Se la pensate così proponete di abrogare l'articolo 18 anche per le aziende sopra i 15 dipendenti.Originally posted by Red River
io continuo a pensare a quella frase di Damiano, che un rapporto logoro tra datore e lavoratore non si risolve con una sentenza del giudice....
P.G.
Lo svuotamento dell'art. 18 con l'approvazione delle leggi delega rende la vittoria del sì la risposta giuridica più efficaceche mi dici sull'iniziativa popolare di legge proposta dalla CGIL
Nessuna divergenza tra la proposta di legge della Cgil e il referendum
di Giovanni Naccari* e Piergiovanni Alleva**
L'approvazione della legge n. 30 del 2003 di delega al governo in materia di occupazione e mercato del lavoro obbliga, a nostro avviso, ad una nuova riflessione sul complesso della situazione di grave pericolo che incombe sull'assetto delle principali tutele e garanzie del lavoro; pericolo che ovviamente sarebbe ancora più accentuato dalla possibile, e dal Governo promessa, approvazione di una seconda legge delega (il c. d. disegno di legge 848 bis) nel quale l'attacco all'art. 18 dello Statuto sarebbe anche apertamente rinnovato.
E' probabile, invero, che il Governo prosegua fino in fondo il suo piano di "riforma" del mercato e dei rapporti di lavoro a suo tempo enunziato con il Libro bianco. Ma anche a prescindere dalla entrata in vigore di una norma che escluda l'applicazione dell'art. 18 per il lavoratori assunti da imprese di nuova costituzione ovvero da imprese già esistenti che attualmente contino meno di 16 dipendenti, già la sola legge delega n. 30/2003 sarebbe sufficiente a vanificare in larga parte, la vittoriosa battaglia difensiva condotta dalla Cgil nella primavera del 2002 a salvaguardia dell'art. 18 e dunque indirettamente di tutte le altre norme di tutela e garanzia.
Infatti con la traduzione in decreti delegati dei disposti della legge 30 si avrebbe uno svuotamento e un aggiramento di quella tutela per una grossa parte dei lavoratori che oggi ne godono e di quelli che ne potrebbero diventare destinatari.
Basta a proposito riflettere sul disposto dell'art. 1 della legge n. 30/2003 con riguardo al "superamento/abrogazione" della legge 1369/60 e alla riforma dell'art. 2112c. c. in tema apparentemente di trasferimento di azienda, ma in realtà di liberalizzazione delle c. d. esternalizzazioni.
Se si riflette con un po' di attenzione sui nessi esistenti tra questi due nuclei normativi, si comprende facilmente che essi convergono sull'unico obiettivo di consentire all'imprenditore di utilizzare forza lavoro evitando le responsabilità connesse a tale utilizzo e di collocarsi in una posizione di concreto strapotere contrattuale nei confronti dei lavoratori.
Invero, l'imprenditore anche di media/grande dimensione potrebbe, da un lato, utilizzare a tempo indeterminato lavoratori da lui non dipendenti perché dipendenti dalla società di intermediazione ed anche, parallelamente, lavoratori dipendenti da piccole società "operative" da lui stesso create, controllate e partecipate, alle quali abbia preventivamente decentrato funzioni e strutture aziendali contemporaneamente istaurando con le medesime rapporti di appalto e di fornitura.
In tal modo, il vero datore di lavoro sarebbe per così dire sempre "fuori tiro" per il lavoratore e per il sindacato, giacché l'interlocutore o l'antagonista diretto, titolare del rapporto di lavoro sarebbe comunque un soggetto fittizio o interposto: è ovvio che il lavoratore si troverebbe di fronte, nella maggior parte dei casi, un datore di lavoro formale che occuperebbe meno di 16 dipendenti e che dunque potrebbe con la minaccia di licenziamento ingiustificato ricattarlo in mille modi e maniere. Chi ha un po' di pratica dei comportamenti concreti dei datori di lavoro non può non notare come già oggi, quasi per un effetto di annunzio, stia dilagando la prassi di suddividere le imprese in almeno due nuclei: quello strettamente produttivo composto da operai e tecnici di produzione e la c. d. "società di servizio" nella quale vengono concentrati gli impiegati amministrativi e commerciali al fine, e con il risultato, di far scendere ambedue le imprese al di sotto dei 16 dipendenti.
