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  1. #21
    SENATORE di POL
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    Terrorismo contro gli arabi israeliani

    A pagina 8 del quotidiano torinese La Stampa del 5 agosto 2005, Fiamma Nirenstein firma un articolo dal titolo...


    " «I fanatici ora cercano di aprire un altro fronte»


    Molti media israeliani titolano la tragedia di ieri col nome «Goldstein due», ricordando quando nel ‘94, mentre in base all’accordo di Oslo l’esercito stava uscendo dalle città palestinesi, un medico di Hevron aprì il fuoco sui musulmani che pregavano nella moschea dei patriarchi uccidendone 29 e finì a sua volta ucciso. C’era il sospetto, da quando l’aria di Israele è ammorbata da uno scontro ideologico senza precedenti intorno allo sgombero di Gaza, che i gruppi più estremisti avrebbero cercare di compiere un gesto terribile per rimescolare le carte, gettare nella confusione il Paese già spezzato fra due ideologie diverse, spalancare orizzonti roventi di scontro con gli arabi e aprire un nuovo fronte per le forze dell’ordine impegnate nello sgombero.
    Ma Eran Tzubari, l’assassino diciannovenne che, per aggiungere orrore a orrore, è stato linciato dalla folla, disertore dell’esercito, appartenente al gruppo fondato da Meir Cahana,(il rabbino che fu ucciso a New York dopo che il suo partito fu messo fuori legge dallo Stato d’Israele con l’accusa di razzismo) , ha attaccato su un fronte inaspettato e fra i più incendiari: quello degli arabi israeliani dei villaggi del nord. Centinaia di migliaia di persone adesso in stato di enorme tensione, pronte a manifestare, a protestare, a rovesciare la tavola. La polizia finora sorvegliava i pazzi criminali che pianificano di far saltare per aria le moschee di Gerusalemme, e che, si sa, non hanno mai rinunciato al progetto; cercava attivamente quelli che minacciano di assassinare il primo ministro; aveva messo sotto custodia i facinorosi di Hevron sospettati di atti aggressivi contro gi arabi; teneva d’occhio la possibilità molto realistica, che gruppi della destra estrema creassero episodi violenti con i palestinesi. Adesso che l’estremismo colpisce proprio mentre Israele si affaccia sugli ultimi dieci giorni prima della grande prova dello sgombero, anche se i capi del movimenti dei coloni si indignano quando glielo si dice, l’attacco terrorista di ieri sembra avere come obiettivo proprio il disimpegno: un tentativo di creare grandi movimenti di ira fra gli arabi del Nord per spostare lo scontro dalla Striscia di Gaza.
    L’assassino, che ha un passato di gesti estremisti e violenti e che era noto alla polizia, aveva disertato, pare, proprio nelle ore in cui gli era stato ordinato il trasferimento a Re’im, il nuovo immenso accampamento militare sull’orlo di Gaza creato per ospitare i soldati che opereranno lo sgombero. E a un qualunque osservatore appare chiaro che nell’attentato di Shfaram, anche se come dicono furiosi e quasi piangenti i capi del movimento dei settler, le marce sono avvenute in maniera non violenta, pure pesa alquanto la vorticante propaganda che nega il valore della legge dello Stato, che tratta da criminale il primo ministro e l’intero legittimo governo di Israele. Il ragionamento politico sembra aver lasciato il posto all’invettiva religiosa e millenaristica, all’azione senza tregua, senza sonno e senza cibo sotto un sole cocente, nell’illusione che un miracolo cambierà le carte in tavola.
    Sommando le possibili conseguenze del gesto di Tzubeiri, innanzitutto si può temere la possibilità dell’apertura di un fronte settentrionale con la popolazione araba israeliana, con gravissime conseguenze che rischiano di indebolire il fronte di Gaza, che tuttavia non verrà certo smantellato dal primo ministro Sharon. Lo sgombero, salvo episodi enormi, andrà avanti. Ma, in secondo luogo e altrettanto importante, può essere che il grande crimine di Shfaram risuoni come una sirena di allarme nelle orecchie dei settler e dei loro capi, che per ora non vogliono sentire; ieri sera alcuni autobus carichi di dimostranti sono usciti per tornare a casa da Ofakim, base delle manifestazioni (anche se ieri sera altri ne arrivavano in altri centri); può darsi che i loro rabbini capiscano che disobbedire agli ordini, come viene consigliato, equivale a disertare.
    Un crimine che apre la strada a tanti altri crimini; può darsi che ancora una volta si dimostri che il disprezzo verso le leggi e le istituzioni, con tutto il rispetto per il dolore autentico e terribile delle famiglie strappate dalle loro case, deve essere superato dalla fedeltà alla democrazia.
    Infine, quello che probabilmente accadrà da domani, ed è sperabile che questo accada per vedere la storia procedere lungo il suo cammino senza l’intoppo dei lunatici e dei criminali, è una stretta della polizia sulle tracce degli estremisti dentro e fuori della Striscia. Ieri sera in molti insediamenti a Gaza si respirava, dopo le notizie della sera, un’aria di riflessione che, si può scommettere, porterà a più miti consigli gli estremisti.
    "


    Shalom

  2. #22
    SENATORE di POL
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    da www.latampa.it


    " [ IL MINISTRO DELLE FINANZE NETANYAHU PER PROTESTA SI DIMETTE: TONFO NELLA BORSA DI TEL AVIV


    Netanyahu lascia il governo
    «Il ritiro da Gaza sarà senza di me»



    8 agosto 2005

    di Fiamma Nirenstein

    GERUSALEMME. «Non penso che riuscirò con questo a fermare lo sgombero da Gaza, anzi sono sicuro di no; ma almeno sono in pace con me stesso. E i libri di storia diranno: “Netanyahu non condivideva quella scelta”». Rosso in volto e segnato da un’evidente notte insonne, così ieri Benjamin Netanyahu ha spiegato la sua decisione di dimettersi dal governo alla vigilia dello sgombero dei settler da Gaza. La mattina aveva letteralmente gettato la lettera di dimissioni sul tavolo di Ariel Sharon e si era rifugiato di corsa nel suo ufficio al Ministero del Tesoro, casa sua fino a ieri.

    Il suo posto sarà preso dal vicepremier Olmert. Benjamin «Bibi» Netanyahu, il ministro più importante insieme con Shimon Peres del governo Sharon, ex premier, crea così ulteriori, grandi ostacoli a Sharon che affronta una prova epocale per Israele.

    Infatti lo sgombero avrà inizio fra una settimana esatta mentre le piazza sono spazzate senza tregua da grandi manifestazioni di oppositori, mentre ai soldati viene chiesto dal movimento dei settler di disubbidire agli ordini,e mentre ancora l’eco dell’attacco terrorista di Shfaram è vivo. L’agguato di Bibi, non ha come obiettivo di fermare la macchina che prepara abitazioni e lavori sostitutivi per gli ottomila settler che devono spostarsi, né vuole mandare a casa le decine di migliaia di soldati e di poliziotti ormai in movimento per attuare il disimpegno. La scelta è stata ratificata di nuovo dal governo con 15 voti contro 5 quando, ieri, ha votato il via alla prima fase. I quattro ministri che, con Netanyahu, hanno votato contro il varo effettivo dell’ultima fase, non sembrano avere nessuna intenzione di seguirlo fino alle dimissioni. Netayahu ha scelto una strada che, come nella sua natura, è a metà fra la passionalità che lo contraddistingue, e la scelta politica serpentesca, di lunga gittata, basata sui sondaggi che mostrano come Sharon sia ormai inviso a molti che lo amavano, che vuole minare alle fondamenta il ruolo e il potere di Sharon nel suo partito, il Likud, e che in sostanza mira diritto al posto di primo ministro alla prossima tornata, che sarà certo anticipata.

