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Discussione: V Domenica dopo Pasqua

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    Predefinito V Domenica dopo Pasqua

    Dal «Commento sulla seconda lettera ai Corinzi» di san Cirillo di Alessandria, vescovo (Cap. 5, 5 - 6; PG 74, 942-943)

    Chi ha il pegno dello Spirito e possiede la speranza della risurrezione, tiene come già presente ciò che aspetta e quindi può dire con ragione di non conoscere alcuno secondo la carne, di sentirsi, cioè, fin d'ora partecipe della condizione del Cristo glorioso. Ciò vale per tutti noi che siamo spirituali ed estranei alla corruzione della carne. Infatti, brillando a noi l'Unigenito, siamo trasformati nel Verbo stesso che tutto vivifica. Quando regnava il peccato eravamo tutti vincolati dalle catene della morte. Ora che è subentrata al peccato la giustizia di Cristo, ci siamo liberati dall'antico stato di decadenza.
    Quando diciamo che nessuno è più nella carne intendiamo riferirci a quella condizione connaturale alla creatura umana che comprende, fra l'altro, la particolare caducità propria dei corpi. Vi fa cenno san Paolo quando dice: «Infatti anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così» (2 Cor 5, 16). In altre parole: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14), e per la vita di noi tutti accettò la morte del corpo. La nostra fede prima ce lo fa conoscere morto, poi però non più morto, ma vivo; vivo con il corpo risuscitato al terzo giorno; vivo presso il Padre ormai in una condizione superiore a quella connaturale ai corpi che vivono sulla terra. Morto infatti una volta sola non muore più, la morte non ha più alcun potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio (cfr. Rm 6, 8-9).
    Pertanto se si trova in questo stato colui che si fece per noi antesignano di vita, è assolutamente necessario che anche noi, calcando le sue orme, ci riteniamo vivi della sua stessa vita, superiore alla vita naturale della persona umana. Perciò molto giustamente san Paolo scrive: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le vecchie cose sono passate, ecco ne sono nate di nuove!» (2 Cor 5, 17). Fummo infatti giustificati in Cristo per mezzo della fede, e la forza della maledizione è venuta meno. Poiché egli è risuscitato per noi, dopo essersi messo sotto i piedi la potenza della morte, noi conosciamo il vero Dio nella sua stessa natura, e a lui rendiamo culto in spirito e verità, con la mediazione del Figlio, il quale dona al mondo, da parte del Padre, le benedizioni celesti.
    Perciò molto a proposito san Paolo scrive: «Tutto questo viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante in Cristo» (2 Cor 5, 18). In realtà il mistero dell'incarnazione e il conseguente rinnovamento non avvengono al di fuori della volontà del Padre. Senza dubbio per mezzo di Cristo abbiamo acquistato l'accesso al Padre, dal momento che nessuno viene al Padre, come egli stesso dice, se non per mezzo di lui. Perciò «tutto questo viene da Dio, che ci ha riconciliati mediante Cristo, ed ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2 Cor 5, 18).

  2. #2
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    Predefinito Dal trattato "Sulla Trinità" di sant'Ilario di Poitiers.

    De Trinitate, III, 17; II, 10.6. PL 10, 86. 54-56. 58-59.

    Il nome Padre è stato rivelato agli uomini. Ma nasce la domanda: come si chiama questo Padre? Forse che prima di Cristo il nome di Dio era sconosciuto? Mosè lo udì dal roveto, la Genesi lo annunziò all'inizio della creazione del mondo, la Legge lo fece conoscere, i profeti lo divulgarono, gli uomini lo hanno avvertito presente nella storia di questo mondo; anche i pagani sotto false apparenze lo venerarono. Il nome di Dio, dunque, non era ignorato.

