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  1. #1
    SENATORE di POL
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    Predefinito Un vero uomo di Sinistra ed un vero Democratico

    " “La bandiera delle libertà democratico-borghesi la borghesia l’ha buttata a mare; io penso che tocca a voi, rappresentanti dei partiti comunisti e democratici, di risollevarla e portarla avanti, se volete raggruppare attorno a voi la maggioranza del popolo. Non vi è nessun altro che la possa levare in alto ” ( Giuseppe Stalin , 1953, dall' intervento al XIX Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica - v.sc. p. 153).




    Saluti liberali

  2. #2
    SENATORE di POL
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    il suo MIGLIORE e obbediente allievo occidentale:



    " La democrazia è il rapporto attivo del singolo con l'intera società in cui vive "
    PALMIRO TOGLIATTI

  3. #3
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    Palmiro Togliatti e i prigionieri italiani di guerra in Russia

    di Remo Viazzi - 17 aprile 2003



    Il 1956 fu un anno chiave per le vicende dell'Unione Sovietica: ebbe luogo infatti il primo timido tentativo di revisionismo di tutta la sua storia. Tra il 14 e il 25 febbraio di quell'anno si celebrò infatti il XX Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, nel corso del quale il Segretario generale Nikita Krusciov denunciava per la prima volta i crimini di Stalin e accettava l'idea della coesistenza pacifica tra i due blocchi, pur continuando le imponenti operazioni di armamento, in continua competizione con gli Stati Uniti. Tra i delitti da imputare a Stalin figura anche quello relativo all'atroce sorte destinata ai prigionieri di guerra, specie agli italiani, che per essere i soldati di un esercito di uno stato fascista furono eliminati con sistematica puntualità.

    Noi sappiamo - ormai con certezza, da quando sono accessibili gli archivi russi - che i maggiori esponenti dei partiti comunisti dei paesi europei erano al corrente, e spesso approvavano, la linea politica voluta da Stalin, che non faceva mistero della repressione fisica dei prigionieri di guerra. Tra i protagonisti di questa grave condotta c'è anche Palmiro Togliatti, che non solo fu responsabile di non aver "mosso un dito" in difesa dei nostri concittadini, ma anche di aver "concordato" la loro morte con lo stesso Stalin. Non è strano: chi fosse tornato dai gulag infatti avrebbe raccontato una realtà non molto diversa da quella dei lager nazisti. Una pubblicità di cui il PCI avrebbe fatto volentieri a meno.

    Per non essere accusati di parzialità lasciamo la parola a chi ne sa più di noi. Nella monumentale Historia de España, volume 13, tomo 2, Luis de Llera in uno spagnolo più che comprensibile sostiene:

    «Por ejemplo, a finales de 1991, los italianos quedaron literalmente estupefactos cuando conocieron por sus periódicos que el carismático Palmiro Togliatti, jefe indiscutido durante años del PCI, no sólo no había intercedido por los prisioneros italianos de guerra sino que había acordado con Stalin su muerte en campos de concentración.

    La amante de Togliatti, Nilde Iotti ocupaba en tan crítico momento - éste de 1992 - el cargo de presidente del parlamento italiano. Resulta difícil pensar que tan inteligente mujer y compañera inseparable no hubiera estado al tanto de relaciones y hechos tan importantes y comprometidos, que se comprenden perfectamente en la lógica de la guerra y también de la posguerra, en cuanto eliminación del fascista por el fascista, aunque se tratase de pobres soldados de leva, culpables solamente de haber tenido la edad requerida para ser enviados al frente».

    Niente di nuovo, sono infatti verità che conosciamo ormai da oltre dieci anni, furono rese note già alla fine del 1991, ma è sorprendente quanto poco se ne sia parlato e con quanta abilità nei talk SHOW televisivi e sui giornali certi argomenti vengano chirurgicamente rimossi. Anche le ultime commemorazioni di Togliatti non mi pare abbiano fatto cenno a questa macchia... Ci pensiamo noi oggi, nella speranza che molti ci leggano!

