Patrizia romana del II secolo, uccisa in spregio alla fede allo stesso modo: decapitata. Nella sua «Passione» si legge che era una nobile pagana, moglie del senatore Valentino, convertitasi al cristianesimo per influenza dell’ancella Serapia. Con lei di notte scendeva nelle catacombe, dove i cristiani si riunivano clandestinamente per sfuggire alle persecuzioni imperiali. Quando Serapia venne catturata e bastonata a morte, anche Sabina venne allo scoperto subendo il martirio intorno all’anno 120. Le reliquie delle due martiri, insieme a quelle di Alessandro, Evenzio e Teodulo si trovano nella basilica di Santa Sabina all’Aventino, fondata nel 425 da Pietro d’Illiria, sui resti di un antico «Titulus Sabinae» (forse la santa, oltre che patrona, ne fu fondatrice e protettrice). San Domenico vi fondò il suo ordine nel 1219. Si può ancora vedere la sua cella, trasformata in cappella. Nel chiostro del convento si può ammirare l’arancio che il santo avrebbe piantato alla fondazione dei Predicatori. Anche uno dei più celebri figli dei Domenicani, san Tommaso, ha insegnato in questo convento. Santa Sabina viene raffigurata con libro, palma e corona. Con questi ultimi due attributi compare in una delle sue prime rappresentazioni (VI secolo) nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. (Avvenire)
Nacque a Lima, capitale dell'allora ricco Perù, il 20 aprile 1586, decima di tredici figli. Il suo nome di battesimo era Isabella. Era figlia di una nobile famiglia, di origine spagnola. Il padre si chiamava Gaspare Flores, gentiluomo della Compagnia degli Archibugi, la madre donna Maria de Oliva. Per cui, il nome della Santa era Isabella Flores de Oliva. Ma questo sarà dimenticato in favore del nome che le diede, per la prima volta, la serva affezionata, di origine india, Mariana, che le faceva da balia, la quale, colpita dalla bellezza della bambina, secondo il costume indios, le diede il nome di un fiore. “Sei bella - le disse - sei rosa”.
Fu cresimata per le mani dell'arcivescovo di Lima ed anche lui Santo, Toribio de Mogrovejo, che le confermò, tra l'altro, in onore alle sue straordinarie doti fisiche e morali, quell’appellativo datole dalla serva india. Rosa ad esso aggiunse “di Santa Maria” ad esprimere il tenerissimo amore che sempre la legò alla Vergine Madre del cielo soprattutto sotto il titolo di Regina del Rosario, la quale non mancò di comunicarle il dono dell'infanzia spirituale fino a farle condividere la gioia e l'onore di stringere spesso tra le braccia il Bambino Gesù.
Visse un'infanzia serena ed economicamente agiata. Ben presto, però, la sua famiglia subì un tracollo finanziario. Rosa, che aveva studiato con impegno, aveva una discreta cultura ed aveva appreso l'arte del ricamo. Si rimboccò, quindi, le maniche, aiutando la famiglia in ogni genere di attività, dai lavori casalinghi alla coltivazione dell'orto ed al ricamo, onde potersi guadagnare da vivere.
Sin da piccola aspirò a consacrarsi a Dio nella vita claustrale, ma il Signore le fece conoscere la sua volontà che rimanesse vergine nel mondo. Ebbe modo di leggere qualcosa di S. Caterina da Siena. Subito la elesse a propria madre e sorella, facendola suo modello di vita, apprendendo da lei l'amore per Cristo, per la sua Chiesa e per i fratelli indios. Come la santa senese vestì l'abito del Terz'ordine domenicano. Aveva vent'anni. Allestì nella casa materna una sorta di ricovero per i bisognosi, dove prestava assistenza ai bambini ed agli anziani abbandonati, in special modo a quelli di origine india. Sempre come Caterina, fu resa degna di soffrire la passione del Suo divino Sposo, ma provò pure la sofferenza della “notte oscura”, che durò ben 15 anni. Ebbe anche lo straordinario dono delle nozze mistiche. Fu arricchita dal suo Celeste Sposo altresì di vari carismi come quello di compiere miracoli, della profezia e della bilocazione.
