marcito, è marcito nel sepolcro...”.

    Ma dove l’esposizione di Solovev si dimostra particolarmente originale e sorprendente – e merita la più approfondita riflessione – è nell’attribuzione all’Anticristo delle qualifiche di pacifista, di ecologista, di ecumenista. [...]

    In questa descrizione dell’Anticristo Solovev ha avuto presente qualche bersaglio concreto? È innegabile che alluda soprattutto al “nuovo cristianesimo” di cui in quegli anni si faceva efficace banditore Lev Tolstoj. [...]

    Nel suo “Vangelo” Tolstoj riduce tutto il cristianesimo alle cinque regole di comportamento che egli desume dal Discorso della Montagna:

    1. Non solo non devi uccidere, ma non devi neanche adirarti contro il tuo fratello.

    2. Non devi cedere alla sensualità, al punto che non devi desiderare neanche la tua propria moglie.

    3. Non devi mai vincolarti con giuramento.

    4. Non devi resistere al male, ma devi applicare fino in fondo e in ogni caso il principio della non-violenza.

    5. Ama, aiuta, servi il tuo nemico.

    Questi precetti, secondo Tolstoj, vengono bensì da Cristo, ma per essere validi non hanno affatto bisogno dell’esistenza attuale del Figlio del Dio vivente. [...]

    Certo Solovev non identifica materialmente il grande romanziere con la figura dell’Anticristo. Ma ha intuito con straordinaria chiaroveggenza che proprio il tolstojsmo sarebbe diventato lungo il secolo XX il veicolo dello svuotamento sostanziale del messaggio evangelico, sotto la formale esaltazione di un’etica e di un amore per l’umanità che si presentano come “valori” cristiani. [...]

    Verranno giorni, ci dice Solovev – e anzi sono già venuti, diciamo noi – quando nella cristianità si tenderà a dissolvere il fatto salvifico, che non può essere accolto se non nell’atto difficile, coraggioso, concreto e razionale della fede, in una serie di “valori” facilmente smerciabili sui mercati mondani.

    Da questo pericolo – ci avvisa il più grande dei filosofi russi – noi dobbiamo guardarci. Anche se un cristianesimo tolstojano ci rendesse infinitamente più accettabili nei salotti, nelle aggregazioni sociali e politiche, nelle trasmissioni televisive, non possiamo e non dobbiamo rinunciare al cristianesimo di Gesù Cristo, il cristianesimo che ha al suo centro lo scandalo della croce e la realtà sconvolgente della risurrezione del Signore.

    Gesù Cristo, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, unico salvatore dell’uomo, non è traducibile in una serie di buoni progetti e di buone ispirazioni, omologabili con la mentalità mondana dominante. Gesù Cristo è una “pietra”, come egli ha detto di sé. Su questa “pietra” o si costruisce (affidandosi) o ci si va a inzuccare (contrapponendosi): “Chi cadrà su questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà” (Mt 21, 44). [...]

    È stato dunque, quello di Solovev, un magistero profetico e al tempo stesso un magistero largamente inascoltato. Noi però vogliamo riproporlo, nella speranza che la cristianità finalmente si senta interpellata e vi presti un po’ di attenzione.

    __________


    Il Discorso della Montagna secondo Martini. E secondo Ratzinger


    Il saggio del cardinale Giacolo Biffi sopra citato – scritto in prima stesura nel 1991 e rivisto nel 2005 – esce proprio mentre in Italia un’omelia del cardinale Carlo Maria Martini ha acceso una discussione ad esso in qualche modo attinente.

    Di Martini, arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002, oggi tornato ai suoi studi biblici a Gerusalemme, Biffi è stato vescovo ausiliare, prima di diventare arcivescovo di Bologna.

    L’omelia divenuta oggetto di discussione è quella pronunciata da Martini l’8 maggio scorso nel Duomo di Milano, in occasione del XXV anniversario della sua ordinazione episcopale.

    In essa, commentando il comando di Gesù: "Ammaestrate tutte le nazioni", Martini ha spiegato che esso significa “insegnare a osservare tutto ciò che il Signore ha comandato. E tutto ciò che ha comandato, in Matteo, è il Discorso della Montagna, o ancora, Matteo 25: ‘Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me’”.

    Dopo di che, Martini ha così proseguito:

    “È questo che dobbiamo insegnare a osservare ed è molto importante tale discorso oggi. Io lo avverto vivendo in un luogo di particolare sofferenza, dove vengono al pettine i nodi dell’umanità, a Gerusalemme, in Medio Oriente. Abbiamo tutti un immenso bisogno di imparare a vivere insieme come diversi, rispettandoci, non distruggendoci a vicenda, non ghettizzandoci, non disprezzandoci e neanche soltanto tollerandoci, perché sarebbe troppo poco la tolleranza. Ma nemmeno – direi – tentando subito la conversione, perché questa parola in certe situazioni e popoli suscita muri invalicabili. Piuttosto ‘fermentandoci’ a vicenda in maniera che ciascuno sia portato a raggiungere più profondamente la propria autenticità, la propria verità di fronte al mistero di Dio.

    “A questo scopo non c’è mezzo più concreto, più accessibile, delle parole di Gesù nel Discorso della Montagna. Parole che nessuno può rifiutare perché ci parlano di gioia, di beatitudine, ci parlano di perdono, ci parlano di lealtà, ci parlano di rifiuto dell’ambizione, ci parlano di moderazione del desiderio di guadagno, ci parlano di coerenza nel nostro agire (‘sia il vostro parlare sì, sì; no, no’), ci parlano di sincerità. Queste parole, dette con la forza di Gesù, toccano ogni cuore, ogni religione, ogni credenza, ogni non credenza. Nessuno può dire: ‘Non sono parole per me: la sincerità non è per me, la lealtà non è per me, il lottare contro la prevaricazione sui beni di questo mondo non è per me…’. È un discorso per tutti, che accomuna tutti, che richiama tutti alle proprie autenticità profonde, ed è quel discorso che ci permetterà di vivere insieme da diversi rispettandoci, non ghettizzandoci, non distruggendoci, nemmeno tenendo le dovute distanze, ma ‘fermentandoci’ a vicenda.

    “Allora, se faremo così, tutti gli uomini si riconosceranno in tali valori, si sentiranno più vicini, più compagni e compagne di cammino, sentiranno di avere in comune delle realtà profonde e vere, delle realtà che forse non avrebbero saputo scoprire senza le parole di Gesù. Allora, al di là di differenze etniche, sociali, addirittura religiose e confessionali, l’umanità troverà una sua capacità di vivere insieme, di crescere nella pace, di vincere la violenza e il terrorismo, di superare le differenze reciproche. Sarà allora pienamente manifesto il messaggio della grazia di Dio”.

    Questa omelia del cardinale Martini è stata rilanciata l’indomani, 9 maggio, in prima pagina, dal principale quotidiano italiano, il “Corriere della Sera”, come un “manifesto” alternativo alla linea “neoconservatrice” impersonata da papa Joseph Ratzinger.

    E in effetti, che tra Ratzinger e Martini gli accenti siano diversi, è fuori dubbio.

    Domenica 29 maggio, nell’omelia nella messa del Corpus Domini, a Bari, Benedetto XVI ha così commentato le parole di Gesù: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita" (Gv 6,53), parole che avevano suscitato sconcerto tra i discepoli:

    “Di fronte al mormorio di protesta, Gesù avrebbe potuto ripiegare su parole rassicuranti: ‘Amici – avrebbe potuto dire – non preoccupatevi! Ho parlato di carne, ma si tratta soltanto di un simbolo, ciò che intendo è solo una profonda comunione di sentimenti’. Ma no, Gesù non ha fatto ricorso a simili addolcimenti. Ha mantenuto ferma la propria affermazione, tutto il suo realismo, anche di fronte alla defezione di molti suoi discepoli (Gv 6,66). Anzi, egli si è dimostrato disposto ad accettare persino la defezione degli stessi suoi apostoli, pur di non mutare in nulla la concretezza del suo discorso: ‘Forse anche voi volete andarvene?’ (Gv 6,67), ha domandato. Grazie a Dio, Pietro ha dato una risposta che anche noi, oggi, con piena consapevolezza facciamo nostra: ‘Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna’ (Gv 6,68)”.

    Quanto al Discorso della Montagna, in un suo libro pubblicato la prima volta nel 1989, “Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità”, Ratzinger scrive:

    “Per afferrare la vera profondità delle Beatitudini dobbiamo porre in luce un aspetto che nell’esegesi moderna viene poco considerato, ma che è a mio parere decisivo per una realistica interpretazione del Discorso della Montagna nel suo insieme. Intendo la dimensione cristologica di questo testo. [...] Il soggetto segreto del Discorso della Montagna è Gesù. Il Discorso della Montagna non è un moralismo esagerato e irreale, che allora perde ogni rapporto concreto con la nostra vita e appare nell’insieme impraticabile. E non è neppure – come ritiene l’ipotesi opposta – semplicemente uno specchio in cui si vede che tutti sono e restano peccatori in tutto, e che possono giungere a salvezza solo per una grazia incondizionata. Con questa opposizione di moralismo e di pura teoria della grazia non si penetra nel testo ma lo si allontana da sé. Cristo è il centro che unisce le due cose, e soltanto la scoperta di Cristo nel testo lo apre per noi e lo fa diventare una parola di speranza. Se andiamo al fondo delle Beatitudini, ovunque appare il soggetto segreto Gesù. Egli è colui in cui si vede ciò che significa ‘essere poveri nello Spirito Santo’. Egli è l’afflitto, il mite, colui che ha fame e sete di giustizia, il misericordioso. Egli ha il cuore puro, è colui che porta pace, il perseguitato per causa della giustizia. Tutte le parole del Discorso della Montagna sono carne e sangue in lui. Il Discorso della Montagna è chiamata all’imitazione di Gesù Cristo. Egli soltanto è ‘perfetto come è perfetto il Padre nostro che è nei cieli’ (Mt 5, 48). Non possiamo da noi essere ‘perfetti come il Padre nostro che è nei cieli’, ma lo dobbiamo per corrispondere al compito della nostra natura. Noi non lo possiamo, ma possiamo seguire Gesù, aderire a lui, ‘diventare suoi’. Se noi apparteniamo a lui come sue membra, allora diventiamo per partecipazione ciò che egli è; la sua bontà diventa la nostra. Le parole del Padre nella parabola del figliol prodigo si realizzano in noi: tutto ciò che è mio è tuo (Lc 15, 31). Il moralismo del discorso, troppo arduo per noi, viene raccolto e trasformato nella comunione con Gesù, nell’essere discepoli di Gesù, nell’amicizia con lui, nella fiducia in lui”.