    Remo Viazzi

  4. #4
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    Before you all die ghastly, horrible deaths, let me take the hour to describe my latest plan for world domination! Uhauhauha!
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    In origine postato da Pieffebi

    Ariel, questo mi sembra un ottimo avatar per te, che ne dici?

    _______________________
    Gli zeri, per valere qualcosa,
    devono stare a destra.

  5. #5
    anticomunista
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    CENTOMILA GAVETTE DI VERGOGNA. In Urss migliaia di prigionieri italiani. Che per Togliatti non bisognava aiutare.

    Vincenzo Bianco, funzionario del Pci, durante la guerra responsabile a Mosca per i prigionieri italiani nei lager sovietici, nel gennaio 1943 scrive una lettera allarmata a Palmiro Togliatti, suo superiore diretto e dirigente del Comintern.
    Bianco assiste quotidianamente alla tragedia dei soldati dell'Armir nell'inferno dei campi di concentramento, abbandonati al gelo dell'inverno russo, affamati, senza cibo, senza medicine, senza indumenti, angariati da sorveglianti spietati, perennemente nell'angoscia di sentirsi accusare di crimini di guerra e di sparire nei gelidi misteri della Siberia. Questa gente è destinata a morire a migliaia e Bianco, pur animato da tutt'altri sentimenti che da carità o amor del prossimo, capisce che conviene fare qualcosa, anzi che qualcosa deve fare il capo supremo, il Migliore: "affinché non abbi (sic) a registrarsi il caso che non muoiano in massa, come ciò è già avvenuto. Perché i superstiti, ritornando, faranno un lavoro da canaglia, e noi, ed i nostri cari compagni di qui, non abbiamo bisogno di ciò".
    Ed ecco la risposta di Togliatti: "... se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente nulla da dire. Anzi... Io non sostengo affatto che i prigionieri si debbano sopprimere... ma nelle durezze oggettive che possono provocare la fine di molti di loro, non riesco a vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il vecchio Hengel diceva essere immanente in tutta la storia". Traduzione: queste migliaia di connazionali prigionieri stanno bene morti, non deve interessarci la loro fine, perché avviene secondo i canoni della giustizia storica com'è nei disegni dell'idealismo hegeliano. Una elegante lezione di realismo marxista-leninista, oltre che di comprensione per le sofferenze di connazionali in catene. Non risulta che, di tutto questo, una volta tornato in Italia e quindi non più timoroso dell'ira di Stalin, Togliatti si sia pentito. Vergognato, forse sì: ma qui si entrerebbe nei meandri delle coscienze.
    Ora il tema del mancato pentimento dei loro crimini (o della consapevolezza e della correità nei crimini del Grande Fratello) da parte dei vetero-comunisti italiani torna alla ribalta. Viene dalla Francia, dove è uscito il terribile "Libro nero del comunismo", in cui un gruppo di storici condanna quei crimini e dove ci si chiede come mai non facciano altrettanto gli intellettuali ex comunisti. Sicché Le Monde rimarca "l'assordante silenzio degli ex membri del Pci". Ma mentre Cossutta afferma perentoriamente: "Non c'è nulla di cui noi comunisti italiani dobbiamo pentirci", Massimo D'Alema, con maggiore sensibilità politica, definisce di fronte a Biagi "un crimine orrendo" i milioni di morti causati dai regimi comunisti e quel crimine orrendo condanna, prendendone le distanze. Purtroppo, tra i milioni di morti c'erano migliaia di italiani senza colpa né peccato, della cui sorte e delle cui condizioni i comunisti del Pci erano al corrente, e che non solo hanno tormentato nei lager per lavarne il cervello e convincerli ad aderire al paradiso sovietico, ma hanno lasciato morire per calcolo e per interesse politico: come prova la cinica lettera di Togliatti al compagno Bianco.
