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    Garibaldi: un uomo dal "cuore tenero"
    di Angela Pellicciari

    Aspetti sconosciuti della vita dell’eroe dei due mondi: amava gli animali, trasportava schiavi e odiava i preti. Che avrebbe mandato volentieri ai lavori forzati.

    Un tenero di cuore. Ebbene sì; Giuseppe Garibaldi era tenero di cuore. Il cuore del generale batte di amore paterno per gli animali. E dire che oggi quasi nessuno se ne ricorda. Come mai la sorte degli animali sta tanto a cuore all’eroe dei due mondi? Perché la loro situazione nei paesi cattolici, in primis ovviamente l’italia, è letteralmente da compiangere sottoposti come sono dai seguaci di santa romana Chiesa - che non credono di essere loro diretti discendenti - a brutalità di ogni tipo. Da sempre attento alle esigenze del mondo femminile, il cuore del generale è attartto dall’amare sorte toccata agli animali di una nobildonna inglese che, in viaggio per l’Italia, constata di persona i gravi maltrattamenti inflitti dai superstiziosi e ignoranti cattolici alle bestiole. È così che, sull’onda dello sdegno, il generale fonda nel 1871 la Società per la Protezione degli Animali.

    Forse che i cattolici del secolo scorso erano davvero così spietati nei confronti delle bestie? A leggere i documenti dell’epoca non si direbbe. Sembrerebbe anzi che fossero proprio i cattolici a farsi paladini delle bestie cadute sotto il bisturi positivista di provetti scienziati umanitari. Un gruppo di scienziati stranieri aveva infatti iniziato a Firenze la pratica della vivisezione "per sorprendere i misteri della vita nei suoi recessi". Fu proprio una campagna stampa sostenuta dal "partito cattolico" ad impedire che simili sperimentazioni continuassero in Italia. E così chi li faceva continuò il suo lavoro nella più ospitale - calvinista e puritana - Ginevra.

    Garibaldi, oltre che tenero di cuore, era anche fantasioso romanziere. E pure questo aspetto del poliedrico generale è rimasto praticamente sconosciuto anche perché difficilmente la sua produzione letteraria potrebbe definirsi riuscita.

    Interessante sì. Perché testimonia, se ce ne fosse bisogno, l’odio che uno dei padri nobili della nostra patria nutre per la Chiesa in generale, i suoi ministri in particolare, i gesuiti in modo speciale. Sì, perché se il prete è "il vero rappresentante della malizia e della vergogna, più atto assai a la corruzione e al tradimento dello schifoso e strisciante abitatore delle paludi", il gesuita è "il sublimato dei prete".

    "Quando sparirà - si chiede, affranto, Garibaldi - dalla taccia della terra questa tetra, scellerata, abominevole setta, che prostituisce, deturpa, imbestialisce l’esser umano?".

    Tanto è lo schifo che il generale nutre per tutto quanto ricorda santa romana Chiesa ed i suoi rappresentanti, che per i preti arriva ad immaginare un rimedio attuato circa un secolo dopo dalla fantasia malata di un altro grande della storia: Mao Tse-Tung.

    La Cina degli anni Sessanta assiste esterrefatta ad uno straordinario esperimento: come gli odiati "borghesi", nella fattispecie i boriosi intellettuali - medici, ingegneri, professori -, possano imparare dai contadini l’arte, preziosa, di vivere. La "rivoluzione culturale’ , i cui milioni di morti non si sa quando potranno essere contati, distrugge la vita culturale, e quindi economica oltre che familiare, della nazione cinese.

    Ebbene Garibaldi questo provvedimento lo aveva anticipato, anche se solo nelle intenzioni. Solo che, invece dei borghesi, nei campi ci voleva mandare i preti. Nelle sue intenzioni "i preti alla vanga" avrebbero realizzato una magnifica bonifica delle paludi pontine.

    Questo benefattore dell’Umanità (con la U rigorosamente maiuscola come i massoni - di cui Garibaldi èautorevolissimo esponente - scrivono) oltre che tenero di cuore e romanziere è pure commerciante di schiavi. E anche questo aspetto della vita del liberatore d’italia dal giogo pontificio poco si conosce. L’attività di negriero Garibaldi la esercita negli anni eroici passati a combattere per la liberazione dell’America Latina. Convinto di vivere una vita memorabile, è Garibaldi stesso a redigere un resoconto delle proprie azioni in una lunga autobiografia. Solo che, a questo riguardo, le Memorie sono leggermente reticenti e devono essere integrate con altre fonti.

    Garibaldi non racconta del commercio di carne umana. Si limita a specificare che il 10 gennaio del 1852, da comandante della Carmen, parte dal porto del Callao, in Perù, alla volta della Cina. La nave trasporta un carico di guano che è una qualità di letame molto pregiata. Il generale è in genere molto preciso nel racconto delle proprie gesta che descrive in dettaglio; così dei viaggio Callao-Canton-Lima sappiamo praticamente tutto: giorni di traversata, carichi trasportati, traversie. Manca solo un particolare: non viene specificato con che tipo di merce Garibaldi, dopo aver venduto a condizioni vantaggiose il guano, faccia ritorno in Perù.