    Bibi con la voce rotta dall’emozione ha cercato di dare delle buone ragioni per una scelta scandalosamente dell’ultima ora, così destabilizzante per il governo in un momento delicato: ha spiegato che un ministro del Tesoro come lui aveva impostato un’ autentica rivoluzione economica come quella da lui intrapresa con la riforma delle tasse, del sistema bancario, della Borsa. Ma poiché lo diceva mentre si dimetteva, la Borsa crollava di sei punti. Tuttavia Netanyahu insisteva nel dire che le riforme sono comunque fatte e la barca adesso andrà avanti da sola. La verità è che Bibi compie il suo gesto nel momento in cui la destabilizzazione può essere così terribile da portare alla crisi definitiva del suo avversario Arik Sharon.

    Inoltre, oggi Netnayahu crea un’autostrada per elezioni anticipate anche se oggi non può raccogliere la maggioranza di 61 voti per far crollare un governo che è di coalizione; e non si aliena definitivamente il consesso internazionale impedendo di fatto uno sgombero che gli Usa esigono e l’Europa anela. Di fatto, insomma, non blocca il processo, ma ne esalta le contraddizioni, galvanizza un movimento molto attivo, e mette in difficoltà non solo Sharon ma anche tutti quelli che dentro il Likud fino a ora hanno pallidamente tentato (come il ministro licenziato da Sharon Uzi Landau) di costruire una opposizione di destra al Primo ministro sfruttando la disperazione dei coloni. Ultimo punto, e forse il più importante di tutti: Netanyahu tocca con le sue dimissioni un punto molto importante per tutti, destra e sinistra. Infatti mette in guardia esplicitamente nella lettera che ha consegnato a Sharon dai rischi per la sicurezza di Israele nello sgombero di Gaza, senza nessun accenno a eventuali posizioni millenaristiche o religiose. Anzi dice in sostanza: «Io sono d’acordo per sgomberare Gaza, ma la maggiore probabilità che ci stà di fronte è che la Striscia di trasformi in un rifugio e una base per attacchi terroristici di matrice islamica estrema provenienti da tutto il mondo, e io non voglio creare un rischio così grave per il mio popolo».

    E allora perché non si è dimesso prima? La sua risposta è che nel tempo Sharon ha fatto passi sempre più audaci e pericolosi, come la decisione di consegnare alle truppe egiziane il confine con l’Egitto, il famoso «sentiero di Filadelfia» da cui passano le armi provenienti dal Sinai dirette ad Hamas, e di lasciare ai palestinesi la possibilità di costruire un porto senza controllo: «Vi ricordate - ha detto Netanyahu - la nave Karin A con i missili provenienti dall’Iran? adesso ne avremo una B e una C». Parole cadute nel giorno in cui terroristi palestimesi hanno sparato su un’auto di coloni in Cisgiordania, ferendo gravemente (sarebbe in fin di vita) un bambino di 10 anni. Bibi si prepara dunque a essere quello che potrà dire: «Ve l’avevo detto» e vincere le elezioni senza colpo ferire.
    "


    Shalom

  3. #23
    SENATORE di POL
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    A pagina 2 del quotidiano Il Foglio del 14 agosto 2005, Emanuele Ottolenghi firma un articolo dal titolo ....



    " «I lunghi giorni di Gaza»

