tratto da www.chiesa

Vigilia di Pentecoste, in una chiesa di Roma. Appunti critici di un cattolico “normale” su quel che ha visto in una comunità di Kiko

di Anonimo*



* [Il seguente testo ha per autore un cattolico “normale” che è stato invitato dai genitori neocatecumenali di un neonato ad assistere al suo battesimo nella comunità d’appartenenza della coppia. Il sacramento si è celebrato la sera d’una vigilia di Pentecoste, assieme alla messa, in un locale annesso a un’importante chiesa del centro di Roma. Il padre del bambino ha chiesto all’invitato di scrivergli un appunto con le sue impressioni. Sono impressioni personali e opinabili. Ma interrogarsi sul perché si siano prodotte – al pari delle forti riserve espresse da autorevoli vescovi e cardinali – può solo arricchire la riflessione critica e autocritica sul Cammino neocatecumenale].


La celebrazione mi ha messo a disagio fin dall'avvio. Mi aspettavo che la messa e il battesimo fossero celebrati in chiesa e a porte aperte, secondo il rito liturgico classico sia pure con varianti e adattamenti non sostanziali. Invece no. Mi sono trovato in un angusto locale con ingresso separato, già gremito di persone tutte partecipi al Cammino neocatecumenale, con i capi che facevano premura perché gli ultimi venuti entrassero e poi si chiudesse la porta. Era subito evidente che lì non c'era posto per chi non fosse invitato o "riconosciuto". Il rito d'ingresso della messa è stato uno scambio di autopresentazioni, di saluti, di applausi. Come non ci fosse modo, per un esterno, d’essere ammesso nella "Chiesa" se non grazie al visto della comunità.

La liturgia della parola anteponeva sistematicamente le moltissime parole di membri della comunità alla sola Parola che dovrebbe aver posto in questa parte della messa, la Parola di Dio con la "P" maiuscola. Le sacre letture erano precedute e seguite da un’alluvione di indicazioni esplicative, di emozioni comunicate, di esperienze raccontate, di interrogazioni retoriche come a scuola, specie fatte ai bambini.

Anche i brani di omelia del sacerdote si perdevano nel generale chiacchiericcio, come se il prete avesse un ruolo marginale nella celebrazione e la regìa fosse nelle mani dei conduttori laici della comunità. I quali davano mostra di valutare la bontà o meno di ogni intervento. Inesorabilmente, ciascuno pareva mosso a parlare "secondo i canoni". Era la via per far bene, per essere apprezzati, per crescere nella considerazione della comunità. La preghiera dei fedeli rispondeva agli stessi criteri. Per i bambini è stata una lampante gara d'emulazione, quasi vi fosse un sottinteso punteggio.

I canti che hanno ritmato tutta la celebrazione erano anch'essi di produzione della comunità. Compresi quelli ripresi dalla liturgia classica – Gloria, Credo, Sanctus... – con varianti che però quasi li rendevano irriconoscibili. E come poteva essere diversamente? In effetti, il Gregoriano o una messa di Palestrina o un mottetto di Bartolucci sono incompatibili col bailamme di una liturgia neocatecumenale come quella cui ho assistito. Così come i canti di Kiko, il fondatore del Cammino, sarebbero fuori luogo in una celebrazione liturgica di forma tradizionale. Che i canti di Kiko siano invece perfettamente conformi ai riti neocatecumenali, è fuor di dubbio. Compresa l'esecuzione quasi sempre gridata, con punte di esaltazione collettiva.

Già, dunque, la liturgia della parola mi ha dato l'impressione di una devastazione smisurata della Grande Tradizione liturgica della Chiesa. Sostituita da un greve assemblearismo pseudopaolino: apparentemente liberatorio dei carismi di ognuno, in realtà duramente governato dai capi della comunità.

Ma passando all'eucaristia propriamente detta, le mie riserve si sono fatte ancor più serie. Lì, più che a una messa, mi è parso di assistere, a momenti, a una messa in scena. Come se il problema fosse quello di ripristinare e ri-rappresentare un presunto svolgimento originario e puro dell'eucaristia del cristianesimo primitivo, liberandolo da due millenni di incrostazioni liturgiche deformanti.

In realtà, quel che vi ho visto sfiorare è stato il feticismo. Annientata la sobria potenza simbolica elaborata in secoli di Grande Liturgia (che non s'è mai sognata di ripetere pedissequamente i presunti gesti fisici della comunità apostolica primitiva), il rito sembrava attribuire forza salvifica decisiva a precisi oggetti e comportamenti: che non erano tanto il sacramento in sé, quanto piuttosto il tipo di pane, il modo di spezzarlo, l'altare a forma di tavola da pranzo, i boccali, il mangiare e bere tra commensali seduti... E questo sarebbe il ritorno alle origini? Molto più prosaicamente, questa è la messa reinventata da Kiko: dando a intendere che sia più autentica, più vera e più salvifica della messa "normale". E come non bastasse, Kiko s'è messo anche a far l'architetto. La struttura delle sue aule di culto, compresa quella in cui mi sono trovato, cancella due millenni d'architettura cristiana, a pro di una bizzarra mappatura ginecomorfica: con l'ambone che fa da testa, la tavola da pranzo che fa da stomaco e la vasca battesimale che fa da utero della sua madrechiesa. Così, almeno, mi hanno spiegato gli stessi neocatecumenali.

E vengo al battesimo del bambino. Anche qui ho visto in azione l'insidia del feticismo: l'idea che il vero battesimo non sia quello ritualizzato nei secoli dalla Chiesa, ma quello fatto in quel modo lì, con la triplice, brusca immersione integrale del bambino nell’acqua della vasca. Quello che, a sentire i neocatecumenali, sarebbe il rito "originario" è anche qui una loro particolarissima invenzione. Ogni civiltà ha i suoi stili, e nella nostra civiltà l'infermiera di un reparto pediatrico che facesse così il bagno a un neonato verrebbe puntualmente accusata di maltrattamenti e additata alla pubblica esecrazione. Ma il rude battesimo al modo di Kiko si fa a porte chiuse, solo tra membri della comunità. Ai quali evidentemente sta bene com’è fatto.

La mia sensazione è stata quella di assistere a un cerimoniale di iniziazione. Dove però l'iniziato principale non era l'ignaro bambino ma, per mezzo suo, la comunità. Dove la prova era una sorta di sfida lanciata al mondo esterno e alla mentalità dei moderni "faraoni". Noi siamo diversi! Noi siamo i salvati! Anche a prezzo di dolore! Curiosamente, nell'arco dell'intera veglia, il culmine dell’esaltazione e del canto urlato è stato raggiunto proprio dopo il triplice tuffo del bambino, che a sua volta – comprensibilmente – strillava a più non posso. Insomma, assistendo a questo battesimo, mi son fatto l’opinione che il fine della gran parte dei presenti non fosse tanto quello di far rinascere il bambino nella Chiesa, ma di annetterlo a quella particolarissima, autoreferenziale chiesuola che è la setta di Kiko.