Progressisti in economia?
Il turbocapitalismo disconosce la dignità dell’uomo
1 ottobre 2009
Una delle riforme che più hanno caratterizzato l’esperienza tedesca della Grosse Koalition, giunta ora al termine, ha riguardato la riforma pensionistica che in Germania ha alzato il limite di età da 65 a 67 anni. L’adeguamento era considerato dagli economisti inevitabile, in relazione al progressivo innalzamento dell’età media della vita di un individuo, ma il fatto che fosse probabilmente necessaria per rimpinguare le casse vuote dello Stato non giustifica l’atteggiamento di chi esalta la riforma in questione come un importante passo verso la modernizzazione della nostra società. In quanto, che d’ora in poi quei lavoratori che avranno la sfortuna di morire all’età dei loro padri si troveranno di fatto ad aver lavorato tutta la loro vita senza potersi nemmeno gustare un solo giorno di libertà. C’è da rallegrarsene, forse?
Il lavoro è considerato da sempre il mezzo che nobilita l’uomo, ciò che lo eleva dal rango di animale. Eppure nella società occidentale contemporanea si è andati molto oltre dal difendere l’operare a vantaggio di sé e della propria comunità, e purtroppo ha preso piede l’idea che il denaro a disposizione non è mai abbastanza e che bisogna darsi da fare per guadagnarne sempre di più per vivere meglio. Cosicché per migliorare il proprio status sociale nella società odierna si è pronti a fare di tutto, anche il sottomettersi ad un servaggio vero e proprio è diventata un’esperienza da affrontare con animo stoico e gioioso.
La realtà è che al mondo d’oggi il nostro stile di vita è talmente pretenzioso che ci rende schiavi del bisogno di denaro in misura assai più consistente di quanto non avvenisse in un passato nemmeno troppo lontano. Questo continuo bisogno di cartamoneta è diventato ossessivo perché non si lega più alla semplice sopravvivenza e nemmeno ad un confortevole livello di vita, ma spesso è volto ad un volgare consumismo, oppure all’accumulo puro e semplice. Ovviamente non tutti hanno questa ossessione del denaro, non tutti si identificano meramente come “produttori” o “consumatori” (le due facce della stessa medaglia), e sono queste persone, che un tempo erano additate a risparmiatori e in quanto tali considerate la parte sana della società, che purtroppo per loro devono sopportare oggi il peso dell’altrui voracità.
Fino a quando, negli anni ottanta del secolo scorso, non si affermò negli USA quell’aggressiva economia di mercato che Emil Luttwak definì molto appropriatamente “turbocapitalismo”, per differenziarlo così dal capitalismo vecchio stile, il risparmiare vivendo sobriamente era considerato dai più un comportamento virtuoso. A quel tempo gli italiani erano un popolo di risparmiatori, per i quali depositare in banca il proprio denaro significava farlo fruttare e non ancora fartelo fregare. Poi, improvvisamente, con gli anni novanta, al seguito della globalizzazione, si è affermata l’idea che il nuovo capitalismo democratico consentiva a chiunque di diventare nel suo piccolo un investitore. Il cittadino è stato invogliato altresì a spendere per alimentare l’economia dell’offerta e così da popolo di risparmiatori siamo diventati anche noi, sull’esempio degli americani, un popolo di consumatori. Poi sono arrivate le speculazioni, i crack, e per ultima la crisi. Per affrontare la quale è stato detto che bisognava fare sacrifici per salvare il neocapitalismo. In pochi si sono preoccupati dei consumatori che da questo sono stati spesso e volentieri fregati. Ma se ci pensiamo bene è normale che accadano queste cose, in quanto il consumatore è spogliato delle sue caratteristiche di persona, diventando solo una componente essenziale di questo perverso ingranaggio economico che promuove l’idea balzana di una capacità autorigenerantesi della moneta.
In tempi non lontani alla base del capitalismo c’era l’idea di mettere da parte una lira per i tempi grami, e conservatore era l’uomo prudente, attento ai bilanci dello Stato. Diversamente, il turbocapitalismo americano considera il risparmio improduttivo e impone la figura del consumatore, mentre il neoconservatore è una sorta di mago della finanza che guarda alla crescita dell’economia senza più curarsi del debito pubblico. Come diceva Reagan, “il debito americano è ormai abbastanza grande da poter badare a se stesso”.