    Sei giorni di giugno sconvolsero le sorti del medio oriente. Da quella guerra, che cambiò la mappa della regione e i termini del conflitto araboisraeliano, sarebbe potuta emergere una pace separata, fondata sulla proposta israeliana del 19 giugno 1967: il governo del primo ministro Levi Eshkol, con una maggioranza di un solo voto, si era detto disposto a restituire a Siria ed Egitto i territori appena conquistati – alture del Golan e penisola del Sinai – in cambio di pace e pieno riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi. Per la Cisgiordania, l’idea differiva da quanto offerto a Siria ed Egitto: Israele proponeva invece di negoziare, direttamente con i notabili palestinesi, un regime di autonomia, cioè quanto l’accordo di Camp David con l’Egitto codificava e l’accordo di Oslo con l’Olp avrebbe poi messo in pratica. Ma la guerra aveva creato nuove condizioni e se il mondo arabo sperava, alla vigilia del 5 giugno 1967, in una rivincita che portasse alla completa distruzione d’Israele, dopo una sconfitta così umiliante non era di certo pronto a cambiar corso e accettare i principi contenuti nella proposta israeliana. I cardini di quella visione furono nonostante tutto negoziati e sanciti internazionalmente nella risoluzione Onu 242, approvata dal Consiglio di sicurezza il 22 novembre 1967. Ma i termini di quella risoluzione, tenuti notoriamente ambigui per evitare il veto incrociato delle due superpotenze, sono stati messi in pratica da Israele ed Egitto soltanto dopo un’altra guerra. Tra Siria e Israele e tra Israele e palestinesi manca ancora un accordo che chiuda la partita. Il dopoguerra del 1967 mostra come la finestra d’opportunità – se mai era stata spalancata dal conflitto – si chiuse rapidamente. Il mondo arabo, sconvolto dagli esiti della guerra, cercò scuse e capri espiatori, accusando Stati Uniti e Inghilterra di aver partecipato, a fianco d’Israele, nelle ostilità. Non potendo capacitarsi di esser stati umiliati e sconfitti dagli ebrei soltanto sul campo di battaglia in maniera così eclatante, i nazionalisti arabi tacciarono gli americani di tradimento, rompendo le relazioni diplomatiche con l’America. Non potendo ammettere che la retorica panaraba da sola non poteva vincere una guerra, fu più facile abbracciare un vittimismo terzomondista e antimperialista che scaricava le colpe del disastro arabo su un complotto occidentale [DOlCHSTOSS?? D] piuttosto che ammettere le proprie colpe e insufficienze. Un esame di coscienza avrebbe forse portato a ben altri esiti, ma l’11 giugno del 1967 il mondo arabo non era pronto a guardarsi allo specchio.
    L’Egitto avrebbe riaperto le porte agli Stati Uniti solo dopo la guerra del 1973. I regimi baathisti, Iraq e Siria, avrebbero aspettato ancora a lungo. Alle monarchie conservatrici fu permesso di mantenere quei rapporti, ma al costo di sostenere lo sforzo bellico egiziano contro Israele. I termini del nuovo status quo arabo furono negoziati a Khartoum nel settembre 1967. Dal summit della Lega araba convenuto nella capitale sudanese emersero i tre no a Israele: no al riconoscimento, no alla normalizzazione, no alla pace. Il rifiuto arabo, coniugato all’euforia israeliana che la vittoria aveva provocato, rese la proposta di Gerusalemme lettera morta. Nell’estate del 1968 iniziarono i primi insediamenti israeliani e il movimento per la Grande Israele prese forma grazie al sostegno di prominenti figure intellettuali della sinistra laburista . I sovietici, responsabili di aver fornito la scusa per l’apertura
    delle ostilità al presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, continuarono a sostenere il fronte del rifiuto e ruppero le relazioni diplomatiche con Israele. Gli americani consolidarono invece i loro rapporti con lo stato ebraico. E la guerra fredda fece il resto. Sei giorni di guerra e le conseguenze di quel conflitto continuano a pesare sulla regione quasi quaranta anni dopo. Quattordici giorni di luglio nell’estate del 2000 avrebbero potuto egualmente sconvolgere il medio oriente, rompendo tutti i tabù che 33 anni di conflitti, occasioni perdute e diplomazia avevano contribuito a consolidare. L’incapacità di Yasser Arafat di cogliere l’occasione di un accordo permanente con Israele e abbandonare per sempre i sogni di una Grande Palestina che sostituisse lo Stato ebraico invece che vivergli accanto resero il summit di Camp David non solo un fallimento diplomatico ma il preludio a un
    nuovo conflitto. Gli errori diplomatici americani, lo scarso appoggio saudita ed egiziano, le dinamiche politiche interne di Israele e Stati Uniti alla vigilia di un’elezione presidenziale contribuirono a ridurre lo spazio di manovra dei leader dopo il fallimento del summit e, con l’inizio della seconda Intifada alla fine del settembre del 2000, si perse infine l’occasione di portare a termine il processo di Oslo, iniziato sette anni prima sotto ben altri auspici.
    La dinamica del conflitto sostituì rapidamente gli spazi interlocutori esistenti tra le parti e rese impossibile
    ogni ritorno al tavolo dell’accordo. Ma la natura dei negoziati che lo avevano preceduto, e in parte accompagnato durante le sue prime fasi, aveva chiarito come in realtà il conflitto fosse un’opzione razionale per i palestinesi, alla luce dei risultati del summit: non esisteva infatti un punto d’incontro tra le esigenze di palestinesi e israeliani e un accordo, perduranti i rapporti di forza tra le parti, non era dunque possibile, a meno che i palestinesi fossero stati disposti a rinunciare ad alcune delle loro pretese. La guerra era una scelta logica perché uno scontro con Israele non poteva che riequilibrare i rapporti di forza a favore dei palestinesi e a discapito di Israele, offrendo, attraverso una combinazione di terrorismo, intransigenza diplomatica e pressioni internazionali, lo spiraglio per ulteriori concessioni israeliane. L’errore di calcolo fatto da Arafat nell’abbracciare l’Intifada, scoppiata spontaneamente all’indomani della visita di Ariel Sharon al Monte del Tempio, luogo sacro a ebrei e musulmani, fu nel non arrestarne la furia distruttiva dopo le prime settimane, quando significative concessioni israeliane, sotto pressione per la violenza e l’immagine negativa accumulata a causa della risposta militare, erano ancora possibili. Ma Arafat ritenne che l’Intifada avrebbe fatto il suo gioco, portando Israele a capitolare su Gerusalemme e sui rifugiati. Le radici dell’Intifada si trovano dunque nel fallimento di Camp David e nella speranza palestinese, frustrata dalla reazione israeliana, di ottenere migliori termini d’accordo da parte di un’Israele indebolita militarmente, isolata diplomaticamente e impaurita psicologicamente dall’ondata di terrorismo scatenata da tutti i gruppi palestinesi, nazionalisti o integralisti, contro la popolazione civile israeliana. Il summit rappresenta una sorta di momento della verità che ha messo a nudo come la diplomazia avesse esaurito il suo corso e solo le armi avrebbero potuto, in un calcolo razionale rivelatosi per altro spericolato ed errato, cambiare le sorti dei palestinesi. Quel momento della verità condiziona tuttora il conflitto. Le radici del ritiro da Gaza si trovano similmente nelle cause del fallimento di Camp David, inteso come momento della verità, durante il quale, scoperte tutte le carte sul tavolo, è apparso chiaro come l’accordo di Oslo, firmato da Arafat nel 1993, non riflettesse un’accettazione palestinese d’Israele come legittima espressione del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico, bensì una temporanea rassegnazione palestinese alla realtà d’Israele , che uno stato palestinese negoziato nei termini di quegli accordi avrebbe dovuto col tempo prima indebolire e poi soppiantare. Alla luce di queste esperienze, potranno quattro settimane di agosto e settembre nel 2005 riaprire il dialogo, ora che un nuovo evento epocale si profila all’orizzonte della storia del conflitto? O il sipario si richiuderà sui protagonisti una volta ancora, aggiungengo un’ulteriore opportunità perduta alla lunga lista di occasioni perse di cui la storia del conflitto è ricca? Lunedì entra in vigore la legge israeliana sul disimpegno unilaterale da Gaza. L’esercito e la polizia procederanno poi, entro quarantotto ore, con l’evacuazione di 25 insediamenti nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania settentrionale. Il ritiro avverrà in quattro fasi: prima i tre insediamenti di Netzarim, Morag e Kfar Darom nella Striscia; poi quattro insediamenti in Cisgiordania; la terza fase riguarda il blocco dei settlement nel sud della Striscia, Gush Katif; la quarta fase infine comprende i tre insediamenti nel nord della Striscia al confine con Israele. Il rischio di scontri violenti tra oppositori del ritiro ed esercito preoccupa non soltanto per il trauma che rischia di provocare nella coscienza collettiva israeliana, ma anche perché, a livello politico, quanto maggiori sono le tensioni e il costo umano del ritiro tanto minore sarà lo spazio diplomatico di manovra per Sharon una volta completato il disimpegno. Ma il destino politico del premier israeliano e di coloro che, come lui, credono nella necessità di un compromesso territoriale, non è solo nelle mani degli oppositori del ritiro e nella violenza che alcuni facinorosi potrebbero scatenare per sabotarlo.