    Queste migliaia di italiani erano i superstiti della disfatta delle nostre divisioni sul fronte del Don, avviati alle retrovie con le interminabili marce del davai (avanti) nella neve e nel gelo, disarmati, senza difesa d'abiti o di scarpe, stipati per centinaia di chilometri nei carri bestiame aperti alle temperature polari della steppa, privi di cibo, spesso crollanti per la fatica e le ferite e allora abbattuti a fucilate, ombre scure nel bianco di una apocalittica anabasi verso l'ignoto. Non si è mai saputo con esattezza quanti fossero, chi fossero e quanti ne siano morti; i sovietici, che non si presero cura dei loro connazionali finiti prigionieri dei tedeschi (ed anzi, dopo la guerra li relegarono per punizione a loro volta nei lager), tanto meno si occuparono di questi scalcinati italiani venuti a fargli la guerra e ai quali, ora, chissà perché, avrebbero dovuto provvedere.
    L'Agenzia Tass fece sapere che i nostri prigionieri erano tra gli 80 e i 115mila. Radio Mosca li ridusse a 40mila. Il ministero della Difesa italiano ne identificò 64mila su 80mila: ventimila, rimasti senza nome, erano morti durante le terribili marce o fucilati. Questi dati, inoppugnabili, si ritrovano nel bel libro di Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky "Togliatti e Stalin", edito dal Mulino, dove si possono leggere, documentati, altri particolari agghiaccianti di una tragedia i cui corresponsabili comunisti a tutt'oggi non figurano pentiti.
    Nei campi imperversavano gli istruttori politici del Pci per indottrinare i prigionieri, spesso con angherie e violenze. Tra essi si distinse Edoardo D'Onofrio, nel dopoguerra parlamentare del Pci, che con la moglie di Togliatti Rita Montagnana e il cognato Robotti (tutto in famiglia...) dirigeva "Alba", il giornale dell'ortodossia sovietica che si tentava di diffondere nei lager.
    Nel 1946 alcuni reduci della prigionia in Russia pubblicarono un opuscolo per denunciare le persecuzioni subite da D'Onofrio, da Robotti e dagli altri funzionari moscoviti del Pci. D'Onofrio li querelò e perse la causa: per tutto il tempo del processo tramò con l'ambasciatore sovietico a Roma, Kostylev, e con Togliatti per avere da Mosca elementi che lo sollevassero. E siccome uno degli ultimi reduci della prigionia, don Brevi, era stato tra i suoi accusatori, D'Onofrio tentò di procurarsi una ipotetica denuncia a suo carico quale criminale di guerra, inoltrata - si pensi - da un altro cappellano militare, il noto don Franzoni, poi abate di San Paolo fuori le Mura in Roma. Denuncia che non venne mai trovata per la semplice ragione che non era mai esistita. E D'Onofrio tentò di vendicarsi cercando di impedire il rimpatrio degli ultimi prigionieri rimasti ancora in Urss.
    Franzoni, chiamato a testimoniare, non era stato trovato e il delicato Robotti si diceva "... estremamente dispiaciuto che finora questo traditore non sia stato punito come merita, in particolare durante un viaggio a Vienna...". Insomma, chi è colpevole di non averlo ammazzato, come insegnava il Piccolo Padre?
    Credo che si potrebbe pubblicare un "libro nero del comunismo italiano" e che dovrebbero comparire, con i nomi e i cognomi, coloro che furono coinvolti in quella tragedia italiana. Coloro che si accanirono contro i loro connazionali prigionieri, che li lasciarono morire e che addirittura sulla loro eliminazione specularono per i vantaggi politici che disumanamente la loro parte poteva trarne. Qualcuno si è pentito di tutto questo? Qualcuno, almeno, se ne è vergognato? O basterà l'occasionale compianto per le vittime del Porzûs e delle foibe per rinnegare sinceramente quel "crimine orrendo"?

