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  1. #1
    Obama for president
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    Predefinito Revisionismi e studi sui fascismi

    Nell’ambito degli studi sui fascismi, sono detti revisionisti quanti, sulla scorta di una corrente storiografica strutturatasi in Europa intorno ad alcune figure chiave di intellettuali e pensatori, si richiamano ad una strategia interpretativa volta alla ricostruzione dei nessi che intercorrerebbero tra esperienze ideologiche e politiche distinte, fondata sui seguenti passaggi:

    1. la propensione, metodologica, ad operare sintesi di ampio respiro, ragionando secondo criteri che tendono ad incorporare periodi e fenomeni, anche compositi, cercando di trovare in essi una radice comune (ad esempio, l’affermazione di Ernst Nolte che le politiche repressive bolsceviche furono il “prius logico e fattuale” dei lager nazisti);

    2. il riconoscimento dei fatti in quanto tali ma la loro lettura in chiave causale, dove i nessi prevalgono sulle specificità. Tale modo di operare, ancorché legittimo sul piano storiografico, se portato alle sue estreme conseguenze, come per l’appunto i revisionisti fanno, induce distorsioni di valutazione e sovrapposizioni di giudizio fino al rischio di una forzatura dei fatti stessi;

    3. la valutazione dell’impianto culturale e l’identificazione di correlazioni teoretiche tra nazionalsocialismo e comunismo sovietico;

    4. l’adozione di una visuale politica informata a posizioni corrispondenti a quelle della destra liberale o, alternativamente, di certa sinistra radicale, entrambe motivate da un accentuato anticomunismo. Non è da sottovalutare il fatto che l’ipotesi, formulata e ripetuta da Nolte, in virtù della quale il nazismo sarebbe essenzialmente una reazione anticomunista (espressa con particolare enfasi già quarant’anni fa nel suo “I tre volti del fascismo”) raccolse a suo tempo i favori della sinistra, immemore della vocazione razzista o, per meglio dire, radicalmente razzialista presente in tale dottrina. Oggi Nolte - e con lui gli storici della sua vulgata - disgiungendo anticomunismo da antisemitismo, possono attenuare l’impatto del secondo nella valutazione delle politiche del Terzo Reich, beneficiando degli effetti derivanti dalla caduta dei regimi del “socialismo reale” e della condivisione di un giudizio comune fattosi severamente anticomunista.
    Anche qui il passo successivo, non obbligato e neanche necessitato ma a tratti manifesto, è quello di recuperare qualcosa del passato, se non altro per riaffermarne una presunta preveggenza riguardo ai successivi sviluppi. Insomma, a farla breve, il nazismo e il fascismo furono “buoni” rispetto ad almeno una cosa: la contrapposizione al bolscevismo.

  2. #2
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    Predefinito negazionismi e revisionismi