    Il successo dell’impresa dipende dalla volontà palestinese di sfruttare questa occasione per gettare le basi di un nuovo processo negoziale con Israele. E osservando i limiti della leadership palestinese appare chiaro che le chance di una nuova stagione di diplomazia siano piuttosto ridotte.
    Chi difende il disimpegno da parte israeliana sottolinea di solito come il ritiro da Gaza può creare le condizioni per un ulteriore disimpegno israeliano da altre parti della Cisgiordania e delineare
    un nuovo orizzonte politico meno teso tra palestinesi e israeliani. Chi si oppone sottolinea invece come il rischio maggiore del disimpegno sia che i palestinesi lo interpretino come un cedimento israeliano sotto pressione, che dimostra come la violenza paghi. In quel caso ci si dovrebbe aspettare una recrudescenza dell’Intifada con la differenza che Gaza potrebbe diventare una nuova base terroristica come lo furono la Giordania fino al 1970 e successivamente il Libano.
    Entrambe queste previsioni sono plausibili e spetterà anche ai palestinesi quindi determinare il corso degli eventi a ritiro concluso. Ma gli ostacoli al disimpegno e quanto gli ottimisti sperano che ne segua suggeriscono una lettura differente degli eventi. Quale che sia infatti l’esito del ritiro, le due società, israeliana e palestinese, saranno troppo occupate ad affrontare le divisioni interne e le contraddizioni politiche che il disimpegno metterà a nudo. Già nei mesi scorsi è apparso evidente che l’opportunità di trasformare il ritiro unilaterale in un gesto coordinato tra israeliani e palestinesi che potesse essere interpretato come parte della road map non sarebbe stata colta dalle parti. Israeliani e palestinesi avrebbero potuto minimizzare le possibili tensioni e frizioni e accordarsi su un numero di questioni operative – ma anche politiche – riguardanti il disimpegno. Invece, il coordinamento è stato minimo e ha prodotto scarsi risultati. I palestinesi, presi dalla doppia crisi delle proprie divisioni interne (con rischio di guerra civile) e del cambio di leadership che ha seguito la morte di Arafat, non hanno lo spazio politico per manovrare in maniera da soddisfare le condizioni minime israeliane per il ritorno alla road map. Per Israele e il suo primo ministro, un ritiro senza contropartita non può essere il preludio a ulteriori concessioni territoriali se esso
    è accompagnato da attacchi terroristici, e adombrato dalla minaccia di una guerra civile palestinese che getterebbe Gaza nel caos, consegnandola nelle mani del terrorismo. Il prezzo di enormi tensioni e traumi per la società israeliana è già di per sé alto e con tutta probabilità Sharon non oserà oltre, una volta completato il ritiro, almeno fino alle elezioni politiche, dove il vecchio leader cercherebbe un nuovo mandato per continuare la sua visione politica. Se a esso si accompagnasse l’avverarsi di uno scenario negativo e turbolento nella Striscia di Gaza difficilmente ci saranno ulteriori progressi. Se a questo poi si va ad aggiungere l’erosione di consensi per Sharon all’interno del suo partito e la sfida politica che gli arriva da destra nella persona di Benjamin Netanyahu – che ha dato le dimissioni da ministro delle Finanze proprio per la sua opposizione al ritiro – appare ovvio come Sharon difficilmente si getterà in nuove e avventurose iniziative diplomatiche nei prossimi mesi. Di sicuro, poi, Israele esigerà dai palestinesi la piena presa di responsabilità sulla questione sicurezza e si aspetterà che finalmente il leader dell’Anp, Abu Mazen, si impegni a mettere in atto la prima fase della road map, che impone ai palestinesi di disarmare le organizzazioni terroristiche e di riformare i propri servizi di sicurezza. Ma Abu Mazen difficilmente sceglierà questa strada. Il presidente palestinese ha finora preferito dialogare con i terroristi, cercando di cooptarli nel processo politico, con la speranza che essi si facciano infine assorbire nella milizia palestinese e rinuncino a perseguire i loro scopi con la violenza. Manca la volontà politica di affrontare una crisi il cui costo sarà indubbiamente alto. Ma il prezzo per la cooperazione di Hamas, con tutte le incognite che essa comunque comporta, è che Abu Mazen sarà ulteriormente condizionato da una forza politica estremista
    in caso di negoziati con Israele, avendo dunque uno spazio di manovra politico, in termini di possibili concessioni, ancor più ridotto.
    Il dopo ritiro da Gaza non offre distensione, promette invece un irrigidimento delle posizioni. All’indomani del ritiro i palestinesi si troveranno dunque a dover fare i conti con l’obbligo di assumere il potere e governare Gaza. Finora la loro linea ufficiale è quella di sostenere che il ritiro non metterebbe fine all’occupazione e quindi, continua l’argomentazione
    palestinese, l’Autorità non si sentirebbe investita dell’obbligo di confrontarsi con gli estremisti e il terrorismo che da Gaza scaturisce. L’impressione è quindi che i palestinesi cercheranno di mascherare la loro intrinseca debolezza incolpando
    Israele, invece di cercare di ovviare all’inconveniente. Spetta ai palestinesi decidere se, all’indomani del ritiro, essi preferiscono costruire uno Stato e una nuova società a Gaza o se vogliono invece continuare a cercar di distruggere la società e lo Stato della porta accanto.
    I segnali che giungono per il momento
    da Gaza sono che la prima opzione ha un prezzo politico troppo alto e una volontà troppo esigua per essere adottata. Nessuno fermerà il terrorismo a Gaza ed eventuali attacchi, durante o dopo l’evacuazione, non faranno altro che scatenare una reazione militare israeliana che non ha precedenti nei cinque anni d’Intifada appena trascorsi. Sharon inizia il disimpegno con una maggioranza parlamentare più solida di quella che sosteneva Ehud Barak alla vigilia del summit di Camp David nel luglio del 2000, ma la coalizione di Sharon si regge sull’alleanza tra laburisti e la componente pragmatica e centrista del Likud. La ragion d’essere di questa alleanza è il ritiro. Una volta completato il disimpegno, difficilmente l’alleanza potrà tenere e Sharon, perduta rapidamente la sua maggioranza, si vedrà costretto a convocare nuove elezioni, probabilmente tra marzo e giugno del
    2006. In un periodo di incertezza politica a ridosso delle elezioni e successivo a un evento così traumatico e senza precedenti come il ritiro da Gaza, difficilmente un governo uscente e in minoranza parlamentare potrà e vorrà lanciare nuove iniziative diplomatiche. Una volta finito il ritiro inizia il conto alla rovescia per le nuove elezioni israeliane. Tutto si fermerà di nuovo. Esiste infine l’incognita violenza tra israeliani. Anche se gli esperti sono pressoché unanimi nel riconoscere come l’opzione violenta sia contemplata da una piccola minoranza, bastano pochi estremisti per un atto risoluto e disperato con gravi conseguenze e ripercussioni.
    L’attacco terrorista contro un autobus nella cittadina araba israeliana di Shfaram – che ha lasciato sul terreno quattro vittime oltre che il terrorista linciato dalla folla – dimostra come basti poco per far precipitare la situazione. Atti di violenza tra israeliani sarebbero ancor più traumatici nella cornice del ritiro e con tutta probabilità renderebbero ogni ulteriore ritiro impossibile per il momento da contemplare. I giorni di ferragosto sono attesi da tutti coloro che si occupano di medio oriente con grandi speranze e aspettative. Il ritiro israeliano potrebbe permettere finalmente di voltare pagina offrendo per la prima volta un’atmosfera positiva su cui costruire un dialogo politico dopo cinque anni di guerra e di lutti. Ma la realtà è un’altra: Abu Mazen sarà troppo debole per sfidare Hamas e l’Autorità palestinese non avrà né la forza operativa né la volontà politica per prendere il controllo di Gaza; la società israeliana sarà troppo traumatizzata dagli eventi del ritiro e dalla violenza che lo accompagnerà e seguirà – sia essa palestinese
    o intra-israeliana – e Sharon, sotto pressione e con la sua carriera a rischio, lascerà al dopo elezioni la decisione se proseguire con ulteriori ritiri nella Cisgiordania o meno. Come accadde in simili circostanze storiche in passato, l’occasione di una distensione tra israeliani e palestinesi sfumerà forse prima ancora di materializzarsi. I limiti politici e militari che le circostanze del ritiro imporranno ai leader delle due società saranno tali da impedire, con tutta probabilità, che dal ritiro nasca un nuovo momento di speranza tra le parti in causa nel conflitto arabo-israeliano .
    "