Ovviamente, se la scissione in due non fosse sufficiente si può procedere ad ulteriori frazionamenti sempre diretti al medesimo risultato. Ancor oggi, tuttavia, si tratta per i datori di lavoro di operazioni "a rischio" sia perché contrastabili sulla base della legge 1369/1960, in quanto per lo più le imprese così filiate e successivamente appaltatrici della funzione aziendale esternalizzata non hanno sufficiente consistenza di beni e strumentazioni aziendali e non sopportano un effettivo rischio di mercato, sia perché - sotto il profilo dell'attuale art. 2112 c. c. - l'autonomia della "parte" di azienda che viene ceduta alla società di nuova costituzione non è preesistente all'operazione di scorporo.
Ma con le due riforme della legge 1369/60 e dell'art. 2112, contenute nella legge 30/2003 e tra loro combinate questi pericoli non esisteranno più, e la via all'esternalizzazione in frode all'art. 18 e conseguentemente agli altri diritti sarà aperta e liberamente e sicuramente percorribile da tutti.
Il vero è dunque che l'attacco all'art. 18 è più che mai in atto e, proprio perché viene perseguito con una tattica di aggiramento, è forse anche più dannoso in quanto passa per l'abbattimento di diverse e ulteriori normative di tutela.
Non si può in proposito non notare come nei fatti si sia verificata una sorta di paradossale reciproco sostegno tra gruppi e forze politiche di estrema sinistra e governo di centro destra. Dopo le grandi manifestazioni della primavera del 2002 in difesa dell'art. 18, il Governo aveva registrato la sua sconfitta e sembrava propenso ad allentare la stretta.
La proposizione del quesito referendario, sicuramente non consequenziale dal punto di vista logico politico alla vittoria sindacale, ha dato al centro-destra nuovi argomenti per portare avanti i suoi disegni giustificandoli nella sostanza come un necessario antidoto all'estremismo di chi vorrebbe "ingessare" tutti i rapporti di lavoro. A loro volta, peraltro, le proposte governative hanno in sé quella carica eversiva su cui ci si è sopra soffermati che, a nostro parere, rende necessario riconsiderare la valenza che adesso assume la proposta referendaria.
Potremmo dire in una parola che l'iniziativa governativa costituisce una giustificazione a posteriori di una proposta referendaria la quale all'origine poteva essere considerata eccessiva e da alcuni addirittura provocatoria, ma che ora può diventare in concreto l'unico mezzo a disposizione per respingere in modo tempestivo ed efficace l'attacco governativo.
Quel che si vuol dire è che un contrasto giuridico/politico alla legge 30 imperniato su referendum abrogativi della medesima legge, preannunciati dalla Cgil, difficilmente potrebbe essere efficace sia per ragioni di tempo sia per ragioni squisitamente tecniche.
Ricordiamo infatti che un referendum contro una legge delega non è mai stato esperito e dunque sulla sua ammissibilità restano molte incertezze, ancorché, a nostro parere, l'ammissibilità sussista dal momento che la legge delega, anche se non incide direttamente sugli istituti (trasferimento d'azienda, somministrazione di mano d'opera, ecc.) una innovazione nel mondo giuridico pur sempre la porta, ed essa è costituita proprio dal conferimento al Governo di un potere normativo nella materie oggetto della delega.
In sintesi: anche se il referendum sulla legge delega fosse giuridicamente ammissibile, resterebbe il fatto che esso non si potrebbe tecnicamente svolgere prima del maggio/giugno 2004 quando già sarebbero stati emanati i decreti legislativi e ciò aprirebbe un nuovo complicatissimo problema giuridico circa il se e il come del trasferimento del quesito sui singoli decreti. Si tratta dunque di un percorso molto impervio.
Nel frattempo, ove la Cgil non avesse messo in campo tutto il suo peso, la probabile sconfitta del referendum sull'art. 18 si trasformerebbe in vittoria politica e di immagine proprio del progetto governativo di "flessibilizzazione" del mercato del lavoro.
Viceversa il successo del referendum sull'art. 18 renderebbe la legge 30 poco più che carta straccia, nel senso che sarebbe frustrato alla base lo scopo pratico che con essa si propongono il Governo e le controparti datoriali.
Infatti una volta che il referendum avesse avuto successo, a che scopo, procedere a costose e burocraticamente pesanti esternalizzazioni se poi esse non indeboliscono per nulla il potere contrattuale dei lavoratori che le subiscono?
