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Discussione: Una Finestra sul Mondo

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    Exclamation Una Finestra sul Mondo




    tratto da LE MONDE diplomatique 3 dicembre 2003
    ------------------------------
    Ondata di aggressioni contro i difensori dei diritti umani

    Elezioni della paura in Guatemala

    Democrazia? Nel 1982 e 1983 il generale Efraín Rios Montt, arrivato al potere con un colpo di stato, ha lasciato il suo lugubre segno sulla terribile guerra civile che ha fatto 200.000 vittime in Guatemala: gli sono attribuite più di 20.000 morti. A dispetto delle norme previste della costituzione e di una denuncia per «genocidio» nei suoi confronti, la Corte costituzionale ha autorizzato l'ex dittatore a partecipare alle elezioni presidenziali del 9 novembre. Dai primi dati risulta però che Montt, arrivato terzo, rimarrà escluso dal ballottaggio del 28 dicembre.

    Stéphanie Marseille
    Ex maestro di scuola originario della regione di Cobán, capoluogo del dipartimento di Alta Vera Paz, a quattro ore di strada dalla capitale Ciudad Guatemala, Hector Rolando Cobqim ha ripreso i suoi studi di diritto e si è specializzato in diritti umani lavorando per alcuni anni come mediatore per la fondazione Myrna Mack (1).
    Dopo questa esperienza ha aperto il Servizio dei diritti umani per i popoli indigeni, impegnandosi nella «difesa etnica» (2). e nella formazione dei «promotori di giustizia».
    Non si tratta di un'iniziativa isolata. L'Ixcán, regione montuosa del nord del paese, è stata particolarmente colpita dalla repressione durante il conflitto, che in 36 anni ha fatto 200.000 morti (secondo la Commissione per la verità istituita sotto l'egida delle Nazioni unite). I «promotori di giustizia» sono scelti dalle comunità tra i loro membri per promuovere i diritti di tutti. Questi «difensori popolari» devono combattere le discriminazioni di cui sono regolarmente oggetto le popolazione indie, senza dipendere da avvocati della capitale che parlano solo spagnolo. Bilingue q'eqchi'/spagnolo, Cobqim lavora sia sull'identificazione dei conflitti all'interno della comunità e sulla loro risoluzione sia sulla rivendicazione di un migliore accesso alla sanità, alla giustizia e all'istruzione.
    Secondo Alberto Cabellero, responsabile regionale della Missione delle Nazioni unite per il Guatemala (Minugua), l'Ixcán è lo specchio fedele della guerra civile e delle sue conseguenze: «Durante la guerra il 20% della popolazione è stato costretto ad abbandonare le sue case, il 15% degli abitanti sono ex guerriglieri. Nella regione si sono verificate una cinquantina di stragi, e le vedove e gli orfani sono moltissimi». Grazie all'opposizione armata e alle esperienze di organizzazione comunitaria, vi è una forte coscienza politica.
    Molti dirigenti comunali hanno svolto compiti importanti nella guerriglia - l'Unione rivoluzionaria nazionale guatemalteca (Urng) - e sono abituati a cercare soluzioni locali ai vari problemi. Ma la mancanza di uno stato si fa sentire a tutti i livelli: «La soluzione di tutti i conflitti passa necessariamente per la violenza».
    Gli ex miliziani delle Pattuglie di autodifesa civile (Pac), istituite dall'esercito nel 1981 per controllare la popolazione e responsabili, secondo la Commissione della verità, del 12% delle violazioni dei diritti umani durante il conflitto, sono ancora presenti nelle comunità.
    Non sono mai state sanzionate. «L'impressione di impunità che ne deriva è onnipresente. Il furto di una gallina può dare luogo a un linciaggio. Non esiste un organismo di mediazione o di soluzione dei conflitti, la sanzione dei criminali non è una priorità per lo stato». Di conseguenza la missione della Minugua ha sensibilmente modificato i propri obiettivi: ormai riferisce anche sulle violazioni dei diritti dell'uomo compiuti all'interno delle comunità.
    La cultura dell'impunità che regna nelle montagne non è altro che il riflesso locale di una situazione nazionale. Quest'anno al posto dei programmi per superare i traumi psicologici e per l'indennizzo delle vittime del conflitto, previsti dagli accordi di pace (1996) e dal piano nazionale di risarcimento per le vittime (2001), sono stati i miliziani delle ex Pac a essere stati ricompensati finanziariamente per i «servizi resi durante il conflitto».
    Il generale impunito Sulla carta tuttavia il Guatemala è in via di ricostruzione: la costituzione del 1985 garantisce i diritti di tutti e raccomanda l'uguaglianza tra uomini e donne; gli accordi di pace e il piano nazionale di risarcimento per le vittime della guerra civile indicano le condizioni per un ritorno alla normalità; il sistema giudiziario prevede una procuradoría dei diritti umani, un organismo incaricato di verificare che lo stato rispetti i diritti dei suoi cittadini.
    Al suo arrivo alla presidenza, il 14 gennaio 2000, Alfonso Portillo si è impegnato a rispettare l'applicazione degli accordi di pace e a sciogliere lo Stato maggiore presidenziale (Emp), un'unità militare di informazione particolarmente coinvolta nell'attività di repressione (3). Ha anche chiesto il rinnovo del mandato della Minugua, incaricata di verificare l'applicazione degli accordi di pace fino al 2004.
    Nei primi tempi la Minugua riteneva che un terzo circa di questi accordi fosse stato effettivamente rispettato. Ma tre anni dopo, tutta la parte riguardante il reinserimento economico, l'accesso ai servizi sociali, ai finanziamenti e ai crediti non è stata ancora applicata.
    Dietro la presidenza di Portillo, appartenente al Fronte repubblicano guatemalteco (Frg), il potere reale è rimasto nelle mani del dirigente di questo partito, il generale Efraín Rios Montt, autore di un colpo di stato nel 1982. L'ex dittatore è considerato il responsabile delle atrocità compiute durante la sua presidenza, dal marzo 1982 all'agosto 1983, circa 20.000 morti. Presidente del Congresso dal 14 gennaio 2000, Rios Montt cerca di farsi eleggere alla presidenza per la terza volta. Di fronte al divieto della costituzione, che gli vieta formalmente di ricandidarsi alle elezioni presidenziali del 9 novembre (4), il generale ha risposto con una prova di forza.
    Dopo il rifiuto della Corte suprema di giustizia di convalidare la sua candidatura, ha avvertito in una conferenza stampa che non avrebbe potuto rispondere delle eventuali violenze dei suoi sostenitori.
    Così il 24 e 25 luglio, ribattezzati il «giovedì nero» e il «venerdì di lutto» un gruppo di 4-5.000 uomini con il viso coperto, arrivati in autobus nel centro città nelle prime ore del mattino, hanno bloccato la capitale. Armati di bastoni, di machete e di armi da fuoco, hanno occupato diversi luoghi simbolici dello stato - la Corte costituzionale, la Corte suprema di giustizia, il Tribunale supremo elettorale - accerchiando le sedi dei giornali e le case degli oppositori di Rios Montt. Tra la folla sono stati riconosciuti alcuni deputati dell'Frg mentre impartivano ordini. Né il governo né le forze di polizia sono intervenuti.
    Cinque giorni dopo la Corte costituzionale ha compiuto un'incredibile inversione di rotta, convalidando la candidatura di Rios Montt alle elezioni presidenziali. Il rischio di vederlo diventare presidente del paese è ormai reale: oltre alla sua ossessione per il potere, la presidenza gli offrirebbe una scappatoia legale alle accuse di crimini contro l'umanità che sono state mosse nei suoi confronti.
    In questa situazione particolarmente delicata si è costituito da un anno e mezzo un movimento nazionale «dei diritti dell'uomo». Nessuno in Guatemala si pone la questione di sapere come definire questi «diritti»: questo movimento lotta di volta in volta contro l'impunità, per il recupero della memoria, per il rispetto delle vittime della guerra civile, per lo sviluppo economico e sociale delle popolazioni indigene, contro l'assenza dello stato, per lo sviluppo delle infrastrutture fuori della capitale, per il rispetto delle donne e contro le violenze di cui sono oggetto. Ha acquisito una funzione aggregante, in un paese in cui la violenza è diventata un modo di comunicazione e uno stile di vita.
    La denuncia per genocidio presentata contro il generale Rios Montt dall'associazione Giustizia e riconciliazione del Centro di azione legale per i diritti umani (Caldh) in nome di 22 comunità vittime di massacri rappresenta l'unione di questi sforzi. «È uno spazio di dialogo e di articolazione necessario fra le organizzazioni di base, che fanno un lavoro di controllo quotidiano, e le associazioni della capitale che hanno la possibilità di compiere un lavoro di lobbying e di rompere il silenzio. Una delle conseguenze più significative è stato l'allargamento delle gare d'appalto del Pnud [Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo] alle organizzazioni di base: i bisogni concreti delle popolazioni indigene sono diventati evidenti», si rallegra Cobqim.
    Testimoni aggrediti Questa denuncia è al vaglio del pubblico ministero, che conduce l'inchiesta congiuntamente con Giustizia e riconciliazione. «Abbiamo identificato più di un centinaio di testimoni diretti, proceduto a riesumazioni, raccolto le testimonianze dirette di donne vittime di violenze», dice Cristina Laur, responsabile del programma per il Caldh. Il problema di garantire la protezione dei testimoni è stato risolto mediante la presenza di alcuni osservatori, che - analogamente a quanto avevano fatto al ritorno dei profughi - vivono nelle comunità per riferire su qualunque tentativo di intimidazione o di aggressione contro i testimoni, spesso delle donne.
    Di fatto da tre anni a questa parte militanti dei diritti dell'uomo, giornalisti, sindacalisti e magistrati sono diventati l'obiettivo di aggressioni e intimidazioni. I più combattivi sono convinti che la situazione diventerà presto ingovernabile e promettono di riprendere le armi. Ma nell'Ixcán la maggioranza della popolazione ha paura: «Tutti i giorni, cinque-sei persone passano alla Pastorale sociale per dirci che sono pronti a riprendere la strada dell'esilio. Sono convinti che con Rios Montt ricominceranno i massacri», spiega Sergio, giovane militante di questa organizzazione legata alla chiesa.
    Nonostante i dispositivi di osservazione istituiti, in particolare dall'Unione europea, sono in molti a ritenere che voteranno anche «i morti e i militari». Il Tribunale supremo elettorale ha già accertato l'iscrizione sulle liste elettorali del 45% dei militari e il fatto che 238 comuni non hanno segnalato gli elettori deceduti dopo l'ultima elezione.
    Il 5 settembre Sergio Morales, procuratore per i diritti umani in Guatemala, ha denunciato una campagna di intimidazione contro la popolazione contadina per obbligarla a votare in favore dell'Frg.
    «Il problema è che non esiste alcuna capacità organizzativa», afferma Reina, che si è presentata alle elezioni comunali di Playa Grande, nell'Ixcán, sulle liste dell'Urng, l'ex movimento di guerriglia riconvertito in partito politico: «La candidatura di Rios Montt è una flagrante violazione della costituzione, ma nessuno ha reagito. L'unica soluzione rimane quella di educare la gente». Ma per farlo ci vogliono tempo e mezzi.
    Inoltre l'opposizione politica all'Frg ha grande difficoltà a compattarsi.
    Dopo il «giovedì nero» e il «venerdì di lutto», gli oppositori si sono uniti in un Fronte civico per la democrazia e hanno voluto organizzare una dimostrazione di massa. Tuttavia la manifestazione si è limitata a mobilitare poche migliaia di persone per le strade di Ciudad Guatemala.
    Una decina di partiti politici sono in lizza, tutti di destra o di centrodestra a eccezione dell'Urng, con programmi e metodi poco convincenti.
    Il conflitto ha completamente decapitato il movimento sociale.
    L'ampio «movimento per i diritti umani» ha un carattere molto composito e costituisce di fatto una sorta di programma politico, poiché nessun partito sostiene le rivendicazioni concrete delle popolazioni vittime della guerra. Tuttavia, nonostante alcuni spazi di dialogo come il Forum Guatemala, nessuna figura carismatica è emersa per dare alle aspirazioni di queste organizzazioni un carattere politico vero e proprio. Come potranno continuare a lavorare se Rios Montt dovesse vincere le elezioni? «Per le organizzazioni locali guatemalteche è fondamentale passare dal discorso all'azione concreta, dall'informazione sui diritti dell'uomo alla loro difesa attiva attraverso le comunità», osserva Amandine Fulchiron, responsabile del programma Consigli in progetto, un coordinamento di organizzazioni non governative che aiuta tecnicamente le organizzazioni locali. Un obiettivo importante, ma un processo lento e delicato. La fine del mandato della Minugua aggiunge altre difficoltà a questa situazione, la missione dell'Onu si sta sforzando di passare la mano alle organizzazioni locali, nella speranza che queste ultime continuino il lavoro di controllo dello stato. Un obiettivo che dipenderà anche dal risultato delle elezioni.