    A questa dimenticanza provvede fortunatamente l’armatore ligure Pietro Denegri che volendo lodare il capitano della Carmen, racconta all’amico di famiglia nonché biografo del generale, tale Vecchj, il dettaglio mancante: Garibaldi "m’ha sempre portati i Chinesi nel numero imbarcati e tutti grassi e in buona salute; perché li trattava come uomini e non come bestie". Protettore degli animali, romanziere e negriero? Garibaldi non è passato alla storia con questo clichet. Tutti lo conosciamo come impavido eroe dei due mondi, libertador, disinteressato condottiero, esule volontario, uomo puro e scevro da compromessi. Garibaldi con questa immagine è conosciuto e rispettato in tutto il mondo. Basti dire che nella centralissima piazza George Washington di New York, nuova capitale mondiale, la statua di Garibaldi è una delle due che accompagna, con minor magnificenza e con dimensioni molto più ridotte è vero, ma nondimeno con grande valore simbolico, la statua a cavallo del generale Washington, padre della patria americana. Davvero grande e onnipresente è l’odio per santa romana Chiesa. È stato profetizzato.

    Bibliografia

    Angela Pellicciari, L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, Piemme, Casale Mon.to 2000.

    Artgela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali & massoni contro la Chiesa, Ares, Milano 1998.

    Patrick Keyes O’Cleary, La rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione, Ares, Milano 2000.

    © Il Timone - n. 15 Settembre/Ottobre 2001
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Dalla Catrboneria "fiamme" sulla Chiesa
    di Angela Pellicciari

    Distruggere il cattolicesimo, secondo documenti del 1818, sarebbe stato lo scopo dell’associazione

    Passato il ciclone Napoleone, a continuarne la battaglia rivoluzionaria restano i suoi eredi: militari che hanno acquisito ricchezza e potere, borghesi arricchiti con la legale spoliazione dei beni della Chiesa, cadetti delle casate nobiliari, studenti romanticamente attratti dall’ideale nazionale. I membri delle società segrete. "Chi pensava allora all’Italia, alla sua indipendenza, alla sua rigenerazione? Meno poche eccezioni, la schiuma sopraffina della canaglia, che si riuniva misteriosamente nelle vendite dei Carbonari": in termini così poco lusinghieri Massimo D’Azeglio descrive ne I miei ricordi la società segreta protagonista dei tentativi insurrezionali dei primi decenni dell’Ottocento. "Figliuola della Frammassoneria", come scrive nella Storia d’Italia pubblicata nel 1851 lo storico massone Giuseppe La Farina che parla, come sottolinea, con "cognizione di causa", la carboneria organizza i moti del 1817 a Macerata, del 1820 a Nola, Avellino, Napoli e Milano, del 1821 a Torino, del 1831 a Modena e nelle Legazioni. Gli intenti dell’Alta Vendita, vale a dire della direzione strategica della rivoluzione in quel periodo, sono chiaramente enunciati in documenti caduti in mano della polizia pontificia. Si tratta di un interessantissimo epistolario e di uno scritto noto col nome di Istruzione permanente redatto nel 1818. Sia l’Istruzione che le lettere sono testi estremamente significativi perché, tenendoli presente, si capisce qualcosa di più del come e del perché si sia giunti alla formazione del Regno d’Italia. Quale lo scopo della carboneria? Detto in parole povere la liberazione dell’Italia dal cattolicesimo. E l’unità e l’indipendenza? Favole, miti per gente semplice e credulona. Proprio così scrive Felice a Nubio - i nomi di battaglia dei carbonari non sono stati divulgati - l’11 giugno 1829: "l’indipendenza e l’unità d’Italia sono chimere. Pure queste chimere producono un certo effetto sopra le masse e sopra la bollente gioventù. Noi, caro Nubio, noi sappiamo quello che valgono questi principii. Sono palloni vuoti". Per capire con quali armi i rivoluzionari contassero di stroncare il cattolicesimo in Italia conviene citare per esteso i testi dei carbonari: si tratta di documenti che non è esagerato definire agghiaccianti. La calunnia, la maldicenza, l’infiltrazione nelle file del clero, la disintegrazione della famiglia, la corruzione, sono le armi spregiudicatamente scelte e consigliate per conseguire lo scopo prefisso.

    Veniamo ai testi. "Il nostro scopo finale - sostiene l’Istruzione - è quello di Voltaire e della rivoluzione francese: cioè l’annichilimento completo del cattolicismo e perfino dell’idea cristiana"; l’Alta Vendita si prefigge una "rigenerazione universale", inconciliabile con la sopravvivenza del cristianesimo. Vindice scrive a Nubio: "Noi abbiamo intrapresa la fabbrica della corruzione alla grande; della corruzione del popolo per mezzo del clero e del clero per mezzo nostro. Questa corruzione dee condurci al seppellimento della Chiesa cattolica". L’Istruzione prevede che, dove non si arrivi con la corruzione, si debba supplire con la calunnia: "Schiacciate il nemico, quando è potente, a forza di maldicenze e di calunnie"; una parola ben inventata, "una parola può, qualche volta, uccidere un uomo. Come l’Inghilterra e la Francia, così l’Italia non mancherà mai di penne che sappiano dire bugie utili per la buona causa. Con un giornale in mano, il popolo non avrà bisogno di altre prove".