    __________


    Il nuovo libro del cardinale Giacomo Biffi da cui è tratto il passo sull’Anticristo:

    Giacomo Biffi, “Pinocchio, Peppone, l’Anticristo e altre divagazioni”, > Cantagalli, Siena, 2005, pp. 256, euro 14,90.

    Nel Nuovo Testamento l’Anticristo è evocato in tre passi.

    Prima lettera di Giovanni 4, 3: "Ogni spirito che non riconosce Gesù non è da Dio. Questo è lo spirito dell'Anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo".

    Seconda lettera di Giovanni 1, 7: "Molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l'Anticristo!".

    Seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi 2, 3-5: "Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà venire l'apostasia e dovrà esser rivelato l'uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s'innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose?".

  2. #2
    torquemada
    Ospite

    Predefinito

    OMELIA DEL CARDINALE CARLO MARIA MARTINI
    PER IL XV ANNIVERSARIO DI EPISCOPATO

    Solennità dell’Ascensione
    Milano-Duomo, 8 maggio 2005

    Desidero anzitutto esprimere la mia più viva gratitudine a Sua Eminenza Reverendissima l’Arcivescovo Cardinale Dionigi Tettamanzi per l’invito a celebrare, addirittura a presiedere, questa Eucaristia in occasione del mio 25° di episcopato. Come egli ha ricordato sono stato ordinato Vescovo da Giovanni Paolo II il 6 gennaio 1980. L’Arcivescovo Dionigi avrebbe voluto che celebrassi la ricorrenza nel suo giorno proprio e lo ringrazio per tanta premura. Ma, trovandomi a Gerusalemme, l’ho pregato di lasciare che vivessi il mio anniversario nell’ambiente più riservato e raccolto della santa città, rimandando ad oggi la celebrazione festosa in Diocesi. Lo ringrazio di cuore per tutta la sua accondiscendenza e bontà e per le molte parole benevole dette e scritte nei miei confronti in tale circostanza. Vedo in lui la mansuetudine di Mosè e la facondia di Aronne che guidano questo popolo verso il cammino della terra promessa e ne ringrazio il Signore.

    Ringrazio di cuore tutti voi che siete qui, a partire dalle autorità che ci onorano con la loro presenza, le saluto cordialmente una per una. Ringrazio poi tutti i Vescovi, in particolare mi rallegro molto di vedere il Vescovo ausiliare di Gerusalemme, mia città di elezione. Ringrazio tutti i Vicari episcopali, i membri del Capitolo, l’Arciprete del Duomo, i decani, i presbiteri, i diaconi, i religiosi, le religiose, i membri dei Consigli pastorali e tutti voi che rappresentate l’intero popolo di Dio ambrosiano.

    Sono grato che vi uniate al mio ringraziamento perché, come dice san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: «Per il favore divino ottenuto da molte persone siano rese grazie per noi da parte di molti» (2Cor 1,11). Molti favori divini ho ottenuto grazie alla vostra intercessione, e per questi molti favori divini chiedo la vostra collaborazione nella gratitudine, nel canto del Magnificat a Dio, nel ringraziamento a Dio per intercessione di Maria.

    Ma qual è realmente la grazia per la quale noi cantiamo oggi il Magnificat, entrando nei sentimenti di gratitudine di Maria? Non mi pare sia semplicemente il dono dell’episcopato, che rimane ancora un dono esteriore, che si può anche lasciare – per così dire – arrugginire o non utilizzare ampiamente. Non è nemmeno il dono meraviglioso di questo splendido popolo ambrosiano, da cui ho avuto tantissimo, assai più di quanto non abbia saputo dare; si tratta certamente di una grazia immensa, eppure ancora un po’ informe. Mi pare che il ringraziamento a Dio sia soprattutto per quel motivo che Paolo ricorda nel capitolo 20 degli Atti degli Apostoli, perché mi è stato dato in qualche modo, pur con molti difetti, con molte manchevolezze, con molte fragilità, «di rendere testimonianza al messaggio della tenerezza di Dio». Questo è il motivo per cui ringraziamo il Signore: ci è stato concesso di «rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio».

    Quando si rende questa testimonianza a Dio, a Lui soltanto, allora anche un granello di senapa pesa quanto una montagna e un piccolo sforzo viene valorizzato come una grande cosa. Dice la Madonna: «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente». E commenta Karl Barth: «Il Signore fa sempre grandi cose per coloro che ama, anche se sono piccole cose in sé».

    Sono dunque grato a te o Signore, Dio Padre nostro, misterioso Iddio, inconoscibile e grande, immenso, eterno, infinito, perché hai dato la possibilità a me, povero e debole, di rendere testimonianza alla forza della tua Parola, e in particolare di rendere qualche testimonianza alla forza di questa Parola nella Scrittura, nelle Scritture Sacre del Primo e del Nuovo Testamento.

    E anche oggi, per non perdere questa abitudine, vorrei rendere grazie a partire dalla Parola di Dio che abbiamo ascoltato, dalle tre letture tratte dal libro degli Atti degli Apostoli, dalla Lettera di Paolo agli Efesini e poi dal capitolo ultimo del Vangelo secondo Matteo.

    Innanzitutto la prima lettura. Di questa io ritengo, anche per brevità, soltanto le ultime parole, là dove si dice: «Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo». Queste parole mi dicono molto, perché dalla mia finestra di Gerusalemme io vedo il Monte degli Ulivi e intravedo il luogo tradizionale della Ascensione, segnato da un piccolo minareto. E sento come di là mi risuonino dentro queste parole: «Gesù tornerà, tornerà, a quel modo in cui l’avete visto andare in cielo». Allora mi sorge nel cuore la preghiera: vieni, Signore Gesù, ritorna a visitarci. Signore Gesù, noi amiamo, attendiamo la tua manifestazione, desideriamo che venga il tuo regno, che siano saziate la nostra fame e sete di giustizia, che si compia la tua volontà in pienezza. Fa’ che cerchiamo anzitutto, come ci hai insegnato nel Discorso della montagna, il regno di Dio e la sua giustizia. Chiedo la grazia che questo regno venga, e non semplicemente che venga quasi impercettibilmente nella storia, ma che venga nella sua manifestazione totale e definitiva, là dove tutto sarà chiaro, tutto apparirà trasparente. E’ a partire da quel momento culminante in cui la storia sarà giudicata da Dio, che noi siamo invitati a leggere la nostra piccola storia di ogni giorno. Il Signore viene, il Signore verrà, per rendere a ciascuno secondo le sue opere.

    Si dice giustamente che nel mondo c’è molto relativismo, che tutte le cose sono prese quasi valessero come tutte le altre, ma c’è pure un “relativismo cristiano”, che è il leggere tutte le cose in relazione al momento nel quale la storia sarà palesemente giudicata. E allora appariranno le opere degli uomini nel loro vero valore, il Signore sarà giudice dei cuori, ciascuno avrà la sua lode da Dio, non saremo più soltanto in ascolto degli applausi e dei fischi, delle approvazioni o delle disapprovazioni, sarà il Signore a darci il criterio ultimo, definitivo delle realtà di questo mondo. Si compirà il giudizio sulla storia, si vedrà chi aveva ragione, tante cose si chiariranno, si illumineranno, si pacificheranno anche per coloro che in questa storia ancora soffrono, ancora sono avvolti nell’oscurità, ancora non capiscono il senso di ciò che sta loro accadendo.

    Il Signore verrà e io lo vedo ogni mattina, perché il sole sorge proprio dal Monte degli Ulivi e col sorgere del sole sento la certezza del venire del Signore per giudicare fino in fondo la nostra vita e renderla trasparente, luminosa, oppure per purificarla là dove essa necessita di purificazione.
    Ecco dunque l’ammonimento che ricavo dalla prima lettura: tutta la storia sarà giudicata da Dio. La storia non è un processo infinito che si avvolge su se stesso senza senso e senza sbocco; è qualche cosa che Dio stesso raccoglierà, giudicherà, peserà con la bilancia del suo amore e della sua misericordia, ma anche della sua giustizia.Noi abbiamo bisogno in questa storia del dono del discernimento, per prevenire in qualche modo, per sintonizzarci con il giudizio di Dio sulla storia umana, sulle vicende che si svolgono attorno a noi e soprattutto sulle vicende che si svolgono nel nostro cuore. Nella seconda lettura si insiste sul dono del discernimento che tanto spesso ho chiesto per me e per voi in tutti questi anni, pregando il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, che vi desse uno “Spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui”.