    note:

    * Giornalista.

    (1) Una delle più rispettate organizzazioni di difesa dei diritti dell'uomo, fondata dalla sorella dell'antropologa Myrna Mack, uccisa nel 1990 perché studiava gli effetti del conflitto armato sulle popolazioni rurali sfollate.

    (2) Si tratta di far riconoscere l'esistenza di regole specifiche nel funzionamento delle comunità indigene. Questo concetto ha dato luogo a diverse interpretazioni: secondo un orientamento più radicale la difesa di una spazio giuridico indigeno deve essere distinta dal diritto nazionale guatemalteco e porterebbe alla creazione di una nazione indigena; da un punto di vista più moderato si cerca invece di costruire dei punti di contatto fra i due universi giuridici.
    Non si può veramente parlare di dottrina giuridica, ma piuttosto di una prassi.

    (3) Portillo ha promesso di sciogliere l'Emp il 1° novembre 2003 e di sostituirlo con un servizio civile, il Segretariato degli affari amministrativi e di controllo della presidenza (Saas). Il timore è di vedere il governo limitarsi a trasferire il personale da un'agenzia all'altra.

    (4) L'articolo 186 della costituzione vieta questa funzione a tutti gli autori di colpi di stato. Tuttavia Rios Montt ha affermato che la costituzione del 1985 non può riguardare un fatto avvenuto nel 1982! (Traduzione di A. D. R.) aa qq Bolivia
    Ignacio Ramonet

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    Predefinito TRATTO DA le monde DIPLOMATIQUE

    Un secolo fa, la «secessione spontanea» in Colombia

    Panama, un canale a qualsiasi costo

    Panama ha dovuto attendere il 31 dicembre 1999 per recuperare il suo canale e i 1.474 chilometri quadrati sui quali gli Stati uniti esercitavano una totale sovranità. La Colombia, invece, non riavrà la provincia che un secolo fa, il 3 novembre 1903, le fu tolta con oscure manovre, e proprio per creare la via d'acqua strategica, da Washington, dai separatisti panamensi e da un avventuriero francese.