    Ancora: "Dovete sembrare semplici come colombe, ma sarete prudenti come i serpenti. I vostri genitori, i vostri figli, le vostre stesse mogli devono sempre ignorare il segreto che portate in seno, e, se per meglio ingannare l’occhio inquisitore, decideste di andare spesso a confessarvi, siete a ragione autorizzati a conservare il più rigoroso segreto su queste cose". Le istruzioni continuano: "dovete presentarvi con tutte le apparenze dell’uomo serio e morale. Una volta che la vostra buona reputazione sia stabilita nei collegi, nei ginnasi, nelle università e nei seminari, una volta che abbiate catturato la confidenza di professori e studenti, fate in modo che a cercare la vostra compagnia siano soprattutto quanti sono arruolati nella milizia clericale. Si tratta di stabilire il regno degli eletti sul trono della prostituta di Babilonia: che il clero marci sotto la vostra bandiera mai dubitando di seguire quella delle chiavi apostoliche".

    Da sempre le élite rivoluzionarie, considerando se stesse migliori del volgo, hanno creduto loro dovere insegnare al popolo cosa pensare. Da sempre lo hanno fatto poco a poco perché la popolazione non si ritraesse inorridita. Da sempre si è trattato di insinuarsi pian piano con abile propaganda per poi venire all’improvviso - e simultaneamente - allo scoperto. Vanno tanto diversamente le cose ai giorni nostri? Solo fino a qualche anno fa sarebbero state pensabili ostentazioni della diversità sessuale, uteri in affitto, sperimentazione sugli embrioni, clonazioni realizzate ed annunciate e via discorrendo?

    La Padania - 27 luglio 2001
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    «È l'Umanità il Profeta di Dio»
    di Angela Pellicciari


    Mazzini, osannato dai nemici della Chiesa, propagandò la fede nel progresso

    Secondo Giuseppe Montanelli, protagonista delle lotte risorgimentali, il grande merito di Giuseppe Mazzini è stato quello di aver parlato di Dio, e quindi di spirito, a una popolazione che, tutta cattolica, senza Dio non si sarebbe mossa di un passo. A lui "debbonsi lodi per alcun bene che fece - sostiene - non come fuoruscito orditore di cospirazioni impotenti e sacrificatrici, ma come letterato propugnatore di spiritualismo. Né fu piccolo servigio".

    Sempre intento a scrivere a tutti, compresi papi e re, in perenne cospirazione politica, l’avvocato Giuseppe Mazzini, dall’estero, dirige le sorti e la vita di quanti, in Italia, obbedendo alle intuizioni del Maestro, mettono la propria vita e le proprie sostanze a disposizione dell’Ideale: Italia Una, Indipendente, Libera, Repubblicana. Fondatore della Giovane Italia nel 1831 e della Giovane Europa nel 1834, Mazzini è, direttamente o indirettamente, all’origine di numerosi tentativi insurrezionali e di molti attentati - spesso riusciti - alla vita di persone che violano i patti giurati o che sono politicamente nemiche. Amato e osannato da protestanti, evangelici e anglicani, in una parola sostenuto da tutti i nemici della Chiesa cattolica, Mazzini mette Dio al centro della propria attività politica: Dio lo vuole, Dio e popolo, non si stancherà di ripetere, e scrivere, con ardore profetico.

    Quale Dio? Certamente il Dio che Mazzini ha in mente non è quello della tradizione cattolica; fin dal 1834, rivolgendosi Ai giovani italiani, così spiega quale sia il fine ultimo della lotta al potere temporale dei papi: "L’abolizione del potere temporale evidentemente portava seco l’emancipazione delle menti degli uomini dall’autorità spirituale". Massimo D’Azeglio dice di lui che "legato a società bibliche inglesi e americane" cerca "di rendere l’Italia protestante". Ma D’Azeglio sbaglia perché il padre nobile del partito repubblicano condivide l’odio anticattolico e anticristiano della Carboneria: "La missione religiosa consiste nella sostituzione del domma del progresso a quello della caduta e della redenzione per grazia". Ripudiata la Rivelazione, il nome di Dio serve a Mazzini per propagandare una nuova fede, la fede nel progresso: "Crediamo unica manifestazione di Dio visibile a noi la vita; e in essa cerchiamo gli indizi della legge divina. Crediamo nella coscienza, rivelazione della Vita nell’individuo e nella Tradizione, rivelazione della vita nell’Umanità". Così scrive a Pio IX nel 1865 e così continua: "Crediamo che il Progresso, legge di Dio, deve infallibilmente compiersi per tutti. Crediamo che l’istinto del Progresso" sia "la sola rivelazione di Dio sugli uomini, rivelazione continua per tutti". Maestro dell’inganno, maestro nel gioco delle parole, maestro nell’usare i termini più familiari alla popolazione cattolica attribuendo loro un significato radicalmente diverso, Mazzini ha un’unica fede: che il suo modo di pensare sarà condiviso da tutti. L’esule vive in un’epoca che, perlomeno in Italia, è ancora cristiana. Un’epoca quindi che rigetta nella maniera più netta la concezione del progresso che Mazzini sostiene debba infallibilmente compiersi per tutti. Ciononostante il leader repubblicano, colui che esalta con più convinzione il ruolo del popolo, sostiene, e predica, che TUTTI indistintamente dovranno pensarla come lui. Che TUTTI indistintamente dovranno smetterla di essere cristiani. Mazzini dà per scontato che la sua idea di progresso, e cioè la fine di ogni Rivelazione, diverrà realtà. Stessa identica fede, democratica e totalitaria, professa in quel periodo la Massoneria. Nel 1863, la Costituente della rinata (dopo la parentesi della Restaurazione) Massoneria italiana, stabilisce, all’articolo 3, che i principi massonici debbano gradualmente divenire "legge effettiva e suprema di tutti li atti della vita individuale, domestica e civile" e specifica, all’articolo 8, che fine ultimo dell’Ordine è: "raccogliere tutti gli uomini liberi in una gran famiglia, la quale possa e debba a poco a poco succedere a tutte le chiese, fondate sulla fede cieca e l’autorità teocratica, a tutti i culti superstiziosi, intolleranti e nemici tra loro, per costruire la vera e sola chiesa dell’Umanità".