    iù comunemente le affermazioni di quanti sostengono che Auschwitz - così come il resto dei campi, di sterminio o di concentramento che fossero - non è mai esistito o ha svolto funzioni diverse da quelle consegnateci dall’evidenza dei fatti, sono a stretto rigore di logica negazioniste. Ovverosia, sono dichiarazioni di principio che, entrando in rotta di collisione con l’evidenza empirica, ne distorcono deliberatamente e volontariamente il lascito testimoniale e documentario. Le ragioni per le quali si nega il passato, tanto più se così prossimo alla nostra esperienza, possono essere le più svariate e mutare di soggetto in soggetto. Generalmente la radice comune è da identificarsi nel tentativo di recuperare in toto quel che la storia ha definitivamente condannato. Per fare questo, per “ridare una chance al nazismo”, necessita depurarne la memoria negandone gli aspetti più squalificati e ripugnanti. Ma a fianco di questa corrente, nostalgica e al contempo visionariamente proiettata versa una impossibile restaurazione, si contano anche altre posizioni. E’ il caso dei trotzkisti della Vieille Taupe di Pierre Guillaume, presenti anche in Italia (attraverso le edizioni Graphos), che da tempo, recuperando elementi di alcune analisi d’impianto marxistico, identificano negli ebrei una sorta di classe sociale a sé. La correlazione tra le “false” rappresentazioni dell’universo concentrazionario che sarebbero state poste in essere, in misura deliberatamente mistificatoria, e gli interessi di questa presunta aggregazione socioeconomica rappresentata dall’ebraismo, inducono i componenti di tale gruppo a parlare di una sorta di passaggio storico da “lo sfruttamento nei campi allo sfruttamento dei campi”, intendendo con ciò l’opera di alterazione della “verità”. In altre parole: i campi c’erano, avevano funzioni diverse da quelle dichiarate e sono a tutt’oggi, nell’uso agitatorio che gli ebrei ne farebbero, uno strumento che una lobby estesa e potente utilizza per inibire i suoi avversari e confermare la sua egemonia politica, culturale ed economica. In questo modo si rinnoverebbe un vecchio equivoco, adottando un alibi di comodo, per confondere il “proletariato internazionale” sulle cause della guerra e sulle responsabilità dei vincitori.
    Nel circuito negazionista si assommano ed incontrano quindi elementi e motivazioni tra le più disparate. Si badi bene che le sue scaturigini datano all’immediato dopoguerra quando un intellettuale collaborazionista come Maurice Bardèche si adoperò fin da subito nel porre in discussione quanto andava delineandosi nella sua orrifica tangibilità. Negli anni cinquanta seguì la figura di Paul Rassinier, ex-deportato politico a Dora e a Buchenwald, sostenitore della teoria per la quale i campi furono luogo sì di detenzione ma non di sterminio. La Shoah, insomma, non avvenne mai e la sua narrazione è una “menzogna storica”. Questa affermazione costituisce il nucleo della costruzione negazionista. Rafforzata nel corso del tempo da una serie di pseudo-argomentazioni occasionalmente offerte come rafforzativo del concetto iniziale, è incentrata sulla presunta funzionalità politica di ciò che viene presentato come una deliberata mistificazione e contraffazione, compiuta dai vincitori (gli alleati) ai danni dei vinti (i tedeschi). Secondo tale esegesi si afferma l’esistenza di qualcosa che non fu per conquistare l’immaginario collettivo a danno dell’ “autentico” corso degli eventi, continuando così una guerra, in questo caso figurata, contro la potenza (e l’ideologia) uscita immeritatamente sconfitta dal secondo conflitto mondiale. Musica per le orecchie di chi, come Leon Degrelle, prima comandante delle Waffen-SS belghe e poi animatore del milieu neonazista europeo, poteva così sostenere di avere un chiaro e legittimo riscontro della sua personale teoria che ad Auschwitz esisteva un centro per il concentramento e lo “spidocchiamento” degli ebrei dei quali, al massimo, si può riconoscerne la morte per un numero non maggiore ai trecentomila soggetti e non per volontà dei nazisti bensì per le circostanze d’“ordine bellico” (morivano in tanti, non si vede perché non avrebbero dovuto morire anche degli ebrei…). Parole che fanno il paio con quelle che negli anni successivi utilizzò l’ex collaborazionista di Vichy Louis Darquier de Pellepoix, sostenitore della tesi che nei campi si uccidevano solo ”pulci e cimici”.
    La vera svolta, nel senso della manifestazione massmediatica del fenomeno negazionista e della sua definitiva emersione da quella condizione di nicchia alla quale sembrava consegnato, si ha però nella seconda metà degli anni settanta, quando un docente dell’Università di Lione, Robert Faurisson, con una intervista che all’epoca fece non poco scandalo, dichiarò che “le camere a gas non sono mai esistite”. L’eclatanza del gesto stava non solo nella sua natura – deliberatamente provocatoria – ma nell’ospitalità che esso ottenne per parte della stampa europea, divenendo così una sorta di “evento” sulla scorta del quale un po’ tutti furono costretti a misurarsi e a prendere posizione. Insomma, ben consapevole che il medium è il messaggio, l’autore confidò ben più sugli effetti di ritorno dei mezzi ai quali affidava le sue affermazioni che non sul contenuto delle stesse. Per i negazionisti, infatti, capitale è trovare strumenti ed occasioni di pubblica manifestazione: ciò non solo per uscire dai circuiti autoreferenziali ai quali, fino ad allora, sembravano consegnati, ma per cercare legittimazione non per quello che viene detto ma per via dei luoghi in cui lo si dice. Faurisson, peraltro, adottando una tecnica che è propria dei negazionisti più accorti, non si impegnava in una inutile apologia del regime hitleriano, negando l’evidenza dell’altrui operato, ma cercava i punti “deboli” – o comunque quanto poteva essere considerato tale – del resoconto della vicenda delle deportazioni e del sistema di sterminio per attaccarne quegli aspetti che meglio si prestavano all’accusa di inverosimiglianza. La comprensione del funzionamento delle camere a gas, così come dei forni crematori, richiede competenze non solo storiche e storiografiche ma anche e soprattutto tecniche. Ancor di più risulta problematica la definizione della funzionalità di tale apparato all’interno di un progetto, quello del “Nuovo Ordine” hitleriano, che prevedeva la trasformazione sociodemografica dell’Europa. Tale complessità e stratificazione, qualora non sia intesa nella sua integralità, può rendere dissonanti o discrasici certi aspetti delle passate vicende. I negazionisti più accorti sono ben consapevoli di questo aspetto e usano tutte le occasioni che si prestano ad una qualche strumentalizzazione per cercare di mettere in discussione l’impianto interpretativo corrente e, di conseguenza, la dimensione fattuale.
    Alle boutade di Faurisson seguirono altre e ripetute prese di posizione per parte sia di quest’ultimo che di nuovi diffusori del verbo. La nascita negli Stati Uniti dell’Institute for Historical Review, palestra pseudoaccademica alla quale oramai non pochi esponenti, non solo americani, fanno riferimento, ingenerò una nuova spinta nelle “ricerche” e nelle “riflessioni” per parte di questi signori, concorrendo inoltre alla loro strutturazione in una rete di stabili relazioni, autonome anche se a tratti coincidenti con quelle dei network neonazisti. E la rete web ha ulteriormente consolidato il grado di scambio e comunicazione, creando una comunità virtuale molto attiva nello scambio di informazioni. Attualmente i personaggi più significativi sono Willis Carto, Bradley Smith, Ernst Zuendel e James Keegstra