    Hernando Calvo Ospina
    Nell'agosto del 1900, a Bogotà si accendono le prime luci elettriche, ma non per questo la Colombia entra nel «secolo dei Lumi». Al contrario, l'oscurantismo politico continua a regnare incontrastato. Esattamente un anno prima, è scoppiata una nuova guerra civile, dichiarata dai dirigenti del Partito liberale contro il clero cattolico e il Partito conservatore, che occupano pigramente il potere (1). L'oligarchia, rappresentata da questo trio, continua ad esacerbare le divisioni tra i settori più poveri della popolazione per salvaguardare i propri interessi.
    Nel 1901, non vedendo soluzioni al conflitto, i dirigenti liberali e conservatori chiedono aiuto al governo degli Stati uniti. Quest'ultimo accetta di appoggiare chi gli offrirà migliori prospettive nella provincia colombiana di Panama, un istmo molto stretto che separa l'oceano Atlantico dal Pacifico. Washington ha bisogno di un canale che le permetta di far passare rapidamente truppe e merci da un oceano all'altro. E la larghezza dell'istmo è di soli 50 chilometri tra il Golfo di San Blas e l'estuario del rio Chapo. La fazione al governo accetta immediatamente. Senza por tempo in mezzo, i marine sbarcano a Panama e neutralizzano i liberali. Nel novembre 1902, viene firmato l'armistizio sulla nave da guerra Us Wisconsin.
    Il conflitto, noto come la «guerra dei mille giorni», provoca quasi centomila morti e getta il paese in una crisi profonda, i cui effetti si faranno sentire per decenni. La perdita di Panama è la prima, immediata conseguenza.
    Al momento dell'indipendenza, nel 1821, Panama aveva scelto l'annessione a Nuova-Granada, la futura Colombia. La scelta non aveva interferito con il progetto delle potenze europee - tra cui l'Olanda - di costruire un canale che unisse i due oceani tramite l'istmo. Dal 1835, ben quattro imprenditori francesi, in successione, si impadroniscono del progetto. Tutti falliscono: zanzare e malattie tropicali non rispettano neppure l'imprenditore protetto dal Vaticano.
    Nel 1846, il governo colombiano firma con gli Stati uniti un trattato di «amicizia, commercio e navigazione», che consente a questi ultimi di attraversare Panama con le loro merci senza particolari formalità.
    Tre anni dopo, la Colombia accorda agli Usa una concessione per la costruzione e lo sfruttamento di una ferrovia transoceanica, che faciliterà l'invio a New York dell'oro scoperto in California. In cambio, e per neutralizzare la cupidigia di Francia e Inghilterra, l'articolo 35 del trattato specifica: «Gli Stati uniti garantiranno positivamente ed efficacemente (...) la completa neutralità dell'istmo già menzionato (...) e di conseguenza garantiranno nel medesimo modo i diritti di sovranità e proprietà detenuti e posseduti [dalla Colombia] su detto territorio (2)».
    Lunga storia di compagnie e fallimenti Nel marzo 1878, Lucien Bonaparte Wyse ottiene «il privilegio esclusivo dell'esecuzione e dello sfruttamento» del futuro canale per una durata di novantanove anni. Convince il suo compatriota Ferdinand de Lesseps, già noto per la costruzione del canale di Suez, a dirigere i lavori.
    Oltre all'appoggio ufficiale, la Compagnia universale del canale interoceanico ottiene che oltre centomila francesi, per lo più salariati, sostengano il progetto comprando buoni di stato.
    Poco dopo, nel marzo 1880, il presidente degli Stati uniti, Rutherford Birchard Hayes, esprime pubblicamente il suo disaccordo nei confronti del contratto franco-colombiano: «Il nostro interesse commerciale è superiore a quello di tutti gli altri paesi, così come la relazione tra il canale e il nostro potere e la nostra prosperità in quanto nazione (...) Gli Stati uniti hanno il diritto e il dovere di affermare e di mantenere la loro autorità d'intervento su qualsiasi canale interoceanico che attraversi l'istmo».
    I lavori cominciano nel gennaio 1882. Ma de Lesseps commette l'errore di voler costruire il canale a livello del mare, senza tener conto del terreno montagnoso. Nel luglio 1885, risulta scavato solo un decimo del percorso. Di fronte al disastro, viene sostituito da Gustave Eiffel, il costruttore della celebre torre parigina, che prosegue la costruzione del canale utilizzando le chiuse. Corruzione e furto di capitali da parte di alti responsabili a Parigi e a Panama danno il colpo di grazia al progetto. Nel 1889, la costruzione del canale viene sospesa. Inevitabile, scoppia lo scandalo e i tribunali prendono il controllo degli attivi della Compagnia universale.
    Tuttavia, nel 1893, il governo colombiano firma un nuovo contratto con la Francia per riprendere la costruzione del canale, di cui sarà incaricata una certa Compagnie nouvelle du canal de Panama. I francesi designano come consigliere l'avvocato e lobbista americano William Nelson Cromwell. I lavori riprendono nell'ottobre 1894. L'azionista Philippe Bunau-Varilla decide di puntare tutto sulla riuscita dell'impresa.
    Sulla stampa francese, e in particolare sul giornale Le Matin che gli appartiene, pubblica una serie di articoli per motivare gli investitori.
    Con l'appoggio del ministro Casimir Perier, si reca in Russia, convinto di trovarvi un sostegno economico, ma la crisi politica che porta alle dimissioni del gabinetto ministeriale francese, nel maggio 1894, nuoce alla sua proposta. Poco a poco, diminuiscono le possibilità di salvare il progetto. Alla Compagnie nouvelle restano solo due soluzioni: abbandonare o vendere.
    Nel dicembre 1901, all'insaputa del governo colombiano e senza preoccuparsi di disattendere le clausole del contratto, il governo francese e gli azionisti della Compagnie nouvelle autorizzano la vendita delle azioni agli Stati uniti.
    Sulla base di ricerche iniziate già dal 1886, Washington sta per promuovere il Nicaragua a territorio ideale per un futuro canale.
    Bunau-Varilla e Cromwell si sforzano di convincere il Congresso americano che il progetto panamense è più vantaggioso. Per garantirsi il risultato, 60.000 dollari vengono distribuiti ai membri chiave del Partito repubblicano (3). Il 29 giugno 1902, il Congresso ratifica la decisione del presidente Theodore Roosevelt di comprare la quota azionaria della Compagnie nouvelle per 40 milioni di dollari contro i 109 richiesti. Mai, in nessun momento, ci si preoccupa del parere della Colombia, azionista a sua volta, ma soprattutto proprietaria sovrana del territorio.
    La decisione viene accolta con entusiasmo dal piccolo gruppo oligarchico della provincia panamense che si dedica al commercio marittimo e all'attività terziaria. Panama vive una grave crisi economica provocata dalla «guerra dei mille giorni», dai problemi derivanti dall'incapacità francese di costruire il canale e dalla corruzione collaterale. Non ha, del resto, alcuna seria fonte di reddito, perché l'amministrazione americana del treno interoceanico invia tutti i guadagni a New York.
    «Costruire il canale o emigrare» - negli Stati uniti chiaramente - è lo slogan dell'oligarchia.
    Di fronte al fatto compiuto, e in debito con Washington per la vittoria nella «guerra dei Mille giorni», il governo conservatore colombiano autorizza il suo rappresentante a Washington a firmare un accordo con il segretario di stato, John Hay, per legalizzare il progetto franco-americano. Nel gennaio 1903, viene firmato un trattato che autorizza i francesi a cedere i loro diritti e gli Stati uniti a sfruttare il canale e le zone adiacenti per cento anni, in una condizione di sovranità pressoché totale.
    L'ultimo punto viene rifiutato dal Congresso colombiano nell'agosto 1903, non tanto perché mette in discussione la sovranità del paese, quanto perché vengono offerti solo una somma iniziale di 10 milioni di dollari e appena 250.000 dollari annui di compensazione. A questo punto, il triangolo degli interessi si coalizza: francesi, americani e separatisti panamensi. L'ambasciatore americano a Bogotà si era già espresso con toni minacciosi: se il trattato non fosse stato ratificato, «le relazioni amichevoli tra i due paesi ne verrebbero così gravemente compromesse, che il Congresso degli Stati uniti potrebbe prendere misure di cui dovrà dolersi ogni amico della Colombia».
    Se gli Stati uniti non otterranno, con il negoziato, la zona per costruire il canale, scrive Bunau-Varilla su Le Matin, il 2 settembre 1903, il presidente Roosevelt utilizzerà la forza contro la Colombia e nessuno si opporrà. Il francese incontra il rappresentante dei separatisti panamensi, Manuel Amador Guerrero. Gli offre 100.000 dollari per organizzare il movimento e garantisce la gratitudine diplomatica degli Stati uniti e della Francia. Gli consegna la dichiarazione d'indipendenza e una bandiera simile a quella degli Stati uniti, confezionata a Washington da sua moglie, augurandosi che possa diventare quella della futura Repubblica. In cambio ottiene che lo si nomini ministro plenipotenziario della nuova Repubblica, con facoltà di negoziare il nuovo trattato del canale con gli Stati uniti.
    Gli Stati uniti appoggiano la «secessione» Il 3 novembre, grazie a una «ribellione spontanea», i separatisti panamensi, con il sostegno delle truppe americane, proclamano la propria indipendenza dalla Colombia, mentre il corpo dei pompieri di Panama si erge a nuovo esercito (4). Allertate, le truppe colombiane tentano di sbarcare sul territorio panamense, ma le navi da guerra americane ancorate vicino alle coste glielo impediscono senza alcuna difficoltà. Il 7 novembre, gli Stati uniti riconoscono, di fatto, la nuova repubblica. Alcuni giorni dopo, è la volta della Francia.
    La Gran Bretagna si guarda bene dal protestare, preoccupata di non rimettere in discussione il sostegno dato da Washington alla sua opera colonizzatrice in Estremo Oriente.
    Il 18 novembre 1903, a New York, viene firmato il trattato Hay-Bunau-Varilla che fa di Panama un protettorato. Il francese utilizza due anelli che appartengono al segretario di stato americano per «autenticare», a nome di Panama, la sua firma sul documento: «Il sigillo dell'ignominia», diranno alcuni (5). Temendo che la giunta provvisoria panamense possa non ratificare il trattato, Bunau-Varilla invia immediatamente un cablogramma spiegando che fino a quando il documento non sarà approvato, Panama corre il rischio di essere riconquistato dalla Colombia. L'argomento è convincente: il 2 dicembre, la giunta ratifica il testo senza averlo nemmeno tradotto in spagnolo.
    Gli Stati uniti ricevono una fascia di territorio larga 10 miglia sui due lati del canale, per costruirlo e sfruttarlo per sempre.
    La sovranità nella zona del canale sarà di loro competenza, poiché Panama è «esclusa dall'esercizio dei diritti sovrani del potere o dell'autorità». Viene inoltre concesso agli Usa un diritto permanente d'ingerenza negli affari interni panamensi e la possibilità d'intervenire militarmente in caso di attentati all'ordine pubblico. Questa clausola assume valenza di legge quando la si include nella Costituzione, promulgata il 20 febbraio 1904 e redatta con la partecipazione del console americano William I. Buchanan (6).
    Il nome di Philippe Bunau-Varilla ripugna ancora alla maggior parte dei panamensi. Di fatto, quando si parla del trattato Hay-Bunau-Varilla, si aggiunge «il trattato che nessun panamense ha firmato (7)». Quanto al presidente colombiano José Maria Marroquín, quando finalmente si decise a rispondere agli insulti ricevuti per essersi fatto espropriare con tanta tranquillità di Panama (8), si limitò a replicare: «Di che cosa si lagnano i colombiani? Mi hanno affidato un paese e gliene rendo due».
    Posto sotto la giurisdizione degli Stati uniti, il canale di Panama viene inaugurato il 15 agosto 1914. Washington aveva raggiunto i suoi scopi.



    note:

    * Giornalista. Autore, in particolare, di Rhum Bacardi. Cia, Cuba et mondialisation, Epo, Bruxelles, 2000.