    Shalom

  4. #24
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    Il forum mi pare un pò deserto in questi giorni vacanzieri... Forse sarebbe il caso di riprendere la rassegna stampa quando ci saranno più utenti a leggere secondo me...
    Quando le armi saranno fuorilegge, solo i fuorilegge avranno le armi

  5. #25
    SENATORE di POL
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    Sul quotidiano Libero del 16 agosto 2005, a pag. 14, Angelo Pezzana firma un articolo dal titolo .........



    " «Raduno anti- islam al Muro del pianto. Israele trema»



    Gli israeliani guardano il calendario dei prossimi giorni con grande preoccupazione. Cosa succederà mercoledì, quando esercito e polizia daranno inizio alla definitiva evacuazione da Gaza? Ma la scelta del mese di agosto obbliga gli israeliani a fare i conti anche con un'altra data che non desta minori preoccupazioni. Oggi infatti è il nono giorno del mese di Av, in ebraico Tishà be Av, data che tutti gli anni viene celebrata con un digiuno per ricordare la distruzione del Tempio di Gerusalemme, in due date diverse ma nello stesso mese e nello stesso giorno. Il primo fu raso al suolo dai Babilonesi, che nel 586 AC conquistarono la città e ne deportarono la popolazione. Più o meno la stessa cosa successe nel 70 AD, quando a comandare erano i Romani. Nel Tempio i sacerdoti offrivano sacrifici donati dall'imperatore, finchè, spinti dai gruppi più estremisti, smisero di farlo, provocando l'ira di Roma. Che diede alle fiamme il Tempio e con le sue rovine ebbe fine l'indipendenza dello Stato ebraico, provocando quella diaspora che ebbe termine solo nel 1948 con il moderno Stato d'Israele. Date che segnano due sconfitte totali per gli ebrei, ricordate per i lutti che hanno significato, ma evidentemente troppo poco analizzate nei loro vari aspetti. Si ricorda Tishà be Av con un digiuno, si prega davanti a quel che resta del Tempio, il Kotel ovvero il muro del pianto, ma l'analisi di quelle sconfitte non è mai veramente diventato un argomento di dibattito collettivo. Ne è prova il fatto che i più coinvolti sono quei gruppi super ortodossi che da anni ne chiedono la ricostruzione, come si può vedere dai modelli di un terzo tempio esposti nelle vetrine di qualche negozio della città vecchia. Che l'uscita da Gaza avvenga nello stesso mese e quasi nello stesso giorno ha dato fiato a tutte quelle correnti super religiose che vedono nell'abbandono della terra degli avi un peccato contro l'Onnipotente. Una specie di ripetizione, per la terza volta, di quanto avvenne nel nono giorno del mese di Av. Un segno divino che dovrebbe spingere il governo a retrocedere da quanto deciso. Ma chi guarda solo ai lutti del passato, senza elaborarli con la dovuta analisi storica, non si è accorto che il terzo Tempio Israele l'ha già riedificato. È la Knesset, il luogo per eccellenza dello Stato democratico. Chi ancora si oppone all'abbandono di Gaza si augura che in questi giorni, forse già oggi, migliaia e migliaia di cittadini manifestino la loro opposizione al governo riempiendo la piazza antistante il muro occidentale, dando alla loro presenza un significato denso di religiosità. Senza accorgersi che gli stessi pensieri sono venuti anche alle autorità islamiche, che hanno chiamato a raccolta i fedeli per " proteggere" le moschee che si trovano in cima al Kotel. Come dire, una miscela più adatta non poteva essere trovata per far nascere quella catastrofe che tutti temono ma che qualcuno si augura per blocccare in modo definitivo Sharon. Se questi giorni trascorreranno senza gravi incidenti a Gerusalemme sarà il segnale di via libera anche per Gaza.
    "


    Shalom

  6. #26
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    " Un primo passo verso la spartizione

    Da un articolo di Alex Fishman

    La chiusura del valico di Kissufim è stata qualcosa di più del semplice inizio del ritiro da Gaza. Quando, domenica a mezzanotte, il comandante delle Forze di Difesa israeliane nel sud Dan Harel ha sigillato quel cancello, di fatto ha posto la prima pietra di una cruciale mossa politica con ampie implicazioni storiche. Si tratta del punto i partenza di un lungo viaggio – la cui tappa finale è ancora ignota – volto a istituire confini permanenti per Israele e per lo stato palestinese.
    È un tema che ha dominato l’agenda per decenni. Decine di iniziative diplomatiche – israeliane, americane e di altri – sono emerse e sono state abbandonate. Domenica scorsa, piaccia o non piaccia, il processo si è avviato. Lo storico Piano di Spartizione [del 1947], rivisto e aggiornato per adeguarsi ai tempi, è stato risvegliato. Violento, rabbioso, balbettante, lacerante, ma vivo e vegeto. È il piano di spartizione che segna la differenza fra il ritiro israeliano dalla penisola del Sinai nel 1982 e il ritiro dalla striscia di Gaza del 2005. […]
    Domenica ha avuto luogo anche un altro evento storico, sebbene su scala minore. Il comandante israeliano delle divisione di Gaza Aviv Kochavi con i suoi ufficiali ha operato in cooperazione con il capo della Sicurezza Nazionale palestinese e il suo staff: forze israeliane e palestinesi hanno iniziato a schierarsi su un doppio sbarramento che dovrà impedire attacchi terroristici durante le operazioni di disimpegno.

    (Da: YnetNews, 15.08.05)
    "


    Shalom

  7. #27
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    pagina 14 del quotidiano Libero del 23 agosto 2005, Angelo Pezzana firma un articolo dal titolo ..........


    " «Finito lo sgombero di Gaza oggi parte in Cisgiordania»




    I rotoli della Torah sono sati portati via per ultimi, la grande menorah (candelabro a sette braccia) è stata definitivamente rimossa dalla sinagoga. con lo sgombero di Netzarim, nè un israeliano nè un simbolo della religione ebraica restano più nella Striscia di Gaza: si sono infatti concluse ieri nel pomeriggio le operazioni di disimpegno delle 21 colonie. Le ultime famiglie hanno abbandonato con rassegnazione le proprie abitazioni, senza opporre particolare resistenza. Oggi iniziaeranno in Cisgiordania le operazioni per svuotare le colonie di Homesh e Sa Nur dove sono asserragliati centinaia di estremisti della destra.

    Paradossale il destino di Israele. Ha subito negli ultimi sessant'anni cinque guerre che avevano come scopo la sua distruzione e il mondo, salvo poche eccezioni, gliene ha sempre attribuito la responsabilità, quasi come se difendere la propria esistenza fosse un segno di colpa. Silenzio invece su chi le guerre aveva voluto e massima comprensione per i palestinesi. Adesso che Ariel Sharon, da quel grande statista che ha dato prova di essere, restituisce quella Gaza che nel 1967 (guerra dei sei giorni) nemmeno l'Egitto aveva voluto e si appresta a fare lo stesso con gli insediamenti di Cisgiordania situati in zone densamente popolate da palestinesi, ebbene, anche in questo caso gli si rimprovera già di non avere fatto abbastanza, che deve fare molto, molto di più. Ma Sharon, una volta evacuate le piccole colonie, non è pensabile che possa cancellare quanto è avvenuto dal 1948 ad oggi. E' forse opportuno ricordare che se gli arabi avessere accettato la spartizione voluta dall'ONU della Palestina in due Stati- che Israele, differentemente da loro ha invece accettato- i palestinesi il loro Stato lo avrebbero, come gli ebrei, da allora. Troppo comodo tirare in ballo i campi profughi e attribuirne
    la reponsabilità a Israele. La Cisgiordania non è più quella del 1948 nè quella del 1967. Di questo il mondo e i palestinesi devono prenderne atto. E' questo in sostanza il senso delle parole pronunciate domenica da Sharon, mentre i buldozer cominciavano già a radere al suolo le case del Gush Katif a Gaza. Una evacuazione che in Cisgiordania non si ripeterà nello stesso modo. Non ci sarà una seconda Gaza, anche perchè è completamente diversa la situazione. Abbiamo già raccontato sabato come due insediamenti siano già vuoti, Ganim e Kadim, mentre nei prossimi giorni toccherà a Homesh e Sa-Nur, la cui evacuazione presenterà problemi molto maggiori di Gaza, vista la presenza di infiltrati forse armati e per la natura del territorio che ne ha consentito l'ingresso.
    Ma in Samaria e Giudea ci sono circa 250.000 israeliani, per la maggior parte stanziati in città come Ariel (con i suoi satelliti di Beit El,Shilo) oppure Ma'alè Adumim, che si può tranquillamente definire un prolungamento di Gerusalemme, c'è Alfei Menashè e altre, per le quali ormai vale la definizione diplomatica di "fatto compiuto", nel senso che sono città nel senso più completo della parola. Se le si è viste anche una solo volta si capisce bene che la sola idea di smantellamento è un non senso. Queste città, e altre simili, rimarranno dentro i confini di Israele, ha confermato Sharon.
    Confini che dovranno essere ridisegnati di comune accordo. I palestinesi si siedano intorno a un tavolo con gli israeliani e discutano gli assetti futuri. Sharon si è dimostrato disponibile, "Non si arriverà a una divisone in due del West Bank, le soluzioni verranno trovate" ha aggiunto.
    Siamo andati nei giorni scorsi a vedere la cittadina di Alfei Menashè, situata in quelli che vengono defini i "territori" , anche se è fuori dalla lnea verde di soli 2 Km. Ci vivono circa 7000 persone ( 1450 famiglie) e dall'osservatorio panoramico in cima alla collina basta un colpo d'occhio per vedere Haifa a Nord e Ashkelon a Sud. Fondata nel 1982, a guardarla oggi sembra di essere in Svizzera, ordinata, piena di viali e giardini ben curati, non un solo condominio ma solo ville massimo due piani costruite in base ad un piano urbanistico intelligente e rispettato. La richiesta di abitazioni è molto alta ed è facile capire il perchè. La qualità della vita è alta, Tel Aviv è a 20 minuti d'auto, le case costano il 30% in meno (dovuto al fatto che il destino di Alfei Menashè non è ancora sicuro in modo definitivo). Eppure questa piccola e bellissima città è l'esempio di come una soluzione possa essere trovata in un futuro molto vicino. La barriera di sicurezza la separa da Kalkilia e da Hable, due città palestinesi dalle quali partivano gli attentatori suicidi per entrare in Israele. Dopo la costruzione della barriera non più. Alfei Menashè non ha nulla dell'insediamento, è una città in nulla differente dalle altre, in più ha sempre saputo garantire ai suoi cittadini la massima sicurezza. Anche dai suoi vicini più prossimi, quelli di kalkilia.
    Possiamo dire, uscendo dal politicamente corretto, che i confini futuri dovranno tenere conto del fatto compiuto che già oggi separa le città palestinesi da quelle israeliane ? Per arrivare alla massima "afradà" (separazione) possibile tra arabi ed ebrei, la sola condizione che permetterà di vivere in due Stati indipendenti, non si potrà non tenere conto della realtà di oggi.
    "