  3. #3
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    Predefinito Aspirazioni e ideologie dei negazionisti

    Inutile soffermarsi sulla produzione, copiosissima e cacofonica, di questi autentici feticisti della carta. Da quest’ultimo punto di vista, va rilevato solo che ciò a cui aspirano tali indefessi redattori di interminabili pamphlet differisce a seconda degli autori presi in considerazione.
    Sommariamente si può dire che:

    1. vi è tra essi chi ambisce ad una qualche forma di legittimazione ufficiale o, perlomeno, ufficiosa, per parte degli organismi intellettuali accreditati nel mondo delle scienze, ed in particolare le università. Impresa disperata se posta in essere con i soli strumenti dei propri costrutti ideologici, ma un po’ più fattibile se legata ad opzioni culturali oggi di nuovo in voga. Negli Stati Uniti, ad esempio, un terreno d’incontro è offerto dal creazionismo, la posizione dottrinaria per la quale l’evoluzionismo darwiniano è una teoria fasulla e l’unica narrazione accettabile riguardo all’origine dell’uomo deve essere identificata nel dettato biblico. L’ambiente intellettuale che in America rivendica tale matrice è non infrequentemente anche antisemita. I contatti tra esponenti dell’uno e dell’altra sponda hanno offerto occasioni di sodalizi. Si pensi inoltre al fatto che il creazionismo ha un discreto seguito in alcuni stati della Federazione e il potersi appoggiare ad esso permette di trovare canali di comunicazione con il mondo della scuola. Soprattutto, ed è quello che più interessa ai negazionisti di questo tipo, accredita in qualità di interlocutori nei confronti delle autorità locali. Le università si sono rivelate fino ad oggi impermeabili ma non altrettanto può essere detto dei politici, soggetti a valutazioni di opportunità che aprono a volte varchi nella cultura prevalente. Particolare attenzione, a suo tempo, fu espressa nei confronti di David Duke, candidato razzista del Ku Klux Klan al seggio di senatore. Non era un segreto per nessuno il suo antisemitismo, del tutto congruente con l’onorata carriera svolta all’interno dell’organizzazione razzista. Meno noti, probabilmente, i contatti con esponenti dell’ala destra del partito repubblicano, tradizionalmente poco proclive nei confronti di un elettorato, quello ebraico americano, ancora fortemente orientato verso lidi democratici. Rimane però il fatto che nella galassia della destra americana le difficoltà incontrate dai negazionisti hanno un solido fondamento nell’esperienza della seconda guerra mondiale, quando gli States si trovarono a combattere contro il nazismo. A tal guisa si può richiamare l’episodio menzionato in un’opera di fiction, il film di Costa Gavras Betrayed-Tradita, dove l’incontro tra un membro del Klan e un gruppo di neonazisti locali si risolve con il rifiuto del primo nei confronti dei secondi, rifiuto motivato dal fatto che il padre “li aveva combattuti” a suo tempo. Comunque, al di là delle singole esperienze nazionali, questo gruppo si contraddistingue per la vocazione a cercare una qualche entratura nei “salotti buoni” dell’intelligenza. Per ottenere ciò cerca di smarcarsi da una più stretta identificazione con il neonazismo, adottando, laddove ciò è possibile, la strumentazione e le vesti proprie alla ricerca tradizionale. In Italia l’esponente più vivace di tale indirizzo è Carlo Mattogno. Significativo è il fatto che pubblichi le sue operette presso le Edizioni di Ar di proprietà di Franco Freda, nazimaoista d’antan e personaggio onnipresente nelle vicende dell’ultimo quarantennio del neofascismo eversivo di matrice nostrana.