    Certo è bello aver visto, come ho visto anch’ io un mese fa, le folle, milioni di persone rendere testimonianza alla salma di Giovanni Paolo II, aspettando magari dieci ore per poter vedere per mezzo minuto quest’uomo che è stato, giustamente, esaltato nella sua morte come padre spirituale dell’umanità, come guida spirituale del mondo intero. In un mondo globalizzato ci voleva un padre spirituale che dicesse parole capaci di commuovere tutti, parole di giustizia, di verità, di pace, parole contro la guerra, contro le violenze. E la gente lo ha riconosciuto ed è stato bello assistere a questa testimonianza. Tuttavia guardando la gente che sfilava davanti alla salma di Giovanni Paolo II, pensavo che a poco varrebbe venerare un padre spirituale dell’umanità se Dio poi non parlasse nell’intimo di ogni cuore, indicando a ciascuno di noi qual è il nostro compito, la nostra vocazione, ciò che dobbiamo fare, ciò che è chiesto proprio a noi e non ad un altro. Non bastano le parole generiche, non bastano le esortazioni valide per tutti; Dio stesso vuole entrare in comunione immediata con ogni creatura umana per guidarla, attraverso la scoperta della sua missione e della sua vocazione.

    Per questo ho tanto pregato per voi dicendo: possa tu, o Signore, illuminare gli occhi della nostra mente, per farci conoscere a quale speranza ci hai chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la tua eredità tra i santi, qual è la straordinaria grandezza della tua potenza verso noi credenti e come vuoi che noi, giorno dopo giorno, ora dopo ora, navighiamo e la mettiamo in pratica vivendo la nostra vocazione irrevocabile, irripetibile, non cedibile ad altri, ciò che il Signore aspetta da ciascuno di noi. E ciascuno di noi può dargli grandi cose perché, come ho già ricordato, «grandi cose fa in noi l’Onnipotente».

    Dunque ho chiesto per voi e per me il dono di discernimento e perciò ho tanto insistito in questi anni sulla lectio divina, cioè sulla lettura orante della Scrittura; infatti è proprio mediante la lectio divina che veniamo a comprendere ciò che Dio vuole da noi se ascoltiamo quella Parola che, come diceva Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte, «plasma, illumina interiormente e forma la coscienza del singolo cristiano».

    Abbiamo bisogno di credere come comunità cristiana, ma anche di credere fortemente come singoli, chiamati, illuminati, toccati personalmente dalla voce di Dio, dalla sua grazia, dalla sua Parola misteriosa. Per questo la lettura orante dei libri sacri è un aiuto indispensabile per poterci orientare nelle vicende del mondo e soprattutto nelle vicende della nostra personalità, del nostro cammino individuale.

    Vengo ora alla pagina evangelica, della quale mi limito a commentare il comando di Gesù: «Ammaestrate tutte le nazioni». Forse il verbo andrebbe tradotto meglio con “fate discepole” (matheteusate) tutte le nazioni, immergendole nella potenza di Dio, insegnando loro ad osservare tutto ciò che il Signore ha comandato. E tutto ciò che ha comandato, in Matteo è – lo sappiamo bene – il Discorso della montagna, o ancora, Matteo 25: «Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me». È questo che dobbiamo insegnare a osservare ed è molto importante tale discorso oggi. Io lo avverto vivendo in un luogo di particolare sofferenza, dove vengono al pettine i nodi dell’umanità, a Gerusalemme, in Medio Oriente. Abbiamo tutti un immenso bisogno di imparare a vivere insieme come diversi, rispettandoci, non distruggendoci a vicenda, non ghettizzandoci, non disprezzandoci e neanche soltanto tollerandoci, perché sarebbe troppo poco la tolleranza. Ma nemmeno – direi – tentando subito la conversione, perché questa parola in certe situazioni e popoli suscita muri invalicabili. Piuttosto “fermentandoci” a vicenda in maniera che ciascuno sia portato a raggiungere più profondamente la propria autenticità, la propria verità di fronte al mistero di Dio.

    A questo scopo non c’è mezzo più concreto, più accessibile, delle parole di Gesù nel Discorso della montagna. Parole che nessuno può rifiutare perché ci parlano di gioia, di beatitudine, ci parlano di perdono, ci parlano di lealtà, ci parlano di rifiuto dell’ambizione, ci parlano di moderazione del desiderio di guadagno, ci parlano di coerenza nel nostro agire («sia il vostro parlare sì, sì; no, no»), ci parlano di sincerità. Queste parole, dette con la forza di Gesù, toccano ogni cuore, ogni religione, ogni credenza, ogni non credenza. Nessuno può dire: «Non sono per me: la sincerità non è per me, la lealtà non è per me, il lottare contro la prevaricazione sui beni di questo mondo non è per me…». È un discorso per tutti, che accomuna tutti, che richiama tutti alle proprie autenticità profonde, ed è quel discorso che ci permetterà di vivere insieme da diversi rispettandoci, non ghettizzandoci, non distruggendoci, nemmeno tenendo le dovute distanze, ma “fermentandoci” a vicenda.

    Allora, se faremo così, tutti gli uomini si riconosceranno in tali valori, si sentiranno più vicini, più compagni e compagne di cammino, sentiranno di avere in comune delle realtà profonde e vere, delle realtà che forse non avrebbero saputo scoprire senza le parole di Gesù. Allora, al di là di differenze etniche, sociali, addirittura religiose e confessionali, l’umanità troverà una sua capacità di vivere insieme, di crescere nella pace, di vincere la violenza e il terrorismo, di superare le differenze reciproche. Sarà allora pienamente manifesto il messaggio della grazia di Dio, che è stato dato a san Paolo di portare alle sue comunità e di cui anch’io sono stato fatto partecipe nell’ordinazione di 25 anni fa.

    E sarà vicino, più vicino, il ritorno del Signore, sarà più vicina la discesa della celeste Gerusalemme, sarà possibile gridare: «Benedetto il nostro Dio, egli è colui che viene, egli è colui che ci salva». Amen.

    † Card. Carlo Maria Martini
    Arcivescovo Emerito della
    Diocesi di Milano

  3. #3
    torquemada
    Ospite

    Predefinito

    Giacomo Biffi vescovo, l´ultimo dei grandi Ambrosiani
    In un solo volume, i testi più acuminati del più controverso dei cardinali italiani. Come predicare il Vangelo "sine glossa". Senza cedimenti allo spirito del tempo

    di Sandro Magister





    Nel 2003 il cardinale Giacomo Biffi, milanese e arcivescovo di Bologna, compirà 75 anni e rimetterà il suo mandato.

    Per segnare questo passaggio di testimone ha raccolto in un solido volume ben rilegato i suoi dodici testi più importanti e più controversi, prodotti in diciassette anni di episcopato.

    E a chi ha dedicato il volume? Al terzultimo arcivescovo di Milano, cardinale Giovanni Colombo. Dedica ben studiata. Perché dopo Colombo, a Milano, è venuto Carlo Maria Martini, e dopo quest´ultimo è arrivato Dionigi Tettamanzi. Ma con entrambi Biffi ha sempre avuto poco da spartire, quanto a orientamento e stile. Di Colombo, infatti, Biffi scrive che

    «con lui è arrivata alla sua conclusione, dopo quasi novant´anni, l´epoca che nella Chiesa ambrosiana era iniziata nel 1891 con la venuta del beato cardinale Andrea Carlo Ferrari. Un´epoca tra le più luminose e feconde per il calore e la certezza della fede, per la concretezza della iniziative e delle opere, per la capacità di rispondere alle interpellanze dei tempi non con cedimenti e mimetismi ma attingendo al patrimonio inalienabile della verità... Sempre con l´ispirazione e lo slancio attinti alla grande tradizione di san Carlo Borromeo e al ricchissimo, sereno e rasserenante magistero di sant´Ambrogio».

    Come dire che la grande tradizione dei pastori ambrosiani s´è interrotta a Milano nel 1979. E da lì è trasmigrata a Bologna. Con Biffi. Indomito nel predicare «la certezza della fede» e insieme nello smascherare e contrastare «i cedimenti e i mimetismi» della Chiesa allo spirito del tempo.

    Sfogliando questo volume, in effetti, si ritrova in ogni pagina la freschezza e il vigore d´una predicazione controcorrente. Costantemente ripagata sui media come "reazionaria". Ma che in realtà è stata una delle pochissime voci forti - pensanti e capaci di far pensare - udibili ai vertici della Chiesa italiana, in questi anni recenti.

    Eccone, qui di seguito, alcune rapide citazioni.

    Pagina 299. Biffi ripete san Paolo: "Guai a me se non predicassi il Vangelo". E invece «ecco la dilagante retorica del dialogo» a diluire e cancellare questo comandamento, e l´idea secondo cui a musulmani ed ebrei non si debba annunciare Gesù Cristo, «per il timore d´essere accusati di proselitismo». La realtà è che «è in atto una violenta e sistematica aggressione al fatto cristiano, eppure la cristianità - almeno quella che parla e fa parlare di sé - non mostra di rendersene conto».

    Pagina 436. «Come stanchi di testimoniare il Crocifisso, i discepoli di Gesù si riducono a parlare di pace, di solidarietà, di amore per gli animali, di difesa della natura, eccetera. Così il dialogo con i lontani si fa meno irto; e la nostra possibilità di essere accolti nei salotti mondani diventa facile e senza problemi. Come se Gesù non avesse mai dichiarato: "Io non sono venuto a portare pace, ma una spada"...».

    Pagina 444. Chiedere perdono per gli errori ecclesiastici passati «può servire anche a renderci meno antipatici e a migliorare i nostri rapporti con i rappresentanti della cultura così detta laica, i quali si compiaceranno della nostra larghezza di spirito, anche se non ne ricaveranno di solito nessun incoraggiamento a superare la loro condizione di incredulità... Senza dire che, dei veri enormi delitti storici contro il genere umano - oggi avvolti da un misericordioso silenzio culturale - pare siano tutti d´accordo nel ritenere che non ci siano più i responsabili. Per esempio. a chi l´umanità manderà il conto per gli innumerevoli ghigliottinati francesi del 1793, uccisi senza colpe diverse da quella dell´appartenenza sociale? A chi l´umanità manderà il conto delle decine di mlioni di contadini russi trucidati dai bolscevichi? Ma allora, per i peccati della storia, non sarebbe forse meglio che aspettiamo tutti il giudizio universale?».

