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    Predefinito Una donna iraniana parla del suo Paese e della rivoluzione

    A ventisei anni dalla rivoluzione


    Una donna iraniana parla del suo Paese e della rivoluzione, delle contraddizioni e delle speranze di un popolo che, minacciato da una possibilità di guerra, cerca il futuro



    9 marzo 2004 - “Non lo so, davvero non so cosa succederà, come sarà il futuro per il mio Paese”.
    A parlare è Mavash Alemi, donna architetto iraniana, e continua: “Io ho fatto la rivoluzione del 1978, allora sconfiggemmo lo Shah, Mohamad Reza Pahlevi, avevamo grandi speranze. Come sempre quando succedono fatti storici così imponenti non si ha a che fare solo con la ragione, ma anche col cuore”.

    La casa di Mavash, a Roma, svela le origini persiane in mille particolari.
    I tappeti, gli oggetti, un grande cuscino basso e colorato vicino a una finestra, l’odore di un riso con il finocchietto appena preparato per la cena.

    “All’inizio eravamo tutti insieme, uniti – insiste ricordando quegli anni irripetibili – la sinistra, i religiosi, i moderati. Volevamo uscire dall’incubo dello Shah. Tutto era costruito ogni giorno, ci permetteva di immaginare un Iran nuovo, democratico, libero. Mio zio era un regista teatrale e per aver messo in scena una commedia di Samuel Beckett fu incarcerato da Pahlevi.
    Prima della rivoluzione le cose andavano così, non era permesso nulla, anche se si raccontava la favola di un processo di democratizzazione di tipo occidentale. In realtà il governo curava gli interessi delle grandi compagnie petrolifere, degli americani. Le donne non usavano il chador perché negli anni Trenta e Quaranta il padre di Reza Pahlevi ne aveva vietato l’uso. Con Khomeiny ci fu un recupero del sentimento religioso, ma non era una imposizione. Chi voleva si copriva. Poi, nel settembre 1980, l’Iraq invase l’Iran e cominciò la stretta autoritaria. Bisogna tener conto che il presidente iracheno Saddam Hussein era un alleato degli Stati Uniti e fu lui a scatenare la guerra. Ancora una volta per garantire interessi economici occidentali. Noi stavamo nazionalizzando il petrolio e questo alle grandi compagnie non piaceva affatto. Gli ayatollah cominciarono ad arrestare prima i militanti di estrema sinistra, poi i comunisti filosovietici, poi tutti gli altri”.

    Mavash continua: “Oggi, nonostante quello che si suppone, le donne in Iran hanno un peso politico importante. Dopo gli anni duri sono tornate a insegnare, a ricoprire molte e importanti cariche istituzionali.
    Il problema del chador è un falso problema, non è certo quello il termometro della libertà. Io insegnavo all’Università di Teheran nella prima fase della rivoluzione e coprivo il capo solo quando ero in ufficio. Fui cacciata via e venni in Italia solo dopo la radicalizzazione prodotta dalla politica aggressiva di Saddam Hussein. In seguito, dopo la fine della guerra, quando ci si rese conto che era in corso una massiccia 'fuga dei cervelli' dal Paese, il governo ha allentato le maglie e in molti sono rientrati. Anche tante donne. A me è stato chiesto di farlo. Insomma, quale che sia la situazione, si deve sapere che l’Iran di oggi è migliore di quello prima del 1978. Lo scontro tra conservatori e riformatori è una questione di interessi e di potere. C’è sicuramente corruzione e per questo i gruppi si contrappongono per motivi che con la religione hanno poco a che fare. Sono tornata a dicembre e si discuteva molto di politica. Una volta in un taxi collettivo il conducente era molto infastidito per l’incertezza del presente e lo diceva senza paura ai suoi sconosciuti clienti. Certo, chiudono i giornali dei riformatori, ma nello stesso tempo altri se ne aprono. Insomma tutto è in movimento. Ogni volta mi accorgo che le donne sono meno costrette a coprirsi, che si vedono capelli più lunghi, occhi truccati”.

    Mavash sembra contraddittoria, difende l’Iran del dopo Shah, anche se ne è stata allontanata perché donna e non integralista. Lei non assolutizza i fatti, ma li collega e li valuta secondo un sistema di relazioni logiche e insiste: “Se si va a una cena si scopre che nella maggior parte dei casi c’è alcool, e si beve, esattamente come e più che in Italia. Eppure sarebbe vietato. Ma è proprio la proibizione che spinge a trasgredire. In qualsiasi caso la società iraniana ha fatto molti passi avanti, anche se molti ancora se ne devono fare. E’ drammatica la condizione di molti giovani, che non hanno nessun interesse per la politica, ma che pensano solo a se stessi e a divertirsi. C’è molta droga e prostituzione. Eppure queste cose fanno comprendere come il potere centrale sia meno invasivo di quanto non si dica in Occidente. Il mio Paese adesso deve difendersi dal pericolo di una nuova guerra. La vicenda irachena è molto preoccupante. Eppure sono convinta che non c’è altra soluzione che l’accordo politico. A Baghdad come a Teheran. E il rispetto della nostra sovranità nazionale e delle nostre risorse”.

    E le ultime elezioni, l’astensione dei riformatori, la vittoria dei conservatori? Lei risponde: “Mia madre è una manager, costruisce case, dirige imprese. Con le sue amiche, nella consultazione precedente, aveva lavorato molto per l’affermazione del presidente riformatore, Sayed Mohamad Khatami. Facevano telefonate, spingevano amici e conoscenti a votarlo. Poi quest’ultima volta non ha votato. Non per boicottare le elezioni, ma per stanchezza. Perché il conflitto tra i gruppi di potere rallenta la crescita dell’Iran e produce sfiducia. Il nodo della questione è il progetto per il futuro e la crisi nell’Area, in questo momento, non facilita nulla. Ma chi l’ha prodotta se non la politica dell’amministrazione del presidente George W. Bush, dei neoconservatori, del vice presidente Cheney? Spero nelle elezioni Usa, nella vittoria dei democratici e del candidato John Kerry. Per le donne tutto è legato al quadro generale. Una cosa sola so per certa. Noi non accetteremo aggressioni da parte di Washington, come non vogliamo la guerra, nessuna guerra. Uomini e donne iraniani insieme. Di tutti gli schieramenti”.

    Roberto Bàrbera

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