A che scopo valersi di personale formalmente dipendente da un intermediario, ma che ha tutte le possibilità di reagire contro ogni forma di sfruttamento sia da parte dell'intermediante che dell'intermediario?
A che scopo ancora utilizzare nuove forme di contratti precari, quali quello a chiamata, che precario più non sarebbero ed avrebbero invece in sé una forte carica di potenziale vertenzialità?
Riassumendo potremmo dire che, dal punto di vista politico/giuridico, gli esiti ed i risultati che si vorrebbero raggiungere con un referendum contro la legge 30/2003 sono già tutti impliciti nell'eventuale successo del referendum che è già in campo, quello sull'estensione dell'art. 18, il quale, per una serie di coincidenze diventa paradossalmente una "felix culpa" o una forma di eterogenesi dei fini.
Va da sé che un eventuale successo del referendum sull'art. 18 renderebbe in seguito impraticabile o altamente insicuro anche il progetto di manomissione contenuto nel disegno di legge 848 bis, il quale è tutto imperniato sull'esistenza di un limite occupazionale di applicabilità della tutela reale del posto di lavoro, limite a quel punto già rimosso per volontà dell'elettorato.
Invero, quel disegno di legge governativo, nel prevedere che non siano soggette alla tutela reale dell'art. 18 le imprese di nuova costituzione, o che oltrepassino con nuove assunzioni la soglia di 15 dipendenti, reintrodurrebbe, a fil di logica e in primo luogo, proprio tale soglia, così contraddicendo la volontà del corpo elettorale manifestatasi con il successo del referendum. Secondo una parte autorevole della dottrina (Barile), in caso di conclamata ed evidente divergenza tra il risultato del voto e una eventuale normativa parlamentare, il Presidente della Repubblica potrebbe giungere fino allo scioglimento delle Camere per evidente divergenza dalla volontà popolare.
Non può sfuggire in proposito che l'art.37 della legge regolativa del referendum prevede la possibilità che la pubblicazione dei risultati del referendum sia postergata per 60 giorni con decreto del Presidente della Repubblica onde dar tempo al Parlamento di adeguare l'ordinamento con nuove leggi sulla materia oggetto del referendum, ma è opinione unanime che tali leggi debbano comunque rispettare la volontà espressa dal corpo elettorale.
E' agevole allora concludere che al Parlamento resterebbe inibita la possibilità di legiferare in senso "restauratorio" delle norme abrogate tramite referendum per un tempo congruo che alcune opinioni (Caianiello, Mangia) hanno ritenuto possa coincidere, per analogia, con il quinquennio di divieto di riproposizione di un quesito referendario bocciato dal corpo elettorale.
Pur converso, però, ben potrebbe il Parlamento utilizzare quello spazio temporale di cui all'art. 37 per recepire il risultato referendario in nuovi disposti legislativi come di quelli proposti dalla Cgil che in conformità con il principio di fondo affermato dal risultato referendario lo inseriscano in un quadro complessivo che, da una parte, lo completi e, dall'altra, elimini gli inconvenienti discendenti dalla eccessiva semplificazione del problema sempre insita in una prova referendaria.
2)
Quanto sopra evidenziato non significa assolutamente che la Cgil debba puramente e semplicemente appiattirsi sulle posizioni dei referendari, né nutrire il timore che questa possa essere la comune vulgata di una sua presa di posizione in favore del "si", perché, al contrario, i quattro progetti di legge di iniziativa popolare promossi dalla Cgil costituiscono l'unica risposta non solo difensiva ma propositiva, alternativa ed organica ai piani del governo di centro destra.
Quei progetti inglobano l'estensione anche ai dipendenti delle piccole imprese dell'art. 18, ma all'interno di un quadro normativo il quale, oltre a costituire l'altro modello di regolazione del mercato del lavoro, fondata sulla titolarità dei diritti anziché sulla loro abolizione, dà anche una risposta positiva ai non pochi problemi che il solo quesito referendario lascia aperti o addirittura crea ed aggrava, quale "danno collaterale" della sua pur giusta battaglia difensiva.
Ci riferiamo, ad es., al fatto che l'eventuale successo della proposta referendaria non eliminerebbe certamente il ricorso (al fine di eludere l'insieme delle tutele lavoristiche) ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa, ma anzi fatalmente la incentiverebbe proprio con riguardo alla piccole imprese.
