I cristiani? Non sono perseguitati
di Enzo Bianchi, priore della Comunita' di Bose



La recente firma della Costituzione europea e il processo della sua ratifica da parte dei singoli stati ha riacceso il dibattito sulla storia dell’Europa e ha risvegliato il rammarico di molti credenti per la mancata menzione delle radici cristiane nella carta costitutiva del nostro continente. Si è preferito tacere una verità storica, dimenticando che riconoscere il proprio passato – con le sue luci e le sue ombre – non significa identificarsi con esso: così, menzionare che il cristianesimo ha contribuito in modo determinate alla formazione della cultura europea e dell’idea stessa dell’Europa non sarebbe equivalso ad affermare che ancora oggi il cristianesimo fornisce un’identità collettiva all’Europa. “Riconoscere la nostra appartenenza a una società che vuole indagare i fondamenti della propria legittimità – scrive Paul Ricoeur – costituisce un atto di veracità” e il percorso può essere solo il risalire la lunga storia, il “racconto” a più voci le cui radici affondano nell’etica greca delle virtù, nella romanità, nel cristianesimo – a volte in confronto-scontro con l’ebraismo e con l’islam, altre volte in tensione o rottura al proprio interno – nell’illuminismo… Forse si è avuto il timore che dalla menzione delle radici cristiane si fosse obbligati a dedurne che l’Europa di oggi è cristiana e che al cristianesimo deve ispirarsi.

Da più parti si sono fatte letture severe sull’attuale condizione dell’Europa: timorosa nella piena assunzione del proprio passato, ma anche “stanca”, con le sue democrazie divenute materialiste ed edoniste, affette da nichilismo, incapaci di aprire un futuro al continente. Il cardinal Ratzinger parla di un’Europa che “nonostante la sua perdurante potenza politica ed economica, viene vista sempre più come condannata al declino e al tramonto”, come fosse “svuotata dall’interno”. Sono giudizi duri, che a volte cedono all’identificazione, semplicistica e rischiosa, tra Europa e occidente, magari saldando entrambi con il cristianesimo; ma non va dimenticato che oggi, a differenza di un tempo, l’Europa ha un’enorme risorsa: la capacità di essere critica. Risorsa preziosa per un pensiero e una cultura plurale e aperta al futuro: infatti, come ha mostrato con chiarezza Hanna Arendt, proprio l’acriticità ha dato origine ai totalitarismi. Sì, è questa, nel bene e nel male, l’Europa in cui viviamo tutti come cittadini e i cristiani come discepoli di Gesù Cristo, è questa l’Europa in cui dobbiamo assumere precise responsabilità perché il suo futuro sia a servizio dell’intera umanità e contrassegnato dal dialogo, dal confronto tra le diverse culture e religioni, dalla ricerca della giustizia e della pace per tutti.

In questa Europa i cristiani non sono né perseguitati, né assediati – ce lo ha ricordato recentemente anche un acuto editoriale di Civiltà Cattolica – ma, anzi, sono invitati a un confronto con la modernità, con la complessità, con il pluralismo culturale, religioso ed etico. Certo, i cristiani dovrebbero avventurarsi in questo confronto fiduciosi nella forza di impatto dell’umiltà cristiana, non mettersi in concorrenza con eventuali e momentanee arroganze di altre religioni, dovrebbero essere pronti a rinunciare a certi diritti e privilegi, acquisiti nel passato ma che oggi costituiscono un ostacolo per una proposizione credibile della loro fede. La via kenotica, dell’umile abbassamento, percorsa da Cristo è l’esempio che i singoli cristiani e le chiese sono chiamati a seguire. Secondo la bella espressione di Martin Buber, “il successo non è uno dei nomi di Dio”, e quindi i cristiani non saranno ossessionati dal dover ottenere risultati che rispondono più a una logica di riconquista che non a una comunicazione della fede come il vangelo la vuole e la determina.