    "Crediamo che Dio è Dio e che l’Umanità è il suo Profeta", scrive Mazzini. Felice Orsini, l’attentatore a Napoleone III che pagherà con la vita il proprio gesto, ha facile gioco nell’apostrofare l’antico Maestro col beffardo nomignolo di "secondo Maometto". Bisogna proprio dirlo: quante cose si fanno e si predicano in nome dell’Umanità con la "u" maiuscola.

    La Padania - 31 luglio 2001
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    I Mille
    di Vittorio Messori

    Per il capo dei socialisti, Bettino Craxi, è ormai una tradizione passare a Caprera la prima domenica di giugno, giorno in cui si celebra la festa della Repubblica. Caprera, si sa, vuoi dire Garibaldi: per un giorno, nei quindici chilometri quadrati di quell'isola, Craxi medita su colui che qualcuno ancora chiama "l'Eroe dei Due Mondi".

    In realtà, la polemica cattolica aveva storpiato quel nome, trasformandolo in "Eroe dei Due Milioni", alludendo alla pingue rendita assegnatagli dallo Stato italiano. Non mancarono, in effetti, polemiche sulla "povertà" di colui che (stando a quanto si leggeva nei libri edificanti) "donò un Regno ai Savoia senza nulla chiedere per sé". Ma, proprio adesso, nuove ricerche, con relativi documenti sinora sconosciuti, gettano una luce inquietante sul mito "francescano" del Nizzardo (o, meglio, fatta salva la sua personale integrità, su quello dei suoi collaboratori diretti), e possono aprire nuove prospettive sui retroscena dell'epopea risorgimentale. Ci sono brutte novità, insomma, per i superstiti devoti dell'Eroe in capelli biondi, camicia rossa e poncho bianco.

    Prima di venire a quelle novità, vediamo ciò che già si sapeva: come se la passava, economicamente, Garibaldi? Era davvero così povero come vorrebbe il mito?

    Va detto che sin dal 1854 aveva abbastanza denaro per comprare almeno parte di un'isola come, appunto, Caprera. Quando vi si ritirò, dopo la spedizione contro siciliani e napoletani, la sua azienda agricola contava una trentina di dipendenti e altre decine di persone (tra cui i membri della numerosa famiglia) ne vivevano. I capi di bestiame superavano i 500 e, in una rada, era ancorato un grande panfilo regalatogli da un ammiratore.

    Poiché le abitudini di Garibaldi erano frugali (e poiché ciò che gli interessava era la "gloria" e non il denaro), avrebbe potuto vivere da benestante, non fosse stato per i figli - Ricciottì e Menotti - che si misero a speculare sul boom edilizio di Roma divenuta capitale italiana. Una storia poco edificante, anche dal punto di vista patriottico: i due, cioè, parteciparono a quel "sacco urbanistico" che, in pochi anni, distrusse la vecchia Roma, divenuta terra di conquista di speculatori che crearono orribili quartieri "da rendita" dove erano splendidi parchi, rovine antiche, palazzi medievali e rinascimentali. Già ne parlammo. Ricciotti e Menotti finirono però per lasciarci le penne e, disperati, ricorsero, per soccorso, al famoso padre.

    Sparsasi la voce delle difficoltà in cui si trovava la famiglia Garibaldi, il Governo (sempre pronto a tenere buono un uomo dei cui colpi di testa diffidava: e non a torto) deliberò un "Dono di gratitudine nazionale" di ben 50.000 lire l'anno vita natural durante. Una somma enorme, pari alla rendita di due milioni di lire-oro. Da qui il beffardo nomignolo cattolico di "Eroe dei Due Milioni" inventato dall'implacabile Civiltà Cattolica.

    Garibaldi cercò di salvare le forme: sulle prime respinse la rendita con sdegnate parole; poi ci ripensò e finì coll'accettarla, approfittando del fatto che al governo era salito Agostino Depretis, uno dei Mille. E pensare che, poco più di un anno prima, saputo che il Parlamento aveva votato la legge che lo faceva ricco rentier, aveva gridato: "Cotesto governo, la cui missione è impoverire il Paese per corromperlo, si cerchi dei complici altrove!". Ma, si sa, si deve pur campare...