    Pagina 591. «Persino all´interno del nostro mondo l´ortodossia appare da più parti insidiata. È sintomatico che la Congregazione per la dottrina della fede abbia ritenuto di dover intervenire con la dichiarazione "Dominus Iesus" circa l´unicità e l´universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa. Il fatto è di una gravità senza precedenti: in duemila anni mai si era sentito il bisogno di richiamare e difendere verità così elementari».

    Pagina 627. «Io penso che l´Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la "cultura del niente", della libertà senza limiti e senza contenuti, dello scetticismo vantato come conquista intellettuale, che sembra essere l´atteggiamento dominante nei popoli europei, più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di verità. Questa cultura del niente (sorretta dall´edonismo e dalla insaziabilità libertaria) non sarà in grado di reggere all´assalto ideologico dell´Islam che non mancherà: solo la riscoperta dell´avvenimento cristiano come unica salvezza per l´uomo - e quindi solo una decisa risurrezione dell´antica anima dell´Europa - potrà offrire un esito diverso a questo inevitabile confronto».

    Pagina 676. «Il dialogo interreligioso dovrà sempre fare i conti con una certezza fondamentale e irrinunciabile; e cioè che l´evento salvifico - nei due fatti costitutivi dell´incarnazione del Verbo e della risurrezione di Gesù - non solo sta all´origine del cristianesimo, ma ne rappresenta in modo perenne e definitivo il senso e il cuore. Essendo dei fatti e non delle dottrine, essi non sono trattabili: o si accolgono o si rifiutano. Sono culturalmente laceranti: il credente non può, restando intellettualmente onesto, né attenuarli né metterli tra parentesi».

    E così via. Si leggono con gusto anche le digressioni dotte del predicare di Biffi.

    Come lo studio (p. 725-767) che egli dedica all'espressione "casta meretrix" applicata alla Chiesa. Formula oggi abusata per avvalorare le chiacchiere sulla Chiesa peccatrice e invece escogitata nel IV secolo da sant´Ambrogio (e sua esclusiva) proprio per dire il contrario: che la Chiesa «è santa tanto nell´adesione senza tentennamenti e senza incoerenze a Cristo suo sposo ("casta") quanto nella volontà di raggiungere tutti per portare tutti a salvezza ("meretrix")».

    Oppure la nota a piè di pagina 668 in cui egli mostra il senso originario - platonico e antimondano invece che aristotelico - di un´altra citazione patristica abusata dagli innamorati del dialogo, quella della "Lettera a Diogneto".

    Le parole di Biffi che hanno subito le più rumorose contestazioni, negli anni scorsi, sono state quelle da lui dedicate alla questione dell´immigrazione musulmana in Italia e in Europa. Nel libro egli riporta per intero i testi controversi. E così li commenta (pagina 590): «Pagine benedette, se sono servite a far uscire almeno per qualche momento la cristianità su questo pungente argomento da una inqualificabile spensieratezza travestita da altruismo».

    Un´ultima notazione. Rispetto al diluvio di testi ecclesiastici, Biffi si distingue per sobrietà. Per densità teologica. Per totale assenza di retorica. E per ironia. Una virtù quasi introvabile dentro la Chiesa. Ma assente anche fuori, tra i noiosi detrattori di questo vescovo così raro.

  4. #4
    torquemada
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    Pinocchio riletto dal cardinale Biffi: "L'alto destino di una testa di legno"
    Se ne facessi un film lo lancerei così, dice l'arcivescovo di Bologna in questa intervista. Altro che libro ateo! È un capolavoro teologico

    di Sandro Magister





    Pinocchio è stato il suo primo libro: «Me lo comprò mio padre alla fiera di sant'Ambrogio, a Milano, quando avevo 7 anni». E da allora non se n'è più distaccato. Perché oltre che arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi è anche studioso di prim'ordine del capolavoro di Carlo Collodi. Ne ha data una lettura teologica folgorante in "Contro Maestro Ciliegia", ristampato di recente dagli Oscar Mondadori e tradotto anche in Germania.

    Cardinal Biffi, mettiamo che il prossimo film su Pinocchio sia suo. Come lo lancerebbe in locandina?

    «Ognuno fa il suo mestiere e quello di fare film non è certo il mio. Ma io lo lancerei così: "L'alto destino di una testa di legno"».

    Alto destino? Il legno è legno.

    «Questo lo dice Maestro Ciliegia, il maestro dell'antifede. Lui non vuole andare al di là di ciò che vede e tocca. La logica non gli manca, ma è la fantasia che gli fa difetto. Posto Dio, ci si deve aspettare di tutto. La storia vera del mondo è infinitamente più grande di quella a cui si fermano i materialisti di ieri e di oggi».

    Con Maestro Ciliegia lei ha un conto aperto. Lo si capisce dal titolo del suo libro.

    «Sì, l'ho proprio voluto così: "Contro Maestro Ciliegia". I titoli buonisti non mi piacciono. Anche i Padri della Chiesa amavano intitolare contro qualcuno o qualcosa. Mi viene in mente l'"Adversus haereses" di Ireneo. Contro le eresie».

    Qual è dunque l'alto destino della nostra testa di legno?

    «Quella di Pinocchio è la sintesi dell'avventura umana. Comincia con un artigiano che costruisce un burattino di legno chiamandolo subito, sorprendentemente, figlio. E finisce con il burattino che figlio lo diventa per davvero. Tra i due estremi c'è la storia del libro. Che è identica, nella struttura, alla storia sacra: c'è una fuga dal padre, c'è un tormentato e accidentato ritorno al padre, c'è un destino ultimo che è partecipazione alla vita del padre. Il tutto grazie a una salvezza data per superare la distanza incolmabile, con le sole forze del burattino, tra il punto di partenza e l'arrivo. Pinocchio è una fiaba. Ma racconta la vera storia dell'uomo, che è la storia cristiana della salvezza».

    Come fa a esserne così sicuro? Su Pinocchio le hanno dette tutte: ribelle, conformista, borghese, moralista. Hanno scomodato marxismo e psicoanalisi.

    «La struttura oggettiva del racconto è sotto gli occhi di tutti ed è perfettamente conforme alla vicenda salvifica proposta dal cristianesimo. Giudicare di questa conformità spetta ai maestri di fede (ed è l'arte mia); certo non ai critici letterari, o agli storici sociali e politici, o agli storici delle idee».

    Ma Carlo Collodi, l'autore, la pensava anche lui così?

    «Quando ho scritto il mio libro su Pinocchio, nel 1976, non me ne importava nulla di che cosa l'autore avesse in mente. Quello che mi aveva colpito era l'oggettiva concordanza di struttura tra la fiaba e l'ortodossia cattolica. Poi però m'è venuta voglia di capire chi era, Collodi. Aveva studiato in seminario, poi dai padri scolopi. Visse sempre con la madre, religiosissima. Fu attratto dalle idee mazziniane, combatté nel 1848 come volontario a Curtatone e Montanara e poi nel 1859 con i Savoia. Ma ne uscì deluso. "In questo mondo tutto è bugia: dall'Ippogrifo a Mazzini", scrisse già nel 1860 sulla "Nazione". Non rinnegò le idee della gioventù. Ma non si vantò mai delle guerre fatte: cosa rara in un'Italia dove i reduci sono sempre molti di più dei combattenti».

    Ma Pinocchio non è stato considerato fino a oggi una Bibbia mazziniana?

    «Questo era quanto sosteneva Giovanni Spadolini. Quando il mio libro uscì in prima edizione, nel 1977, stampato dalla Jaca Book, il mondo laico lo ignorò. Perché avevo attentato al dogma che definiva atei i due classici per l'infanzia usciti dal Risorgimento: Pinocchio e "Cuore" di Edmondo De Amicis. "Cuore" è vero, è un libro irredimibile. Ma Pinocchio è tutto l'opposto. E gli studiosi sono oggi sempre più concordi nell'avvalorare la svolta nella vita di Collodi, la sua perdita di fiducia in Mazzini e nelle ideologie risorgimentali. Fu dopo questa crisi che egli si dedicò a scrivere per i ragazzi. E fu così che riscoprì l'anima profonda dell'Italia».

    Anima cattolica?

    «Sì, perché i ragazzi del 1881, l'anno in cui Collodi scrive Pinocchio, non sono né sabaudi né repubblicani, né clericali né anticlericali. Sono i ragazzi del catechismo, delle prediche del parroco, delle preghiere delle mamme, dei dipinti delle chiese. Non conoscono le ideologie, conoscono la verità cattolica. Collodi vuole entrare in comunione di spirito con questi ragazzi».

    E ci riesce?

    «Altroché. Pinocchio è la verità cattolica che erompe travestita da fiaba. E così riesce a superare le censure della dittatura culturale dell'epoca».

    Dal Risorgimento ai giorni nostri. Cos'è cambiato?

    «In questo niente. La censura sulla cultura cattolica, iniziata con l'Illuminismo e la Rivoluzione francese, rimane. Meno vistosa, ma più sottile e radicale. Faccio un esempio. Se io dico: la pratica dei comandamenti di Dio è un mezzo sicurissimo, scientificamente provato, per non prendere l'Aids... Se io dico questo, apriti cielo! Eppure è vero, verissimo: se si praticasse la castità giovanile e la castità matrimoniale l'Aids non si prenderebbe. Ma non lo si può dire! E questa è censura ideologica. Quanto ci vorrebbe un Collodi anche oggi!».