    Di Silvio Bertoldi, dal Corriere della Sera di mercoledì 14 gennaio 1998.

  6. #6
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    In origine postato da ariel
    CENTOMILA GAVETTE DI VERGOGNA. In Urss migliaia di prigionieri italiani. Che per Togliatti non bisognava aiutare.

    Vincenzo Bianco, funzionario del Pci, durante la guerra responsabile a Mosca per i prigionieri italiani nei lager sovietici, nel gennaio 1943 scrive una lettera allarmata a Palmiro Togliatti, suo superiore diretto e dirigente del Comintern.
    Bianco assiste quotidianamente alla tragedia dei soldati dell'Armir nell'inferno dei campi di concentramento, abbandonati al gelo dell'inverno russo, affamati, senza cibo, senza medicine, senza indumenti, angariati da sorveglianti spietati, perennemente nell'angoscia di sentirsi accusare di crimini di guerra e di sparire nei gelidi misteri della Siberia. Questa gente è destinata a morire a migliaia e Bianco, pur animato da tutt'altri sentimenti che da carità o amor del prossimo, capisce che conviene fare qualcosa, anzi che qualcosa deve fare il capo supremo, il Migliore: "affinché non abbi (sic) a registrarsi il caso che non muoiano in massa, come ciò è già avvenuto. Perché i superstiti, ritornando, faranno un lavoro da canaglia, e noi, ed i nostri cari compagni di qui, non abbiamo bisogno di ciò".
    Ed ecco la risposta di Togliatti: "... se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente nulla da dire. Anzi... Io non sostengo affatto che i prigionieri si debbano sopprimere... ma nelle durezze oggettive che possono provocare la fine di molti di loro, non riesco a vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il vecchio Hengel diceva essere immanente in tutta la storia". Traduzione: queste migliaia di connazionali prigionieri stanno bene morti, non deve interessarci la loro fine, perché avviene secondo i canoni della giustizia storica com'è nei disegni dell'idealismo hegeliano. Una elegante lezione di realismo marxista-leninista, oltre che di comprensione per le sofferenze di connazionali in catene. Non risulta che, di tutto questo, una volta tornato in Italia e quindi non più timoroso dell'ira di Stalin, Togliatti si sia pentito. Vergognato, forse sì: ma qui si entrerebbe nei meandri delle coscienze.
    Ora il tema del mancato pentimento dei loro crimini (o della consapevolezza e della correità nei crimini del Grande Fratello) da parte dei vetero-comunisti italiani torna alla ribalta. Viene dalla Francia, dove è uscito il terribile "Libro nero del comunismo", in cui un gruppo di storici condanna quei crimini e dove ci si chiede come mai non facciano altrettanto gli intellettuali ex comunisti. Sicché Le Monde rimarca "l'assordante silenzio degli ex membri del Pci". Ma mentre Cossutta afferma perentoriamente: "Non c'è nulla di cui noi comunisti italiani dobbiamo pentirci", Massimo D'Alema, con maggiore sensibilità politica, definisce di fronte a Biagi "un crimine orrendo" i milioni di morti causati dai regimi comunisti e quel crimine orrendo condanna, prendendone le distanze. Purtroppo, tra i milioni di morti c'erano migliaia di italiani senza colpa né peccato, della cui sorte e delle cui condizioni i comunisti del Pci erano al corrente, e che non solo hanno tormentato nei lager per lavarne il cervello e convincerli ad aderire al paradiso sovietico, ma hanno lasciato morire per calcolo e per interesse politico: come prova la cinica lettera di Togliatti al compagno Bianco.