    Anche se si tratta di un episodio che mal si inquadra con il mito, tra le tante riserve cui la storia quella "vera" - obbliga davanti a Garibaldi, non c'è più quella di avidità di denaro. Le grandi somme da lui dilapidate furono inghiottite da una torma di familiari, profittatori, parassiti, oltre che dalla sua nullità come amministratore di se stesso.

    Adesso, ecco la sconcertante rivelazione. Viene dal convegno "La liberazione d'Italia nell'opera della Massoneria", organizzato a Torino nel settembre del 1988 dal Collegio dei Maestri Venerabili del Piemonte, con l'appoggio di tutte le Logge italiane. Di recente sono stati pubblicati gli Atti, a cura dell'editrice ufficiosa dei massoni. Una fonte sicura dunque, visto il culto dei "fratelli" per quel Garibaldi che fu loro Gran Capo. Un breve intervento - poco più di due paginette, ma esplosive - a firma di uno studioso, Giulio Di Vita, porta il titolo Finanziamento della spedizione dei Mille. Già: chi pagò? Come riconosce lo stesso massone autore della ricerca: "Una certa ritrosia ha inibito indagini su questa materia, quasi temendo che potessero offuscare il Mito. Quanto viene solitamente riferito è un modesto versamento - circa 25.000 lire fatto da Nino Bixio a Garibaldi in persona all'atto dell'imbarco da Quarto".

    E invece, lavorando in archivi inglesi, l'insospettabile Di Vita ha scoperto che, in quei giorni, a Garibaldi fu segretamente versata l'enorme somma di tre milioni di franchi francesi, cioè (chiarisce lo studioso) "molti milioni di dollari di oggi". Il versamento avvenne in piastre d'oro turche: una moneta molto apprezzata in tutto il Mediterraneo. A che servì quell'autentico tesoro? Sentiamo il nostro ricercatore: "È incontrovertibile che la marcia trionfale delle legioni garibaldine nel Sud venne immensamente agevolata dalla subitanea conversione di potenti dignitari borbonici alla democrazia liberale. Non è assurdo pensare che questa illuminazione sia stata catalizzata dall'oro". Anche perché ai finanziamenti segreti se ne aggiunsero molti altri (e notevolissimi, palesi) frutto di collette tra tutti i "democratici" di Europa e America, del Nord come del Sud.

    Sarebbero così confermate quelle che, sinora, erano semplici voci: come, ad esempio, che la resa di Palermo (inspiegabile sul piano militare) sia stata ottenuta non con le gesta delle camicie rosse ma con le "piastre d'oro" versate al generale napoletano, Ferdinando Lanza. Con la prova dei molti miliardi di cui disponeva Garibaldi si può forse valutare meglio un'impresa come quella dei Mille che mise in fuga un esercito di centomila uomini (tra i quali migliaia di solidi bavaresi e svizzeri), al prezzo di soli 78 morti tra i volontari iniziali.

    Ma c'è di più: il poeta Ippolito Nievo se ne tornava da Palermo a Napoli al termine della spedizione. Il piroscafo su cui viaggiava, l"'Ercole", affondò per una esplosione nelle caldaie e tutti annegarono. Si sospettò subito un sabotaggio ma l'inchiesta fu sollecitamente insabbiata. Le cose possono ora chiarirsi, visto che il Nievo, come capo dell'intendenza, amministrava i fondi segreti e aveva dunque con sé la documentazione sull'impiego che nel Sud era stato fatto di quei fondi. Qualcuno evidentemente non gradiva che le prove del pagamento giungessero a Napoli: non si dimentichi che recenti esplorazioni subacquee hanno confermato che il naufragio della nave del poeta fu davvero dovuto a un atto doloso.

    Si cominciava bene, dunque, con quella "Nuova Italia" che i garibaldini dicevano di volere portare anche laggiù: una bella storia di corruzioni e di attentati Ma Nievo portava, pare, solo ricevute: dove finirono i miliardi rimasti, e dei quali solo pochissimi capi dei Mille erano a conoscenza?

    In ogni caso, era una somma che solo un governo poteva pagare. E, in effetti, la fonte del denaro era il governo inglese (non a caso lo sbarco avvenne a Marsala, allora una sorta di feudo britannico, e sotto la protezione di due navi inglesi; e proprio su una nave inglese nel porto di Palermo fu firmata la resa dell'isola).

    Come riconosce il "fratello" Di Vita, lo scopo della Gran Bretagna era quello già ben noto: aiutare Garibaldi per "colpire il Papato nel suo centro temporale, cioè l'Italia, agevolando la formazione di uno Stato protestante e laico". Le monarchiche isole pagarono cioè il repubblicano Eroe perché distruggesse un Regno, quello millenario delle Due Sicilie, purché anche l'Italia, "tenebroso antro papista", fosse liberata dal cattolicesimo.

    © Pensare la storia, San Paolo, Milano 1992, p. 258.
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    Unità nel nome della "scienza"
    di Angela Pellicciari


    Durante il Risorgimento le associazioni si riunivano per invocare "la gloria d’Italia"

    L’invasore Napoleone si muove nel nome della scienza. Quello che fa, lo fa per liberare i popoli dal giogo dell’oppressione e dell’ignoranza. Napoleone ritiene giunto il momento in cui tutti debbano riconoscere la bontà, la scientificità ed il valore dei principi massonici da lui incarnati. E’ così che dovunque arriva li propaganda nel nome della scienza, fondando dappertutto Società di Agricoltura, di Scienza e di Arti.