Dal 1609 si richiuse in una cella di appena due metri quadrati, costruita nel giardino della casa materna, dalla quale usciva solo per la funzione religiosa, dove trascorreva gran parte delle sue giornate in ginocchio, a pregare ed in stretta unione con il Signore e delle sue visioni mistiche, che iniziarono a prodursi con impressionante regolarità, tutte le settimane, dal giovedì al sabato.
Nel 1614, obbligata a viva forza dai familiari, si trasferì nell'abitazione della nobile Maria de Ezategui, dove morì, straziata dalle privazioni, tre anni dopo.
Grande, già in vita, fu la sua fama di santità. L'episodio più eclatante della sua esistenza terrena ce la presenta abbracciata al tabernacolo per difenderlo dai calvinisti olandesi guidati all'assalto della città di Lima dalla flotta dello Spitberg. L’inattesa liberazione della città, dovuta all’improvvisa morte dell’ammiraglio olandese, fu attribuita alla sua intercessione.
Condivise la sofferenza degli indios, che si sentivano avviliti, emarginati, vilipesi, maltrattati soltanto a motivo della loro diversità di razza e di condizione sociale.
Sentendosi avvicinare la morte, confidò “Questo è il giorno delle mie nozze eterne”. Era il 24 agosto 1617, festa di S. Bartolomeo. Aveva 31 anni.
Il suo corpo si venera a Lima, nella basilica domenicana del S. Rosario. Fu beatificata nel 1668. Due anni dopo fu insolitamente proclamata patrona principale delle Americhe, delle Filippine e delle Indie occidentali: si trattava di un riconoscimento singolare dal momento che un decreto di Papa Barberini (Urbano VIII) del 1630 stabiliva che non potessero darsi quali protettori di regni e città persone che non fossero state canonizzate. Fu comunque canonizzata il 12 aprile 1671 da papa Clemente X. È anche patrona dei giardinieri e dei fioristi. È invocata in caso di ferite, contro le eruzioni vulcaniche ed in caso di litigi in famiglia.
FRANCESCO PATRUNO
Fonte: www.santiebeati.it (sito sedeplenista)
San Felice, prete, dopo il tormento dell'eculeo fu condannato a morte e mentre era condotto alla decapitatazione sulla via Ostiense incontrò un cristiano, che confessò spontaneamente la sua fede e per questo motivo fu immediatamente decapitato con lui. Il nome di questo martire era sconosciuto e fu chiamato Adautto, perché si unì a san Felice per la corona.
Adautto, santo, martire di Roma, la reliquia della testa è a S. Maria in Cosmedin. Adautto, molto probabilmente, è il martire che fu sepolto con Felice in una cripta nei pressi del cimitero di Commodilla sulla via Ostiense. Papa Siricio (384-399) costruì una piccola basilica sulla loro tomba restaurata ed abbellita in seguito da Giovanni I (523-526) e Leone III (795-816). Leone IV (847-855) donò loro reliquie ad Ermengarda, moglie di Lotario. La chiesa di S. Maria in Cosmedin conserva altre teste di martiri inventi: Angelo fanciullo, Benedetto, Benigno, Candida, Candido, Concordia, Desirio, Desiderio, Giuliano, Ippolito, Placido, Romano e Valentino. Quest'ultima reliquia, posta in un'altare del VI secolo nella cripta, viene esposta ornata di rose. L'Inventario (1870) prosegue con le reliquie del cranio dei martiri: Adriano, Amelia, Antonino, Clemenza, Generoso, Generoso, Ottavio e Patrizio. Infine riporta la menzione della gamba di Olimpia e di quella di S. Giovanni Battista de Rossi.
[ Tratto dall'opera «Reliquie Insigni e "Corpi Santi" a Roma» di Giovanni Sicari ]
Al 1° agosto il martirologio romano riferisce: "Ad Antiochia, la Passione dei Sette ss. fratelli Maccabei, martiri, che soffrirono con la loro madre, sotto il re Antioco Epifane. Le loro reliquie, portate a Roma, furono deposte nella Basilica di S Pietro in Vincoli".