    Shalom

  8. #28
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    La vittoria di Tsahal

    A pagina 1 del quotidiano Il Foglio del 24 agosto 2005, Michael Oren firma un articolo dal titolo ........


    " «L'orgoglio di un soldato»


    Michael Oren, membro dello Shalem Center di Gerusalemme, storico, autore di “La guerra dei sei giorni. Giugno 1967: alle origini del conflitto arabo-israeliano” (Mondadori), ha raccontato ieri sul Wall Street Journal il “suo” ritiro da Gaza. Ecco il testo dell’articolo.


    Gerusalemme. Con migliaia di ebrei sedevo per terra, davanti al muro occidentale di Gerusalemme. Era la mezzanotte del nono giorno del mese di Av, il giorno in cui, secondo la tradizione, gli invasori per due volte travolsero i difensori della città, abbattendo il tempio e l’indipendenza ebraica in Israele. 2000 anni dopo, c’è un nuovo Stato ebraico con un potente esercito ma gli ebrei continuano a piangere quel giorno, e ora con particolare fervore. Per la prima volta nella storia, antica o moderna, questo Stato avrebbe inviato l’esercito non a difendere gli ebrei da aggressioni straniere, ma per cacciarli da quella che molti considerano la propria terra, data loro da Dio, a Gaza.
    Io avrei partecipato all’operazione. Tra poche ore avrei messo da parte il mio lavoro di storico e mi sarei messo a disposizione per il servizio di riserva, come maggiore nell’ufficio del portavoce dell’esercito. Avevo sentimenti ambivalenti. Volevo che avesse fine l’occupazione degli 1,4 milioni di palestinesi di Gaza, ma temevo di avallare le dichiarazioni dei terroristi secondo cui Israele serebbe fuggito sotto la minaccia del fuoco. Volevo che lo Stato avesse confini che gli israeliani potessero difendere, ma tremavo all’idea di tornare ai confini indifendibili di prima del ’67. Volevo onorare il mio dovere di soldato delle Forze di difesa israeliane (IDF), ma mi chiedevo se sarei stato capace di trascinare altri israeliani via dalle loro case o di rispondere al fuoco. Nulla, nei miei 25 anni nell’esercito, mi aveva preparato all’orrore di ebrei che combattevano altri ebrei. Su di me pesava la minaccia che poteva creare il disimpegno dello Stato ebraico, mentre piangevo la perdita dei suoi antichi predecessori. Poi qualcuno mi saluta: “Michael! Shalom!”. Alzo gli occhi a incontrare il sorriso di un rabbino ultra-ortodosso, barba bianca e capelli d’argento. “Sono io: Amnon!”. Sono senza parole. Nel lontano ’82, quando era un bel soldato, squadra d’assalto, Amnon aveva combattuto con me a Beirut. Ora è un Hassid. Parliamo delle strade diverse che le nostre vite hanno imboccato e poi inesorabilmente discutiamo del disimpegno. Lui giura che Dio salverà i coloni o punirà coloro che li cacceranno. Gli dico cosa mi accingo a fare all’alba. Il fatto che io, alla mia età, presti ancora servizio di riserva fa ridere Amnon, ma solo per poco. Usando parole che poi sentirò dire più e più volte, mi chiede come è possibile che io violi il sacro giuramento fatto all’esercito, di “amare la patria ebraica e i suoi cittadini” e di “sacrificare tutte le mie forze e anche la vita” per difenderli. Mi rammenta che l’odio tra gli ebrei ha agevolato la distruzione dei templi e mi biasima per voler partecipare alla rovina di questo, del terzo Stato ebraico. Mi aggredisce: “Dovresti vergognarti!”.

    Dovrei vergognarmi?
    In realtà lo stesso codice etico che vincola i membri dell’IDF li obbliga a “custodire le leggi di Israele” e i suoi “valori di Stato ebraico e democratico”. Tanto il governo quanto la Knesset hanno approvato il disimpegno, come mezzo di salvaguardia dell’integrità demografica e democratica. Operando in conformità con queste decisioni, l’IDF adempirà a uno dei suoi compiti fondamentali. Ma sarà possibile conciliare questa missione col compito di evacuare e radere al suolo villaggi israeliani? Potrà l’esercito, che per anni ha cercato di “proteggere la vita, l’integrità e le proprietà” dei civili nemici, sfrattare con la forza una popolazione civile ebraica? Queste domande assillavano me e i 55 mila soldati raccolti a Gaza, all’alba della più grande operazione dell’IDF dai tempi della guerra di Yom Kippur. Le risposte all’inizio non erano chiare. Nell’attraversare diversi insediamenti, i veicoli dell’esercito, compreso il bus in cui viaggiavo, erano assaltati da giovani che brandivano coltelli e tagliavano gomme. Ci guardavano con aria di sfida, in attesa che l’esercito rispondesse alla provocazione. Ma l’esercito non reagiva: meglio lasciare che sbolliscano la rabbia, pensavamo.
    A Re’im, una tendopoli polverosa, ho osservato un battaglione che si esercitava nelle tecniche anti-sommossa. Donne e uomini, religiosi e laici, israeliani di nascita e immigrati dalla Russia e dall’Etiopia, avevano lasciato le normali incombenze per unirsi alle forze impegnate nel disimpegno. Se si chiedeva loro che pensassero di Gaza, rispondevano che le loro opinioni erano irrilevanti, che, come soldati, avevano il dovere di eseguire le istruzioni del governo legittimamente eletto. La missione, ammettevano, era dura, ma essenziale per la difesa della democrazia. Quella notte abbiamo guardato gli ufficiali del battaglione, molti di loro piloti da combattimento, mentre esaminavano le foto aeree delle colonie di Badolah e Netzer Hazany. Si distribuivano opuscoli con i dettagli dell’autorità legale in forza della quale i militari potevano richiedere ai coloni di evacuare le case e arrestare coloro che si rifiutavano. Abbiamo ascoltato il comandante ricordare ai soldati le tre settimane di addestramento ricevuto per questo scopo e ribadire la necessità di dimostrarsi sensibili al dolore dei coloni, ma determinati a raggiungere i propri obiettivi. Ha augurato a tutti buona fortuna. Poche ore dopo, alle 4 del mattino, ci mettevamo in movimento.
    In formazione da combattimento a colonne appaiate ci siamo avvicinati agli insediamenti. Con i cancelli barricati e le case avvolte dal fumo dei copertoni e dei rifiuti incendiati, sembravano campi di battaglia. Ma siamo arrivati disarmati, senza caschi né giubbotti anti-schegge, ma solo col giubbetto decorato con la Menorah e la Stella di Davide. Da quasi un mese équipe di psicologi dell’esercito e rabbini si erano dedicati a persuadere i coloni che il disimpegno era una realtà di fatto e che avrebbero dovuto astenersi dalla violenza. Eppure, da dietro i cancelli, i giovani lanciavano su di noi uova e palloncini di vernice, mentre molti genitori ci rimproveravano con parole che ricordavano quelle di Amnon: “Voi disonorate le vostre divise!” e peggio: “Non siete niente di meglio dei nazisti!”. I soldati hanno sopportato impassibili le uova e le invettive e, quando un bulldozer ha fatto breccia nelle barricate, si sono distribuiti lungo le strade.