    (1) Secondo i dati ufficiali, le guerre civili in Colombia durante il diciannovesimo secolo furono ventitré, ma alcuni storici di provata serietà assicurano che furono più di sessanta.

    (2) Gregorio Selser, Diplomacia, garrote y dólares in América Latina, Editorial Palestra, Buenos Aires, 1962. Si veda anche: Eduardo Lemaître, Panamá y su separación de Columbia, Ediciones Corralito de Piedra, Bogotá, 1972.

    (3) Samuel Eliot Morrison e Henry Steele Commager, Historia de los Estados Unidos de Norteamérica, Fondo de Cultura Económica, Messico.

    (4) Claude Julien, L'Empire américain, Grasset, Parigi, 1968.

    (5) «7 de septiembre de 1977», Jorge E. Illeca (ex presidente di Panama), El Panamá América, Città di Panama, 3 settembre 2001.

    (6) Patrizia Pizarro e Celestino Araúz, La actuación de la Junta Provisional de Gobierno y la Constitución de 1904, Editora Panamericana, Panama http://www.critica.com.pa/archivio/historia/junta.html
    (7) «Lo uno y lo otro en la historia del Canal», José Quintero De León, La Prensa, Città di Panama, 15 dicembre 1999.

    (8) Nel 1921, la Colombia riconosce la Repubblica di Panama e riceve dagli Stati uniti la somma di 25 milioni di dollari.
    (Traduzione di G. P.)

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    Predefinito tratto da LE MONDE DIPLOMATIQUE 12 dicembre 2003

    Dalla Russia agli Stati uniti, passando per la Francia

    A.D.

    Tra tutti i populismi, la versione russa (narodnichestvo) - che ispirò molti anarchici nel XIX secolo - è probabilmente quella più ambigua.
    L'appello al popolo contro l'assolutismo zarista tra il 1850 e il 1880 si è radicato nelle proteste del mondo contadino povero e dell'intellighenzia pogressista. Mistura esplosiva di nazionalismo e di utopismo ideologico, suonava come un ritorno all'unità e ai valori dell'animo russo. Questo movimento sociale di rivolta si polverizzò lentamente sotto la pressione dell'autocrazia zarista e, più avanti, sotto quella della repressione stalinista che costruì la leggenda nera del populismo per monopolizzare il discorso sulla trasformazione sociale. Il populismo americano invece nasce dai postumi della guerra di Secessione, dalle ricadute sociali dell'industrializzazione, dallo sviluppo economico e dal discredito dei responsabili politici. Il generale James B.
    Weaver, candidato del partito populista all'elezione presidenziale del 1892, canalizzò il malcontento di fronte alle disuguaglianze e il rifiuto dei partiti democratico e repubblicano (1). Il suo fallimento - eppure mancò di poco una vittoria attesa - segnò il declino del populismo senza sancirne la scomparsa. In effetti, l'intera politica americana ne rimane profondamente impregnata. Negli anni trenta, ad esempio, il New Deal del presidente Franklin D. Roosevelt suonava come un riconoscimento delle rivendicazioni popolari contro gli eccessi dei «baroni ladri». Alcuni anni più tardi, Ronald Reagan avrebbe operato la sintesi, nuova e contraddittoria, tra ultraliberalismo e populismo, con la sua critica dello stato provvidenza a nome dei diritti dei più deboli i cui redditi sono «usurpati» da strutture intermedie «parassitarie».
    Nel 1992, il neopopulismo ebbe un ulteriore successo con Ross Perot e Patrick Buchanan, i quali fustigavano i danni del «capitalismo selvaggio». Alla fine, William Clinton vince le elezioni al centro di una spinta populista criticando la burocrazia e chi si arricchisce mentre altri «i quali lavorano sodo e rispettano le leggi, sono penalizzati (2)». Egli sa come catturare una opinione pubblica molto preoccupata offrendo un'immagine amichevole e rassicurante. Populista, Clinton?
    Questa affermazione si può discutere. Ma non ne mancano i segnali: la duttilità pragmatica, i modi apparentemente amichevoli, il carisma fisico, l'emozione nelle parole e nelle immagini. Attualmente, George W. Bush, quando denigra gli intellettuali, adotta una posizione vicina a quella dei suoi antenati. In realtà questo populismo diffuso esprime in modo confuso l'ansia di una società americana che oscilla tra liberalismo e autoritarismo.
    In Francia, diverse figure hanno impersonato il populismo nei secoli XIX e XX. Napoleone III prende il potere in seguito all'irrigidimento borghese del governo repubblicano del 1848, che fa duramente reprimere il movimento operaio. In queste condizioni Louis-Napoléon avrà buon gioco per sfoggiare le vesti dell'uomo provvidenziale che aspira a rappresentare il popolo e a ricostruire la gloria dell'impero.
    Egli agita lo spettro della rivolta, esalta l'antiparlamentarismo degli strati popolari e lusinga gli operai. All'alba del famoso colpo di stato del dicembre 1851, lancia un appello al popolo. Nulla di sorprendente se uno tra i suoi primi provvedimenti riguarda il ripristino del suffragio universale. Così facendo egli riafferma il vincolo diretto tra un popolo e chi lo governa. Per quasi vent'anni, fino al settembre 1870, il popolo gli conserverà il suo appoggio.
    Un'altra figura del populismo francese è il generale Georges Boulanger.
    Il boulangismo è l'espressione di una crisi della società e dei valori repubblicani. Il crac economico del 1882 conferma i timori della popolazione che sente le innovazioni tecnologiche come una minaccia.
    Una crescente protesta contro la classe dirigente si nutre di nostalgia e del rifiuto dell'onnipotenza del denaro. Scoppiano i disordini.
    L'8 maggio 1882, Paul Déroulède fonda la Lega dei patrioti a nome dei «disgustati»: uomini e donne di ogni provenienza che non sopportano più la politica della destra e dei repubblicani moderati. Nei conflitti sociali che provocano l'intervento dell'esercito, il generale Boulanger esprime la sua simpatia verso gli operai. Il suo «allontanamento» dalla vita pubblica scatena un vasto movimento eterogeneo fatto di dissidenti radicali, nazionalisti, socialisti e monarchici, che si organizza intorno alla sua immagine di capo carismatico. La piattaforma dottrinaria è semplice, ma senza alcun semplicismo: «dissoluzione, revisione, costituente». Esprime l'antiparlamentarismo e critica l'inefficacia dei governanti e la loro corruzione. Fedele al suo impegno repubblicano, Boulanger rifiuterà ogni tentativo di colpo di stato. Temuto nell'ora del successo, disprezzato nell'ora dell'oblio, Pierre Poujade incarna, nella seconda metà del XX secolo, il paradigma del populismo francese. Poujade è noto per le sue prese di posizione contro il regime parlamentare e il comunismo. Incarna la causa dei commercianti. Tattico molto abile e autodidatta in politica, non fonda un partito politico e dichiara che la sua è una opera civica che combatte il regime. Le manifestazioni si moltiplicano ovunque in Francia, Poujade sfrutta con abilità i temi dell'unione nazionale e lancia campagne semplici come la reazione contro il fisco. Alle legislative del 1956 ottiene l'11,6% dei suffragi, 2.483.000 voti, 52 deputati. L'ondata poujadista si estende in tutta la Francia.
    A partire dal 1958, di nuovo al potere con un colpo di forza politico, il generale de Gaulle cancella la IV repubblica ritenuta troppo debole e screditata. La sua politica si articola rapidamente intorno a tre idee forza: la missione, l'indipendenza e la potenza della Francia.
    Il gollismo incarna una volontà «interclassista», l'unità del popolo francese, la tutela dell'autorità dello stato. Ciò che rende il gollismo non classificabile, non è soltanto la personalità fuori dal comune del suo fondatore, ma gli accenti poujadisti del suo movimento: critica dei partiti politici, discorso economico paternalista della partecipazione, esaltazione della nazione.

    note:

    (1) Si legga Serge Halimi, «Il populismo, un nemico ritrovato», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 1996.

    (2) William Clinton e Al Gore, Putting People first, Times Book, New York, 1992.

  4. #4
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    Predefinito tratto da IL GIORNALE DI BRESCIA 14 dicembre 2003

    Oggi i 140mila abitanti della parte filoturca rinnovano il Parlamento.