La loro storia è narrata nel II Mach. 7; ai sette fratelli è dato il nome di Maccabei, soltanto dal libro che ne parla. Il II Mach. è un riassunto della storia, redatta in greco da Giasone, un giudeo di Cirene che scriveva poco dopo il 160 a. C., in cui si narra la persecuzione subita dai Giudei fedeli, ad opera di Antioco IV Epifane; in particolare, il martirio di Eleazaro (cap. 6) e quello dei nostri martiri (cap. 7). La narrazione del cap. 7 è ripresa e assai ampliata nell'apocrifo IV Mach.
Ecco i punti salienti di II Mach. 7: "Sette fratelli, arrestati insieme con la madre si volevano costringere a prendere le carni proibite di porco... Uno di essi, fattosi portavoce di tutti, disse: "Che cosa vorresti domandare o sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi paterne".
Il re, fatti arroventare i padelloni e le caldaie, comandò di tagliare la lingua, scorticare il capo e mutilare le estremità a quello che si era fatto loro portavoce, mentre gli altri fratelli e la madre stavano là a guardare. Quando quello fu cosí completamente mutilato, dette ordine di gettarlo sul fuoco, mentre ancora respirava... Condussero quindi il secondo al ludibrio; anch'egli subí a sua volta il supplizio come il primo. Giunto però all'ultimo respiro disse: "Tu, genio furioso, ci strappi dalla nostra presente vita: ma il Re del mondo farà risorgere all'eterna risurrezione di vita noi che siamo morti per le sue leggi".
... Alla loro richiesta, il terzo mise fuori subito la lingua e stese avanti le mani coraggiosamente, dicendo con fierezza: "Queste membra le ho ricevute dal cielo e per le sue leggi non ne faccio conto alcuno, ma spero di riaverle nuovamente da lui".
... Morto anche questo, martoriarono il quarto con le stesse torture. Sul punto di morire, disse: "it preferibile morire per mano degli uomini e avere da Dio la speranza di essere un giorno da lu; risuscitati. Per te certamente non ci sarà risurrezione alla vita".
... Il quinto condotto alla tortura, fissando il re, disse: "Tu hai un'autorità tra gli uomini e, pur essendo mortale, fai quello che vuoi; ma non credere che la nostra razza sia stata abbandonata da Dio. Quanto a te, abbi pazienza e vedrai come la sua grandiosa potenza tormenterà te e i tuoi discendenti". Similmente per il sesto... Rimanendo il piú giovane. il re Antioco non solo lo scongiurava con le parole, ma lo assicurava anche con giuramenti di farlo insieme ricco e invidiabile, di averlo come amico e di affidargli uffici governativi, aualora avesse abbandonato le patrie leggi. Siccome il giovane non gli prestava minimamente attenzione, il re chiamò la madre, esortandola a farsi consigliera di salvezza per il giovanetto.
Dopo tanti ammonimenti, ella accettò di persuadere suo figlio. Chinatasi su di lui, per scherno del crudele tiranno, cosí disse nella lingua paterna: "Figlio, abbi pietà di me che ti ho portato in seno... che ti ho educato... Ti prego, o figlio, di osservare il cielo e la terra e di mirare tutte le cose in essi contenute e di dedurne che Dio non le ha fatte da cose preesistenti, e che il genere umano ha la stessa origine. Non temere questo carnefice, ma accetta la morte, mostrandoti degno dei fratelli, affinché io ti possa riavere insieme con i tuoi fratelli al momento della misericordia".
