Puntuale come un orologio, la democrazia è arrivata anche in Kirghizistan. Con lo sconto, se si pensa a quanto è costato portare la democrazia in Irak: 200 miliardi di dollari, almeno 100 mila morti iracheni, e un numero crescente, anche in futuro, di leucemici da uranio impoverito.

I kirghisi invece, fieri cavalieri delle steppe, hanno fatto da sé. Spontaneamente, si capisce. Anche se il fuggiasco dittatore locale, Askar Akayev, aveva giusto giusto dato segni di riavvicinamento alla Russia. Perché non è sempre stato così. Circolano foto che mostrano Askar Aitmatov, ministro degli Esteri di Akayev, ricevuto con tutti gli onori a Washington nel non lontano giugno 2003. Al fianco del kirghiso, a fare gli onori di casa, l’immancabile Paul Wolfowitz (1). Si trattava infatti di discutere cordialmente l’ampliamento della base strategica per i bombardieri che gli Usa hanno impiantato in Kirghizistan presso la capitale Bishkek; perché i capi kirghizi avevano dato l’assenso (evidentemente facendosi pagare da entrambe le parti) ad una base russa sul loro territorio, che Mosca aveva piazzato a venti chilometri dalla base americana.
In quell’occasione un sito ispirato dai servizi segreti svizzeri, ISN, notava quanto segue: “con l’annuncio, il 5 giugno 2003, dell’estensione di tre anni per l’affitto della base Usa in Kirghizistan, con la decisione russa di stazionare le proprie forze a Kant (la base aerea a soli 20 chilometri da quella americana) e con il nuovo interesse della Cina ad accrescere i legami militari con Bishkek, il Kirghizistan è divenuto il centro delle rivalità delle grandi potenze in Asia”.
I servizi elvetici evocavano il “grande gioco” (Great Game), la gigantesca partita con cui l’impero britannico, nel 19mo secolo, contrastò l’influenza dell’impero zarista in Asia: complicato oggi, se possibile, dalle mire sul petrolio del Caspio e dalla corruzione dei regimi post-sovietici.

“Gli Usa hanno assunto il ruolo che fu dei britannici. Con l’onnipresente Russia, potenze regionali nuove come Cina, Iran, Turchia e Pakistan sono entrati nell’arena; e le multinazionali petrolifere stanno anch’esse perseguendo i loro interessi in questa zona dell’Asia con lo spiccio stile del selvaggio West, in questo caso del selvaggio Est”.
“Dall’11 settembre 2001, l’amministrazione Bush ha intrapreso un massiccio rafforzamento militare nell’Asia centrale, dispiegando migliaia di soldati americani non solo in Afghanistan ma anche in Uzbekistan, Kirghizistan e Georgia. Queste truppe Usa sul territorio che fu sovietico hanno completamente alterato gli equilibri geo-strategici nella regione: Washington cerca di capitalizzare la vittoria della guerra fredda sulla Russia, contenere la Cina e stringere il cappio attorno all’Iran”.

Il guaio è che i kirghizi conoscono per esperienza il “grande gioco”: ed hanno giocato le loro carte in modo sgradito agli americani.
Nel febbraio scorso, il ministro degli Esteri kirghizo Aitmatov annuncia che Washington non avrà il permesso di far partire dalla base kirghiza i grandi aerei radar AWACS, con cui da quella zona si può spiare comodamente la vastissima area della Cina meridionale, e tenere sotto controllo ogni mossa russa e iraniana. Peggio: lo fa dopo un viaggio a Mosca, in cui viene deciso che Putin potrà rafforzare pesantemente di equipaggiamenti militari la sua base kirghiza a Kant. In cambio, apparentemente, dell’appoggio di Putin per le imminenti “libere elezioni” parlamentari kirghize del 27 febbraio, e per le ancor più cruciali votazioni presidenziali di ottobre prossimo.
Insomma Akayev il presidente dittatore è tornato a porsi sotto l’ala della Russia. Da qui la decisione di portare la democrazia in Kirghizistan.
In mancanza di una qualunque “società civile” fra i mongoli delle steppe, è stato necessario attivare i clan del meridione kirghizo contro il clan nordico di Akayev e famiglia. Si tratta di gruppi criminali, enormemente arricchitisi (grazie agli Usa) con l’inoltro e lo spaccio mondiale dell’oppio prodotto nel confinante Afghanistan.
L’uso di bande delinquenziali implica più di un rischio per Washington. Anzitutto l’impresentabilità di avanzi di galera da mostrare in tv come capi della “società civile che spontaneamente chiede la democrazia”: come s’è visto, i nuovi democratici si sono anzitutto abbandonati al saccheggio della capitale, rubando a man bassa dalle vetrine sfondate. E nulla garantisce che i nuovi predoni staranno al gioco americano più di Akayev.

Ma c’è di peggio. Il Kirghizistan è un paese multietnico, con una forte minoranza uzbeka (circa il 14 per cento) invisa alla maggioranza kirghiza (65 per cento) ed altre minoranze incredibilmente variegate (russi, tedeschi, ucraini, kazaki, tagiki, coreani…) che lo rendono pericolosamente incline ai massacri: nel 1990 un pogrom anti-uzbeko nella città meridionale di Ozgon lasciò sul terreno almeno un migliaio di morti. Senza contare venature di islamismo fondamentalista che pare acquistare importanza tra gli uzbeki (2).
Insomma la bella replica della “democrazia spontanea”, riuscita in Georgia e in Ucraina, potrebbe rivelare la vera faccia della messinscena proprio in Kirghizistan: una lotta fra cosche corrotte dal denaro americano e russo, con violenza e sangue a fiumi; e infine un buco nero che potrebbe provocare, per mettere fine al caos, un intervento cinese o iraniano.
E’ possibile che proprio questo sia nei calcoli di Putin, che sembra avere accolto con flemma la caduta di Akayev. Pare sia stato lui a consigliare il dittatore a non mettere in campo la truppa e la polizia per la repressione; meglio lasciare agli avversari la responsabilità dell’incombente scoppio di violenza; gli americani sarebbero trascinati nel disordine di un mondo indecifrabile, quello dell’Asia centrale, che conoscono meno di chiunque altro. L’avventurismo neocon potrebbe avere una sanzione storica.
Ma questo non sembra preoccupare l’Amministrazione. E’ più forte la sete del greggio del Caspio; e benché il Kirghizistan non abbia petrolio, esso è una pedina e una piattaforma necessaria per il suo sfruttamento e inoltro ai mercati. Già nel ’98 Dick Cheney, allora presidente della Halliburton (impianti petroliferi) indicava agli industriali Usa “la significanza improvvisa e strategica del Caspio”. Nel 2001, divenuto vicepresidente degli Stati Uniti, annunciò che “il Presidente fa della sicurezza energetica la priorità per la nostra politica estera”, indicando di nuovo nel Caspio “un’area di rifornimento della più grande importanza”. Gli fu obiettato che l’area era tra le più volatili e pericolose del pianeta. Dick Cheney rispose: “beh, si deve andare dove il petrolio c’è. Non mi preoccupo poi tanto”.



di Maurizio Blondet



Note

1)“March madness: the democrats and the Bush regime win an away game”, Village Voice, 25 marzo 2005.
2)Si veda al proposito il profetico rapporto di Reto Weyermann, “A Silk Road for democracy?” pubblicato nel febbraio 2005 a cura della “Swiss Peace”, un organismo con sede a Berna che si propone di sorvegliare in anticipo le aree di tensione e conflitto. Anch’esso probabilmente legato ai servizi segreti elvetici.