    2. Vi sono poi coloro – non pochi per la verità – che nulla rinnegando del passato, ne enfatizzano anzi la storia di cui però fanno un uso selettivo. E’ forse il gruppo più corposo. In questo caso il negazionismo è una condotta mentale, prima ancora che culturale, finalizzata a rilegittimare le vestigia di ciò che fu, riportandole a nuovo fulgore. Ed in questa costruzione, nella quale il passato viene assunto acriticamente e apologeticamente, negare funge all’occorrenza di fortificare e reiterare le “ragioni” pregresse. Con curiosi ed illogici – ma solo all’apparenza – cortocircuiti dove, con un doppio movimento degno dell’attenzione di uno psicoanalista, si cela ma anche si riconosce. Il negazionismo diventa così un atteggiamento, più o meno in mala fede, che cela, come la punta di un iceberg, un corpaccione immerso nell’acqua stagna dei risentimenti e dei rancori. Da un lato si disconosce la paternità e l’esistenza stessa dei campi e dello sterminio, dall’altro se ne attribuisce la responsabilità alle vittime (riconoscendo così esplicitamente l’esistenza degli uni e la concretezza dell’altro). Si può affermare, e a ragione, che l’incoerenza è il carattere costitutivo di questo gruppo. Tutta una genia di libellisti, perlopiù provenienti dalle fila delle Waffen-SS (ad esempio Thies Christophersen), l’ala combattente dell’organizzazione criminale himmleriana o, addirittura dai campi stessi, ha portato avanti una letteratura semiclandestina che durante gli anni della guerra fredda ha alimentato questa corrente di sodali tra medesimi e solidali alla causa. L’imperativo del “ritorneremo!” si coniuga allora all’intendimento di ritornare a fare le cose compiute nel passato, senza ovviamente esplicitarne il contenuto ma mascherandolo sotto le mentite spoglie di una negazione di comodo. Si dà, in questi casi, come una sorta di “nazi pride”, di orgoglio per il coraggio tenuto nei terribili anni della guerra. E il punto di riferimento ideologico è e rimane il discorso che Himmler tenne a Poznan alle alte gerarchie dell’”Ordine nero” nell’autunno del 1943 quando, con malcelata soddisfazione, rivelava forme e contenuti della “soluzione finale della questione ebraica”, rivendicando la caratterialità e la virilità di quanti uccidevano in massa senza battere ciglio. Il grado di legittimazione ricercato in questi casi non è quello proprio agli autori di cui si parlava precedentemente: qui nessuno aspira ad un qualche riconoscimento accademico o ad una accettazione per parte della ufficialità intellettuale e politica. Si tratta, invece, di mantenere vivo e fervido il ricordo tra i militanti di allora come tra quelli di oggi, espungendo, ma solo in prima battuta, quanto di più sgradevole può risultare alla comunicazione per poi, eventualmente, recuperarlo nel momento in cui si dovessero creare le condizioni per la manifestazione di tutti i propri propositi.
    Va rilevato che non tutti gli apologeti del regime hitleriano sono negazionisti: non pochi d’essi, anzi, riconoscono la “grandezza” del suo operato proprio per l’atteggiamento assunto nei confronti dell’ebraismo europeo, rivendicando integralmente l’eredità dello sterminio e rammaricandosi della sua “incompiutezza”. Nel caso del conflitto israelo-palestinese queste posizioni sono vigorosamente riemerse, mascherate sotto l’antisionismo di circostanza.