    Invece sì, era assolutamente ignorato. Nessuno conosce Dio se non lo confessa come Padre, cioè Padre del Figlio unigenito, e come Figlio, cioè Figlio che non è parte o estensione o emanazione del Padre, ma è nato da lui in modo ineffabile e incomprensibile: come Figlio che procede dal Padre possiede in sé la pienezza della divinità dalla quale e nella quale è stato generato, con figlio vero, infinito, perfetto Dio. In questo consiste la pienezza della divinità. Se mancherà qualcuno di questi attributi, non esisterà più quella pienezza che a Dio era piaciuto abitasse in Cristo. Questo è il messaggio del Figlio, questa la rivelazione a coloro che l'ignorano. Allora veramente il Padre è glorificato per opera del Figlio, quando gli uomini lo riconoscono Padre di tanto Figlio.

    Il Padre è quello da cui trae l'essere tutto ciò che esiste. Egli, in Cristo e mediante Cristo, è l'origine di tutte le cose. Ma egli ha in sé il suo essere, perché non trae da altri ciò che è, ma prende da sé e conserva in sé ciò che è. Egli è infinito, perché non è contenuto in alcuna cosa, ma tutte le cose contiene in sé; è eternamente sciolto dallo spazio, perché non può essere chiuso nello spazio; è eternamente anteriore al tempo, perché il tempo si misura da lui.

    Corri avanti con l'immaginazione, se tu pensi che egli abbia un limite ultimo, là sempre lo troverai presente: infatti, per quanto tu proceda oltre, senza posa, resta sempre un limite ulteriore verso il quale procedere. Come a te è dato di inseguirlo sempre, così a lui è dato di essere infinito. Potrà venir meno la parola nei suoi confronti, ma non potrà essere circoscritta la sua natura.

    Ancora una volta passa in rassegna le età trascorse, sempre lo troverai; verranno meno al tuo linguaggio le cifre per contare, ma non viene meno a Dio l'eternità dell'essere. Impegna il tuo intelletto e tenta con la mente di abbracciarlo come un tutto. Non riesci a circoscriverlo.

    Dio è dappertutto e totalmente, ovunque egli sia. Così colui al di là del quale non c'è nulla e che possiede eternamente l'eternità, trascende i confini della conoscenza. Questa è la verità del mistero di Dio, questa l'essenza della natura imperscrutabile che ha nome Padre. Egli è un Dio invisibile, ineffabile, infinito: la parola, quando si propone di descriverlo, non può che tacere, il pensiero è vinto quando tenta di raggiungerlo, la ragione si sente prigioniera quando si sforza di definirlo.

    C'è tuttavia, come abbiamo detto, un nome che designa la sua natura nella parola Padre, ma egli è un padre in senso assoluto. Infatti non ha ricevuto da altri, alla maniera degli uomini, la sua paternità. Egli è ingenerato ed eterno, in quanto ha eternamente in sé l'eternità. Solo dal Figlio è conosciuto, perché nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare; e nessuno conosce il Figlio se non il Padre. L'uno conosce l'altro reciprocamente e questa loro conoscenza vicendevole è perfetta.

    Se è vero che nessuno conosce il Padre se non il Figlio, crediamo a riguardo del Padre ciò che ci ha rivelato il Figlio, il quale è il solo testimone attendibile.

    Ascolta quanto la Scrittura dice del Padre ingenito e del Figlio unigenito. Ascolta: Il Padre è più grande di me; e anche: Io e il Padre siamo una cosa sola; ascolta ancora: Chi ha visto me, ha visto il Padre; Il Padre è in me e io nel Padre; ascolta: Sono uscito dal Padre; e poi: Il Figlio Unigenito che è nel seno del Padre; e poi: Tutto mi è stato dato dal Padre mio. Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso.

    Ascolta il Figlio, che è l'immagine, la sapienza, la virtù, la gloria di Dio e intendi lo Spirito Santo quando proclama: Chi potrà raccontare la sua generazione? Poni mente al Signore quando attesta: Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Addéntrati in questo segreto e tùffati nel mistero di questa nascita inspiegabile, fra il solo Dio ingenito e il Dio unigenito. Comincia, avanza, persisti: anche se so che tu non arriverai al fondo, tuttavia mi feliciterò che tu abbia preso l'avvio. Chi con animo amante si mette in via per l'infinito, anche se non arriverà mai alla mèta, trarrà profitto dal suo tentativo.