    Ma la posta in gioco è un’altra


    Cipro Nord: voto cruciale per la riunificazione

    NICOSIA (Cipro) - Circa 140.000 persone fra turco-ciprioti autoctoni e coloni turchi naturalizzati si recheranno oggi alle urne per il rinnovo dei 50 seggi del quinto "Parlamento" dell’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord (Rtcn) - riconosciuta solo da Ankara - in un voto qui largamente interpretato come una sorta di referendum per l’accettazione o meno del piano di pace per la riunificazione dell’isola proposto dal segretario generale dell’Onu Kofi Annan e sempre rifiutato dal premier turco-cipriota Rauf Denktash. Ma, anche a livello internazionale, questa elezione è vista come un vero e proprio referendum sul piano dell’Onu dopo che, lo scorso marzo, Denktash aveva respinto la proposta di Annan. È infatti dall’estate 1974 che l’isola è divisa dopo che, in risposta ad un fallito tentativo di golpe organizzato da nazionalisti greco-ciprioti istigati dalla giunta militare allora al potere ad Atene, le truppe di Ankara invasero l’isola asserendo di voler difendere la comunità turco-cipriota. Tuttora il 38% della parte Nord di Cipro è occupata da circa 35.000 soldati turchi (che voteranno anch’essi). Le elezioni si tengono esattamente cinque mesi prima della fatidica scadenza del maggio 2004 quando la Repubblica di Cipro - costituita dalla sola parte Sud che è l’unica riconosciuta dalla comunità internazionale - entrerà a far parte a tutti gli effetti dell’Unione europea senza la Rtcn, a meno che, in conseguenza del risultato elettorale odierno, l’opposizione non sia in grado di portare a buon fine il progetto di riunificazione. Secondo gli ultimi sondaggi d’opinione, l’elettorato è letteralmente spaccato fra le due opposte fazioni ed almeno il 20% di esso ha dichiarato di essere ancora indeciso. Infatti, la maggior parte dei turco-ciprioti autoctoni - stanchi del loro trentennale isolamento - è a favore del piano Annan e delle opposizioni che lo sostengono perchè vorrebbero entrare in Europa e temono «di essere lasciati ancor più soli quando il Sud entrerà nell’Unione europea». Da parte loro, invece, i coloni arrivati dalla Turchia e insediatisi sull’isola dopo il 1974 sono contrari al piano dell’Onu perchè temono - in caso di riunificazione - di essere rimpatriati e sostengono che «la riunificazione andrebbe contro gli interessi e la cultura turco-cipriota». La campagna politica dell’opposizione, condotta dal partito repubblicano turco (Ctp, guidato da Mehmet Ali Talat), si basa essenzialmente sul progetto di riunificazione presentato da Kofi Annan, che ha definito «un buon punto di partenza». «Creeremo un nuovo ordine e saremo ben presto uniti al resto del mondo - ha detto Talat durante un recente comizio a Nicosia cui hanno preso parte oltre 20.000 persone (55.000 secondo il Ctp) che l’oratore ha esortato ad « insistere sulla pace e sull’ingresso nell’Unione europea e a indossare il vestito migliore per recarsi domenica a votare come se si andasse ad un matrimonio». La posizione del Governo turco sul problema cipriota è cambiata radicalmente e ora pare orientata quanto meno a discutere il piano dell’Onu.

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    Predefinito dall'Agenzia ANSA 15 dicembre 2003

    Cipro: elezioni, 25 seggi ciascuno a blocchi rivali
    15/12/2003 - 088
    Repubblica non riconosciuta da comunita' internazionale
    (ANSA) - NICOSIA, 15 DIC - Parita' assoluta nelle elezioni politiche nella Repubblica turca di Cipro del nord,non riconosciuta dalla comunita' internazionale. Secondo i risultati provvisori diffusi in nottata, ciascuno dei due blocchi rivali - uno favorevole, l'altro contrario alla riunificazione dell'isola - ha ottenuto 25 dei 50 seggi del Parlamento. Il Partito repubblicano turco (Ctp), fautore della riunificazione, si e' rivelato la prima formazione, con 19 seggi.
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  6. #6
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    Predefinito tratto da LIBERAZIONE 20 dicembre 2003

    Usa, accuse a Fbi per l'11 settembre
    Nessuna risposta dall'Fbi alle dichiarazioni di Thomas Kean, presidente della commissione d'inchiesta federale sugli attentati dell'11 settembre 2001 che sostiene in un'intervista al "New York Times" che gli attentati potevano essere evitati se l'Fbi, il servizio immigrazione e altre agenzie avessero fatto bene il loro lavoro. Kean, repubblicano ed ex governatore del New Jersey, aggiunge che è troppo presto per dire se tra i corresponsabili ci siano anche esponenti dell'Amministrazione Bush, perché su questo punto si sta ancora indagando. La commissione di 10 membri presieduta da Kean dovrà consegnare il suo rapporto conclusivo entro maggio.

    Venezuela
    , consegnate firme contro Chavez
    Scortata da guardie armate e in un clima di grande tensione a Caracas, l'opposizione al governo di Hugo Chavez ha ieri presentato al Consiglio nazionale elettorale le casse contenenti le firme che richiedono la convocazione di un referendum revocatorio del mandato presidenziale. Per poter convocare la consulta le firme valide devono superare i due milioni e mezzo. L'opposizione sostiene di averne più di tre milioni, ma durante le operazioni di raccolta delle firme le irregolarità sono state tali che è prevedibile l'annullamento di molte schede presentate. Il governo denuncia una «megafrode». Già il 20 settembre scorso il tentativo di convocare un referendum contro Chavez era naufragato di fronte alla sentenza che aveva dichiarato false la maggior parte delle firme (molte delle quali giunte per fax direttamente dagli archivi delle banche private). Il Consiglio nazionale elettorale avrà tempo trenta giorni per esprimersi. Nel caso in cui consideri valide le firme il referendum sarebbe convocato entro aprile. Per revocare il mandato è necessario un voto in più di quelli ottenuti da Chavez il 30 luglio 2000, quando fu rieletto per un secondo mandato. Cioè 3,76 milioni di voti, pari al 60% delle schede valide. Altra condizione è che l'affluenza alle urne sia di almeno il 25% dell'elettorato.

    Taiwan
    distensione con Pechino
    Dal parlamento di Taiwan è arrivato un gesto distensivo verso la Cina. I deputati hanno respinto un provvedimento del governo per modificare la legge sul referendum e chiamare il popolo a esprimersi sull'autonomia. Il presidente Chen Shui-bian ha più volte minacciato di convocare un referendum, suscitando l'ira di Pechino, ma l'attuale legislazione lo rende quasi impossibile. Il mese scorso, il parlamento aveva approvato in prima lettura la modifica legislativa, ma questa volta l'opposizione è riuscita ad affondare il provvedimento, con 118 no contro 95 sì.

  7. #7
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    Predefinito tratto da IL GIORNALE DI BRESCIA 30 dicembre 2003

    L’esponente nazionalista di centrodestra e l’esponente di centro si contendono la successione a Portillo
    Guatemala: Berger e Colom, sfida presidenziale

    GUATEMALA

    In campagna elettorale praticamente da un anno, l’imprenditore Oscar Berger e l’ingegnere Alvaro Colom si sono sfidati per occupare la massima carica dello stato del Guatemala che il presidente Alfonso Portillo del Fronte repubblicano guatemalteco (Frg) lascerà il 14 gennaio 2004. Alla guida della Grande alleanza nazionale (Gana) di centro destra Berger, 57 anni, ha vinto facilmente il primo turno elettorale il 9 novembre e ha mantenuto nelle ultime settimane, stando ai sondaggi, un comodo margine di vantaggio su Colom, sfidante nel ballottaggio e leader dell’Unità nazionale della speranza (Une). A differenza di quanto avvenuto nel primo turno quando i guatemaltechi erano accorsi numerosi alle urne, questa volta la partecipazione è stata minore. Anche Berger, che ha votato in un seggio alla periferia della capitale, ha rivolto un appello agli elettori a non restare a casa, e ha colto l’occasione per anticipare ai giornalisti i temi più difficili che dovrà affrontare il suo governo: la quadratura dei conti pubblici, la lotta al narcotraffico, la corruzione e la criminalità organizzata. Berger ha anche detto che lavorerà per l’integrazione centroamericana per far diventare la regione «un autentico blocco» politico ed economico. Ma anche Colom, che ha 52 anni, ha assicurato che diversamente da quando indicano i sondaggi sarà «il nuovo presidente del Guatemala» e che «il mio primo gesto sarà un accordo con le parti sociali per il risanamento dei conti pubblici». La giornata è stata seguita da un gruppo d’inviati dall’Organizzazione degli stati americani (Osa) e dall’Unione europea (Ue).