Lo stesso dicasi per il ricorso ai contratti a termine o addirittura ai contratti di associazioni in partecipazione.
Una volta, in altri termini, che il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fosse davvero assistito sempre e dovunque da stabilità reale, esso potrebbe essere giudicato "impraticabile"dai piccoli operatori economici, ai quali il loro consulenti e lo stesso senso comune indicherebbero le "soluzioni alternative"alle loro necessità di forza lavoro: collaborazioni coordinate, contratti a termine, associazione in partecipazione ecc.
La proposta della Cgil previene questo pericolo perché uno dei disegni di legge avanzati in parallelo con quello riguardante l'estensione del art. 18 contempla appunto "l'estensione in orizzontale" delle tutele, ricomprendendo le collaborazioni in una fattispecie allargata di contratto di lavoro munito delle tutele del codice civile e della restante legislazione del lavoro; rivede in senso fortemente garantistico e antielusivo la disciplina del contratto a termine e vieta l'uso improprio e deformato del contratto di associazione in partecipazione.
Per altro verso, nei disegni della Cgil la materia dell'estensione ai dipendenti delle piccole imprese dell'art. 18 è trattata facendosi carico di tutte le difficoltà applicative e degli attriti sociali che da quella pur giusta estensione possono derivare. Ci si riferisce ad es. alla esigenza di rendere compatibile la generalizzazione della stabilità del posto di lavoro con l'innegabile maggiore esposizione della piccola impresa alle oscillazioni del mercato: esigenza che il progetto Cgil soddisfa prevedendo che prioritario sia l'obbligo del datore di lavoro di far ricorso preventivo, rispetto al licenziamento, al sistema degli ammortizzatori sociali che un altro ancora dei disegni di legge della Cgil estende alle piccole imprese e all'intero mondo produttivo.
In terzo luogo, la proposta della Cgil specificamente dedicata all'estensione dell'art. 18 si fa carico fino in fondo dell'efficacia concreta della tutela di stabilità reale che viene generalizzata. Efficacia concreta che si misura e realizza alla luce dell'esperienza, prevedendo quali siano e possano essere le reazioni di ambedue le parti in conflitto, datori di lavoro e lavoratori, di fronte all'applicazione dell'art.18 alle piccole imprese.
Sarebbe atteggiamento miope ed astratto voler ignorare che nella piccola dimensione produttiva il licenziamento ingiustificato ed il travaglio del processo del suo annullamento inducono nelle parti un trauma e un rancore profondo tanto che, non di rado, è lo stesso lavoratore ad essere ricalcitrante rispetto alla effettiva reintegra nel rapporto di lavoro. Per altro verso, la sola reintegra giuridica, ossia la continuità sulla carta del rapporto con decorrenza della retribuzione è essa stessa, soprattutto nelle piccole dimensioni d'impresa, tutt'altro che scevra di problemi pratici: si tratta di ottenere in via esecutiva/giudiziaria ogni singola mensilità di retribuzione, ove il datore non adempia spontaneamente al pagamento.
Si tratta in breve di una situazione fortemente deprimente per il lavoratore che vive in una sorta di limbo, minacciato anche dal possibile esito negativo della vertenza in grado di Appello o di Cassazione. C'è il rischio dunque che nella piccola dimensione produttiva, alla quale sarebbe estesa la disciplina dell'art. 18, quella facoltà alternativa consentita al lavoratore dalla legge 108/90 di scegliere indennizzo aggiuntivo di 15 mensilità al posto della reintegra non sia, come nelle imprese di maggiori dimensioni, una vera libera facoltà alternativa, ma una sorta di scelta di ripiego quasi obbligata.
Il che significa, visto dall'altra parte, che anche il valore prevenzionistico di licenziamenti arbitrari connesso all'estensione dell'art. 18 potrebbe in realtà risultare meno intenso di quanto si spera. Questi limiti di concreta efficacia del quesito referendario discendono come è chiaro dalla sua secchezza, o se si vuole dalla sua impossibilità di distinguere situazioni e di integrare il disposto normativo in un sistema armonico.
Il limite, sul lato dei licenziamenti per motivo produttivo, è quello di non poter considerare la maggiore volatilità economica della piccola impresa, mentre sul versante dei licenziamenti disciplinari è quello di creare un forte allarme negli strati moderati dell'opinione pubblica (il rapporto di lavoro più cogente del rapporto matrimoniale, ecc.) senza assicurare in tutti i casi una tutela adeguata nella vita concreta, oltre che nella norma giuridica.