Qui si impone una precisazione sulla cosiddetta “nuova evangelizzazione”, quello sforzo in cui si è da anni impegnata la chiesa ma che non può assurgere a panacea che sana i problemi della modalità di presenza cristiana e del suo apporto all’edificazione della polis europea. Nuova evangelizzazione non significa imporre all’Europa il vangelo e l’appartenenza alla chiesa, non significa effettuare una retroevangelizzazione che ci riporti a un occidente cristiano precedente la modernità, tanto meno significa tentare un futuro confessionalistico che non tenga conto dell’orizzonte ecumenico assunto soprattutto dal concilio e dal pontificato cattolico di questi ultimi decenni. “È l’ora di uscire da ogni strettoia confessionale – scrive il teologo Jürgen Moltmann – per avanzare insieme al largo. È l’ora dell’ecumenismo per una nuova Europa, altrimenti le chiese diventeranno religione del passato”. Evangelizzazione e dialogo dunque, perché evangelizzare significa anche ascoltare il mondo, ascoltare gli uomini e le donne di oggi per poter annunciare loro la buona notizia in un linguaggio comprensibile. Più che mai valgono queste parole di Paolo VI: “La chiesa entra in dialogo con il mondo in cui vive, la chiesa si fa parola, la chiesa si fa messaggio, la chiesa si fa conversazione” (Ecclesiam suam 67). La comunicazione della fede deve dunque essere un processo spirituale che inizi le persone al mistero della loro esistenza e non un indottrinamento dogmatico e morale, non deve forzare la porta delle case per portare il suo messaggio, né tanto meno per convertire qualcuno a qualsiasi prezzo.

La chiesa non può sentirsi e comportarsi come una fortezza assediata, anche se all’orizzonte europeo apparisse un atteggiamento aggressivo da parte del mondo non cristiano: fin dai suoi inizi, infatti, la chiesa sa che l’ostilità nei confronti del messaggio del vangelo non può essere né rimossa né evitata. Nessuna tentazione di mobilitazione di ordine politico, nessuna chiamata in soccorso lanciata a quegli “atei devoti” – o, meglio, “atei clericali” – che, da sempre estranei o diffidenti verso il cristianesimo, oggi lo scoprono come possibile strumento utile a consolidare il loro posizionamento nella società. I cristiani sappiano anche evitare ogni manifestazione di integralismo che crea per reazione diffidenza e ostilità da parte dei laici: il nostro passato e la laboriosa convivenza raggiunta dovrebbero averci insegnato che laicismo e clericalismo si nutrono a vicenda.

Quando i cristiani manifestano sfiducia nella forza evangelica propria dell’umiltà cristiana e dell’inermità della fede, quando progettano una “religione civile” cercando di instaurare presìdi e tentando alleanze strategiche con chiunque offra un appoggio alla forza di pressione cristiana nei confronti della società, allora confondono la chiesa con il regno di Dio, progettano una cristianità che appartiene al passato, che non può essere risuscitata e che, soprattutto, contraddice la buona notizia di Gesù.

Nella costruzione dell’Europa i cristiani sono tuttavia convinti che la politica, rimane determinante anche per la vita dei credenti nella società. Giovanni Paolo II nel 1988, di fronte al Parlamento europeo confessava che nei secoli della cristianità sovente si era perduto di vista il principio proclamato per la prima volta da Gesù della distinzione essenziale tra politica e religione, tra ciò che compete a Cesare e ciò che compete a Dio. Negare o sminuire questa distinzione è una tentazione costante, mai vinta una volta per tutte, e colpisce sia i “difensori” di Dio che quelli di Cesare: così sempre troviamo quanti vorrebbero identificare la fede cristiana con l’ordine politico, auspicando di fatto uno stato confessionale e quanti vorrebbero specularmente un ordine politico sostenuto e garantito dalla religione, con l’esito della “religione civile”. Le tensioni tra chiese e governi si accenderanno sempre più se il principio di laicità sarà minacciato su un versante da un laicismo che non consente alle fedi la manifestazione pubblica e, sull’altro, da una nuova forma di confessionalismo che vorrebbe imporre a una società etnicamente, culturalmente ed eticamente plurale la propria posizione di pensiero e di prassi come esclusiva.

Enzo Bianchi


La Stampa - 29 gennaio 2005