  8. #8
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    Predefinito tratto da IL PENSIERO MAZZINIANO

    L’arcipelago russo e l’Europa

    un dialogo con Francesco Benvenuti

    Nei numeri precedenti abbiamo approfondito, grazie ad interessanti interventi di Lara Piccardo, alcuni aspetti rilevanti della storia russa. In questo numero, per allargare il panorama conoscitivo di un mondo che oggi, pur con molte contraddizioni, sembra avvicinarsi all’Europa “in costruzione”, abbiamo incontrato il prof. Francesco Benvenuti, docente di Storia contemporanea presso il nuovo Corso di studi di “Civiltà dell’Europa orientale e del Mediterraneo” della Facoltà di Conservazione dei beni culturali, a Ravenna.
    Il prof. Benvenuti è considerato uno dei più qualificati esperti italiani in materia. È autore di numerosi saggi, alcuni dei quali sono già considerati dei “classici”; citiamo, a puro titolo esemplificativo, Le vie della rivoluzione Nikolaj I. Bucharin, curato per gli Editori Riuniti nel 1980; Il sistema di potere dello stalinismo: partito e stato in URSS 1933-1953, (con Silvio Pons), edito dalla Franco Angeli; Storia della Russia contemporanea: 1853-1996, pubblicato da Laterza nel 1999…

    Prof. Benvenuti, la nostra rivista guarda alla Russia di oggi con l’interesse che si deve a una grande potenza che ha segnato la storia del Novecento transitando dal totalitarismo staliniano alla rivoluzione della perestrojka senza imporre al pianeta un bagno di sangue generalizzato (da molti paventato). Può spiegare brevemente ai nostri lettori le tappe essenziali di questo processo (ancora in corso)?

    Per le nuove generazioni il principale motivo di interesse per la Russia è sicuramente quello offerto dalla dinamica del collasso dell’Unione Sovietica, nel 1989-1991. Il disfacimento del sistema politico sovietico e la disgregazione nazionale dell’Unione mutarono in modo radicale la geografia politica del mondo attuale e il sistema delle relazioni internazionali. Scomparve definitivamente ciò che restava del movimento comunista mondiale, con profonde conseguenze anche all’interno di quei paesi che, in passato, non avevano ospitato partiti comunisti particolarmente forti. Inoltre, tali eventi sembrano, ancora oggi, essere avvenuti in una sequenza imprevedibilmente rapida. M.S.Gorbachev, divenuto segretario del Partito comunista dell’URSS nella primavera del 1985, iniziò una profonda riforma dello Stato, che portò, alla fine del 1986, alla virtuale instaurazione della libertà di pensiero e di espressione; allo smantellamento degli apparati di controllo del partito unico (1988); e già nel 1989, alle prime elezioni generali pluraliste (anche se non ancora formalmente pluripartitiche) nel paese dopo il novembre 1917. La simultanea riforma dell’economia sovietica, all’insegna di una sostanziale autonomia delle imprese, non ebbe altrettanto successo ed aprì la strada al caos e a una grave recessione economica. L’indebolimento delle autorità politiche ed economiche centrali tradizionali spinse una parte consistente delle popolazioni e delle autorità locali non russe a puntare sulla secessione dall’Unione e sull’indipendenza nazionale, in un tentativo sia di proteggersi dai contraccolpi della crisi del sistema centrale, sia di affermare un senso di autocoscienza nazionale di massa maturato soprattutto nei decenni dopo la guerra mondiale.
    Alla raffica di dichiarazioni delle 14 Repubbliche non russe, prima di “sovranità” e poi, di indipendenza del 1990-1991, seguì infine, nell’ultimo scorcio del 1991, la decisione del Presidente russo Eltsin di prendere l’iniziativa per lo scioglimento del patto federativo sovietico (siglato nel 1924). A questa data, il Partito comunista sovietico era già scomparso: in parte, perché messo formalmente fuorilegge dai decreti di Eltsin del novembre 1991 (cui Gorbachev acconsentì); in parte a causa della sua impotenza politica e delle sue differenziazioni politiche interne, manifestatesi soprattutto attorno al tentativo di colpo di Stato che una parte del governo di Gorbachev cercò vanamente di attuare nell’agosto precedente (in gran parte, contro lo stesso Gorbachev).
    Le vittime di un tale processo sono state complessivamente, in realtà, decine di migliaia: in Cecenia, Nagorno-Karabakh, Tadzhikistan Georgia, Moldova, Uzbekistan. Inoltre, gli scontri armati, nazionali e politici, in questi paesi si sono protratti ben oltre il momento della dissoluzione dell’URSS: basti pensare alla Cecenia, che proprio nel 1994 e, ancora, nel 1999 ha visto il massicco intervento dell’esercito regolare della nuova Federazione Russa. Ma anche in Tadzhikistan le violenze armate tra le diverse fazioni sono continuate fino alla fine dello scorso decennio. Le vittime della dissoluzione sovietica possono apparire modeste se confrontate con quelle della guerra civile jugoslava, in relazione al diverso numero delle popolazioni delle due ex federazioni; e a causa della più evidente localizzazione degli scontri nel caso dell’URSS. Si tratta anche di considerare che l’organizzazione di nuove economie e nuove società ha richiesto a quei popoli, e in particolare ai più numerosi (compreso quello russo) grandi sacrifici materiali e acute sofferenze di ordine morale e culturale: come nella ex Jugoslavia; e in misura probabilmente superiore (se è possibile fare un tale paragone) a quanto è avvenuto nelle ex “democrazie popolari”, in quella che allora era indicata con il termine di “Europa orientale”(Repubblica democratica tedesca, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria. Romania).
    Mentre esiste una certa comunanza di opinione nella definizione delle cause di “lunga durata” della crisi sovietica del 1989-1991 (i danni antichi dello stalinismo; l’assenza di tempestive riforme all’epoca di Khrushchev, nel 1956-1964; le crescenti difficoltà dell’economia sovietica di coesistere con la globalizzazione), il giudizio sulle responsabilità dirette per il crollo finale, nel 1989-1991 sono ancora oggetto di appassionate controversie, più e meno scientifiche, più e meno condizionate da vecchie e nuove passioni politiche. Le opinioni variano: da una critica radicale all’opportunità, o alla qualità delle scelte riformatrici di Gorbachev; alla denuncia dell’irresponsabilità dei metodi usati da Eltsin per conquistare potere; all’indicazione delle colpe di un Occidente che avrebbe inteso infliggere alla Russia (a qualsiasi Russia) un colpo dal quale essa non potesse riprendersi né economicamente, né politicamente.

    Quali sono i punti critici che, a Suo avviso, ancora attendono l’ex arcipelago sovietico: dalla questione cecena ai rapporti, più generali con le popolazioni di fede islamica?

    Per il momento, l’unico punto dolente (assai dolente!) nel rapporto tra il nuovo potere russo e le sue popolazioni di fede musulmana è proprio la Cecenia. Qui, per una varietà di ragioni ancora non facilmente spiegabili e collegabili tra loro, fallì ben presto il tentativo di costruire uno Stato di diritto, islamico o di altro tipo. Seguirono la radicalizzazione nazionalista e religiosa, la scissione della regione dell’Inguscezia, la disgregazione del tessuto sociale, il proliferare di bande armate criminali, o che resuscitavano tra la gioventù mai sopite tradizioni guerresche; due massicci e distruttivi interventi militari russi (nel 1994-1996 e nel 1999); l’emigrazione di centinaia di migliaia di russi e di ceceni. Attualmente un’amministrazione sotto il patronato russo sembra godere del temporaneo appoggio di una parte consistente della popolazione rimasta; ma il terrorismo arde sotto le ceneri. La violenza è stata limitata: ma la tragedia è che un paese vero e proprio non esiste più.
    In altre due Repubbliche della federazione russa con una forte popolazione islamica, invece, la Tataria e la Bashkiria, tra le autorità di Mosca e quelle locali sono stati raggiunti, per via pacifica, accordi speciali a garanzia di una forte autonomia locale. Ma esiste una tendenza più ampia alla conclusione di accordi federativi particolari, diversi l’uno dall’altro, che regolano i rapporti tra le entità regionali ed etniche della Federazione e il governo centrale. Ciò dà origine a conflitti sia in materia di controllo politico del centro sulle amministrazioni locali; sia in materia di ripartizione degli introiti fiscali. Credo che ci siano da aspettarsi per il futuro tensioni, anche se non necessariamente violente, tra alcune regioni etnicamente russe (quelle estremo-orientali, ad esempio, fortemente orientate verso il commercio internazionale) e il centro federale.

    Quali sono gli elementi “forti” e quelli “deboli” che connotano il passaggio da un’economia collettivista di stampo sovietico a una economia liberista?