La proposta della Cgil, però, pone rimedio ai difetti del referendum non solo, come già detto sul versante dei licenziamenti per ragioni economico- produttive, ma anche sul versante dei licenziamenti disciplinari perché introduce la previsione che dopo la reintegra giuridica il datore possa, rinunziando ad appellare la sentenza, chiedere al giudice di risolvere il rapporto ricostituito, pagando al lavoratore tutta l'utilità futura che per lui avrebbe il rapporto medesimo. Introduce così, a ben vedere e al di là di giudizi superficiali, un nuovo ed efficace elemento di contrappeso nell'equilibrio tra le parti ricostituendo in parallelo l'effetto prevenzionistico della estensione dell'art. 18.
Potremmo dire, in breve, che quella previsione costituisce per il lavoratore un'ottima ragione per "tener duro" nella scomoda posizione che temporalmente segue la sentenza di reintegra giuridica: non avrà infatti interesse ad abbandonare il rapporto con la richiesta delle 15 mensilità perché ben maggiore ed adeguato è il risarcimento che il datore di lavoro dovrà corrispondergli se vorrà liberarsi definitivamente del rapporto. Il che, come si comprende, visto dall'altra parte, produce un effetto prevenzionistico estremamente intenso rispetto alla emanazione di licenziamenti azzardati ed un forte incentivo al datore di lavoro, ove comunque abbia proceduto al licenziamento, poi annullato, a riammettere effettivamente in servizio il lavoratore.
Questo ovviamente si dice avendo di mira i casi più delicati, quelli che soprattutto devono stare a cuore al sindacato, che sono i casi dei lavoratori a rischio di esclusione sociale (lavoratori di una certa età, poco professionalizzati, donne, residenti in zone sottosviluppate).
È proprio questo un altro profilo fortemente innovativo della proposta Cgil che contiene una perequazione tra gli stessi lavoratori, automaticamente selezionando la tutela concreta secondo il bisogno.
In sintesi, non si tratta affatto di reintrodurre dalla finestra la monetizzazione del licenziamento cacciato dalla porta, ma di dare al lavoratore debole e ingiustamente licenziato una valida prospettiva di resistenza dopo la sentenza di reintegra giuridica e al piccolo datore di lavoro ottime ragioni per non emanare o per revocare licenziamenti ingiusti.
3)
Discende dalla analisi sviluppata nei punti precedenti che il referendum di estensione dell'art. 18 è l'unica arma di risposta politica efficace nell'immediato disponibile di fronte al rinnovato attacco governativo. Proprio questo attacco in effetti ha alterato il rapporto costi/benefici che in precedenza induceva molti a dare un giudizio negativo sull'iniziativa referendaria.
D'altra parte, nessuna remora deve esistere rispetto ai progetti della Cgil perché il sì al referendum non segnerebbe affatto una rinunzia o un ripiego. Questi progetti infatti includono l'estensione dell'art. 18 a tutti i lavoratori disegnando intorno ad essa un sistema armonico di promozione di diritti civili e sociali che, all'indomani di un esito positivo della prova referendaria, dovrebbero comunque e con maggior forza essere portati avanti, eventualmente avvalendosi della possibilità prevista dall'art.37 della legge regolatrice dei referendum (legge 25 maggio 1970 n.352).
Tra la valenza difensiva e quella costruttiva dell'estensione dell'art. 18 non esiste nessuna contraddizione. Dunque la proposta Cgil dovrà essere accompagnata da una campagna di raccolta delle firme sull'articolato chiarendo fino in fondo questo rapporto di ricomprensione e non di alternatività rispetto al referendum.
Nel contempo la Cgil dovrebbe anche mobilitare tutte le sue forze per contribuire al superamento del quorum del referendum e ad una decisiva vittoria del sì, esponendo in tal modo il Governo ad una aperta e plateale smentita dei suoi progetti poi difficilmente recuperabile.
Per altro vero, sempre a nostro avviso, occorrerebbe far presente alle forze politiche di sinistra che, ove facessero mancare il sostegno a progetti ampiamente condivisi dal mondo del lavoro, perderebbero l'occasione di ricompattarsi superando divisioni che ne minano la credibilità.
*responsabile dell'ufficio giuridico della Cgil nazionale e **docente universitario e consulente del primo
www.liberazione.it
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