Stava ella ancora parlando, che il giovane disse: "Che aspettate? Non obbedisco all'ordine del re, ma obbedisco al precetto della legge data ai nostri padri per mezzo di Mosè. Tu, però, che ti sei fatto inventore d'ogni male contro gli Ebrei, non sfuggirai certamente alle mani di Dio. Noi infatti soffriamo a causa dei nostri peccati. Se per nostro castigo e correzione il nostro Dio vivente si è adirato per breve tempo, di nuovo egli si riconcilierà con i suoi servi. Tu, invece, o empio, non ti esaltare invano—perché non sei ancora sfuggito al giudizio di Dio che tutto può ed osserva. Or dunque, dopo aver sopportato un breve tormento, i nostri fratelli sono giunti alla divina alleanza della vita eterna; tu invece riporterai dal giudizio di Dio le giuste pene della tua superbia. Quanto a me, dò anch'io, come i miei fratelli, corpo e anima per le leggi avite, e prego Iddio che si mostri presto mise ricordioso verso il suo popolo, che tu finisca co] confessare, tra prove e flagelli, che solo lui è Dio; e che l'ira dell'Onnipotente, abbattutasi giustamente su tutta la nostra stirpe si arresti su di me e i miei fratelli".
Allora il re, furioso, usò con lui un trattamento piú feroce che con gli altri, non potendo sopportare lo scherno. Cosí anch'egli passò da questa vita senza affatto macchiarsi, pieno di fiducia nel Signore. UItima, dopo i figli, morí la madre".
La Bibbia non ci dà i loro nomi, né indica dove si svolse il martirio, fatto loro subire dal re Antioco IV Epifane; né precisa la data (forse 168; a Ge rusalemme? ).
Generalmente si ammette che essi furono martirizzati ad Antiochia, tale è, comunque, la tradizione comune delle Chiese d'Oriente e d'Occidente.
I primi cristiani ammirarono questi valorosi martiri del giudaismo, precursori dei martiri del Cristo. Il loro culto si diffuse rapidamente e la loro festa sembra sia stata universale nella Chiesa verso il sec. V. La storia del culto dei santi martiri è cosí riassunta dalle Vies des Saints (citt. in bibl. ). Già appaiono nel Martirologio Siriaco (412), nei Calendari di Polemius Silvius (448) e di Cartagine (secc. V-VI), e nell'insieme dei mss. del Martirologio Geronimiano. Su questi martiri possediamo testi di s. Gregorio Nazianzeno (PG, XXXV), s. Giovanni Crisostomo, s. Agostino , s. Ambrogio, s. Gaudenzio di Brescia, pseudoLeone.
Secondo s. Girolamo (m. 420), le reliquie dei sette fratelli erano a Modin ed egli si meravigliava che fossero venerate ad Antiochia. L'Itinerarium detto di Antonino (ca. 570) nomina Antiochia in cui riposano con altri santi e s. Giustina "i fratelli Maccabei, in tutto nove tombe, sormontate ciascuna dagli strumenti del loro supplizio".
Il Martirologio Siriaco nomina i Maccabei "figli di Samunas" ad Antiochia, nel quartiere giudaico, al 1° agosto. I sinassari bizantini offrono sette nomi e la madre è Solomonis. Le liste siriache e armena sono differenti. Il Calendario marmoreo napoletano (sec. IX) congiunge i Maccabei a una santa EELI.
Con ogni probabilità il martirio avvenne ad Antiochia dove le tombe furono venerate fino al sec. VI. Dopo il 551 le reliquie furono portate a Costantinopoli e da 11, almeno in parte, a Roma, sotto Pelagio I (556-561)E' possibile però si tratti di Pelagio II (579-590) e che le reliquie siano venute direttamente da Antiochia. Esse comunque si venerano a Roma, in S. Pietro in Vincoli, chiesa la cui festa titolare cade in questo stesso giorno, 1° agosto.
Nel 1876 fu ivi trovato un sarcofago a sette compartimenti, contenenti ossa e ceneri con due togli di piombo recanti iscrizioni relative ai sette fratelli, del IX sec. (o sec. XV?).
La festa dei sette fratelli Maccabei non è menzionata nei libri liturgici, sia gallicani, sia romani, eccettuato il Sacramentario gelasiano; il loro culto sarà stato forse eclissato dalla festa di s. Pietro in vinculis.
Autore: Francesco Spadafora
LucaOriginariamente Scritto da guelfo nero