    La nostra possibilità di intendere è circoscritta all'ambito dei passi scritturistici che abbiamo sopra citato.

  3. #3
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    Predefinito Dalle Omelie di san Beda il Venerabile

    Homiliae genuinae, lib. II, hom. 7. PL 94, 164-166.

    Chiedete ed otterrete, perché la vostra gioia sia piena (Gv 16,24). Questo gaudio perfetto è la gioia della beatitudine celeste, la gioia della pace eterna. Non ci soffermeremo sui piaceri terreni con cui i reprobi si guadagnano una pena eterna; parleremo invece della gioia che pervade i santi al pensiero dei beni celesti proprio mentre affrontano per il Signore le tempeste di questa vita.

    I santi hanno la gioia quando, sospinti dall'amore per i fratelli, imparano a rallegrarsi con quelli che sono nella gioia, e a piangere con quelli che sono nel pianto (Cf. Rm 12, 15). Tuttavia non è pieno il gaudio, che non è stabile in quanto si mescola con le lacrime. Invece la gioia è perfetta, quando, scevra da ogni pianto, è composta soltanto di note cantate assieme con chi è felice.

    Quando Gesù afferma: Chiedete ed otterrete, perché la vostra gioia sia piena, è come se dicesse: "Non chiedete al Padre le gioie precarie del mondo che sono sempre punteggiate di tristezza e condannate a fine certa. Sollecitate piuttosto da lui quel gaudio incomparabile e così pieno che non è incrinato da nessuna inquietudine e la cui perennità non ha limite alcuno”.

    In quel giorno chiederete nel mio nome. Il giorno che il Signore preannunzia può venir interpretato come l'entrata nella vita eterna, quando Cristo ci parlerà apertamente del Padre, o meglio ce lo mostrerà in piena luce.

    L'apostolo Paolo allude a quell'ora quando scrive: Allora vedremo a faccia a faccia (1 Cor 13, 12).

    Anche Giovanni dice: Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (1 Gv 3, 2).

    Ecco quello che chiedono gli eletti invocando il nome di Gesù: essi intercedono in favore della nostra fragilità, perché anche a noi tocchi di aver parte alla salvezza. Per il momento ne siamo ben distanti, mentre percorriamo la pista terrena, minata da insidie nemiche.

    Gesù ha promesso di soddisfare in pieno la richiesta degli eletti, giacché ha affermato: In quel giorno chiederete nel mio nome. Notiamo la sottolineatura: In quel giorno, perché la preghiera degli eletti non sale dal buio delle tenebre, ma si libra in pieno giorno. Infatti i beati non intercedono dal fondo oscuro dell'afflizione, ove noi ci troviamo, ma nella luce gloriosa della pace eterna.

    Io non vi dico che pregherò il Padre per voi. Nostro Signore Gesù Cristo possiede la duplice natura umana e divina e quando designa sé stesso, ora accenna alle sue prerogative divine, ora all'abbassamento della sua umanità.

    In quanto possiede la potenza divina consostanziale al Padre, Gesù non prega in nostro favore, dato che gli spetta di esaudire le preghiere in unione con il Padre.

    Invece, poiché ha assunto la natura umana, che presenta gloriosa davanti al Padre, Gesù si degna di intervenire in favore della nostra debolezza. Egli dice a Pietro, per esempio: Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede (Lc 22,32).

    Nello stesso senso san Giovanni scrive: Abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto (1 Gv 2,1).

    Possiamo anche intendere in un altro modo la suddetta parola di Gesù: Io non vi dico che pregherò il Padre per voi. Notiamo che il Signore non usa il presente, ma il futuro: "pregherò". Infatti quando i santi siano stati accolti nell'abisso della pace celeste, non hanno più nulla da chiedere: la beatitudine che li inonda è tale da non poter venire aumentata.