  4. #4
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    Predefinito David Irving e Freud Leuchter

    Discorso a sé andrebbe poi fatto per quella figura di libero battitore che è il ben noto David Irving, elemento di sintesi tra più posizioni, animato da un profondo individualismo e da una vocazione istrionesca che lo rendono irriducibile a letture univoche. Negli ultimi anni ha tradotto la sua antica vocazione filogermanica in atteggiamenti di collusione e contiguità nei confronti del coté politico neofascista, lasciandosi utilizzare dagli ambienti del nostalgismo europeo di cui è divenuto una star. Tuttavia la sua grande aspirazione rimane quella di essere risconosciuto da quell’Accademia della quale non ha mai fatto parte e che mai lo ospiterà, fosse non altro per il semplice fatto che il suo narcismo sfugge a qualsivoglia forma di cooptazione in organismi collettivi ed ufficiali. Dalle originarie opere, tra cui la non disdicevole ricerca sull’ “Apocalisse a Dresda”, il bombardamento alleato nel febbraio del 1945 della città tedesca, per successivi slittamenti, attraverso la ripetuta affermazione che Hitler era all’oscuro della “soluzione finale”, è approdato alla negazione di quest’ultima. Il processo intentato contro Deborah Lipstadt, autrice di “Denying the Holocaust”, e la rovinosa sentenza, che lo condannava, hanno probabilmente concorso a ridefinire se non l’atteggiamento e il pensiero, costanti nel loro eclettismo, almeno la collocazione nei confronti di un microcosmo – quello nenonazista – dal quale poco o nulla potrà ancora ricevere, a meno che non si autonomini duce delle frange marginali che lo compongono, venendo così meno alla sua funzione di storico e sostituendo ad essa quella di politico.
    Ancora a latere di questo milieu si colloca anche l’”ingegnere della morte” Freud Leuchter, autore di un oramai proverbiale rapporto nel quale affermava, dopo una serie di ricerche compiute ad Auschwitz e dintorni, che le camere a gas non erano esistite poiché le tracce di acido cianidrico, il gas utilizzato per assassinare le vittime, non sono più identificabili tra le rovine di quel che è rimasto. La ragione di questa assenza sono poi state fornite da Jean-Claude Pressac e Marcello Pezzetti che, dopo uno scrupoloso lavoro, hanno ricostruito metodi e criteri nell’uso dello Zyklon B. E’ evidente, a tal riguardo, che all’offensiva negazionista non si può e non si deve rispondere solo con la storia e la memoria ma anche con gli strumenti delle scienze cosiddette esatte. Poiché se è intollerabile il fatto che certuni rifiutino l’evidenza, non altrettanto disdicevole è la richiesta, sincera, di capire e comprendere dei meccanismi che di primo acchito possono apparire tanto ripugnanti quanto inaccettabili. Non tutte le perplessità e i quesiti vanno quindi letti immediatamente come il segno del diniego. Tanto più i giovani hanno bisogno di farsene una ragione. La Shoah richiede di essere compresa, non di un atto di fede.

  5. #5
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    Predefinito Chi nega non ignora

    Chi nega non ignora; semmai proprio perché sa o presume di sapere cerca in buona - ma soprattutto cattiva - fede, una giustificazione alla dissonanza che si genera tra quel che conosce e quel che intende dichiarare di riconoscere. Il discorso negazionista si compone di una serie di prassi retoriche reiterate nel corso del tempo e riprodotte secondo dei cliché facilmente identificabili.
    A titolo di mero richiamo si possono identificare una serie di modularità (ma altre ancora se ne danno) così riassumibili:

    1. dal particolare al generale: poiché è impossibile rifiutare certe evidenze fattuali, almeno di primo acchito, ci si concentra su alcuni aspetti particolari, sviando al contempo l’attenzione altrui dal quadro di riferimento. L’obiettivo è di decontestualizzare il fenomeno storico dello sterminio, prassi che risponde a più esigenze tra le quali:
    a) separare il regime che ha generato i campi dai frutti del suo operato (lo sterminio), deresponsabilizzandolo e minimizzando gli effetti perversi delle sue scelte;
    b) identificare gli eventuali punti deboli della narrazione altrui cercando di usarli come grimaldelli contro la storia. Ad esempio, se un ex-internato commette un errore nella narrazione della sua esperienza (magari affermando, come è capitato, di aver sentito l’“odore del gas”, cosa pressoché impossibile poiché le camere della morte erano a tenuta stagna e comunque la quantità di veleno immesso era tale che poteva sì uccidere chi vi era trattenuto ma non poteva assolutamente espandersi ed essere odorato nel campo) si cerca, mistificando ed enfatizzando tale dato, di capovolgere l’intero impianto interpretativo e, soprattutto, i fatti nel loro manifestarsi. L’obiettivo è di delegittimare il testimone e invalidarne lo statuto del resoconto;
    c) scomporre l’unitarietà e il senso della drammaticità dell’esperienza della deportazione, concentrandosi su minuzie a scapito del quadro generale. In questo modo, spezzettando il corso degli eventi, se ne perde il senso della continuità. E ciò rende più agevole l’attenuazione dell’impatto emotivo che ancora oggi i lager ingenerano, così come una maggiore condiscendenza verso i carnefici;

    2. la guerra semantica: nella componente più abile ed intelligente della vulgata negazionista è risaputo che il destino della memoria si gioca sull’uso delle parole. Valentina Pisanty ha scritto al riguardo pagine importanti, decrittando i codici comunicativi e gli artifizi logico-semantici che ricorrono nelle costruzioni verbali della pubblicistica di tali autori. Molto spesso la battaglia è condotta sul filo della sfumatura, sulle zone d’ombra che ogni termine – come peraltro gli stessi fatti - si porta con sé. La ricerca spasmodica di una diversa accezione si traduce nella costruzione di significati completamente diversi da quelli originari. Attraverso progressivi slittamenti, il negazionista riesce a svuotare una parola del suo senso iniziale e a riempirla di contenuti distinti. D’altro canto, in questo operare è del tutto congruente a quello che era l’uso, iniziatico ed esoterico, che i nazisti facevano di certe espressioni comunemente utilizzate per designare gli eventi più tristi e tragici: “trasferimento” al posto di deportazione, “soluzione finale” invece di sterminio e così via. L’atteggiamento di colui che altera il lessico o ne estende i significati parossisticamente, con un uso volutamente alterato dei procedimenti analogici, riprende integralmente quella vocazione al ricorso alla lingua come ad uno strumento di copertura, confuzione e scompaginamento (per l’appunto di negazione) tra fatti e loro interpretazione che era proprio al sistema di potere hitleriano. Siamo nei paraggi della neolingua dell’Orwell di 1984, laddove essa si configurava come un veicolo non di comunicazione e condivisione bensì di mistificazione e alterazione, prona ai desideri di una prassi totalitaria. D’altro canto, buona parte dei negazionisti sono depositari di un progetto politico che si riconosce appieno nelle categorie del totalitarismo reale costituito dall’esperienza storica del nazionalsocialismo in Germania tra il 1933 e il 1945;

    3. il feticismo delle carte: molti negazionisti, soprattutto quelli appartenenti alla corrente che più desidera darsi una parvenza di autorevolezza, sono non solo usi a redigere numerose opere ma anche a navigare tra le carte con una certa abilità. L’obiettivo, se nel primo caso è quello di portare credibilità alle proprie tesi intasando il mercato delle idee con un’inflazione di prodotti e la ossessiva reiterazione di alcune proposizioni (laddove la quantità vorrebbe divenire qualità), nel secondo è di cercare di inchiodare i propri contraddittori alla responsabilità del documento. In presenza d’esso, a giudizio dei signori in questione, si comproverebbe l’evento. In sua assenza, il fatto non sussiste. L’acribia che viene spesa per sorreggere le proprie affermazioni con “pezze d’appoggio” inverosimili, o per mezzo di documenti riletti secondo la logica del ribaltamento del loro significato, è pari solo all’acrimonia che vi è impressa. Poiché chi nega l’evidenza rivela di gradire molto le proprie parole ma poco o nulla le persone che con esse, ancora una volta, vengono cancellate dalla storia. E’ risaputo che della “soluzione finale” ci sono pervenute solo alcune parti della documentazione a suo tempo prodotta dai carnefici, così come non necessariamente furono documentati cartaceamente tutti gli aspetti del loro operato. In questo margine d’indeterminatezza i negazionisti s’inseriscono per insinuare dubbi ed ingenerare equivoci d’ogni sorta, rivendicando l’equazione che laddove non è rimasto il timbro non ci furono neanche i fatti;