    Queste migliaia di italiani erano i superstiti della disfatta delle nostre divisioni sul fronte del Don, avviati alle retrovie con le interminabili marce del davai (avanti) nella neve e nel gelo, disarmati, senza difesa d'abiti o di scarpe, stipati per centinaia di chilometri nei carri bestiame aperti alle temperature polari della steppa, privi di cibo, spesso crollanti per la fatica e le ferite e allora abbattuti a fucilate, ombre scure nel bianco di una apocalittica anabasi verso l'ignoto. Non si è mai saputo con esattezza quanti fossero, chi fossero e quanti ne siano morti; i sovietici, che non si presero cura dei loro connazionali finiti prigionieri dei tedeschi (ed anzi, dopo la guerra li relegarono per punizione a loro volta nei lager), tanto meno si occuparono di questi scalcinati italiani venuti a fargli la guerra e ai quali, ora, chissà perché, avrebbero dovuto provvedere.
    L'Agenzia Tass fece sapere che i nostri prigionieri erano tra gli 80 e i 115mila. Radio Mosca li ridusse a 40mila. Il ministero della Difesa italiano ne identificò 64mila su 80mila: ventimila, rimasti senza nome, erano morti durante le terribili marce o fucilati. Questi dati, inoppugnabili, si ritrovano nel bel libro di Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky "Togliatti e Stalin", edito dal Mulino, dove si possono leggere, documentati, altri particolari agghiaccianti di una tragedia i cui corresponsabili comunisti a tutt'oggi non figurano pentiti.
    Nei campi imperversavano gli istruttori politici del Pci per indottrinare i prigionieri, spesso con angherie e violenze. Tra essi si distinse Edoardo D'Onofrio, nel dopoguerra parlamentare del Pci, che con la moglie di Togliatti Rita Montagnana e il cognato Robotti (tutto in famiglia...) dirigeva "Alba", il giornale dell'ortodossia sovietica che si tentava di diffondere nei lager.
    Nel 1946 alcuni reduci della prigionia in Russia pubblicarono un opuscolo per denunciare le persecuzioni subite da D'Onofrio, da Robotti e dagli altri funzionari moscoviti del Pci. D'Onofrio li querelò e perse la causa: per tutto il tempo del processo tramò con l'ambasciatore sovietico a Roma, Kostylev, e con Togliatti per avere da Mosca elementi che lo sollevassero. E siccome uno degli ultimi reduci della prigionia, don Brevi, era stato tra i suoi accusatori, D'Onofrio tentò di procurarsi una ipotetica denuncia a suo carico quale criminale di guerra, inoltrata - si pensi - da un altro cappellano militare, il noto don Franzoni, poi abate di San Paolo fuori le Mura in Roma. Denuncia che non venne mai trovata per la semplice ragione che non era mai esistita. E D'Onofrio tentò di vendicarsi cercando di impedire il rimpatrio degli ultimi prigionieri rimasti ancora in Urss.
    Franzoni, chiamato a testimoniare, non era stato trovato e il delicato Robotti si diceva "... estremamente dispiaciuto che finora questo traditore non sia stato punito come merita, in particolare durante un viaggio a Vienna...". Insomma, chi è colpevole di non averlo ammazzato, come insegnava il Piccolo Padre?
    Credo che si potrebbe pubblicare un "libro nero del comunismo italiano" e che dovrebbero comparire, con i nomi e i cognomi, coloro che furono coinvolti in quella tragedia italiana. Coloro che si accanirono contro i loro connazionali prigionieri, che li lasciarono morire e che addirittura sulla loro eliminazione specularono per i vantaggi politici che disumanamente la loro parte poteva trarne. Qualcuno si è pentito di tutto questo? Qualcuno, almeno, se ne è vergognato? O basterà l'occasionale compianto per le vittime del Porzûs e delle foibe per rinnegare sinceramente quel "crimine orrendo"?