    Confesso di avere difficoltà a trattare, in generale, dei rispettivi meriti e demeriti del “collettivismo” e del “liberismo” economico. Direi che quella sovietica era un’economia statale che funzionava su base amministrativa, “di comando”: cioè, neppure “pianificata”, in senso proprio, ma orientata di volta in volta dalle decisioni di un vertice assai ristretto. Certo, dall’epoca dell’industrializzazione stalinista (1929-1937), gran parte di questi comandi dall’alto erano stati intesi alla conservazione del primato dell’industria pesante e degli armamenti, a spese dell’industria dei beni di consumo e dell’agricoltura: era questo il quadro programmatico permanente di quel tipo di economia. Questo sistema economico ebbe un certo successo nel porre le basi della trasformazione dell’URSS in grande potenza industriale, per quanto ad un costo materiale e umano assai elevato. Ma dagli ultimi anni ’60 esso perdette il dinamismo che pure gli è stato quasi unanimente riconosciuto: i ritmi di crescita cominciarono a diminuire drammaticamente. Inoltre, il governo di Brezhnev (1964-1982) tentò di rafforzare la base del sistema sovietico passando a politiche meno severe sia in fatto di repressione politica e sociale, sia di politica economica. Si cercò di far fare al vecchio sistema economico proprio ciò per cui non era stato creato: elargire maggiori salari e consumi, incentivare l’agricoltura e l’industria leggera. Ma per avere almeno una possibilità di successo, il vecchio sistema avrebbe dovuto, contemporaneamente, essere riformato profondamente, con il consapevole obiettivo di rafforzare le categorie di mercato e di integrare l’economia del paese in quella internazionale.
    Probabilmente, l’economia della Federazione Russia attuale è tanto poco “liberista” quanto quella sovietica è stata “collettivista” … . Il modo in cui i successivi governi Eltsin (1992-2000) hanno cercato di privatizzare e aprire il paese all’economia internazionale è stato, fin dall’inizio, oggetto di una vivace e dura polemica tra economisti sia russi, che stranieri. Fatto sta che nella “nuova” economia restano ben visibili alcuni tratti della vecchia: esistono ancora grandi monopoli dominanti, di Stato e privati; e la vicinanza degli imprenditori al potere politico è più risolutiva della loro capacità imprenditoriale. Inoltre, la “nuova economia” ha impoverito larghe zone del paese, distruggendo risorse che potevano essere, invece, riconvertite a nuove finalità produttive. La mancanza di controlli legali (quelli che esistono nelle economia “liberiste” occidentali, per intendersi) sul processo di privatizzazione e marchetizzazione ha determinato una distribuzione spesso del tutto casuale, o ingiusta, delle risorse e della ricchezza prodotte dal vecchio sistema.
    Bisogna aggiungere, tuttavia, che se la trasformazione economica realizzata dai governi di Eltsin si è rivelata sciaguratamente improvvisata e mal riflettuta, neppure Gorbachev e il suo team di economisti era riuscito a congegnare un progetto di riconversione economica persuasivo: né mi risulta che alcuno, in seguito, abbia provato a proporre concrete politiche alternative a quelle eltsiniane. Qualcuno, per la verità, ha cercato di indicare l’esempio delle trasformazioni economiche in Cina. Ma l’economia sovietica, al momento del suo crollo, era pur sempre di un tipo diverso e anche più maturo di quello della Cina all’inizio delle sue riforme (primi anni ’80). Inoltre, i cinesi non prevedevano il rapido passaggio alla democrazia che, assieme a quello di una rapida conclusione della Guerra fredda, divenne ben presto, per Gorbachev, un obiettivo forse più importante di quello della stessa riforma economica. Altra cosa, tuttavia, è affermare la tesi di una congenita “irriformabilità” del sistema economico e politico sovietico, come alcuni hanno fatto: essa suona troppo determinista, almeno alle orecchie di chi fa professione di storico.

    Quali sono stati, in Russia, gli effetti sul piano etico-politico e nella scelta della leadership?

    Come ho accennato prima, gli effetti di una tale trasformazione sulla vita della gente e sui suoi valori (non solo politici, ma anche morali) sono stati profondi e in gran parte corrosivi. Anche questa circostanza aiuta a spiegare il dilagare della criminalità e della corruzione, a ogni livello, che ha vistosamente segnato i primi anni della trasformazione della Russia.
    Quanto al nuovo personale politico dirigente, esso si è dimostrato o improvvisato e inesperto, o colpevolmente partecipe del clima di cinismo e di leggerezza intellettuale, politica e morale che ha caratterizzato l’ethos del periodo di transizione alla proprietà privata e al mercato. Eltsin deve essere considerato, in ogni caso, una personalità politica di notevoli dimensioni. Giudicheremo il Presidente Putin essenzialmente dal successo, o meno, del suo programma di ridare autorevolezza allo Stato russo, evitando la Scilla dell’autoritarismo. Per il resto, le personalità di governo che si sono elevate al disopra di un profilo politico complessivo piuttosto scialbo, non sembrano molte e alcune di esse provengono (inevitabilmente ...) dai ranghi dei vecchi apparati sovietici (V.Chernomyrdin; E.Prymakov). Anche all’attuale ministro degli esteri, Ivanov, deve essere riconosciuta una certa vivacità intellettuale, non disgiunta, tuttavia, da qualche scoraggiante accademismo.

    Ricordo un libro-profezia di Hélène Carrère d’Encosse (L’Empire eclatée). Ora, mentre già si parla di un nuovo impero, una parte essenziale dei frammenti di quel mondo guarda all’Europa. Alcuni stati entrano addirittura nell’Unione europea, ma il “peso della storia”, i diversi livelli di sviluppo consentiranno un’integrazione effettiva, seppur, inevitabilmente, lenta?

    Mi permetto un’osservazione sul carattere “profetico” del libro cui Lei allude. In realtà, in esso, l’Autrice giustificava la propria previsione di una futura “esplosione” dell’Impero sovietico con l’osservazione della rapida crescita demografica delle popolazioni musulmane dell’URSS; aggiungendo che proprio da questa circostanza avrebbe potuto originarsi la dissoluzione dell’Unione. Ma non è stato così: sono state le Repubbliche sovietiche baltiche (Lituania, Lettonia, Estonia) a giocare il ruolo di avanguardia del separatismo: mentre le Repubbliche dell’Asia centrale (con popolazione, almeno in parte cospicua, musulmana osservante) si sono dimostrate le più riluttanti all’abbandono dell’Unione. In pratica, nel dicembre 1991 furono i Presidenti di Russia, Bielorussia e Ucraina ad annunciare loro che l’Unione era sciolta, senza il loro parere; e proprio esse si sono dimostrate le più interessate a ricostituire con la Federazione Russa, dopo la separazione, un qualche solido legame diplomatico, militare ed economico.
    Venendo alla Sua domanda sui rapporti attuali e futuri tra i nuovi Stati post-sovietici e l’Unione europea, direi che qui fronteggiamo problemi ingenti: è in gioco l’identità stessa dell’Europa e della Russia.
    Nel maggio 2004 entreranno nell’Unione gli ex sovietici Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria e i tre Baltici, più gli ex jugoslavi Slovenia e la Croazia. I primi tre paesi sono già stati, inoltre, accolti nella NATO. Tutti tentano, in tal modo, non solo di corrispondere ad un sentimento di appartenenza culturale e religiosa diffusa tra i loro popoli ma anche di divenire partecipi di un sistema economico, diciamo, di successo: quello dell’Unione europea, appunto. Infine, essi tentano così di distanziarsi il più possibile dal loro recente passato politico e di prevenire un eventuale ritorno dell’influenza russa in Europa orientale. Tra qualche anno verrà il turno di Romania e Bulgaria. Una tale prospettiva è in sé, credo, positiva. Essa rappresenta un importante passo verso un’organizzazione politica del mondo più governabile e più equilibrata. Certo, essa presenta rilevanti problemi economici: basti pensare al coordinamento delle politiche agricole e salariali in condizione di grandi squilibri nella produttività del lavoro e nei livelli di vita attualmente esistenti tra vecchi e nuovi membri dell’Europa.
    Sul piano politico, uno dei principali problemi che si pongono è quello dei nuovi equilibri interni che queste nuove adesioni determineranno nell’Unione. È assai probabile che esse favoriranno un aumento del peso politico della Germania (unificata dal 1990), la quale già occupa un peso di rilievo nelle loro economia. Potrebbe risultarne, invece, indebolito il tradizionale “asse franco-tedesco”, il vettore dell’unificazione europea dal dopoguerra ad oggi. Infine, alcuni temono che i nuovi “piccoli” Stati dell’Unione, orientati essenzialmente in senso anti-russo e non ancora sufficientemente educati all’idea di un ruolo autonomo e originale dell’Europa nel mondo, possano rivelarsi il cavallo di Troia dell’influenza degli Stati Uniti all’interno dell’Unione (qualche segnale in questo senso lo si è avuto in occasione del recente conflitto in Irak).
    C’è poi il rischio che, se tutta l’ex Europa orientale (oltre a quella balcanica) entra in Europa, l’Unione europea, da progetto di federazione tra un certo numero di Stati, venga a essere presentato come la traduzione politica di un concetto ideologizzato di “civiltà europea”: magari ritenuta superiore e contrapposto ad altre “civiltà”, come quella slava (e, per inciso, quella rappresentata dal mondo islamico). Una tale interpretazione dell’allargamento dell’Unione europea presenterebbe, infatti, anche il rovescio di un’inaccettabile esclusione: la Russia è parte della civiltà europea, storicamente definita. Essa è stata ed è anche un potente vettore di europeizzazione dell’Eurasia (nonché della coesistenza tra Europa e Islam). Non solo: anche Ucraina e Bielarus sono parti dell’Europa.

