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Povero calcio, lo hanno ridotto a un format
di Massimo Fini
Replicando ai presidenti della B in sciopero perché il loro campionato è stato arbitrariamente portato a 24 squadre, Adriano Galliani, presidente della Lega, ha detto: «Il format è questo e non si cambia». Il format? In questa semplice parola sono concentrate tutte le ragioni della gravissima crisi del calcio.
E cioè l’averlo ridotto a uno spettacolino televisivo, come fosse una qualsiasi «Domenica in» o uno «Zelig», depaurperandolo di tutti quei valori simbolici, rituali, mitici, identitari e persino sacrali che ne hanno fatto la fortuna per più di un secolo. Finché non sono arrivati gli apprendisti stregoni, i quali, trovandosi davanti a una «gallina dalle uova d’oro» (ma quale altro evento, sportivo, culturale, musicale, può radunare ogni domenica sessantamila spettatori paganti?), hanno pensato di poter ridurre il calcio a un fatto puramente economico e televisivo e di trasformare un rito sacrale in uno spettacolo.
Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi. Non solo gli apprendisti stregoni hanno depauperato il calcio dei suoi fondanti valori simbolici e sportivi (che si accingono ad azzerare del tutto con la cosiddetta Premier League — ma parlate l’italiano, stronzi — dove il merito sportivo sarà definitavamente sostituito da quello commerciale) ma, con la pretesa di razionalizzarlo economicamente, lo hanno distrutto proprio sul piano economico. Dal 1983, anno dell’introduzione del terzo straniero, il calcio da stadio — cioé la base sicura, composta dai veri appassionati — ha perso il 40% delle presenze, perché i tifosi si sono mano a mano resi conto che sul campo non c’erano più il Milan, la Juve, il Parma, la Lazio ma la Fininvest, la Fiat, la Parmalat, la Cirio e gli interessi economici, pubblicitari, politici dei loro dirigenti. E l’assai meno sicuro pubblico televisivo ha risposto blandamente al richiamo della Pay Tv e della Pay per Wiew. E così questo nuovo calcio che proprio sulle aspettative televisive si era gonfiato come la rana della favola è scoppiato.
Già vent’anni fa previdi la morte del calcio, ma siccome il calcio, come ogni fatto sacrale, è una struttura fortissima pensavo che i tempi sarebbero stati lunghi e che io non sarei arrivato a raccontarlo.
E invece eccoci qua, stiamo andando così veloci nella nostra autofagia distruttiva — non solo nel calcio — che di fronte alle nostre imprevidenze gravide di conseguenze per il futuro non vale più la cinica domanda di Oscar Wilde: «Che cosa hanno fatto i posteri per noi?». Perché, come anche la vicenda pensionistica insegna, siamo diventati posteri di noi stessi.