    4. celare i due intendimenti ideologici che stanno alla base dei propri costrutti: l’opera negazionista, fatte salve alcune dichiarazioni programmatiche per parte degli autori “minori” di area nazista, che nulla concedono alla necessità di cogliere l’implicito del loro discorso, si fonda su due premesse ideologiche: la rilegittimazione del nazismo e dei fascismi e l’antisemitismo. E poiché di entrambi, dopo i fatti dell’ultima guerra europea, non è possibile fare apologia diretta, si adoperano strumenti distorsivi, volti a delegittimare gli interlocutori e a costruire un’aura vittimistica intorno alla figura dei vinti. L’ossessione ricorrente in tutti questi passaggi è e rimane quella di un qualche “complotto giudaico” contro la storia. Per il negazionista si tratta di sottrarne la scrittura ad un gruppo di potere dominante che, non pago d’aver vinto la guerra, cerca di conquistare la memoria collettiva. Anche in quest’ultimo caso, come si avrà modo di osservare, nulla di nuovo rispetto ai vecchi cliché della destra più oltranzista e reazionaria. Correlativamente, si dà un anticomunismo viscerale, acceso e corposissimo, ragione sociale e politica degli ambienti che esprimono le posizioni più radicali in campo pseudo-storiografico. Rimane da indagare, tra gli anfratti e i recessi delle mutevoli produzioni cartacee, lo strutturarsi di una corrente di sinistra, che non è più quella rappresentata dai bordighiani e dai trotzkisti della Vieille Taupe, ma che partendo dall’originario antisionismo sta progressivamente traducendo le sue posizioni in aperto antisemitismo. Interessante, a tal guisa, verificare l’involuzione di una figura come quella di Roger Garaudy, illuminato sulla via di Damasco da un islamismo tanto radicale quanto bislacco e antigiudaizzato. Così come - anche se ora il silenzio è prevalso - dei riflessi condizionati di una figura nobile del cattolicesimo sociale francese, l’Abbé Pierre. Il totem linguistico al quale entrambi sembrano fare riferimento, oltre ad una non troppo velata “sdrammatizzazione” e relativizzazione della Shoah, è che i veri antisemiti sarebbero gli ebrei stessi, persecutori dei palestinesi. Già da tempo, tuttavia, sia per parte cattolica che musulmana, va diffondendosi, sulla scorta dell’irrisolto confronto in corso tra israeliani e palestinesi, un nuovo genere di negazionismo, originariamente fiancheggiatore di quello praticato a partire dagli anni sessanta e settanta dagli estremisti islamici afro-americani di Louis Farrakhan in Usa ed oggi capace di muoversi con ampia autonomia. Si tratta dell’opera svolta dal Black African Holocaust Council di Eric Muhammad, che intrattiene rapporti con Butz e l’Institute for Historical Review, ma soprattutto della fatica internettista di Ahmed Rami, gestore web di Radio Islam, autentico ricettacolo di tutte le posizioni che intendono “combattere il razzismo ebraico e l’ideologia sionista”. Ad essi si unisce il ricchissimo sito AAARGH (Association des Anciens Amateurs de Récite de Guerre et d’Holocauste), miniera di materiali negazionisti;

