I cattolici e la sfida della Globalizzazione, riflessione di Padre Gheddo



Tre avvenimenti hanno rivoluzionato il rapporto fra Nord e Sud del mondo: il G8 di Genova e i no-global (20-22 luglio), il crollo delle due Torri a New York (11 settembre), la guerra in Afghanistan contro il terrorismo internazionale, che dura tuttora. Noi cristiani siamo rimasti spettatori impotenti di fronte a questi fatti che cambiano radicalmente la scena mondiale. In Italia il mondo missionario, fra stampa e iniziative di animazione, ha una presenza molto diffusa e visibile sul territorio nazionale. Ma in pratica contiamo poco: a Genova, la maggioranza dei manifestanti no-global erano di estrazione cattolica e anche missionaria, ma i contenuti che quel movimento ha trasmesso erano tutt'altro che cristiani; tant'è vero che movimenti e associazioni cattolici, dopo un primo momento di esaltazione, ne hanno preso le distanze. Perché? Secondo il mio parere, perché non abbiamo unità né nell'analisi dei mali né nelle soluzioni da proporre: rischiamo di andare dietro alle mode correnti, come al tempo della guerra in Vietnam e dell'infatuazione per i regimi "rivoluzionari" e "popolari", che la storia ha poi giudicato i peggiori oppressori dei popoli che volevamo "liberare". E' nelle librerie il volume che ho scritto a due mani col giornalista di "Avvenire" Roberto Beretta: "Davide e Golia - I cattolici nella sfida della globalizzazione" (San Paolo, pagg. 234, L. 26.000). Tre i temi discussi e documentati:
1) La globalizzazione, dice Giovanni Paolo II, non è né buona né cattiva: è uno strumento che si può usare bene o male, quindi è sbagliato demonizzarla e combatterla.
Bisogna adoperarsi per rendere più giusto il "mercato mondiale" e fare in modo che anche i popoli più poveri salgano sul "treno dello sviluppo" e non rimangano tagliati fuori. Non basta protestare contro le ingiustizie, bisogna fare proposte in positivo e creare fatti concreti di una società alternativa più umana per tutti. "Conviene chiarire che l'annunzio è sempre più importante della denunzia" ("Sollicitudo rei socialis", 41).
2) Le condizioni indispensabili per lo sviluppo economico dei popoli poveri sono quelle che hanno causato il progresso nei paesi ricchi e stanno elevando anche molti di quelli che trent'anni fa erano "terzo mondo" povero: democrazia e stabilità politica, libertà economica, educazione e sanità a livello popolare, rispetto dei diritti dell'uomo e della donna, giustizia sociale, superamento di razzismi e tribalismi. Bisogna chiamare in causa soprattutto le classi dirigenti dei paesi poveri, che privilegiano le città alle campagne, i militari ai civili, le élite al popolo più misero, gli interessi di classi o categorie al bene pubblico. Gli aiuti dei paesi ricchi verso quelli poveri dovrebbero essere anzitutto quelli educativi e culturali, ben prima che economico-tecnici. "Lo sviluppo di un popolo non dipende primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi. E' l'uomo il protagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica" ("Redemptoris Missio", 58). Viviamo in una civiltà materialista (capitalista o socialista poco importa) che parla solo e sempre di soldi, di macchine, di commerci: anche a Genova, i G8 e i no-global dissentivano solo su problemi finanziari, meno importanti nello sviluppo di un popolo povero dell'educazione e della maturazione delle culture al mondo moderno. Si pensi alla situazione dei paesi islamici, molti dei quali economicamente ricchissimi, ma per nulla sviluppati!
3) Mi chiedo perché, quando si parla di sviluppo e sottosviluppo, il tema dell'evangelizzazione non viene mai fuori. Eppure è lo scopo della missione in cui tutti crediamo e siamo impegnati! Il Papa insiste in vari modi su questo concetto: "La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire al sottosviluppo in quanto tale... (ma) dà il primo contributo alla soluzione dell'urgente problema dello sviluppo, quando proclama la verità su Cristo, su se stessa e sull'uomo, applicandola ad una situazione concreta" ("Solliciduto rei socialis", 41). Cosa vanno a fare i missionari nel mondo non cristiano? Gli agitatori sociali? Le guide politiche? I tecnici dello sviluppo? In nessun modo!
Portano il Vangelo di Gesù e la testimonianza della carità, che è il segno distintivo del cristianesimo: questo converte i cuori e le culture e causa anche sviluppo sociale ed economico! Il Papa afferma: "Oggi i missionari, più che in passato sono riconosciuti anche come promotori di sviluppo da governi ed esperti internazionali, i quali restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi"; e aggiunge subito: "Col messaggio evangelico la Chiesa offre una forza liberante e fautrice di sviluppo proprio perché porta alla conversione del cuore e della mentalità, fa riconoscere la dignità di ciascuna persona, dispone alla solidarietà, all'impegno, al servizio dei fratelli..." ("Redemptoris Missio", 58, 59). Se non diamo questa immagine del missionario (cioè se perdiamo la nostra identità), non lamentiamoci più che non abbiamo vocazioni. Sogno il giorno in cui stampa e animazione missionaria saranno d'accordo su questi concetti così semplici e fondamentali e faranno campagne nazionali su questi contenuti.

(di padre Piero Gheddo)