    Eccolo infatti che torna sugli schermi.

    «E ne sono contento. Il successo di Pinocchio è un enigma straordinario. Nacque per caso, scritto di malavoglia per un giornale di bambini, a puntate irregolari e interrotto due volte, la prima con la convinzione di concluderlo per sempre. E invece è l'unico libro uscito in Italia dopo l'unità che abbia avuto un successo mondiale. La spiegazione è una sola. Contiene un messaggio eterno, che tocca le fibre del cuore di tutti gli uomini di ogni cultura».

    A parte Pinocchio, che cosa le dicono gli altri personaggi, ad esempio la Fata Turchina?

    «È la salvezza donata dall'alto: e quindi Cristo, la Chiesa, la Madonna».

    E Lucignolo?

    «È la perdizione. Il destino umano non è immancabilmente a lieto fine come nei film americani di una volta. È a doppio esito. L'inferno c'è, anche se oggi lo si predica poco».

    E il diavolo dov'è?

    «Il Gatto e la Volpe fanno la loro parte. Ma più di tutti l'Omino. Mellifluo, burroso, insonne. Inventarlo così è stato un lampo di genio».

    Insomma, Pinocchio è un magnifico catechismo per bambini e per adulti?

    «Ai bambini facciamo benissimo a darlo in mano. Ma a dire il vero, quando io lo lessi da piccolo per la prima volta, mi urtò. Non sopportavo il Grillo Parlante, i continui richiami al dovere, l'ironia».

    L'ironia?

    «Più che l'ironia o il sarcasmo, io amo l'umorismo vero, tipo quello di Alessandro Manzoni che sto rileggendo in questi giorni. L'umorismo non si fa travolgere dalla vicenda e nello stesso tempo vi partecipa. I due elementi legano difficilmente e per questo è una merce rara. Tant'è vero che riesce bene solo a Dio: il lontanissimo e insieme il presentissimo, come diceva sant'Agostino».

    Ma allora come è arrivato a scoprire il suo vero Pinocchio?

    «Una prima illuminazione l'ebbi in terza liceo dalla lettura di un saggio di Piero Bargellini: Pinocchio ovvero la parabola del figliol prodigo. Poi vennero gli studi di teologia. La mia tesi di dottorato su "Colpa e libertà nella condizione umana" fu tutta debitrice al libro di Collodi. Solo che dovetti scriverla in linguaggio accademico, col risultato che fu apprezzata da tutti e letta da nessuno. Infine vennero i cupi anni Settanta».

    Che cosa le ispirarono?

    «Quegli anni di violenza mi fecero riflettere sui fili invisibili che tengono l'uomo legato e manovrato, come nel teatrino di Mangiafoco. Le rivolte contro un dittatore aprono la strada a un altro. Se Pinocchio non resta prigioniero del teatrino è perché a differenza dei suoi fratelli di legno riconosce e proclama di avere un padre. È questo il segreto della vera libertà, che nessun tiranno può portar via».

    Collodi promosso a pieni voti in teologia?

    «Pinocchio certamente. Quanto al suo inventore, non mi passa neanche per la testa di incolonnarlo dietro i santi stendardi: stia dove desidera. Collodi aveva una sua fede, ma fosse stato ateo il gioco mi sarebbe piaciuto anche di più, perché sarebbe apparso più scintillante l'umorismo di Dio».

  5. #5
    torquemada
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    OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

    Carissimi Fratelli e Sorelle,

    "Glorifica il Signore, Gerusalemme, loda, Sion, il tuo Dio" (Sal. resp.). L’invito del Salmista, che riecheggia anche nella Sequenza, esprime molto bene il senso di questa Celebrazione eucaristica: ci siamo raccolti per lodare e benedire il Signore. E' questa la ragione che ha spinto la Chiesa italiana a ritrovarsi qui, a Bari, per il Congresso Eucaristico Nazionale. Anch’io ho voluto unirmi oggi a tutti voi per celebrare con particolare rilievo la Solennità del Corpo e del Sangue di Cristo, e così rendere omaggio a Cristo nel Sacramento del suo amore, e rafforzare al tempo stesso i vincoli di comunione che mi legano alla Chiesa che è in Italia e ai suoi Pastori. A questo importante appuntamento ecclesiale avrebbe, come sapete, voluto essere presente anche il mio venerato e amato Predecessore, il Papa Giovanni Paolo II. Sentiamo tutti che Egli è vicino a noi e con noi glorifica il Cristo, buon Pastore, che egli può ormai contemplare direttamente.

    Saluto con affetto tutti voi che partecipate a questa solenne liturgia: il Cardinale Camillo Ruini e gli altri Cardinali presenti, l’Arcivescovo di Bari, Monsignor Francesco Cacucci, che ringrazio per le sue buone parole, i Vescovi della Puglia e quelli convenuti numerosi da ogni parte d’Italia; i sacerdoti, i religiosi, le religiose e i laici, particolarmente i giovani, e naturalmente tutti coloro che in vari modi hanno cooperato all’organizzazione del Congresso. Saluto altresì le Autorità, che con la loro gradita presenza evidenziano anche come i Congressi Eucaristici facciano parte della storia e della cultura del popolo italiano.

    Questo Congresso Eucaristico, che oggi giunge alla sua conclusione, ha inteso ripresentare la domenica come "Pasqua settimanale", espressione dell’identità della comunità cristiana e centro della sua vita e della sua missione. Il tema scelto – "Senza la domenica non possiamo vivere" - ci riporta all'anno 304, quando l’imperatore Diocleziano proibì ai cristiani, sotto pena di morte, di possedere le Scritture, di riunirsi la domenica per celebrare l’Eucaristia e di costruire luoghi per le loro assemblee. Ad Abitene, una piccola località nell’attuale Tunisia, 49 cristiani furono sorpresi una domenica mentre, riuniti in casa di Ottavio Felice, celebravano l’Eucaristia sfidando così i divieti imperiali. Arrestati, vennero condotti a Cartagine per essere interrogati dal Proconsole Anulino. Significativa, tra le altre, la risposta che un certo Emerito diede al Proconsole che gli chiedeva perché mai avessero trasgredito l’ordine severo dell'imperatore. Egli rispose: "Sine dominico non possumus": cioè senza riunirci in assemblea la domenica per celebrare l’Eucaristia non possiamo vivere. Ci mancherebbero le forze per affrontare le difficoltà quotidiane e non soccombere. Dopo atroci torture, questi 49 martiri di Abitene furono uccisi. Confermarono così, con l’effusione del sangue, la loro fede. Morirono, ma vinsero: noi ora li ricordiamo nella gloria del Cristo risorto.

    E’ un’esperienza, quella dei martiri di Abitene, sulla quale dobbiamo riflettere anche noi, cristiani del ventunesimo secolo. Neppure per noi è facile vivere da cristiani, anche se non ci sono questi divieti dell’imperatore. Ma da un punto di vista spirituale, il mondo in cui ci troviamo, segnato spesso dal consumismo sfrenato, dall’indifferenza religiosa, da un secolarismo chiuso alla trascendenza, può apparire un deserto non meno aspro di quello "grande e spaventoso" (Dt 8,15) di cui ci ha parlato la prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio. Al popolo ebreo in difficoltà Dio in questo deserto venne in aiuto col dono della manna, per fargli capire che "l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore" (Dt 8,3). Nel Vangelo di oggi Gesù ci ha spiegato a quale pane Dio, mediante il dono della manna, voleva preparare il popolo della Nuova Alleanza. Alludendo all'Eucaristia ha detto: "Questo è il Pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia di questo Pane vivrà in eterno" (Gv 6,58). Il Figlio di Dio, essendosi fatto carne, poteva diventare Pane, ed essere così nutrimento del suo popolo, di noi che siamo in cammino in questo mondo, verso la terra promessa del Cielo.

    Abbiamo bisogno di questo Pane per affrontare le fatiche e le stanchezze del viaggio. La Domenica, Giorno del Signore, è l'occasione propizia per attingere forza da Lui, che è il Signore della vita. Il precetto festivo non è quindi un dovere imposto dall'esterno, un peso sulle nostre spalle. Al contrario, partecipare alla Celebrazione domenicale, cibarsi del Pane eucaristico e sperimentare la comunione dei fratelli e delle sorelle in Cristo è un bisogno per il cristiano, è una gioia, così il cristiano può trovare l’energia necessaria per il cammino che dobbiamo percorrere ogni settimana. Un cammino, peraltro, non arbitrario: la strada che Dio ci indica nella sua Parola va nella direzione iscritta nell'essenza stessa dell’uomo. La Parola di Dio e la ragione vanno insieme. Seguire la Parola di Dio, andare con Cristo significa per l’uomo realizzare se stesso; smarrirla equivale a smarrire se stesso.