    All’interno, le sfide più dure
    La madre di un ragazzo ucciso dai terroristi si era chiusa nella sua stanza, con taniche di benzina cui minacciava di dare fuoco. Anche un’altra famiglia, il cui figlio, un soldato d’assalto della Marina, era caduto in Libano, era riluttante ad andarsene. Casa dopo casa, squadre di militari hanno ascoltato con pazienza mentre i genitori delle famiglie di coloni li supplicavano di cambiare idea e di lasciarli restare, gemendo e strappandosi le vesti. Le donne soldato hanno giocato con i bambini in lacrime, raccontando loro delle storie, abbracciandoli. Alla fine, però, ogni famiglia è stata portata sull’autobus che serviva all’evacuazione, lasciando i soldati emotivamente estenuati, ma pronti a passare alla casa successiva, alla tragedia successiva. La prova più dura cui sono state sottoposte la forza e l’umanità del battaglione è stata nella sinagoga di Badolah, dove i coloni hanno ottenuto di dedicare un’ora a una preghiera per la partenza. Dopo due ore di attesa al sole cocente i soldati hanno deciso di entrare. La scena che li ha accolti è stata scioccante: i coloni erano aggrappati ai banchi, all’Arca e ai rotoli della Torah, o si contorcevano sul pavimento. Le truppe hanno cercato di confortarli, ma loro stessi sono crollati, e presto soldati e coloni si sono abbracciati in un comune dolore e desiderio di consolazione. Infine i coloni sono stati scortati o trasportati, in singhiozzi, sugli autobus. Ma il loro rabbino, insistendo sul bisogno di un gesto di conclusione, ha chiesto il permesso di parlare ai soldati, e il comandante, ammirevolmente, lo ha accordato. Così è accaduto che 500 soldati e 100 coloni siano rimasti sull’attenti, con le bandiere israeliane che sventolavano, mentre il rabbino ha parlato dell’importanza di incanalare il dolore nella creazione di una società più ricca di amore e più etica. “Siamo ancora un popolo, uno Stato”, ha detto. Assieme, gli sfrattati e coloro che li avevano prelevati, hanno cantato “Hatikvah”, l’inno nazionale: “La Speranza”.
    Il disimpegno da Gaza, che secondo i piani originari avrebbe dovuto impiegare tre settimane, è stato ultimato quasi nello stesso numero di giorni. Pochi feriti, nessuno grave, nessun israeliano ha perso la vita. Solo due militari si sono rifiutati di eseguire gli ordini, e in un caso un’unità di soldati religiosi è rimasta ferma a osservare mentre il loro rabbino veniva evacuato. Se bisogna rendere merito all’autocontrollo dimostrato complessivamente dai coloni, il maggiore riconoscimento va all’IDF. Mai in precedenza un esercito aveva sfollato così tanti concittadini contro la loro volontà e in una situazione di perduranti attacchi terroristici, con tale straordinaria manifestazione di coraggio, disciplina e compassione. Conservo diversi dei miei presentimenti sul disimpegno: il fatto che stabilisca un precedente per il ritorno ai confini del ’67, l’incentivo al terrorismo. Per quanto riguarda il ruolo dell’esercito, però, non sento alcuna ambivalenza. Lo stesso esercito che ha dato l’indipendenza a Israele, che ha riunito Gerusalemme e ha attraversato il Canale di Suez, ha realizzato forse la sua più grande vittoria. Senza medaglie, è vero, senza conquiste, ma anche senza sparare un colpo. Vorrei rispondere ad Amnon: non mi vergogno, anzi sono profondamente orgoglioso delle Forze di difesa israeliane, della loro forza e della loro umanità.
    "

    Shalom

  9. #29
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    Sharon leader anche per la sinistra israeliana

    A pagina 18 del Corriere della Sera del 30 agosto 2005, Davide Frattini firma un articolo dal titolo ........

    " «La sinistra israeliana ora sogna Sharon»




    Dal generale al capitano. Dal capo del Likud al ribelle del partito. Dal premier a chi lo vorrebbe essere. Nel giorno in cui ha promesso agli israeliani «farò di tutto per portare la pace», Ariel Sharon è andato alla guerra con Benjamin Netanyahu e ha rodato lo slogan che userà nella sfida per la guida della destra: «Bibi è un pericolo per Israele» ha ripetuto in una lunga intervista al Canale 10. Eha elencato: «Bibi non regge sotto stress», «Bibi è facile al panico», «Bibi non ha i nervi saldi». Il primo ministro ha ricordato che la scelta di lasciare il governo alla vigilia del ritiro da Gaza è una tipica Bibi-decisione: «Abbandona sempre quando il gioco si fa duro, non è adatto a governare, certo non a governare un Paese unico come questo».
    Liquidato a parole il rivale nel Likud (Netanyahu dovrebbe anunciare oggi la candidatura alle primarie previste per la fine dell'anno), Sharon ha delineato le prossime mosse diplomatiche e il futuro della road map. Ha escluso un altro disimpegno unilaterale come quello nella Striscia, ma ha annunciato che non tutte le colonie in Cisgiordania verranno mantenute: «Lo sgombero di Gaza è stata una mossa in una sola fase. La mappa e i confini definitivi saranno disegnati solo nell'ultima tappa dei negoziati. Manterremo il controllo dei sei grandi blocchi che hanno una continuità territoriale con Israele, gli altri insediamenti potranno essere smantellati». Secondo Maariv, sarebbe imminente l'evacuazione delle 15 famiglie che si sono installate nella zona del mercato di Hebron.
    A 77 anni Sharon è pronto a correre per un terzo mandato e sa — come ha scritto Gideon Levy su Haaretz —che questa volta si gioca un posto nei libri di storia. «Voglio consentire ai cittadini israeliani di vivere in tranquillità, in pace e in sicurezza. Siamo uno Stato forte, armato e abbiamo un popolo coraggioso» ha detto il premier nell'intervista televisiva, la prima concessa dopo le operazioni a Gaza. Ha dedicato un solo passaggio (indiretto) all'incrimazione del figlio Omri per finanziamento illecito: «Qualcuno ci vuole screditare, ci chiama la "famiglia Sharon", come se fossimo legati a Cosa Nostra».
    Il primo ministro sa che, se non riuscirà a trovare sostegno nel Likud, dovrà presentarsi alle elezioni con un nuovo partito. Il Jerusalem Post ha raccolto le voci di due deputati laburisti — rimasti anonimi — che hanno lanciato la proposta di offrire a Sharon la guida della sinistra. Un'idea che sembra provocatoria oggi, ma potrebbe rappresentare quello che gli analisti politici hanno ribattezzato il «Big Bang», una coalizione di centro che metta insieme Sharon, Shimon Peres e Tommy Lapid.
    Chi è venuto allo scoperto è Ophir Pines-Paz, ministro degli Interni e leader della nuova guardia laburista. «Non siamo interessati a nuove elezioni. Dobbiamo sostenere questo governo perché il ritiro da Gaza ha dato una nuova spinta al processo di pace. Sharon ha dimostrato di essere un vero leader e credo che il presidente palestinese Mahmoud Abbas rappresenti un buon partner dopo che ha pubblicamente sconfessato il terrorismo».
    Anche Haaretz in un editoriale ha invitato il il partito di Shimon Peres a non lasciare il governo a novembre, quando il Parlamento si riunirà dopo la pausa estiva: «I laburisti non hanno niente di meglio da offrire agli elettori se non continuare a sostenere il primo ministro». Era stato Eitan Cabel, segretario del Labour, ad annunciare nei giorni scorsi che la formazione si stava preparando al voto anticipato.
    In un discorso dall'Arizona, il presidente George Bush ha elogiato il coraggio di Sharon e ha invitato Abbas a dimostrarne altrettanto contro il terrorismo.
    "