    Di Silvio Bertoldi, dal Corriere della Sera di mercoledì 14 gennaio 1998.
    Ma quanto mi piace sto fustino di detersivo, sto Ariel.
    Mandane ancora di questi articoli, ne hai altri?
    Colleziono tutti gli scritti che riguardano il Migliore. Poi me li leggerò nelle lunghe serate invernali riandando, con la memoria, ai tempi felici del Komintern, del Patto di Varsavia e della cagnetta Laika.

    G.G.

    WORKERS OF THE WORLD UNITE!

  7. #7
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    " «Io, comunista, ultimo prigioniero del gulag»

    Giovanni Morandi TIVOLI _ «Con noi parlava poco», ricorda la nipote Natalia. «Era un uomo di poche parole. Rammento solo che era ossessionato dal dubbio di essere spiato. Ne aveva passate troppe nella vita. Sa, aveva scoperto che anche sua moglie era una confidente della polizia segreta sovietica». Dante Corneli è vissuto fino a 90 anni e gli ultimi 20 li ha spesi a raccontare quel che aveva sofferto e visto. Ma chi conosce Dante Corneli? Con lui, così come per milioni di altre vittime del comunismo, la congiura del silenzio ha funzionato alla grande. Non trovò un editore di sinistra (come tante altre vittime di Stalin era rimasto fedele all'idea comunista) disposto a pubblicare i suoi diari e fece stampare a proprie spese 6 libretti autobiografici, di cui quasi non è rimasta traccia. «Ne erano rimaste alcune copie in casa _ spiega la nipote _ ma le prese un signore che mi disse voleva scrivere un libro. Non me l'ha più rese e non ho mai saputo chi in realtà fosse». Dunque, cancellato Dante Corneli, sparito nelle pagine bianche dello stalinismo, che almeno è riuscito vincente nell'opera di cancellazione di gran parte delle prove dei suoi crimini. La grande mostra sul sistema concentrazionario stalinista, in corso a Milano, è un documento straordinario sulla menzogna sovietica. La violenza nelle centinaia di foto raccolte la si percepisce, la si intuisce, ma da quelle immagini è stata sempre accuratamente sbianchettata. «Come ho fatto a resistere?» raccontò un giorno Dante Corneli: «Ho un carattere un po' speciale, sono uno che non se la prende. Gli altri deportati piangevano, si disperavano, scrivevano continuamente suppliche a Stalin, a Beria, a Togliatti e io lo sapevo che non serviva a niente. Così loro impazzivano e io invece tiravo avanti». Corneli è uno dei pochissimi che ce l'ha fatta a tornare dalla Siberia ed è stato l'ultimo a rientrare dall'Urss, solo nel 1970 (dopo un primo visto ottenuto nel '65), e grazie all'interessamento di Saragat e alle raccomandazioni di Umberto Terracini, che come contropartita gli chiese di mettere una pietra sul passato. «Ma io gli spiegai che non potevo farlo e che avrei passato il resto della vita a far conoscere che cosa era stato lo stalinismo”. La Domenica del Corriere si occupò di lui alla fine dell'82, quando scoppiò lo scandalo dei quaderni segreti di Paolo Robotti, il cognato di Togliatti. La commissione di controllo del Pci (ancora nell'82!) radiò dal partito per ‘slealtà' l'editore Roberto Napoleone, accusato di non aver informato il Pci dell'intenzione di pubblicare i diari in cui Robotti rivelava la morte di 99 comunisti italiani nelle purghe staliniane. «Non 99 ma migliaia. Esattamente 3.000 compagni italiani secondo una mia ricerca _ obiettò Corneli in un'intervista al settimanale _ e molti di loro morirono per responsabilità proprio di Paolo Robotti, che era un fanatico al limite della paranoia». Corneli era scappato in Urss, perché nel 1922 era rimasto coinvolto in uno scontro a fuoco a Tivoli, nel quale aveva perso la vita il segretario del fascio, delitto per il quale era stato condannato a 20 anni di reclusione. L'essere stato trozkista nei primi anni della rivoluzione bolscevica non venne mai dimenticato negli archivi della polizia segreta, anche dopo la ritrattazione avvenuta nel 1929. E per questa colpa, solo per questa, si fece 20 anni di Siberia. Tutto cominciò la sera del 23 giugno 1936. «Mi vennero a prendere in fabbrica, ero operaio all'officina cuscinetti a sfera di Mosca. Non avevo fatto nulla, ma essere innocente era un particolare del tutto insignificante». Rientrato in Italia e nonostante le pressioni subìte dal partito, Corneli raccontò nei libretti che lui stesso distribuiva delle torture subìte, degli interrogatori incessanti, delle mogli costrette ad assistere alle sevizie. Diari dei 4 mesi trascorsi nel carcere della Butyrka a Mosca, senza essere processato; dei lavori forzati a Vorkuta, per 5 anni, poi diventati dieci e mezzo. Il giorno in cui doveva essere liberato scoppiò la guerra con la Germania e, per il fatto di essere italiano, venne mandato in un gulag a regime duro, la cosiddetta ‘miniera della morte'. Nel '49 fu di nuovo arrestato, dopo una liberazione durata pochi giorni, perché apolide (si era rifiutato di prendere la cittadinanza sovietica) e rispedito in Siberia fino al 1960. Dovette aspettare altri 10 anni per tornare in Italia. «Ho visto morire tanta gente, ho assistito a episodi disgustosi di violenza e di abbrutimento ma il ricordo peggiore è la degradazione a cui arrivavano i deportati». Le date non devono sorprendere. Si pensa che il massimo numero di detenuti nei gulag di Stalin si ebbe non negli anni Trenta, durante il terrore, ma nel 1950 e nei 3 anni successivi, fino alla morte del dittatore. Sì, proprio quando i comunisti italiani auspicavano anche da noi l'arrivo di Baffone. Ma l'amarezza maggiore di Dante Corneli, i suoi silenzi, la sua disfatta morale derivarono soprattutto dal comportamento dei dirigenti del Pci e in particolare da Togliatti. I compagni di Tivoli ricordano che diceva: «Togliatti, Longo, D'Onofrio venivano a Tivoli a fare i comizi e quando mia sorella andava a chiedere: ma Dante quando torna? Loro rispondevano: ‘Dante? Lo abbiamo visto a Mosca nel '33 e da allora non abbiamo saputo più nulla'. E invece lo sapevano benissimo che ero chiuso nel lager di Vorkuta. Ma non avevano alcun interesse a vedermi ricomparire e a consentirmi di raccontare quel che avevano fatto a me e agli altri. Né Togliatti né alcun altro dirigente del Pci fece nulla per salvare dall'arresto e poi dalla fucilazione o dalla deportazione quanti di noi erano caduti in disgrazia per non aver aderito subito allo stalinismo o per averlo accettato senza troppo entusiasmo. Anzi, molti di noi furono arrestati solo perché erano stati loro a denunciarci alla polizia politica». Perfino i diari gli hanno rubato, povero Corneli. Se ne va questo secolo con le sue pagine bianche e la constatazione che voci come la sua furono soffocate per nascondere il grande inganno del ‘900. ‘Metterci una pietra sopra' non si può, ma purtroppo bisogna riconoscerlo: i censori hanno vinto.
    "
    http://ilgiorno.quotidiano.net/chan/....1:/1999/12/19