    Caduta la stella di Napoleone, in piena Restaurazione, i liberali di tutti gli stati d’Italia tengono vivo il ricordo delle mitiche gesta dell’eroe corso e rinfocolano la speranza di un più roseo avvenire -gli antichi sovrani si sono affrettati a sopprimere le Logge sorte dovunque in epoca napoleonica- organizzando Congressi scientifici. Anima del movimento è un cospiratore legato a Napoleone da stretti vincoli di parentela, Carlo Bonaparte, principe di Canino. Non è un caso che, a cose fatte, a Risorgimento ultimato, il sindaco di Roma Luigi Pianciani inaugurando nel 1873 il penultimo Congresso scientifico, finalmente convocato nella città dei papi, invita i convenuti ad una "profonda, immensa soddisfazione". "Sì, o signori, -sostiene- a me piace riconoscerlo qui in Roma, grandissima parte del risorgimento italiano è dovuto a voi; giacché ha cominciato il nostro movimento col Congresso scientifico che ebbe luogo in Pisa nel 1839". Cosa c’entra un congresso scientifico col processo di unificazione italiana? Per propagandare una religione diversa dal cattolicesimo in un paese profondamente cattolico, non ci si può servire della miriade di confraternite e opere pie in cui la popolazione italiana è capillarmente suddivisa; per scalzare dai propri troni i rispettivi regnanti, non si può agire pubblicamente in qualcuna delle, pur prestigiose, istituzioni culturali e scientifiche dei vari regni. Per propagandare la rivoluzione, cioè l’unità e l’indipendenza d’Italia, bisogna sfruttare tutti gli spazi possibili, creando le occasioni propizie. A questo mira l’Istruzione della carboneria quando prescrive: "Sotto il più futile pretesto, ma mai politico né religioso, fondate voi medesimi, o, meglio, fate fondare da altri, associazioni e società di commercio, d’industria, di musica, di belle arti". La pratica dei Congressi scientifici che fra feste, fanfare e invocazioni dello Spirito Santo si apre solennemente a Pisa nel 1839, va in questa direzione. Da allora, e fino al 1847, si tiene un congresso all’anno, a turno, nelle diverse città d’Italia. Si prosegue con Torino, poi Firenze, Padova, Lucca, Milano, Napoli, Genova e, infine, Venezia. Un solo stato si rifiuta di ospitare le assise scientifiche di nuovo tipo, ricalcato sul modello dei paesi protestanti: lo Stato della Chiesa. Quale conclusione trarne? Che si tratta di uno stato oscurantista, avverso al progresso e al sapere; uno stato che rende l’Italia, per utilizzare la colorita espressione di Pianciani, "una terra di morti".

    Organizzati per sezioni, i lavori dei congressi contemplano, insieme a quelli della medicina e delle scienze naturali, il tema dell’agricoltura. Quest’ultimo soggetto però, visto l’assetto eminentemente agricolo della nazione, non è affrontato solo nei congressi. La divulgazione capillare dei miglioramenti proposti dalla scienza in agricoltura, è favorita attraverso la costituzione di numerose Associazioni Agrarie, la prima delle quali vede la luce in Piemonte nel 1843.

    All’associazione, ricorda lo storico massone La Farina nella Storia d’Italia, "si iscrissero non solo gli studiosi delle scienze attinenti all’agricoltura, ma anche tutti gli uomini dotati di generosi e liberi sentimenti": ben "tremila e seicento" i soci. Il numero sorprendentemente alto degli iscritti diventa comprensibile se si tiene conto che molti di coloro che vogliono modernizzare le colture non hanno alcun campo per tradurre in pratica le teorie. E infatti, è sempre il parere di La Farina, "la parte politica, a volte predominò sulla scientifica": "ne’ banchetti e festeggiamenti, fra clamorosi applausi invocavasi il nome d’Italia, le sue antiche glorie si rammentavano, nuove glorie e non lontani trionfi le si auguravano". Anche in questo caso, sottolinea lo storico, la "parte gesuitica" fu decisamente avversa alla vita delle associazioni e, con esse, al necessario sviluppo del progresso in campo agricolo.

    La Farina confonde l’avversione cattolica alla messa in scena delle Associazioni agrarie con il mancato interesse per i miglioramenti scientifici. Quante cose non si fanno per la scienza. Ieri come oggi il mondo è sempre lo stesso.

    La Padania - 2 agosto 2001
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Torino capitale, covo di massoni
    di Angela Pellicciari

    La città incarna le ragioni del laicismo contro quelle della chiesa

    Dopo la fine del sogno rivoluzionario quarantottino, a decine di migliaia gli esuli della libertà vanno a Torino, nuova e impensabile capitale italiana. Impensabile è la parola giusta: da sempre la classe dirigente torinese ha avuto il francese come eloquio privilegiato, esclusivo per le buone occasioni. Non è un caso che Cavour abbia fatto esercitazioni di italiano prima di affrontare i dibattiti in Parlamento.