    5. enfatizzare le proprie affermazioni come espressione di un concezione “anticonformista”: tutta la vulgata si basa sul principio che la storia è luogo di mistificazione e i racconti che essa incorpora sono obbligatoriamente il frutto di una deliberata vocazione distorsiva per parte di certuni (i vincitori) a scapito degli altri (i vinti). I secondi sarebbero più morali dei primi (vittimismo), impegnati a perseverare nella reiterazione della menzogna mentre il dispositivo di resocontazione degli eventi sarebbe inesorabilmente fondato su premesse alteranti. E’ una concezione dei processi logici e cronologici fondata sul sospetto, propria, ancora una volta, di un approccio funzionale ad una revanche fascistica. Questa impostazione si ripresenta periodicamente, travestendosi con gli abiti del “nuovo” e dell’“anticonformismo”. Laddove, per l’appunto, la conformità sarebbe quella propria alle posizioni correnti – definite detrattivamente sterminazioniste – caratterizzate dalla convenzionalità e dall’ufficialità ascrivibili alla necessità di mantenere in vita la “menzogna” dell’esistenza di uno sterminio mai avvenuto;

    6. comparare impropriamente: lo stabilire nessi inesistenti, o il negarne altri nella loro evidenza, si rafforza attraverso l’uso improprio dei meccanismi comparativi che appartengono alle scienze sociali e storiche. Sovrapporre e miscelare è un buon modo per confondere l’interlocutore. Si mischiano cose diverse, si separano eventi similari, si alterano scale di valore e di giudizio. Di scientifico, in tutto ciò, va da sé che c’è poco o nulla. Molto di politico, invece. Poiché i negazionisti sono la falange intellettuale di un passato che si riaffaccia sul proscenio della storia europea. Il segno, quindi, di fantasmi mai scacciati e pronti a rimaterializzarsi quando i tempi dovessero presentarsi maturi. Da questo punto di vista necessita dotarsi della consapevolezza che il fascismo non è il residuo di un trascorso ma una s

  6. #6
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    Ora benfy è passato dalle clonazioni al revisionismo, dalle scienze alla storia...

  7. #7
    I amar prestar aen
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    Post molto interessante (me l,o salvo per leggerlo con la dovuta calma), mi chiedo cosa c'entri con il Parlamento di Pol e mi rispondo da solo, è la sua risposta alla "mozione" dei nagazionisti.

    Se non ci fosse stata quella mozione avrei spostato il 3d sul principale.

    Ps E' farina del tuo sacco oppure, se è oppure sarei interessato ad avere maggiori ragguagli.

    Cordiali Saluti
    E voi tutti, o Celesti, ah! concedete,
    Che di me degno un dì questo mio figlio
    Sia spendor della patria, e de Troiani
    Forte e possente regnator. Deh! fate
    Che il veggendo tornar dalla battaglia
    Dell'armi onusto de' nemici uccisi,
    Dica talun: NON FU SI' FORTE IL PADRE:
    E il cor materno nell'udirlo esulti.

  8. #8
    I amar prestar aen
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    Comunque Revisionismo e Nagazionismo sono due cose ben diverse ed accostarli è una operazione scorretta. Faurisson Irving &Soci non sono paragonabili a Nolte.

    La Colpa di Nolte per la sx è avere detto che il nazismo fu una conseguenza della vittoria bolscevica.

    Cordiali Saluti
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    Dell'armi onusto de' nemici uccisi,
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  9. #9
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    In Origine postato da locke
    Comunque Revisionismo e Nagazionismo sono due cose ben diverse ed accostarli è una operazione scorretta. Faurisson Irving &Soci non sono paragonabili a Nolte.
    Beh... Almeno un "socio", il più serio, con Nolte c'entra qualcosa...

    Ogni "negazione di Auschwitz" da parte di scienziati seri, come ad esempio Carlo Mattogno, non nega del resto la realtà di assassinii di massa degli ebrei o degli zingari; mette in dubbio esclusivamente la sua causalità a opera di una decisione del vertice dello Stato, quindi di Hitler, e nega la possibilità tecnica delle uccisioni nelle camere a gas. (E. Nolte, Controversie pag.13).

  10. #10
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    Leggo che Fini ha definito "intollerabile la posizione degli ignoranti e dei revisionisti" rispetto a "ciò che è scritto dalla storia"...

    Aspetto solo di vedere con quali argomenti il Prof. Fini Gianfranco, noto storico autore di pubblicazioni scientifiche internazionali, ha smontato le tesi dell'ignorante e revisionista Mattogno...

    Spero che il confronto avrà presto luogo e attendo con ansia...

 

 
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