    Il Padre stesso vi ama poiché voi mi avete amato e avete creduto che io sono venuto da Dio.

    Non dobbiamo comprendere questo versetto nel senso che l'amore e la fede dei discepoli precedano l'amore con cui il Padre ci ama, quasi che il merito umano sia prioritario rispetto ai doni della grazia divina.

    San Paolo stronca ogni possibile equivoco quando scrive: Chi ha dato a Dio qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio? Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose (Rm 11,35-36).

    In realtà, quella frase vuol dire che il Padre ci previene con un amore gratuito che sostiene a credere e ad amare il suo Figlio. Se conserveremo in cuore con affettuosa premura questa fede e questo amore il Padre ci ricompenserà con doni del suo amore ancora più sorprendenti.

  4. #4
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    Augustinus

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    Predefinito Dai "Discorsi" di Giovanni Lanspergio.

    Cristo ci ama e non ci vuole donare soltanto i suoi doni; anela donarci sé stesso. Però esige di essere pregato da noi, in modo che la sua misericordia risplenda quanto la sua giustizia. Elargire un dono eccellente straordinario munificentissimo a chi lo chiede è opera piuttosto della giustizia che della misericordia. Così è giusto che il povero, il quale nella sua miseria tende la mano, sia esaudito dal ricco. Dio è buono e giusto ad un tempo, e in lui queste due qualità sono sempre simultanee.
    Figlioli, potete soppesare da soli quanto grande bontà sia andare in cerca, anzi procurarsi le occasioni per aver pietà e trovare motivi per essere giustamente misericordioso. Il Signore usa questa condotta in genere con tutti, per tacere di ciò che fa con molti individualmente. Egli ci persuade di chiedere nella preghiera, cioè ci invita a costringerlo ad essere con noi un donatore pieno di misericordia e di giustizia ad un tempo. Infatti il Signore "è ricco di misericordia verso quelli che lo invocano" (Ef 2, 4), non s'impoverisce quando dona, né diventa più ricco se oppone un rifiuto.

    Perché non pensassimo che le nostre suppliche non sarebbero esaudite, il Signore aggiunge: "In verità, in verità vi dico". Con tale modo di esprimersi, che è quasi un giuramento, il Maestro vuole infonderci sicurezza, eccitare la nostra fiducia, farci credere che sarà impossibile un suo diniego su qualcosa salutare per noi o almeno non contrario al nostro bene e profitto spirituale.
    La misura della nostra domanda dipende infatti dalla nostra fiducia. Perciò il Signore ci invita non solo a chiedere, ma anche a confidare. E' la fiducia che ottiene e riceve da Dio. Tant'è che l'apostolo Giacomo afferma: "Si chieda con fede, senza dubitare" (Gc 1, 6).
    Vermiciattoli come siamo, che cosa oseremmo chiedere e sperare di ottenere se Dio stesso non ci ordinasse: Chiedete e otterrete ? Nello stesso tempo egli ci assicura che il Padre ci darà qualunque cosa chiederemo nel nome del Figlio. Infatti il vangelo afferma: "In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà".

    Gesù vuole inculcare ai discepoli che qualunque dono desidereranno conseguire, lo devono chiedere nel suo nome; Cristo si fa mediatore tra il Padre e noi, anzi, desidera di essere riconosciuto come mediatore. Perciò dice: "Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" (Gv 14, 6). Meglio: nessuno potrà ricevere qualcosa da Dio se non nel suo nome.
    Sotto il cielo non esiste altro nome dato agli uomini per mezzo del quale possiamo essere salvi, tranne il nome di Gesù. Però anche se può esserci molto soave scandire queste quattro lettere, non dobbiamo credere che tanta virtù sia insita di per sé nella parola. No, essa dipende dalla persona che porta quel nome. Quando preghiamo nel nome di Gesù, preghiamo in virtù di Colui che così si chiama, cioè per mezzo di chi per noi si è incarnato, fu preso, flagellato, crocifisso e che sulla croce spirò.
    Dunque il Signore Gesù vuole dire qui: Sarà esaudito chi chiede in nome mio, cioè per la forza e i meriti della mia passione e delle mie virtù. Ecco perché la liturgia conclude quasi tutte le orazioni con la formula: Per il nostro Signore Gesù Cristo, vale a dire per la virtù e i meriti del Signore nostro Gesù Cristo.

    Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena. In questa vita la nostra felicità non è mai completa, però possiamo esclamare con il salmista: "Mi sazierò quando apparirà la sua gloria" (Sal 16, 15). Chiedete perciò il gaudio che è totale, che appaga tutti i desideri, che colma d'ogni bene, che nessuno vi potrà togliere, perché si trova solo in Dio e nella beatitudine eterna. Con tali parole Cristo si studia di infonderci fiducia, di darci speranza a chiedere il meno, dato che ci comanda di invocare il più, anzi il massimo.
    Tutto è piccola cosa senza domani in confronto della felicità eterna. Se il Signore non volesse esaudirci, non ci ordinerebbe di chiedere la beatitudine promessa in dono. Allora possiamo star sicuri di essere esauditi da lui in tutto il resto, che vale molto meno. Tanto più che è così lontana la possibilità che egli ci rimproveri di presunzione nel chiedere grandi cose.
    Ed ecco crescere ancora la nostra fiducia quando Gesù ci confida: Il Padre stesso vi ama. Come se dicesse: Non siate mai svogliati a chiedere, dato che il Padre mio, proprio lui, vi ama. E tale amore non gli permette mai di tollerare con fastidio le vostre preghiere. Anzi, convincetevi piuttosto che nulla vi negherà, perché vi ama.

  6. #6

  7. #7
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    Da dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, 198-201

    QUINTA DOMENICA DOPO PASQUA *


    La quinta domenica dopo Pasqua nella Chiesa Greca è chiamata domenica del cieco nato, perché vi si legge il racconto del Vangelo in cui è riportata la guarigione di quel cieco. La chiamano pure domenica dell'Episozomene, che è uno dei nomi con cui i Greci designano il mistero dell'Ascensione, la cui solennità, da loro come da noi, interrompe il corso di questa settimana liturgica.

    EPISTOLA (Gc 1,22-27). - Carissimi; Mettete in pratica la parola, non l'ascoltate soltanto, ingannando voi stessi; perché, se uno ascolta la parola e non la mette in pratica è simile ad un uomo che considera il nativo suo volto in uno specchio e, appena s'è mirato, se ne va e dimentica subito qual fosse. Chi invece considera la legge perfetta di libertà e persevererà in essa, non come chi ascolta e dimentica, ma come chi mette in pratica, egli sarà beato nel suo operare. Se uno crede di essere religioso senza frenare la propria lingua, seduce il proprio cuore, e la sua religione è vana. La religione pura e immacolata presso Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e conservarsi puro da questo mondo.

    Gli obblighi della nostra nuova vita.

    Il Santo Apostolo, del quale abbiamo or ora ascoltato i consigli, aveva ricevuto gl'insegnamenti dallo stesso Salvatore risorto; non dobbiamo quindi essere meravigliati del tono di autorità col quale ci parla. Gesù si era degnato anche di accordargli una delle sue particolari manifestazioni: ciò che ci dimostra l'affetto di cui onorava questo Apostolo, al quale lo legavano vincoli di sangue per parte di sua Madre, che pure si chiamava Maria. Abbiamo visto questa santa donna recarsi al sepolcro, con Salome sua sorella e la Maddalena. Giacomo il Minore è veramente l'Apostolo del Tempo pasquale, là dove tutto ci parla della vita nuova che dobbiamo condurre con Cristo risuscitato. È l'Apostolo delle opere, ed è lui che ci ha trasmesso quella massima fondamentale del cristianesimo con la quale c'insegna che, se la fede è prima di ogni altra cosa necessaria al cristiano, questa virtù, senza le opere, rimane una fede morta, che non potrebbe salvarlo.