Oggi chi critica il turbocapitalismo viene ritenuto di sovente un nemico del mercato, ma i difensori del pareggio di bilancio non sono socialisti bensì fautori di un’economia virtuosa, soggetta a valori che ne conferiscano legittimità. Al tempo del comunismo era facile esaltare i vantaggi del capitalismo, dato che dall’altra parte della barricata l’uguaglianza imposta come regola produceva soltanto miseria. Ma quel vecchio capitalismo era cosa assai diversa dall’attuale. Un paio di scarpe si facevano risuolare e non c’erano ancora gli “Standpoint” della Nike ad attirare come mosche sul miele stormi di ragazzini. Gli studenti portavano i libri chiusi da una cinghia oppure in un’orribile borsa di tipo militare che cederà il posto alla moda degli zaini firmati dalla Invicta. Non c’era ancora l’ossessione del logo, quell’odioso status symbol da esibire sempre e comunque pena il confinamento nell’anonimato. Si era assai meno edonisti e consumisti. Accanto a chi sfoggiava Lacoste, Levi’s e Adidas c’era tantissima gente che vestiva non firmato senza per questo sentirsi minimamente in difficoltà. Chi ascoltava musica si comprava l’LP (al singolare) dal suo negoziante di fiducia e non acquistava quintalate di CD tramite Internet. Si leggevano i fumetti e si scambiavano tra amici senza trattarli ancora come pezzi pregiati di una collezione tanto ampia quanto dispendiosa. Si aveva cioè il senso della misura. Il denaro aveva per tutti un valore e uno scopo, non si buttava facilmente via. Al contrario, oggi a furia di pubblicità invitanti e offerte di tutti i tipi ti accorgi di spendere un capitale. Lo fanno tutti e quindi te ne fai una ragione, ma c’è sempre qualcuno che ha di più e di meglio e reggere il passo è difficile. Non solo si finisce con l’indebitarsi, ma non si è mai contenti di quel che si ha. Un artista americano quest’anno ha messo in vendita i rifiuti di New York, segno che forse questo capitalismo spendaccione con cui facciamo i conti tutti i giorni non è la soluzione, ma la malattia.
Il problema del tenore di vita moderno si salda inevitabilmente con quello del lavoro. Si lavora troppo o per nulla, con effetti in entrambi i casi per nulla soddisfacenti per l’individuo. Ci hanno indottrinato che la modernizzazione doveva avvenire sotto il segno della flessibilità. Chi accetta di essere flessibile verso il mondo del lavoro si rende partecipe involontario di una forma legalizzata di sfruttamento che vede il datore di lavoro assolutamente padrone della tua necessità, utilizzandoti come meglio ritiene opportuno: a termine, senza contributi, a nero… E la persona perbene accetta qualsiasi lavoretto pur di non rimanere a piedi, perché sa che questa è la realtà che gli è data da vivere. E questa situazione coinvolge non soltanto gente priva di titoli di studio, ma anche laureati, ragazzi che hanno vinto concorsi che non gli sono stati riconosciuti, gente iscritta in una graduatoria e che si è abituata all’idea che non verrà chiamata mai. A queste persone, che hanno passato anni della loro vita attivarsi per guadagnarsi un determinato sbocco occupazionale, viene imposto dal mercato di prestarsi a tipi di impiego frustranti e poco remunerative.