    E tuttavia …

    e tuttavia, il fatto è che la Russia è in ogni caso un’entità troppo grande (per ora, almeno dal punto di vista politico e militare; potenzialmente, anche economico), perché possa entrare nell’Unione allo stesso titolo di altri membri dal peso più ridotto. Inoltre, l’inclusione della Russia porrebbe quasi automaticamente anche il problema dell’adesione di Belarus e Ucraina… uno scenario al limite della fantapolitica, evidentemente (almeno ancora per un lungo periodo).

    Non prevarrà, invece, almeno per la Russia, il desiderio di rinverdire i fasti della grande potenze e la scorciatoia del matrimonio d’interessi con l’ex nemico storico, gli Stati Uniti d’America (magari con funzioni di contenimento nei confronti dell’invadenza cinese nell’economia mondiale), e, quindi, una ostilità di fondo verso l’anomalia, rappresentata appunto dall’Europa?

    Penso che, per quanto concerne il rapporto con l’Europa, sarà la Russia stessa a non insistere per un’inclusione formale, che, tra le altre cose, sminuirebbe lo status internazionale che essa aspira a ricoprire. Si può ipotizzare che verrà escogitata una soluzione analoga a quella che nel 2002, dopo un quinquennio di trattative, ha associato la Russia all’Alleanza atlantica, con la formazione del Consiglio Russia-NATO: una sede che, prendendo atto dell’impossibilità pratica dell’entrata della Russia nell’Europa politica, riconosca il carattere stretto e speciale del loro rapporto e definisca i canali permanenti e le misure di volta in volta ritenute necessarie per coordinare le due economie e le due politiche. In una tale sede potrebbero trovare un inizio di definizione anche i rapporti dell’Unione Europea con Belarus e Ucraina. Penso, però, che porre oggi la questione dell’inclusione nell’Unione Europea della sola Ucraina prima di una formale definizione delle relazioni con la Russia, come alcuni propongono, potrebbe essere interpretato dal governo russo (non senza fondamento) come un atto di inimicizia nei suoi confronti.
    Tuttavia, per quanta nostalgia possa sopravvivere nell’attuale Federazione Russa per il sistema del “bipolarismo” sovietico-americano e per quanto forte sia l’aspirazione russa a risollevare lo status internazionale del paese dopo la dissoluzione dell’URSS, non credo che la Federazione Russa possa farsi tentare dalla prospettiva cui Lei allude: quella di un accordo-quadro-diciamo, tra essa e gli Stati Uniti d’America a spese del ruolo dell’Unione Europea nel mondo. La Federazione sa di non avere la dimensione economica e militare per intrattenere un legame bipolare con gli USA (anche se non ama che ciò le venga ricordato, naturalmente…). Ritiene, però, di aver conservato la massa critica di una potenza di livello mondiale; e di occupare una posizione geopolitica unica al mondo. I documenti programmatici della Presidenza della Federazione e del suo ministero degli esteri sottolineano, oggi, il carattere “multivettoriale” della politica estera del paese e la vastità e differenziazione dei suoi interessi politici, economici e militari nel mondo. Ciò significa che essa si concepisce come un importante soggetto internazionale: ma assieme a un certo numero di altri importanti soggetti: oltre agli USA, evidentemente, l’Europa stessa (e in particolare, alcuni paesi, come la Francia e la Germania), la Cina, l’India; e ultime, ma non in ordine di importanza, un certo numero di ex Repubbliche sovietiche). Inoltre, l’appoggio della Russia all’ONU (che non esclude una riforma del Consiglio di sicurezza) in quanto depositario unico, in ultima istanza, dell’ordine internazionale appare essere genuinamente e fortemente motivata su basi di principio.
    Non sono pochi gli osservatori interni e internazionali della politica estera russa ad affermare che questa sarebbe essenzialmente un’escogitazione elusiva e interlocutoria, nell’attesa che un sostanziale rafforzamento della sua economia possa tornare a consentire al paese una presenza internazionale più affermativa e meno ecumenica. Per il momento, tuttavia, essa permette alla Russia anche una politica di “mani libere”, nell’intrattenimento di rapporti internazionali con paesi anche politicamente in frizione tra loro (come Stati Uniti e Iran, ad esempio; e Cina e India). Per la verità, una tale politica sembra aver perduto parte del suo smalto, negli sviluppi politici russo-americani originati dal conflitto iracheno. Vladimir Putin sta proprio ora tentando una ricucitura con il Presidente Bush; e già si profila il sorgere di nuove tensioni con gli stessi americani sul tema del potenziale nucleare iraniano, alla costituzione del quale la Russia ha contribuito in misura notevole.

    a cura di s.m.

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    Dopo le elezioni in Grecia

    Solo se sono "liberali" destra e sinistra possono avere successo

    I risultati delle elezioni politiche in Grecia - di cui diamo conto in altra parte del giornale - giungono poco dopo quelli amministrativi di Amburgo e confermano una tendenza di fondo. Sotto la spinta di mutamenti epocali - in primo luogo l'emergere di alcuni paesi del terzo mondo come concorrenti nella produzione di beni di largo consumo e i flussi migratori che scuotono società tradizionalmente monoetniche - l'Europa si sposta a destra.

    La crisi delle socialdemocrazie, di cui abbiamo già scritto altre volte, appare evidente. Il modello di sicurezza sociale che ha caratterizzato i paesi del vecchio continente dal dopoguerra in poi scricchiola vistosamente. E i cittadini si ritrovano, all'improvviso, senza protezioni e senza riferimenti. Non a caso è il solo laburismo inglese - ampiamente rivisitato da Tony Blair - ad offrire ancora alla sinistra europea una ipotesi di governo. Mentre si trascina in Germania la lunga agonia di Schroeder e del suo partito.

    Il punto è che anche la destra, in Europa, sembra non rendersi conto della vastità dei problemi con i quali è chiamata a misurarsi. Le sue risposte si ispirano o al tardonazionalismo, come nella Francia di Chirac, o a formule vagamente populiste, come avviene per la maggior parte dei partiti di ispirazione popolare o ex-democristiana. Quando non scantonano addirittura nella xenofobia o nel protezionismo.

    Nella destra finora il solo Aznar è riuscito ad assicurare al suo paese sviluppo economico, crescita dell'occupazione e libertà civili. Lo ha fatto abbandonando il solco tradizionale del popolarismo - anch'esso ancorato, come la socialdemocrazia, al modello renano - e offrendo invece l'immagine di una destra liberale, attenta all'innovazione piuttosto che alla conservazione, capace di imprimere slancio alla società piuttosto che di imbrigliarla nelle infinite pastoie del consociativismo e delle corporazioni.

    Una destra liberale, appunto. E' il miracolo riuscito contemporaneamente, sia pur partendo da posizioni diverse se non addirittura opposte, al laburismo di Blair e al popolarismo di Aznar. L'uno e l'altro si sono abbeverati alla fonte del liberalismo e hanno costretto i loro partiti a farlo. E hanno avuto successo.

    Quanti ancora, in Europa, avranno il coraggio di seguirne il percorso?

    Roma, 8 marzo 2004

  10. #10
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    Comunicato del Circolo Fgr Roma "IX Febbraio 1849" sull'attentato di Madrid in Spagna

    I giovani repubblicani del Circolo FGR di Roma esprimono il proprio cordoglio agli abitanti di Madrid e a tutto il popolo spagnolo per le vittime del vile atto terroristico avvenuto nelle prime ore della mattinata di giovedì 11 marzo.

    Mentre il bilancio dei morti continua a salire, aumenta in noi lo sgomento per un attacco portato con estrema ferocia. Il folle tentativo di destabilizzare il sistema democratico di una delle nazioni più importanti d'Europa e del Mondo, proprio alla vigilia delle elezioni, riesce solo a suscitare in noi un profondo orrore e a far levare alte grida di condanna contro questo attacco ai valori fondamentali del sistema democratico. Questo efferato crimine difficilmente potrà essere dimenticato dal popolo spagnolo e da noi tutti.

    Contro le logiche di terrore è fondamentale reagire con unità ed estrema fermezza. Oggi la Spagna è più unita nella difesa di quei valori e di quei principi che sono anche i nostri, ed al suo fianco si schiera tutto il mondo civile che rigetta la barbarie del terrorismo.

    Fgr Roma - Circolo IX Febbraio 1849

 

 
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