    Il Signore non ci lascia soli in questo cammino. Egli è con noi; anzi, Egli desidera condividere la nostra sorte fino ad immedesimarsi con noi. Nel colloquio che ci ha riferito poc'anzi il Vangelo Egli dice: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui" (Gv 6,56). Come non gioire di una tale promessa? Abbiamo sentito però che, a quel primo annuncio, la gente, invece di gioire, cominciò a discutere e a protestare: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?" (Gv 6,52). Per la verità, quell'atteggiamento s'è ripetuto tante altre volte nel corso della storia. Si direbbe che, in fondo, la gente non voglia avere Dio così vicino, così alla mano, così partecipe delle sue vicende. La gente lo vuole grande e, in definitiva anche noi spesso lo vogliamo un po’ lontano da noi. Si sollevano allora questioni che vogliono dimostrare, alla fine, che una simile vicinanza sarebbe impossibile. Ma restano in tutta la loro chiarezza le parole che Cristo pronunciò in quella circostanza: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita" (Gv 6,53). In verità abbiamo bisogno di un Dio vicino. Di fronte al mormorio di protesta, Gesù avrebbe potuto ripiegare su parole rassicuranti: "Amici, avrebbe potuto dire, non preoccupatevi! Ho parlato di carne, ma si tratta soltanto di un simbolo. Ciò che intendo è solo una profonda comunione di sentimenti". Ma no, Gesù non ha fatto ricorso a simili addolcimenti. Ha mantenuto ferma la propria affermazione, tutto il suo realismo, anche di fronte alla defezione di molti suoi discepoli (cfr Gv 6,66). Anzi, Egli si è dimostrato disposto ad accettare persino la defezione degli stessi suoi apostoli, pur di non mutare in nulla la concretezza del suo discorso: "Forse anche voi volete andarvene?" (Gv 6,67), ha domandato. Grazie a Dio Pietro ha dato una risposta che anche noi, oggi, con piena consapevolezza facciamo nostra: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" (Gv 6,68). Abbiamo bisogno di un Dio vicino, di un Dio che si dà nelle nostre mani e che ci ama.

    Nell'Eucaristia Cristo è realmente presente tra noi. La sua non è una presenza statica. E' una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a sé. Cristo ci attira a sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli e la comunione con il Signore è sempre anche comunione con le sorelle e con i fratelli. E vediamo la bellezza di questa comunione che la Santa Eucaristia ci dona.

    Qui tocchiamo un’ulteriore dimensione dell’Eucaristia, che vorrei ancora raccogliere prima di concludere. Il Cristo che incontriamo nel Sacramento è lo stesso qui a Bari come a Roma, qui in Europa come in America, in Africa, in Asia, in Oceania. E' l’unico e medesimo Cristo che è presente nel Pane eucaristico di ogni luogo della terra. Questo significa che noi possiamo incontrarlo solo insieme con tutti gli altri. Possiamo riceverlo solo nell’unità. Non è forse questo che ci ha detto l’apostolo Paolo nella lettura ascoltata poc’anzi? Scrivendo ai Corinzi egli afferma: "Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane" (1 Cor 10,17). La conseguenza è chiara: non possiamo comunicare con il Signore, se non comunichiamo tra noi. Se vogliamo presentarci a Lui, dobbiamo anche muoverci per andare gli uni incontro agli altri. Per questo bisogna imparare la grande lezione del perdono: non lasciar lavorare nell’animo il tarlo del risentimento, ma aprire il cuore alla magnanimità dell’ascolto dell’altro, aprire il cuore alla comprensione nei suoi confronti, all’eventuale accettazione delle sue scuse, alla generosa offerta delle proprie.

    L’Eucaristia – ripetiamolo – è sacramento dell’unità. Ma purtroppo i cristiani sono divisi, proprio nel sacramento dell’unità. Tanto più dobbiamo, sostenuti dall’Eucaristia, sentirci stimolati a tendere con tutte le forze a quella piena unità che Cristo ha ardentemente auspicato nel Cenacolo. Proprio qui, a Bari, felice Bari, città che custodisce le ossa di San Nicola, terra di incontro e di dialogo con i fratelli cristiani dell’Oriente, vorrei ribadire la mia volontà di assumere come impegno fondamentale quello di lavorare con tutte le energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Sono cosciente che per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo (cfr Messaggio alla Chiesa universale, Cappella Sistina, 20 aprile 2005:l’Osservatore Romano 21 aprile 2005, pag. 8). Chiedo a voi tutti di prendere con decisione la strada di quell’ecumenismo spirituale, che nella preghiera apre le porte allo Spirito Santo, che solo può creare l’unità.

    Cari amici venuti a Bari da varie parti d’Italia per celebrare questo Congresso eucaristico, noi dobbiamo riscoprire la gioia della domenica cristiana. Dobbiamo riscoprire con fierezza il privilegio di partecipare all’Eucaristia, che è il sacramento del mondo rinnovato. La risurrezione di Cristo avvenne il primo giorno della settimana, che nella Scrittura è il giorno della creazione del mondo. Proprio per questo la domenica era considerata dalla primitiva comunità cristiana come il giorno in cui ha avuto inizio il mondo nuovo, quello in cui, con la vittoria di Cristo sulla morte, è iniziata la nuova creazione. Raccogliendosi intorno alla mensa eucaristica, la comunità veniva modellandosi come nuovo popolo di Dio. Sant’Ignazio di Antiochia qualificava i cristiani come "coloro che sono giunti alla nuova speranza", e li presentava come persone "viventi secondo la domenica" ("iuxta dominicam viventes"). In tale prospettiva il Vescovo antiocheno si domandava: "Come potremmo vivere senza di Lui, che anche i profeti hanno atteso?" (Ep. ad Magnesios, 9,1-2).

    "Come potremmo vivere senza di Lui?". Sentiamo echeggiare in queste parole di Sant’Ignazio l’affermazione dei martiri di Abitene: "Sine dominico non possumus". Proprio di qui sgorga la nostra preghiera: che anche noi cristiani di oggi ritroviamo la consapevolezza della decisiva importanza della Celebrazione domenicale e sappiamo trarre dalla partecipazione all’Eucaristia lo slancio necessario per un nuovo impegno nell’annuncio al mondo di Cristo "nostra pace" (Ef 2,14). Amen!

  6. #6
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    Predefinito Re: Card. BIFFI

    [QUOTE]Originally posted by torquemada

    Il nuovo libro del cardinale Giacomo Biffi da cui è tratto il passo sull’Anticristo:
    Giacomo Biffi, “Pinocchio, Peppone, l’Anticristo e altre divagazioni”, > Cantagalli, Siena, 2005, pp. 256, euro 14,90.



    Grazie della segnalazione!
    Gilbert

  7. #7
    INNAMORARSI DELLA CHIESA
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    Predefinito

    Il Card. Biffi è un grande vescovo.....e in quanto profeta anch'egli..è spesso inascoltato........Il suo pensiero è infatti molto simile allo stile Ratzinger..........la diversità sta nel carattere diverso dei due prelati (vabbè uno ora è Pietro^__^), ma entrambi efficaci..ottima infatti è la citazione della Dominus Jesus.....
    Ratzinger fece questo Documento quando, invitato anch'egli ad Assisi nel 1984....RIFIUTO' DI ANDARCI...spiegando a Giovanni Paolo II che era necessario prima formulare dei chiarimenti sull'importanza della Chiesa e per mettere a tacere eventuali COMPROMESSI ecumenici......

    Si sa solo che Giovanni Paolo II lo ascoltò e firmò il Documento, e così Ratzinger andò al secondo incontro di Assisi.......

    Quello a cui stiamo oggi assistendo è il rischiosissimo sincretismo delle fedi anche fra le diversità cristiane.......
    Al card. Martino gli imputo solo una cosa ambigua.......ha regalato ai vetero cattolici di Milano una Chiesa...e va bene....nessun problema.....aveva dato notizia pastorale che fra i vetero e noi Romani si poteva anche condividere la MESSA........ e già qui non sono d'accordo.ma il guaio è arrivato DOPO LE PRIME ORDINAZIONI DI DONNE SACERDOTE.........perchè da li Martini non solo non ha fatto marcia indietro, MA NON HA LASCIATO ALCUN DOCUMENTO che chiarisse ora che tipo di comportamento bisognava assumere........
    Idem Tettamanzi...non esiste, che io sappia...una Lettera Pastorale che chiarisca oggi questa ambigua COMPARTECIPAZIONE fra le due realtà........

    allora mi chiedo....MA DI CHE COSA HANNO PAURA OGGI I NOSTRI VESCOVI?
    sembra che a noi laici ci venga richiesto di tutto......sacrificio...pazienza...spirito di obbedienza..e mi sta bene io sono il laico e il vescovo E' IL MIO SUPERIORE...^__^ ma in Italia andò stanno più I VESCOVI MARTIRI?

    certo che ce ne sono........ma di questi appunto NON se ne parla e se lo si fa.è per tacciarli di INCOMPETENZA ECUMENICA.........

    Attenzione amici....attenzione..........che Satana NON è fatto brutto come lo si dipenge....fuggiamo da troppi complimenti.fuggiamo dalle troppe carezze...........temiamo i salam-lek................ (ossia chi ci fa le fusa)
    e non scambiamo la carità insegnata da san Paolo con il falso BONISMO.......

    Fraternamente Caterina LD
    Fraternamente Caterina
    Laica Domenicana

  8. #8
    torquemada
    Ospite

    Predefinito Sul Card. Martini

    Intervista al Cardinale Carlo Maria Martini
    rilasciata al quotidiano romano Il Tempo, il 7 aprile 2004

    Ci avviamo verso lo sfascio definitivo della Chiesa ?
    Chi si batte per il Concilio Vaticano III ?

    Il card. Martini, già Arcivescovo di Milano e a suo tempo indicato come papabile, continua a battersi per la demolizione della Santa Chiesa.
    Chi conosce il Cardinale sa bene che si tratta di una persona molto intelligente e preparata, non è possibile pensare, quindi, che le sue dichiarazioni siano solo delle estemporanee manifestazioni del suo pensiero personale. Se il Cardinale ha rilasciata la seguente intervista è impossibile non pensare che lo abbia fatto in perfetta sintonia con un certo àmbito della Chiesa, quello che mira ad una nuova svolta modernista e all'accentuazione della compromissione della Chiesa col mondo moderno.

