...i Vangeli secondi

E disse: “Secondo me l’arrivo del Cristo nei Vangeli significa questo: che non c’è da aspettare più nessun Messia se un Messia è arrivato… ma se un Dio è sempre, se la parola è parola, questo vale per ora, per dopo, ma anche per prima, quindi il racconto di questo arrivo significa che nessuno arriverà mai…”, e continuando a guardare me si allontanava camminando all’indietro, obliquo, non offrendo tutte e due le spalle alla sua direzione ma un fianco, un gluteo, un’anca, una scapola, significando il passo malizioso del confidente, dell’insinuante, del suggestivo, perché, anche se rivolto a me, pedinava la sua capra imprevedibile, avventata, testarda, domestica e commestibile, che sembrava cercasse di ritrovare tra i sassi quel che del mondo aveva dimenticato, correndo un solo rischio ma grande: perdersi, farsi sbranare da un essere che né la munge né la conduce al pascolo, lasciarsi masticare e morire senza fiducia.
Egli retrocedeva procedendo, la bocca aperta, un dito in aria come se tappasse il foro alla base di una canna svettante in cielo che prolungava il suo dito fino all’astratto.
Chiuse la bocca e la riaprì per dire: “E’ un punto fermo…”, sapeva che un gesto convince un concetto come la promessa di una punizione. Poi ritirò il dito come se avesse fatto godere l’aria, lo sfilò con lentezza oscena, torse il viso e l’insinuò verso l’animale, l’occhiata si mosse come una diagonale nel paesaggio, l’ombra di una meridiana al tramonto.
Si accertava che nessuno oltre me l’ascoltasse o che la capra non andasse oltre il suo sguardo. Calcolava lo spazio, il tempo di recupero del passo.
“E’ un punto fermo…”, disse ancora, come se io fossi una folla ma col vantaggio che non lo ero. Poi si voltò del tutto dandomi le spalle, nell’altra mano aveva un bastone, lo manovrò solo adesso in maniera pericolosa, per darsi slancio.
La capra scelse un’ascesa, spariva oltre un masso rugoso. Senza capra alla vista, lui sembrava affrettarsi là dietro per fare un bisogno, così svanì senza voltarsi.
Io, zitto e fermo, lo guardavo come uno dei tanti equivoci che appaiono nel mondo e, così come appaiono, spariscono, aggiungendo un nodo o un ricciolo all’acconciatura dei nostri grovigli.
“E’ meglio stare lontano dagli avvenimenti, è meglio che ti arrivino come leggenda, senza fare altre storie, e cosa c’è di più vero al mondo della leggenda? Ci credi o non ci credi, essa esiste, è fiato pagano, la più alta forma di spiritualismo. Sei perplesso? Bene, meglio!… Questa incertezza tiene in vita la leggenda più di quanto il vero tenga in vita ciò che appare, e più di quanto il nulla annienti ciò che non è…”: così mi disse un altro, qualche tempo dopo.
Stavo mangiando pane e olive e lui parlava.
Non toccava il suo pane, parlava. Masticando masticando gli dissi:
“Non lo mangi il tuo pane?”.
Bisogna dirlo masticando. Se lo dici a bocca asciutta, dopo che hai mangiato tutto il tuo, quasi sicuro ti dice di sì, che lo mangia, il suo, devi toglierlo dall’imbarazzo della buona azione, devi dirglielo durante, mischiare le carte, cioè i pani, devi confonderlo, niente di male se lui con le sue chiacchiere sta confondendo te. Devi fargli credere che il suo pane possa rivolgertelo contro, come fa con la sua sapienza: una generosa offesa, superflua.
Ma se il tuo pane l’hai mangiato tutto, il suo diventa negazione, ti è già contro.
Ho ritardato certi morsi, e questi pezzi del mio pane sono esche perché il suo pane abbocchi.
Mi lascio incantare, non capisco niente di quel che dice, e questo sì che è incantamento. Con la mia domanda devo un po’ indisporlo, insomma fargli fretta, deve lasciarmi prendere il pane con la rapidità, la destrezza, l’esaltazione della sua coscienza che, rischiando di perdere il filo, lo ritrova inzeppando un monosillabo nel discorso. Con un sì o un no deve tapparmi la bocca perché sono ingordo, non perché sono affamato. Masticavo, finto disappetente, il mio boccone infinito ossia ridondante, aspettavo risposta.
Facevo apposta quel rumore sazio, lento, di mascella oscillante e di poltiglia, lui estenuava le parole in bocca come un pezzo di radice stopposa e sfibrata, e tra una frase e l’altra, tra un vero e un non vero, disse il succo: “No…”, che non mangiava il suo pane e “… non esiste che la leggenda, il reale è tempo perso, e allora pensa sempre che sia una favola il tuo tempo…”.
Il pane, frutto dei suoi utili insegnamenti, era ormai mio.

(1. continua)
Pasquale Panella

da il Foglio di martedì 6 luglio

saluti