    Shalom

  8. #8
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    " Togliatti indipendente da Stalin? Canfora racconta una favola”
    di Nicholas D. Leone

    “Non so bene su che cosa Canfora si basi per esaltare l’opposizione di Togliatti alla propria promozione al Cominform: è davvero poco credibile quando presenta il Migliore come un esempio di indipendenza nei confronti di Stalin”. Elena Aga-Rossi, docente di storia contemporanea all’Università dell’Aquila e presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione di Roma, respinge con decisione le tesi sostenute da Luciano Canfora, storico di formazione comunista, in un articolo pubblicato domenica scorsa dal Corriere della Sera. Citando Enzo Biagi (che tre giorni prima, sullo stesso quotidiano, aveva attribuito a Palmiro Togliatti, reduce assieme a Nilde Iotti da un viaggio in Urss, l’esclamazione “Finalmente liberi!”), Canfora sottolinea l’importanza del rifiuto opposto da Togliatti a Stalin, che nel 1950 aveva chiesto al Migliore di trasferirsi a Mosca per guidare il Cominform. Durante il “memorabile viaggio” che tra il dicembre 1950 e il febbraio 1951 Togliatti e la Iotti fecero in Urss, il segretario del Pci comunicò a Stalin di non desiderare un incarico al Cominform: una scelta che lo storico comunista mette in relazione con il breve intervento finale che Stalin tenne nell’ottobre 1952 al XIX congresso del Pcus. In quell’occasione, il dittatore sovietico dichiarò, provocando scalpore, “che compito dei partiti comunisti in Occidente dovesse essere ormai quello di difendere le ‘libertà democratico-borghesi, non certo la rivoluzione socialista”, scrive Canfora, secondo il quale per la storia successiva dell’Italia e della Francia “la netta opposizione di Togliatti nei confronti della ‘promozione’ al Cominform fu un gesto decisivo”. Interpellata dal Velino, la Aga-Rossi, che nel 1997 ha firmato assieme al marito Victor Zaslavsky un saggio dal titolo Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana (una “svolta importante” rispetto alla storiografia apologetica su Togliatti e sul Pci imperante nel nostro paese, secondo Ernesto Galli della Loggia), smentisce l’assunto di Canfora: “L’Urss fu il punto di riferimento di Togliatti - un leader apprezzato da Stalin così come dai suoi successori - anche dopo il 1952. Il rifiuto togliattiano di trasferirsi a Mosca non piacque a Stalin, ma fu dettato da ragioni personali: quanto all’intervento del dittatore sovietico al congresso del Pcus, rimase un fatto abbastanza episodico”, ricorda la docente di storia contemporanea. “In quello stesso anno, Stalin intensificò il dialogo con i partiti comunisti occidentali in vista di una terza guerra mondiale: le tesi su suo presunto atteggiamento moderato non sono supportate da alcun documento”. La morte di Stalin fu accolta “con un generale sospiro di sollievo: segno che la politica dell’Urss non stava affatto cambiando”.