    In questo ultimo anno, nonostante alcuni segnali facessero pensare ad una qualche volontà di “recupero” (e forse proprio in contrapposizione ad essa), si è determinato una sorta di “giro di vite” da parte degli ambienti modernisti, che hanno una forte influenza nella Curia romana. La stessa salute del Santo Padre ha concorso all'attuazione di questa nuova svolta.

    Questa intervista del card. Martini aiuta a comprendere che si sta facendo di tutto per preparare il futuro conclave alla scelta di un Papa che sia in grado di accentuare le spinte in avanti del postconcilio, in contrapposizione con chi vorrebbe invece che il futuro Papa attui tutti quei rimedii necessarii a sanare i disastri provocati da questo stesso postconcilio.

    Non sopravvalutiamo certo le parole e l'influenza del card.Martini, ma non possiamo far finta di niente di fronte alla gravità delle dichiarazioni che egli ha voluto rilasciare in questa intervista. È fin troppo evidente che qui parla un cardinale “fuori giuoco” a nome di tanti altri che sono ancora in giuoco e con una precisa volontà.
    Vi è una frase un questa intervista che è la chiave per comprendere quanto sia grave lo stato in cui versa la Chiesa per mano di certi suoi “ordinati”:
    “Ogni qualvolta la Chiesa vuole conformarsi o piacere al mondo e non segue più il Vangelo rischia di diventare sale scipito. La Chiesa ha il dovere di rifarsi continuamente alla parola di Dio e al Vangelo. Questo è ciò che io ho sempre sostenuto come principio di fondo della vita ecclesiale.”

    Una frase del tutto condivisibile, che il Cardinale profferisce in perfetta buona fede. Ma che cosa intende quando parla di “rifarsi continuamente … al Vangelo”?
    È questo il punto!
    “I Sinodi … non sono diventati quel Consiglio permanente della Chiesa che si era proposto il Concilio, quindi c'è ancora della strada da fare.”
    La fedeltà al Vangelo del card. Martini consiste nella “domocraticizzazione” della Chiesa. Beninteso, qui non si tratta di misconoscere l'importanza della funzione “magisteriale” dei Vescovi, che in definitiva sono i successori degli Apostoli, ma è del tutto incredibile che ci si possa rifare proprio al Vangelo per disconoscere il principio di Autorità che deve reggere la Chiesa in maniera unitaria e gerarchica. Non c'è un solo passo dei Vangeli che avalli una tale interpretazione.
    La Chiesa è retta invisibilmente da Nostro Signore, che ha il suo rappresentante visibile nel Papa, che non è solo “momento fondante dell'unità della Chiesa”, come dice il card. Martini, ma è il garante e il “confermatore” nella fede di tutti i fedeli di Cristo. Il Papa è l'espressione più alta della dottrina della Chiesa, la quale non può reggersi senza un riferimento unico e indiscutibile in terra, esattamente come si regge sull'unico riferimento in terra e in Cielo che è il Cristo.
    Supporre che Essa debba essere retta dall'insieme delle “opinioni” dei Vescovi, come auspica il card.Martini, significa semplicemente spostare il fondamento della Chiesa dal Cielo alla terra.

    “Convocare, di tanto in tanto, delle assemblee sinodiali veramente rappresentative di tutto l'episcopato e - perchè no - universali (Sinodi e Concilio sono la stessa parola) per affrontare questioni in agenda nella vita della Chiesa. Un'esperienza che valga a sciogliere qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino della Chiesa.”
    Quali sono quei “nodi disciplinari e dottrinali che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino della Chiesa”?
    Non v'è dubbio che qui il Cardinale parla delle gravi preoccupazioni dottrinali e pastorali che sono state sollevate dall'applicazione del Concilio in questi ultimi quarant'anni. Parla proprio della crisi delle vocazioni, delle deviazioni dottrinali, degli abusi litugici, del fallimento della pastorale, del disastro della pratica della fede. Parla proprio dello stravolgimento causato dall'applicazione del Concilio, stravolgimento che “inevitabilmente” ha riproposto un sacco di interrogativi circa la tenuta della fede.
    Il Cardinale si rende conto che sono “riapparsi certi nodi dottrinali”, ma si rifiuta di accettarli come conseguenza del magistero e della pastorale postconciliari di questi ultimi quarant'anni. Anzi, suggerisce che tali “nodi” vengano affrontati e sciolti dal consesso dei Vescovi
    “Non vedo perchè tale capacità decisionale non possa comprendere l'intero episcopato ...” - dice il Cardinale - “Dal confronto dei diversi linguaggi e dalla condivisione degli stessi problemi possono venire decisioni che aiutano la Chiesa ad affrontare con più forza il futuro.”
    Insomma, quegli stessi Vescovi che hanno prodotto i guasti e permesso il “riapparire dei nodi dottrinali”, dovrebbero risolverli con un semplice “parliamone”.
    Sembrerà una forzatura, ma non è possibile evitare di chiedersi se il card.Martini sia davvero in grado di cogliere il senso di quel Vangelo a cui dichiara di volersi rifare.

    Cosa prospetta, in definitiva, il Cardinale?
    Un Concilio permanente che si sostituisca al Papa e alla Curia Romana nella conduzione della Chiesa.
    Insomma, è come dire che la dottrina, la liturgia e la pastorale non derivano più da Nostro Signore, ma, dopo duemila anni, debbono esprimere l'insieme delle opinioni di tutti i fedeli. Una sorta di religione democratica dove il Vangelo e Gesù Cristo vengono relegati nel limbo delle idealità, a servire da riferimenti “etici” per le concioni e i dibattiti degli uomini.
    E occorre incominciare da subito, dice il Cardinale, dal prossimo conclave, inserendo una rappresentanza di tutti i Vescovi.
    Nel frattempo organizzare un terzo Concilio Vaticano.
    Attenzione, però !
    Il Cardinale afferma di non aver mai parlato di Vaticano III, perché “Vaticano III significa rimettere in questione tutti i problemi così come ha fatto il Vaticano II. La mia proposta andava in una direzione diversa.”
    Abbiamo l'impressione di trovarci di fronte ad una sorta di confessione involontaria. La rivoluzione - sembra dire il Cardinale - l'abbiamo già fatta col Vaticano II, adesso occorre realizzare questa rivoluzione in maniera definitiva.
    Per intanto, però, di Concilio Vaticano III se ne parla e come!
    Un sito internet già attivo da diversi anni, che sembra una iniziativa di certi vescovi sudamericani, propugna la convocazione di del Vaticano III, e la petizione proposta allo scopo porta le firme di 2 cardinali, 41 vescovi, 998 preti, 1782 religiosi, 442 teologi, 8524 laici, 367 diversi. Il sito risulta essere aggiornato a tutto marzo 2004.
    Si tratterà sicuramente di un fenomeno marginale, ma non ci risulta che i vescovi firmatari siano stati destituiti o messi in condizione di non nuocere.
    Che cosa propugna questo gruppo di vescovi nella petizione che ha inviato al Papa? (vedi petizione)
    Esattamente quello che propugna il cardinale Martini. Addirittura con gli stessi termini.
    È solo una conicidenza?

    Trascuriamo la questione dell'Ordinazione alle donne, sulla quale il card. Martini, usando l'eufemismo delle diaconesse, si esprime in maniera equivoca, pur facendo capire che è favorevole.
    Quello che invece colpisce è un lapsus del Cardinale.
    A proposito dei mea culpa di Giovanni Paolo II, egli dichiara: “Io ho accolto con gioia questa richiesta di perdono. Il Papa ha fatto una scelta "conciliare" e ha interpretato bene il momento ecclesiale di grande sincerità, fiducia, onestà. Chi riconosce i propri errori si sente forte della forza dello Spirito. Se lette nel contesto del Vangelo le richieste di perdono non presentano difficoltà. Anzi. Sono un atto di coraggio e di onestà.”
    È davvero incredibile come la presunzione dei prelati modernisti possa sfociare impunemente nell'impudenza.
    Quando mai Giovanni Paolo II ha chiesto perdono “riconoscendo i propri errori” ?
    È da decenni che si chiede perdono per le presunte colpe di duemila anni di vita della Chiesa, ma non v'è mai stato un minimo riconoscimento degli errori commessi dagli uomini di Chiesa nel Concilio e nel postconcilio. Eppure i disastri sono sotto gli occhi di tutti, e tanti documenti ufficiali lamentano la perdita della fede, il tradimento dell'insegnamento, l'abuso e lo stravolgimento della liturgia: ma mai nessuno ha chiesto perdono per i propri errori.
    Il Cardinale si sarà espresso male, ma ha rivelato al tempo stesso il suo profondo convincimento: la Chiesa ha quasi sempre sbagliato: per non sbagliare più deve diventare democratica e misconoscere l'insegnamento di Cristo e il Magistero apostolico.



    --------------------------------------------------------------------------------

    L'intervista del card. Martini
    (le sottolineature sono nostre)

    "Un consiglio di reggenza per la Chiesa"
    I Sinodi non lo hanno ancora realizzato secondo il progetto del Concilio.
    Verso un vero dialogo

    Il cardinale Martini rompe il silenzio da Gerusalemme e
    dice sì a una diaconia femminile per valorizzare ruoli e risorse




    EMINENZA, qual è il nucleo del pontificato di Giovanni Paolo II ?
    "Io mi rifarei alla prima Enciclica "Redemptor hominis", cioè la dignità dell'uomo redento da Cristo. In tale principio, collocato nell'orizzonte del Vangelo, sta il punto più alto del pontificato di Papa Wojtyla".

    E le difficoltà che invece sono emerse?
    "Non riguardano tanto la persona del Pontefice, riguardano il cammino della Chiesa nella storia. La Chiesa deve sempre affrontare nuove situazioni. E oggi si tratta di rispondere alla domanda: come convivere fra diversi senza farsi del male, senza confondersi e magari quando si condivide lo stesso territorio. Già S. Paolo ammoniva: "Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi gli uni con gli altri". E ancora: "Non vi fate illusioni: non ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà quello che ha seminato"".