    Egli oggi insiste sull'obbligo che abbiamo di coltivare in noi stessi lo studio della verità che una volta abbiamo compreso, e di tenerci in guardia contro quella dimenticanza colpevole che causa tanti danni nelle anime imprudenti. Tra coloro nei quali si è compiuto il mistero pasquale, vi saranno alcuni che non persevereranno; e capiterà loro questa disgrazia perché si abbandoneranno al mondo invece di usarlo come se non l'usassero (1Cor 7,31). Ricordiamoci sempre che dobbiamo camminare in una nuova vita, imitando quella di Gesù risorto che non può più morire.

    VANGELO (Gv 16,23-30). - In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: in verità in verità vi dico: qualunque cosa domanderete al Padre in nome mio ve lo concederà. Fino ad ora non avete chiesto nulla in nome mio: chiedete ed otterrete, affinché la vostra gioia sia piena. Queste cose io v'ho dette per vie di paragoni. Ma sta per venire l'ora in cui non vi parlerò più in paragoni; ma apertamente vi darò conoscenza del Padre. In quel giorno chiederete in nome mio, e non vi dico che io pregherò il Padre per voi: perché il Padre stesso vi ama, avendo voi amato me e creduto che io sia uscito dal Padre.

    Partito dal Padre son venuto nel mondo, or lascio il mondo e torno al Padre. Gli dissero i suoi discepoli; ora si che parli chiaro e non usi nessun paragone. Ora conosciamo che tu sai tutto, e non hai bisogno che alcuno t'interroghi, e per questo crediamo che sei venuto da Dio.

    L'addio di Cristo.

    Quando il Salvatore nell'ultima Cena annunciò agli Apostoli la sua prossima dipartita, essi erano ancora ben lungi dal comprendere tutto ciò che volesse dire. La loro fede si limitava a credere che egli era "venuto da Dio". Era una fede assai debole, e durò ben poco. Ma nei giorni attuali, stretti al Maestro risorto, illuminati dalla sua parola, essi sanno meglio chi sia. Il momento è venuto in cui egli "non parla loro più con parabole"; abbiamo visto quali insegnamenti ha dato loro, come li prepara a divenire i dottori del mondo. E adesso possono dirgli: "o Maestro, voi siete veramente venuto da Dio". Ma è proprio per questo che ora comprendono meglio la perdita che li minaccia; sentono il vuoto immenso che provocherà la sua assenza. Gesù comincia a raccogliere i frutti che la sua divina bontà ha seminato in essi e che ha atteso con ineffabile pazienza. Se, al Cenacolo, il Giovedì santo, li ha già felicitati per la loro fede, adesso che l'anno visto risuscitato, che l'hanno compreso, meritano ben altrimenti i suoi elogi, poiché sono divenuti più saldi e più fedeli. "Il Padre vi ama, diceva Egli allora, perché voi avete amato me"; quanto il Padre deve amarli di più adesso, che il loro amore si è così accresciuto! Quale speranza deve darci questa parola! Prima di Pasqua, noi pure amavamo debolmente il Salvatore, eravamo titubanti nel suo servizio; ma adesso che siamo stati istruiti da lui, nutriti dai suoi misteri, possiamo sperare che il Padre ci ami; poiché anche noi amiamo di più, amiamo meglio il suo Figliolo. Questo divino Redentore c'invita a domandare al Padre, in suo nome, tutto ciò di cui abbiamo bisogno. E, prima di ogni altra cosa, la perseveranza nello spirito della Pasqua; insistiamo per ottenerlo e offriamo a questa intenzione la Vittima sacrosanta che tra pochi istanti verrà presentata sull'altare.

    PREGHIAMO

    O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi, supplichevoli, di pensare, per la tua ispirazione, ciò che è retto e, sotto la tua direzione, di praticarlo.

    ----------------------------------------------------------------------
    NOTE

    * A seguito della riforma liturgica, quella che è attualmente la VI Domenica di Pasqua era la V.

  8. #8
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    Aug.

