LE RADICI DELL’INTEGRALISMO
Pietro M. Trivelli
ROMA - «Obbedienza assoluta agli ordini del capo, cioè l’imam. Un murida deve obbedire all’imam, senza discutere, senza ragionare, anche se l’imam gli ordinasse l’assassinio o esigesse il suicidio». Così annotava Alexandre Dumas nel 1859, descrivendo la spietata "dottrina" del muridismo, uno dei movimenti più fanatici dell’islamismo, lo stesso cui sembra essersi ispirato Osama bin Laden. Dumas padre aveva appena viaggiato per due anni in Russia e nel Caucaso, dove si ritrovò "inviato" assai speciale durante una delle ricorrenti rivolte antirusse in terra di Cecenia. La guerriglia di cui fu testimone durava da più di trent’anni (dal 1824), nel perpetuarsi di ribellioni che da almeno tre secoli oppongono i ceceni ai russi, per rivendicare piena autonomia, prima contro lo Zar, poi contro Stalin ed ora contro Putin; in una plaga afflitta da inestinguibili conflitti etnici, inaspriti da ostili tradizioni, con più di cento lingue diverse (134 interpreti occorsero ai Romani, alle prese con i gruppi caucasici, nella testimonianza di Plinio). Dumas seppe subito cogliere l’atavico odio che impediva alle donne cecene di sposare chi non avesse ucciso un russo. Ma osservò, soprattutto, quanto questo odio fosse cementato dal fanatismo religioso. Indagò sul fondatore del muridismo, Kasi-Mullah, e sul suo pupillo Shamil, che guidava la rivolta. Lo stesso autore dei Tre Moschettieri, del resto, era stato protagonista di gesta rivoluzionarie: figlio di un generale e nipote di una schiava negra, Alexandre Dumas partecipò ai moti del 1848, prima di diventare compagno di battaglia di Garibaldi, che raggiunse a Palermo e seguì a Napoli dove divenne direttore dei musei. «Il muridismo è all’islamismo ciò che il protestantesimo è alla religione cristiana», scriveva Dumas dalla Cecenia, riferendosi all’intransigenza di Shamil e dei suoi seguaci (ai quali, per esempio, era proibito radersi la barba e vietato fumare), un secolo e mezzo fa, prima che il fanatismo religioso s’insaguinasse del terrorismo globalizzato. Per restare in tema truculento, Dumas comincia il suo "reportage ceceno" (che sta per essere pubblicato dall’editore Rubbettino col titolo La guerra santa, a cura di Antonio Coltellaro), ricordando che Shamil - quasi un presagio - nacque quando fu assassinato il figlio della zarina Caterina II, a San Pietroburgo, nel Palazzo Rosso. Scudiero e discepolo di Kasi-Mullah (che sceso dalle montagne nel 1831, prese il potere dopo aver tagliato seimila teste), Shamil si assicurò la successione con un’astuzia per niente ortodossa. Allorché il capo fu finalmente ucciso in un’ennesima battaglia contro i russi, anche lui si finse morto. E poi: «Appena i Russi ebbero lasciato il campo - racconta Dumas - al calar della notte, egli si alzò, cercò il corpo del suo signore, lo ritrovò e lo mise seduto nella posizione di un uomo che prega anche dopo la morte». Così fece credere di aver assistito Kasi-Mullah fino all’ultimo istante, ottenendone l’inoppugnabile prova di essere designato alla successione, nella mira di realizzare uno Stato teocratico islamico. Ma la messinscena non bastò. Altre vicende di sangue, altri ostacoli, fra intrighi e cospirazioni, si opponevano a Shamil da parte di rivali altrettanto fanatici. I quali - come narra Dumas con asciuttezza di reporter - predicavano: «Chi ucciderà un russo, cioè un nemico della nostra santa religione, godrà della felicità eterna».
(da "Il Messaggero" del 26 ottobre 2002)