di Giulietto Chiesa
La mossa di Vladimir Putin si chiama: uso del terrorismo per cambiare il sistema politico e dotarsi di un controllo pressochè totale sulla società russa. Che serva a combattere il terrorismo ceceno c'è da dubitare fortemente, perché non si vede - ad esempio - come la nomina presidenziale di tutte le cariche elettive possa diminuire la forza dei terroristi. Semmai la prima cosa che balza agli occhi è che il brusco accentramento di tutti i poteri avrà come effetto di inimicare tutte le repubbliche della Federazione Russa, che fino a ieri avevano uno status di autonomia assai esteso e che ora se lo vedono ridotto a zero. Il fatto che il presidente del Tatarstan, Mintimer Shaimiev, abbia subito detto di essere d'accordo con Putin non cambia nulla. Nessuno dei leader locali aprirà bocca per criticare. Tutti hanno paura per la loro sorte. Ma questo non significa affatto che funzionerà. Le domande che aspettano risposte sono molte. Perché Putin si è accinto a questo passo, che equivale all'assunzione dei poteri assoluti nel paese? Perché sente la necessità di dilatare a tal punto il suo potere personale, già così esteso?
Non si dimentichi che la Russia di ieri era già un paese nelle mani del presidente e della sua Amministrazione. Il primo passo era stato fatto fin dai primi giorni del primo mandato, istituendo sette distretti federali, ciascuno sotto il comando di un uomo fidato del presidente. La Duma era dominata dal partito del presidente, cioè da «Russia Unita», dai «liberal-democratici» di Zhirinovskij, un partito populista di estrema destra nutrito, foraggiato, finanziato dall'Amministrazione Presidenziale, e da un altro partito, «Patria», nazionalista estremo.
L'unico partito di opposizione rimasto nel parlamento era il partito comunista di Ghennadij Ziuganov, ma molto ridimensionato, marginalizzato e scosso da divisioni interne opportunamente organizzate dagli uomini del presidente e dall'estesa corruzione della politica russa. I due partiti di destra, neoliberisti, filo-occidentali, cioè «Jabloko» di Grigorij Javlinskij e «l'Unione delle forze di destra», guidato dall'oligarca di stato Anatolij Ciubais, erano rimasti fuori, lo scorso dicembre, dallo sbarramento del 5 per cento e da molto probabili brogli elettorali. E, rimanere fuori dalla Duma significa essere privato di stipendi e sovvenzioni, di uffici e esenzioni, di appartamenti e automobili.
Il Consiglio della Federazione, la cosiddetta «camera alta», era già stato trasformato in una longa manus del Presidente, ma una buona metà dei suoi componenti, i governatori delle regioni e i presidenti delle repubbliche, rimanevano eletti a suffragio universale. Il controllo presidenziale su queste elezioni era quasi assoluto. Adesso non ci sarà più alcuna elezione diretta: sarà il presidente a proporre la nomina e i parlamenti locali a ratificarla. Punto e basta.
Infine il sistema informativo: Putin lo ha interamente nelle sue mani. Quello televisivo intendo, perché il pluralismo giornalistico è in parte rimasto, ma serve a una parte della popolazione così esigua da non potere impensierire il potere. Dunque si ripropone la domanda: avendo già tanto potere, perché Putin dovrebbe volerlo tutto? Le risposte sono due, diverse ma non necessariamente opposte l'una all'altra. La prima, la più evidente, è che la mossa di Putin altro non è che il coronamento di un'offensiva autoritaria volta a cambiare il sistema politico del paese.
La Costituzione in vigore, per quanto già assai poco democratica, aveva - agli occhi di Putin - il difetto fondamentale di essere stata costruita su misura per Boris Eltsin e per gli oligarchi. Prevedeva l'esistenza - almeno quella formale - di regole e di istituzioni di garanzia. Serviva, tra le altre cose, per mostrare all'occidente che la Russia era divenuta democratica, appunto secondo i canoni occidentali. Putin non sente più alcuna necessità di salvare le forme. L'occidente, in particolare il suo amico George Bush (che Putin è convinto vincerà le elezioni, e forse lo sa già per certo) non chiede più questo tipo di garanzie. I diritti umani sono materia obsoleta per un presidente che fa le guerre e crea Guantanamo e Abu Ghraib. E Putin procede nel solco autocratico in cui si sono collocati tutti i leader russi e sovietici prima di lui, a partire da Pietro il Grande, per arrivare a Boris Eltsin, via Stalin e Brezhnev, con le scarse e parziali eccezioni di Nikita Krusciov e di Mikhail Gorbaciov. I democratici russi, che spianarono al strada a Eltsin, dovrebbero farsi ora qualche autocritica. Meglio tardi che mai. Comunque questa è l'idea di stato che il leader russo ha. Aspettarsene un'altra, viste le premesse e le caratteristiche della sua ascesa politica, non era giustificato e non può stupire ora. Ma è difficile sfuggire all'impressione che questa mossa - che in un paese normale sarebbe equivalente a un mezzo colpo di stato - sia anche un segno di debolezza. Putin sembra alla ricerca di una «blindatura» del suo potere per fronteggiare minacce che sono invisibili al grande pubblico ma che egli sente incombere. Egli sa perfettamente che il suo progetto di una Grande Russia, la ricostruzione della parte di Unione Sovietica che egli ha in mente (Russia, Bielorussia, Ucraina, Kazakhstan, più, forse, Armenia) creerà una violentissima reazione a Washington e in parte dei circoli dirigenti europei. E sa che dall'esterno gli verranno creati ostacoli di ogni tipo. Egli teme che si crei una saldatura tra il contesto internazionale ostile, quella parte di oligarchi che è stata espropriata del potere (o teme di esserlo presto), e le spinte centrifughe interne, di cui quella cecena è la più evidente ma non l'unica.
Stati Uniti e oligarchi avevano già pochi strumenti di azione e di sovversione interna. Ma Putin ha studiato la fine di Milosevic, e studia la «cura Condoleeza» che è in corso verso Teheran, non meno della cura che Europa e Stati Uniti stanno applicando nei confronti di Lukashenko, e della Serbia. Per cui si copre la schiena in anticipo. Il terrorismo può diventare un'arma contro di lui. Beslan, gli aerei le autobomba a Mosca sono stati il segnale che tutto ciò è possibile. Questo cambio di Costituzione prelude a un altro cambio sostanziale: il prolungamento indefinito della permanenza al potere di Vladimir Putin. E, se questa interpretazione e valida, è il prologo di quella che ai tempi di Stalin si chiamava «cistka», cioè ripulitura. Salteranno molte teste. Putin avvia la costruzione del suo regime personale, dove ci sarà posto soltanto per i suoi fedeli.
Giulietto Chiesa
Fonte:www.ilmanifesto.it
15.09.04