    LIBERTÀ SOLO PER DUE. L’autrice di Togliatti e Stalin chiede se “davvero si possa pensare che Togliatti fosse così potente da cambiare la collocazione di Stalin. È un leit-motiv storiografico che nasce a partire dalla svolta di Salerno: si sostiene che fu Togliatti a convincere Stalin dell’opportunità di appoggiare Badoglio, mentre è vero il contrario”, come la Aga-Rossi ha dimostrato nel saggio scritto con Zaslavsky. “Togliatti fu uno stalinista di ferro: prese posizione a favore dell’Urss contro l’Ungheria, e durante la sua carriera non si comportò affatto da leader di un partito comunista indipendente. Anzi, durante l’invasione di Budapest fece una scelta decisamente cominformista”. Anche per questo la decisione di non trasferirsi a Mosca va letta in una chiave molto diversa da quella che Canfora propone: “Togliatti conosceva i pericoli che avrebbe corso accettando un incarico nell’Urss. Meglio rimanere in Italia, dove era un leader indiscusso, che mettere a repentaglio la propria sicurezza a Mosca. Quanto alla sua fedeltà a Stalin, basti pensare che il viaggio finale a Yalta - dove Togliatti morì - è sempre stato interpretato in funzione anti Krusciov”. Se, rimesso piede in Occidente dopo il Natale moscovita, Togliatti inneggiò con la Iotti alla ritrovata libertà, è perché tra i comunisti italiani vigeva la “doppia verità, nella quale è ravvisabile una grossa responsabilità della classe dirigente del Pci”, prosegue la Aga-Rossi. “Togliatti sapeva perfettamente che non valeva la pena di rimanere a Mosca: lo attesta il sentimento di paura espresso dalla Iotti nel racconto della loro provvisoria prigionia a Praga, la città in cui furono trattenuti prima di riprendere il viaggio verso l’Italia. Dove alle masse il sistema sovietico veniva raccontato come un paradiso in terra”. La docente di storia contemporanea si chiede “quando gli eredi del Pci faranno i conti fino in fondo con l’aver ingannato quanti di noi credevano nel comunismo. Come fa Canfora ad elogiare Togliatti per l’espressione ‘finalmente liberi’, dettata da ragioni puramente personali? Ciò che non andava bene per il segretario del Pci poteva invece essere propinato a metà dei nostri connazionali?”.


    27.08.2003
    "

    Canfora non è uno storico, è solo un agit-prop di terz'ordine, ecco come fa.

    Shalom

  9. #9
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    Predefinito

    Libri consigliati:
    http://www.internetbookshop.it/ser/s...=NIVKUPMKYYQOO

    La recensione del post-comunista Aldo Agosti, autore di una biografia monumentale, documentata quanto.......giustificazionista dello Stalinista Togliatti, persino nei suoi "momenti peggiori".....è da prendere con le molle.

    Leggete il libro.

  10. #10
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    Predefinito Re: Un vero uomo di Sinistra ed un vero Democratico

    In origine postato da Pieffebi
    " “La bandiera delle libertà democratico-borghesi la borghesia l’ha buttata a mare; io penso che tocca a voi, rappresentanti dei partiti comunisti e democratici, di risollevarla e portarla avanti, se volete raggruppare attorno a voi la maggioranza del popolo. Non vi è nessun altro che la possa levare in alto ” ( Giuseppe Stalin , 1953, dall' intervento al XIX Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica - v.sc. p. 153).




    Saluti liberali

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