    Shalom

  10. #30
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    Intervista a Ehud Barak

    A pagina 14 del Corriere della Sera del 01 settembre 2005, Davide Frattini firma un articolo dal titolo................................

    " «Bravo Sharon, a Gaza è riuscito dove io falii »



    I numeri. La precisione. Mettere ordine dove c'è il caos. Calcolare e prevedere. Ehud Barak ripete di sentirsi un professore di matematica mancato, anche adesso che giocare con le cifre l'ha reso straricco (130 mila dollari al mese, stime di Haaretz nel 2003, tra consulenze, investimenti, partite in Borsa). Sorride autocompiaciuto, sa che se avesse scommesso sulla durata dello sgombero da Gaza avrebbe vinto. Quando ancora tutti parlavano di tre mesi — se fosse andata bene — l'ex premier laburista aveva deciso di incontrare il ministro della Difesa Shaul Mofaz e l'allora capo di Stato Maggiore Moshe Yaalon. «Non può andare avanti più di quattro o cinque giorni, ho detto. Se per l'inizio dello sabbath non è chiaro al mondo, agli israeliani e ai coloni che le operazioni sono sostanzialmente completate, con solo qualche sacca di resistenza, l'evacuazione rischia di trasformarsi in una tragedia». Aveva ricordato che quanto a ritiri unilaterali i suoi suggerimenti potevano servire, lui dal Libano se n'era andato in una notte.
    «Hanno seguito i miei consigli, ma nessuno qui sembra accorgersene. Dimenticano anche che Sharon ha realizzato parzialmente il mio progetto: lasciare la Striscia senza negoziati e costruire una barriera di sicurezza lungo i confini che erano sul tavolo a Camp David». Al leader della destra, che lo ha sconfitto alle elezioni del febbraio 2001, riconosce di aver avuto coraggio. «Ha realizzato quello che io non sono riuscito a fare: non ho potuto convincere il mio partito, lui è andato avanti senza preoccuparsi di avere tutti con lui. E' un merito che nessuno può togliergli. Quando ha capito che la sua strategia non stava funzionando, ha avuto la forza di cambiare. C'è solo arrivato troppo tardi e dopo troppe tombe». Barak è stato anche il primo a proclamare che dall'altra parte non c'era un partner, che con Yasser Arafat non si poteva dialogare. «La sinistra era convinta che si dovesse parlare con il raís, trattare sembrava la strada giusta, la parola unilaterale era bandita. Avrei avuto un solo modo per annientare quest'illusione: rendere pubblici i miei dubbi e sospetti su di lui. Avrebbero detto che stavo manipolando la realtà».
    L'ufficio di Barak è al ventesimo piano della Millennium Tower a Tel Aviv. All'ingresso ristoranti modaioli come il Messa (è frequentato dai calciatori dell'Hapoel), in cima una vista senza intoppi fino al mare. Qui l'ex premier tiene tutte le bozze dei suoi discorsi. Se vuole rileggere la commemorazione composta per la morte del padre, chiede all'assistente che venga trovato l'originale scritto a mano. «Solo in questo modo, con la mia calligrafia, recupero pienamente le emozioni e la forza delle parole». Ma non è qui che viene per pensare. «Ho bisogno della solitudine, di non essere distratto, il cellulare non deve squillare in continuazione. Negli ultimi anni ho capito che vedere gente, passare da un incontro all'altro non è fondamentale. Bisogna rimanere soli per riflettere e prendere le decisioni ».
    Barak ricorda una sola sbronza colossale, la prima e l'ultima, dopo un'operazione con i suoi uomini della Sayeret Matkal, l'élite dell'élite tra le forze speciali israeliane. «Tornato sobrio, mi sono detto "mai più". Forse è una mia debolezza, ho bisogno di sentirmi in controllo, equilibrato, è la condizione più sana». Sulla scrivania le foto dei nipotini, sta aspettando che il più grande cresca (ha quasi quattro anni) per cominciare a insegnargli la matematica. «Sono affascinato quando i bambini sviluppano il concetto dei numeri, quando il mondo assume un ordine attraverso le cifre».
    Se la mamma ti dà due caramelle e papà una, quante ne hai da mangiare? Se il Likud si spacca e Sharon fonda un nuovo partito, quanti seggi possono conquistare i laburisti? Sono questi i numeri che sta trattando in queste settimane. E' convinto che la sfida tra Benjamin Netanyahu e il primo ministro polverizzerà la destra, un'occasione che il Labour non può perdere. «E' per questo che ho lanciato un appello agli altri candidati alle primarie: rinunciamo alla corsa, uniamo il partito attorno a Shimon Peres e vinciamo le elezioni. Se invece tutti restano in gara, competerò per la leadership, anche se credo che questo non sia il mio momento».
    Il quotidiano liberal Haaretz si è chiesto perché Barak, 63 anni, voglia insistere con la politica. «Il suo ufficio è pieno di foto con i grandi e potenti del mondo — ha scritto Aluf Benn —, da quando si è ritirato ha guadagnato un sacco di soldi, è tornato al suo amore di gioventù e si è fatto rimuovere un neo dal naso». Lui non ci pensa e liquida con una battuta la proposta — «Sharon guidi la sinistra» — di due parlamentari laburisti. «Mi sono detto: va a finire che alle primarie sfiderò Ariel invece di Shimon».
    Prova a calcolare quanti deputati potrebbe ottenere un partito fondato dal premier. «All'inizio i sondaggi gli daranno 20 seggi, finirà con 6-7. In Israele è sempre andata così, anche a David Ben-Gurion: le nuove formazioni di centro sembrano destinate al trionfo, poi si assestano molto più in basso». Giudica un'illusione quello che gli analisti hanno battezzato il «Big Bang», un'alleanza tra i veterani Sharon-Peres-Lapid. «Sharon con Peres perde la destra moderata, Sharon con Lapid perde i religiosi moderati. A lui conviene costruire una nuova squadra, un Likud-bis, combattere per l'autenticità del marchio assieme ai ministri rimasti fedeli e ad altri nomi presi fuori dalla politica». A quel punto la porta resta aperta al vecchio nemico per una coalizione: «Dopo le elezioni, potremmo formare assieme un governo». Per sé pensa a una poltrona da ministro.
    "

    Shalom

 

 
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