    Torino diventa la capitale morale d’Italia facendo proprie le ragioni del mondo civile contro quelle della barbarie medioevale, incarnate dalla Chiesa cattolica. Non solo: Torino diventa Gerusalemme. Il Paragone non sembra ardito a Roberto Sacchetti: "Torino saliva allora al colmo del suo splendore. Era stata forte e diventava grande - bella, balda di una gioia viva e seria come una sposa a cui preparano le nozze. La Mecca d’Italia diventava la Gerusalemme".

    A Torino, nuova capitale morale e religiosa d’Italia, si trasferiscono, e non può che essere così, tutti i liberal-massoni (Free-Mason, Franc-Maçon, Libero-Muratore, liberalismo e Massoneria sono nell’Ottocento praticamente sinonimi) del resto d’Italia. I regnanti sardi offrono ai "fratelli" italiani un’accoglienza tanto calorosa da riservare loro (a tutto discapito dei locali) alcuni dei posti più prestigiosi nelle università, nei giornali, nella diplomazia, nello stesso Parlamento. Ecco come il siciliano Giuseppe La Farina, una delle più eminenti personalità massoniche emigrate a Torino, racconta l’accoglienza riservata agli esuli in una lettera alla "carissima amica" Ernesta Fumagalli Torti, spedita il 2 giugno 1848. "Arrivati appena a Torino - scrive - stavamo spogliandoci, quand’ecco il popolo preceduto da bandiere venire sotto le nostre dinestre, e farci una dimostrazione veramente magnifica. Mi affacciai alla finestra, ringraziai; fui salutato con mille prove ed espressioni d’affetto. La mattina seguente, dopo essere stati da’ ministri, ritorniamo a casa; e dopo un momento, chi viene a visitarci? Tutta la Camera de’ Deputati col presidente. Onore insigne, che i parlamentari non sogliono concedere né anco ai propri re".

    L’accoglienza "regale" offerta alla generosa emigrazione italiana, permette ai Savoia di incassare un importante obiettivo politico: li rende preziosi e credibili alleati degli stati che contano. Offre garanzie ai liberali - protestanti e massoni di tutto il mondo - che sono intenzionati a fare sul serio. Che hanno davvero deciso di rompere con la tradizione cattolica del proprio stato e della nazione cui quello stato appartiene.

    I Savoia per amore di regno e quindi per furto - come scrive D’Azeglio nei suoi ricordi - diventano fautori dell’ideologia massonica e della religione protestante che apertamente combattono la cultura e la religione nazionali. Grazie a questa scelta strategica che rende il Piemonte docile feudo della cultura inglese, americana, tedesca, di parte del Belgio e dell’imperatore Napoleone III, i Savoia godono dell’appoggio incondizionato dell’una o l’altra di queste potenze e realizzano l’unità d’Italia sfruttando fino in fondo e con grande spregiudicatezza l’unico elemento in proprio favore: la radicale disomogeneità culturale e religiosa con il resto della penisola.

    L’anima massonica del regno sardo, e in particolare del Parlamento subalpino, viene mai apertamente alla luce? No, perché l’associazione è pluri-scomunicata e perché il primo articolo dello Statuto vincola i parlamentari all’ossequio della fede cattolica definita religione di stato. L’11 novembre 1848, però, un brillante intervento del deputato Cavallera rende palpabile la "fraternità" quasi come l’aria che si respira. Si sta discutendo di sollevare le finanze dello stato, esauste per la campagna militare, ricorrendo all’esproprio e alla vendita dei beni delle corporazioni religiose. Contrario alla proposta Cavallera fa un discorso brevissimo, allusivo, singolare e sintomatico insieme, che dopo un primo momento di sconcerto suscita la generale ilarità.

    Ecco le poche battute del curioso intervento. Gli ordini religiosi - osserva il deputato - sono nati in Italia dove esistono da "più di dodici secoli". Bisogna dedurne che "necessariamente corrispondono ad un bisogno reale della società (rumori) [chiosa degli Atti del Parlamento subalpino]; e per conseguenza se si volessero abolire, altre se ne dovrebbero sostituire; infatti i moderni che vollero abolire i frati, vi sostituirono un’altra specie di frati: e cosa sono i circoli politici, se non vere fraterie? (Sorpresa e scoppio generale di risa prolungate). Perciò posto che non si sa stare senza frati, ai moderni preferisco gli antichi (Segue ilarità e mormorio di voci diverse)".

    La Padania - 18 agosto 2001
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Alla guerra contro l’Austria
    di Angela Pellicciari

    Nel 1859 i Savoia ripresero il conflitto con la più terribile delle armi: la menzogna

    Nel 1859, appoggiato dalla Francia di Napoleone III, il Regno di Sardegna riprende la guerra contro l’odiata l’Austria. La menzogna è l’arma più efficace del regno sardo. Utilizzata sempre e dovunque, è il vero emblema del Piemonte liberale.