    Collegialità. Sinodi. Centralismo e partecipazione. Un bilancio in chiaro e scuro.
    "Il bilancio è complesso. Certamente il Vaticano II e poi papa Paolo VI istituendo nel 1965 il Sinodo avevano in mente uno strumento significativo, una specie di "Consiglio permanente di reggenza" della Chiesa insieme al Papa. Questa intuizione si è sviluppata solo in parte. I Sinodi hanno avuto il grande merito di mettere insieme i vescovi, di farli conoscere, di permettere loro di scambiarsi pareri. Ma non sono diventati quel Consiglio permanente della Chiesa che si era proposto il Concilio, quindi c'è ancora della strada da fare".

    Per mesi i principali giornali hanno parlato di lei. Hanno scritto che il cardinale Martini voleva o proponeva un Concilio Vaticano III! E' stato un abbaglio giornalistico o questa esigenza è e rimane un'esigenza dell'intero episcopato mondiale?
    "Io non ho mai parlato di Vaticano III perche' l'espressione può essere fraintesa e può confondere. Vaticano III significa rimettere in questione tutti i problemi così come ha fatto il Vaticano II. La mia proposta andava in una direzione diversa. Convocare, di tanto in tanto, delle assemblee sinodiali veramente rappresentative di tutto l'episcopato e - perchè no - universali (Sinodi e Concilio sono la stessa parola) per affrontare questioni in agenda nella vita della Chiesa. Un'esperienza che valga a sciogliere qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino della Chiesa".

    Se ho ben capito, i Sinodi degli ultimi anni sono serviti a poco. Lei, il 7 ottobre 1999, raccontava nell'Aula Paolo VI davanti al Papa il suo "sogno", quello di affrontare temi come la carenza di ministri ordinati, la posizione della donna nella Chiesa, la sessualità, la disciplina del matrimonio, l'ecumenismo. Orbene, i Sinodi non sono certo nella linea da lei indicata?
    "Sì, i Sinodi, sin dall'inizio hanno mostrato difficoltà a fondere il rispetto delle opinioni di tutti i vescovi con una capacità decisionale reale. La dimensione decisionale, teorizzata, non è stata esercitata. Non vedo perchè tale capacità decisionale non possa comprendere l'intero episcopato ...".

    Lei si riferisce a più di 4500 vescovi. Sono un numero imponente.
    "Io credo che oggi, con i mezzi di comunicazione e di trasmissione del pensiero, è facilissimo mettere insieme le persone. Ciò sarebbe utile ed eviterebbe che le culture diverse in cui è immersa la Chiesa vadano un po’ per conto loro. Dal confronto dei diversi linguaggi e dalla condivisione degli stessi problemi possono venire decisioni che aiutano la Chiesa ad affrontare con più forza il futuro".

    La grandezza di un pontificato si giudica anche dal meccanismo di reclutamento dei vescovi. E' un meccanismo che soddisfa o c'è qualcosa da rivedere? E poi non c'è solo collegialità, partecipazione dall'alto, c'è partecipazione dal basso.
    "I sistemi possono essere perfezionati così da tenere sempre più in considerazione anche i pareri della gente. Importante è acquisire un ventaglio il più ampio possibile di pareri sui candidati. Partecipazione dal basso? Io ho sperimentato nella mia Chiesa locale una forte presenza del popolo di Dio. Anche a riguardo della successione episcopale questo popolo si è espresso, ha fatto conoscere i suoi desideri. La categoria di "popolo di Dio" va approfondita, coltivata ma essa è ormai acquisita nella storia della teologia e nella storia della dottrina cristiana".

    Lei vede solo cardinali in Conclave o il Conclave potrebbe essere arricchito da altre presenze?
    "Le proposte sono state tante. Potrebbe essere ragionevole rappresentare meglio le Conferenze Episcopali con la presenza, in Conclave, dei Presidenti delle stesse Conferenze. Non nego che il Collegio dei Cardinali abbia già una sua rappresentatività, però un Conclave allargato terrebbe maggiormente conto della articolazione della Chiesa che guarda al Papa come momento fondante della propria unità".

    "Ingravescentem aetatem". Un cardinale compie 80 anni ed è "out", fuori dal Conclave. E' d'accordo?
    "E' bene mettere dei limiti di età anche nella Chiesa. Ci possono essere casi di persone estremamente vitali, ma è meglio seguire le prudenze umane biologiche e dare spazio ai giovani. Compiuto il proprio dovere ci si fa da parte. Nella Chiesa ci sono persone sagge che possono far sentire la loro opinione anche al di là di un semplice ballottaggio".

    Diaconato femminile. Rimane sempre un terreno minato. Lei e' un biblista. I teologi, o la maggior parte di essi, lo ritengono un tema improponibile.
    "Non saprei dare una soluzione teorica. Sicuramente assistiamo al fiorire di nuovi ministeri. E per quanto riguarda la loro efficacia i ministeri femminili nella Chiesa sono di primaria importanza. Penso al tema della carità, assistenza ai disabili, pace, ambiente, vita, ecologia, famiglia. Tutto ciò va riconosciuto e promosso".

    Siamo di fronte ad una vera e propria "diaconia femminile"?
    "E' così. Una diaconia che merita un riconoscimento maggiore di quello che viene attualmente reso possibile dalla legislazione canonica".

    Nel conflittuale rapporto fra cristiani, mi riferisco in specie a quello fra cattolici e ortodossi, chi deve fare un passo indietro?
    "Ognuno deve fare un passo verso il Vangelo, non so dire se avanti o indietro. Il Vangelo è libertà, purezza di cuore, assenza di pretese, desiderio di valorizzare l'altro, rinuncia ai privilegi. Nessuno è esente dal fare passi decisi verso un Vangelo più vissuto".

    La ripetuta richiesta di perdono di Papa Wojtyla ha provocato più di un malumore. Alcuni suoi colleghi vescovi hanno trovato imbarazzo nel tradurla in linea pastorale. E lei?
    "Io ho accolto con gioia questa richiesta di perdono. Il Papa ha fatto una scelta "conciliare" e ha interpretato bene il momento ecclesiale di grande sincerità, fiducia, onestà. Chi riconosce i propri errori si sente forte della forza dello Spirito. Se lette nel contesto del Vangelo le richieste di perdono non presentano difficoltà. Anzi. Sono un atto di coraggio e di onestà".

    A proposito delle radici cristiane d'Europa e della Costituzione europea, che ne pensa?
    "C'è un problema di etichetta e un problema di sostanza. La sostanza è che la nuova Costituzione europea riporti nella pratica delle sue leggi quei valori del primato della persona e della sua relazionalità che sono lo specifico cristiano dato al continente. Se poi c'è un accenno esplicito alle radici cristiane con una formulazione condivisa da tutti, bene. L'essenziale però è che i valori cristiani siano nei fatti, non semplicemente una etichetta".

    Non ha l'impressione che il "sale della Chiesa" sia diventato insipido?
    "La Chiesa passa continuamente da periodi di progresso a periodi di crisi e declino. Ciò non è un fenomeno generalizzato. Il pericolo che lei denuncia però esiste. Ogni qualvolta la Chiesa vuole conformarsi o piacere al mondo e non segue più il Vangelo rischia di diventare sale scipito. La Chiesa ha il dovere di rifarsi continuamente alla parola di Dio e al Vangelo. Questo è ciò che io ho sempre sostenuto come principio di fondo della vita ecclesiale".

    Riesce a individuare nella Bibbia, nel "Primo o Secondo Testamento" come li definisce lei, una frase che sostenga la Chiesa nel suo cammino, che la renda piu' fiduciosa e credibile?
    "La parola che ripete Gesù tre volte nel capitolo VI del Vangelo di Matteo: "Il Padre che vede nel segreto ti ricompenserà". Il che vuol dire non tanto esteriorità, apparenze, vita mediatica, bensì la realtà nascosta della vita quotidiana vissuta con fedeltà al Vangelo. E' qui l'essenziale per ogni esistenza cristiana".


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    Petizione per il Concilio Vaticano III

    Noi che sottoscriviamo questa petizione, seguaci di Gesù di Nazareth, sollecitiamo al Papa, Vescovo di Roma, in continuità con lo spirito del Vaticano II, la convocazione di un nuovo Concilio Ecumenico che aiuti la nostra Chiesa Cattolica a rispondere evangelicamente, in fraterno dialogo e con la maggiore collaborazione possibile con le altre chiese cristiane e le altre religioni, alle gravi sfide dell’Umanità, in particolare per i poveri, in un mondo in rapida trasformazione e sempre più intercomunicante.
    Coscienti della difficoltà che comporta l’organizzazione di un Concilio Ecumenico, chiediamo, nell’àmbito delle nuove possibilità di comunicazione e di interscambio, che sia concepito come un processo conciliare, partecipativo e corresponsabile, a partire dalle chiese particolari, locali e continentali.
    Proponiamo che si realizzi nel corso di un periodo di tempo sufficientemente ampio e con una metodologia appropriata, perché la comunità dei credenti possa pronunciarsi sui temi che considera più importanti e urgenti, recependo i suoi contributi nel dibattito e nelle decisioni conciliari.
    In comunione con tutta la Chiesa e in particolare col successore di Pietro, preghiamo perché lo Spirito ci assista, per rispondere _ con profezia e speranza _ al desiderio di dialogo e di rinnovamento che interessa la gran parte del Popolo di Dio.
    A questa speranza vogliamo rispondere, rispettosamente, firmando questa petizione.


    Dal sito: http://www.proconcil.org/principal.html

  9. #9
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