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    sempre utile... a noi poveri mortali... grazie

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    Non c'è pace del cuore senza Dio, riconosce il predicatore del Papa

    Commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., al Vangelo domenicale


    ROMA, venerdì, 11 maggio 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia – alla liturgia di questa domenica, VI di Pasqua.

    * * *

    VI DO LA MIA PACE

    VI Domenica di Pasqua


    Atti 15, 1-2.22-29; Apocalisse 21, 10-14.22-23; Giovanni 14, 23-29

    "Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dá il mondo, io la do a voi". Di quale pace parla Gesù in questo brano evangelico? Non della pace esterna consistente nell'assenza di guerre e conflitti tra persone o nazioni diverse. In altre occasioni egli parla anche di questa pace; per esempio quando dice: "Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio". Qui parla di un'altra pace, quella interiore, del cuore, della persona con se stessa e con Dio. Lo si capisce da quello che aggiunge subito appresso: "Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore". Questa è la pace fondamentale, senza la quale non esiste nessun'altra pace. Miliardi di gocce di acqua sporca non fanno un mare pulito e miliardi di cuori inquieti non fanno un'umanità in pace.

    La parola usata da Gesù è shalom. Con essa gli ebrei si salutavano, e tuttora si salutano, tra loro; con essa salutò lui stesso i discepoli la sera di Pasqua e con essa ordina di salutare la gente: "In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa" (Lc 10, 5-6).

    Dobbiamo partire dalla Bibbia per capire il senso della pace che dona Cristo. Nella Bibbia shalom dice più che la semplice assenza di guerre e di disordini. Indica positivamente benessere, riposo, sicurezza, successo, gloria. La Scrittura parla addirittura della "pace di Dio" (Fil 4,7) e del "Dio della pace" (Rom 15,32). Pace non indica dunque solo ciò che Dio dà, ma anche ciò che Dio è. In un suo inno, la Chiesa chiama la Trinità "oceano di pace".

    Questo ci dice che quella pace del cuore che tutti desideriamo non si può ottenere mai totalmente e stabilmente senza Dio, fuori di lui. Dante Alighieri ha sintetizzato tutto ciò in quel verso che alcuni considerano il più bello di tutta la Divina Commedia: "E 'n la sua volontate è nostra pace".

    Gesù fa capire che cosa si oppone a questa pace: il turbamento, l'ansia, la paura: "Non sia turbato il vostro cuore". Facile a dirsi!, obbietterà qualcuno. Come placare l'ansia, l'inquietudine, il nervosismo che ci divora tutti e ci impedisce di godere un po' di pace? Alcuni sono per temperamento più esposti di altri a queste cose. Se c'è un pericolo lo ingigantiscono, se c'è una difficoltà la moltiplicano per cento. Tutto diventa motivo di ansia.

    Il Vangelo non promette un toccasana per questi mali; in certa misura essi fanno parte della nostra condizione umana, esposti come siamo a forze e minacce tanto più grandi di noi. Però un rimedio lo indica. Il capitolo da cui è tratto il brano evangelico di oggi comincia così: "Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me" (Gv 14, 1). Il rimedio è la fiducia in Dio.

    Dopo l'ultima guerra, fu pubblicato un libro intitolato Ultime lettere da Stalingrado. Erano lettere di soldati tedeschi prigionieri nella sacca di Stalingrado, partite con l'ultimo convoglio prima dell'attacco finale dell'esercito russo in cui tutti perirono. In una di queste lettere, ritrovate a guerra finita, un giovane soldato scriveva ai genitori: "Non ho paura della morte. La mia fede mi dà questa bella sicurezza!"

    Adesso sappiamo cosa ci auguriamo a vicenda, quando stringendoci la mano, ci scambiamo, nella Messa, l'augurio della pace. Ci auguriamo l'un l'altro benessere, salute, buoni rapporti con Dio, con se stessi e con il prossimo. Insomma di avere il cuore ricolmo della "pace di Cristo che sorpassa ogni intelligenza".

    Fonte: Zenit, 11.5.2007

 

 
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