    Vediamo la spregiudicatezza sabauda all’opera nel 1859. Vittorio Emanuele II interviene in più occasioni per spiegare le buone ragioni che motivano la condotta del Piemonte. Ecco cosa scrive poco prima di iniziare le "battaglie della libertà e della giustizia" nel LombardoVeneto; nel proclama ai Popoli d’Italia il re dichiara: "L’Austria assale il Piemonte perché ho perorato la causa della comune patria nei Consigli d’Europa, perché non fui insensibile ai vostri gridi di dolore. Così essa rompe oggi quei trattati che non ha rispettato mai [...] Impugnando le armi per difendere il mio trono, la libertà dei miei popoli, l’onore del mio nome italiano, io combatto per diritto di tutta la Nazione". Ai soldati Vittorio Emanuele manda a dire: l’Austria vuole invadere le nostre terre "perché la libertà qui regna con l’ordine, perché non la forza ma la concordia e l’affetto tra popolo e Sovrano qui reggono lo Stato, perché qui trovano ascolto le grida di dolore dell’Italia oppressa".

    La versione austriaca è esattamente opposta. Il 28 aprile 1859 l’imperatore Francesco Giuseppe indirizza "Ai miei popoli" il seguente Manifesto: "Io ho dato ordine alla mia fedele e valorosa Armata di porre un termine alle ostilità, commesse già da una serie di anni dal limitrofo Stato di Sardegna". L’imperatore ricorda i fatti dell’ultimo decennio: "Allorché, già da più di dieci anni, lo stesso nemico, violando ogni diritto delle genti e gli usi della guerra, senza che gli fosse dato un qualsiasi motivo, soltanto collo scopo d’impadronirsi del regno Lombardo Veneto, ne invase con la sua armata il territorio; allorché fu per ben due volte sconfitto dal mio Esercito dopo glorioso combattimento, esso si trovò in balia del vincitore, io gli usai tutta la generosità e gli porsi la mano per la riconciliazione; io non mi sono appropriato nemmeno di un palmo del suo territorio, non ho leso alcun diritto spettante alla Corona della Sardegna nel consorzio della famiglia dei Popoli europei; non ho pattuita alcuna garanzia onde prevenire la rinnovazione di simili avvenimenti; io ho creduto di trovarla soltanto nella mano conciliatrice, che gli stesi e che venne accettata".

    Come risponde a tanta benevolenza la corona sarda? "La risposta a tanta moderazione, di cui non havvi altro esempio nella storia, fu l’immediata continuazione delle ostilità, un’agitazione sempre crescente d’anno in anno, e rafforzata coi mezzi più sleali contro la pace ed il benessere del mio Regno Lombardo Veneto". Francesco Giuseppe prosegue: "Ai confini si trova il nemico, collegato col partito della generale sovversione, e col palese progetto di impadronirsi a forza dei paesi posseduti dall’Austria in Italia. A suo sussidio, il dominatore della Francia, che con vani pretesti s’immischia nei rapporti della Penisola italiana, regolati a tenore del diritto delle genti, pone in moto le sue truppe, e già alcune divisioni di queste hanno oltrepassato i confini della Sardegna".

    Il 29 aprile il conte Karl Buol, ministro degli esteri austriaco, invia una lunga ed interessante circolare alle sedi diplomatiche austriache, in cui, fra l’altro, irride alle sbandierate glorie italiane di Casa Savoia: "L’ambizione d’una Dinastia, la cui vana e frivola pretesa all’avvenire dell’Italia non è giustificata né dalla natura, né dalla storia di questo paese, né dal suo proprio passato e presente, non rifuggì dall’entrare in un’alleanza contro natura coi poteri del sovvertimento". Il conte denuncia lo "abuso criminoso del sentimento nazionale delle popolazioni italiane" sistematicamente operato dalla corte di Torino che, grazie ad una "stampa sfrenata", accusa "ipocritamente le condizioni degli Stati d’Italia" per attribuire al Piemonte "l’ufficio di liberatore". Il Piemonte che provoca la guerra non ha affatto a cuore la prosperità della popolazione italiana, conclude. Con la guerra che scatena il regno sardo "impedisce ed interrompe uno stato di regolare impulso e di svolgimento ripieno d’avvenire". Nel quadro della campagna antiaustriaca rientra il caso del deputato Pier Carlo Boggio che incita gli italiani alla guerra ricordando un fatto vero. L’Austria si è spinta fino a decretare la leva obbligatoria, denuncia: "dopo avere stremati i beni degl’infelici popoli soggetti alla sua forza bruta", li ha colpiti "nei sentimenti i più sacri e i più potenti, col rapire ai genitori cadenti fin l’unico figliuolo, solo sostegno, solo conforto loro". Il fatto è e Boggio lo ricorda che l’imperatore austriaco tiene conto del coro di proteste che accompagnano la decisione della leva obbligatoria e sospende il provvedimento.

    Il comportamento dei Savoia divenuti Re d’Italia è esattamente l’opposto. L’Armonia del 5 luglio 1861 racconta il seguente raccapricciante episodio: "A Baranello un Francesco Pantano, capitolato di Gaeta, per sottrarsi al servizio militare, cui era richiamato, riparò in un suo podere, ed ivi sorpreso mentre dormiva, invece di essere arrestato, fu ucciso a colpi di baionette". La ripugnanza della popolazione meridionale per la leva generalizzata, sconosciuta sotto il papa e sotto i Borbone, non induce il governo alla revoca del provvedimento ma al ricorso alla legge marziale.

    La Padania - 27 settembre 2001
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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