Complice la cattiva immagine che la pubblica amministrazione si è guadagnata negli anni passati, la casta degli economisti, di destra come di sinistra, si scaglia con inusitata durezza verso la richiesta di un impiego statale, il cosiddetto “posto fisso”, quasi che fosse un desiderio da parassiti, di “fannulloni” che danneggiano chi fa impresa, chi rischia di suo, chi in definitiva produce ricchezza. Eccoci ancora a dover rendere conto al denaro, come se l’unico fine della vita umana dovesse essere per forza quello di produrre e commerciare quattrini. Che un individuo desideri volgere la propria attenzione verso ciò che secondo i canoni attuali risulta improduttivo non è considerato degno. Così come è diventata intollerabile l’idea che il lavoro venga considerato un mezzo e non il fine della propria esistenza, una parentesi necessaria per potersi godere qualche ora con la propria famiglia o con gli amici concedendosi qualche svago. Niente da fare, bisogna lavorare sempre, senza sosta, ventiquattrore su ventiquattro, fino in punto di morte, altrimenti per il mercato sei considerato un anello debole. Cosicché ti viene chiesta la mobilità, la propensione a stabilirti altrove, l’imperativo di aggiornare continuamente il tuo “know how” (uno di quegli odiosi inglesismi senza i quali al giorno d’oggi non si può più vivere). Il risultato finale è una vita passata sotto stress e senza progetti a lunga scadenza.
Dal canto loro, gli economisti moderni sono convinti che i giovani che sono in giro essendo stati cresciuti nella “flanella” non si adattano più, non sanno sacrificarsi, lottare, etc. etc. E su tali basi teoriche giustificano per le imprese la necessità di manodopera extracomunitaria che si presta a quei lavori manovali che gli italiani ormai si rifiutano di fare. E’ indubbio che le cose stiano in questi termini, ma come si è arrivati a ciò? Gli economisti tacciono sul fatto che è stato il turbocapitalismo, lasciato libero da vincoli etici, ha promosso attraverso il martellamento pubblicitario su stampa e tv determinati modelli a danno di altri, che allo sguardo comune hanno assunto un’immagine disprezzabile e persino umiliante.
Negli anni cinquanta e sessanta il figlio di un operaio era costretto a fare l’operaio e il figlio di un borghese si laureava e diventava professore. Il sistema di allora era sicuramente meno democratico di quello attuale e probabilmente anche ingiusto, nonostante ciò ognuno era orgoglioso della propria classe sociale e del proprio stile di vita. Questa consuetudine è venuta meno quando, grazie al mercato, le vecchie divisioni sociali sono state abbattute a vantaggio di un ampio ceto medio al quale sono stati promessi indistintamente tutte le possibilità che un tempo contrassegnavano la sola borghesia. Questa è la ragione per cui negli anni ottanta nella nostra società sono spariti i manovali e le classi universitarie si sono riempite di iscritti fino a straripare. Naturalmente il turbocapitalismo non fu in grado di esaudire le promesse che aveva elargito democraticamente, ma la giustificazione in questo caso fu che il successo e la ricchezza erano disponibile per “chiunque” ma non per “tutti”, sottile distinzione lessicale che si guadagna facilmente il plauso degli individualisti liberali venendo meno, allo stesso tempo, a ciò che più sta a cuore allo spirito democratico: ovvero l’uguaglianza di condizioni. Questa è la ragione per cui le ricette del neocapitalismo basato sui consumi hanno preso piede presso quei popoli fortemente individualisti quali l’americano e l’anglosassone, mentre abbiano tuttora difficoltà a penetrare in Germania, la cui tradizione comunitaria e solidarista impone ancora all’attenzione la vecchia economia sociale di mercato.
In un sistema economico bloccato da monopoli quale quello italiano, le aperture al mercato dovute ai governi di centrosinistra si sono rivelate nient’altro che l’ennesimo regalo a chi era nelle migliori condizioni per avvantaggiarsene a scapito di tutti gli altri. Nonostante ciò, l’alone progressista che circonfonde il neocapitalismo è tale che ogni critica rivoltagli è di fatto occultata. La socialdemocrazia ne è stata difatti conquistata, per cui è rimasto solo il mondo cattolico a chiedere incessantemente un maggior rispetto per la dignità di un uomo decaduto al rango di “consumatore”. Purtroppo, però, l’illusione liberale di poter trovare da sé la propria felicità spinge perversamente le masse ad accettare come inevitabile l’imposizione di questo status quo. Cosicché si è finiti ormai per considerare cinicamente la vita come il gioco del lotto: tutti possono farcela, basta solo avere tanta, ma tanta… fortuna!