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  1. #231
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Prefazione a «Coscienza laica e coscienza cattolica. Le due Rome fra ‘800 e ‘900» (1987)

    di Giovanni Spadolini

    https://www.facebook.com/notes/giova...1559442368800/
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #232
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Prefazione a «L’opposizione laica nell’Italia moderna. 1861-1922» (1988)

    di Giovanni Spadolini


    https://www.facebook.com/notes/giova...1573856969156/
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  3. #233
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Prefazione a «La Firenze di Pasquale Villari» (1989)

    di Giovanni Spadolini


    https://www.facebook.com/notes/giova...1585778347183/
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  4. #234
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Prefazione a «Giolitti e i cattolici. 1901-1914» (1990)

    di Giovanni Spadolini


    https://www.facebook.com/notes/giova...1589583162301/
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  5. #235
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Prefazione a «L’opposizione cattolica da Porta Pia al ‘98» (1991)

    di Giovanni Spadolini


    https://www.facebook.com/notes/giova...1604687259894/
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  6. #236
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Prefazione a «Senato vecchio e nuovo. Dal Risorgimento alla Repubblica» (1993)

    di Giovanni Spadolini

    https://www.facebook.com/notes/giova...1685116630578/
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  7. #237
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Moro, La Malfa e la democrazia bloccata (1985)

    di Giovanni Spadolini - «La Voce Repubblicana», 18-19 gennaio 1985

    Questo premio «Aldo Moro», dedicato alla memoria di Ugo La Malfa, intreccia nuovamente due nomi che la storia ha più volte unito, e qualche volta anche dissociato, nel corso dell’esperienza repubblicana che va dal 1959 al 1978. Associati nella costruzione del centrosinistra; partecipi dello stesso sforzo, delle stesse difficoltà ed in un caso fino al rischio della sparizione del proprio partito, per la vittoria dell’allargamento dell’area democratica ai socialisti; divisi nell’interpretazione e nella gestione del centro sinistra, e nella previsione dell’insufficienza della formula, che fu più rapida in La Malfa che in Moro.
    Riuniti poi, con l’avanzare degli anni ’70, dalle stesse riflessioni, dalle stesse malinconie, dalle stesse amarezze, dalla stessa valutazione delle forze politiche e sociali in campo, da un fondo di pessimismo che in un caso portava a certe conclusioni, nel caso di La Malfa ad altre. Ma che accompagnò quella stagione, anche gloriosa, dell’emergenza, che oggi si tende a confondere sotto etichette diverse, o a limitare ai soli mesi della vera e propria unità nazionale (su cui pure il giudizio storico è del tutto aperto, ed esclude le condanne sbrigative e sommarie, che hanno tanto facile corso oggi).
    Due nomi che io unii, nel ricordo e nel rimpianto, allorché, pochi mesi dopo la scomparsa di Ugo La Malfa, mio predecessore nella guida del partito repubblicano, congiunsi quelle due memorie, quelle due immagini, quelle due storie, così diverse, così peculiari l’una rispetto all’altra, così inconfondibili nel retroterra e nel paesaggio politico italiano, in un libro che adesso è esaurito, ma che proprio la coincidenza di questo Premio Aldo Modo, dedicato ad altre grandi memorie politiche – da quella di Enrico Berlinguer a quella di Pietro Nenni e, per la tradizione morotea, a un amico carissimo e indimenticabile come Tommaso Morlino -, ha risvegliato in me: talché ho deciso di farne una nuova edizione, proprio per il sesto anniversario della morte di Ugo La Malfa, che batte alle porte, il 26 marzo 1985.
    Da Moro a La Malfa. Marzo 1978-marzo 1979. Diario della crisi italiana: così di intitolava quel libro che tendeva a vedere nel presidente democratico assassinato dalle Brigate Rosse e nel vicepresidente del governo Andreotti, logorato dalla sua instancabile passione politica, due vittime, in forme diverse, della tragedia italiana. Due uomini che avevano condiviso le stesse speranze, che si erano bruciati senza risparmio di forze per lo stesso ideale, che erano stati contrastati dagli stessi gruppi occulti o palesi di potere, nella lotta per la «terza fase» della vita politica italiana, quella che vedesse una democrazia compiuta in un disegno riformatore e occidentale, che per l’uno e per l’altro non era né abdicabile né rinunciabile.

    Una stagione decisiva per il paese

    Aldo Moro, Ugo La Malfa; ecco due nomi che l’immaginazione popolare aveva finito per unire, sulla scia di quel governo bicolore che era stato fra i meno impopolari dello scorso decennio, che aveva acceso speranze o suscitato consensi al di fuori del rigido schieramento parlamentare di centro-sinistra da cui era stato espresso, quasi consumazione di una formula storica.
    Così diversi l’uno dall’altro. Il presidente democristiano controllato e impassibile, spesso impenetrabile nei suoi silenzi, nelle pieghe del suo sorriso amaro; il vice-presidente repubblicano dominato da una passione politica che si identifica con tutta una vita, una passione generosa, impetuosa, con una vena risorgimentale, tale da escludere ogni prudenza e da condannare ogni evasione.
    Amici e compagni di battaglie politiche, dalle diverse sponde della democrazia laica e cattolica, nel decisivo decennio ’60-’70, quello che vede l’Italia uscire dalle dimensioni di nazione arretrata, imboccare la via della trasformazione industriale e del connesso, sconvolgente miracolo economico: entrambi fiduciosi nell’apporto del partito socialista alla nuova fase della vita italiana, entrambi convinti dell’esaurimento storico del centrismo e portati a intravedere la possibilità di sviluppo e di successo di una coalizione incisiva e rinnovatrice di centro-sinistra.
    Divisi, spesso, sulle valutazioni tattiche: la prudenza di Moro, anche su talune riforme essenziali per la vita italiana, non condivisa da La Malfa, un certo «trasformismo» di governo, inseparabile dalle costanti della storia nazionale, non apprezzato dal «leader» repubblicano. Probabilmente la lentezza nel modo di governare, che La Malfa rimproverava a Moro, specialmente negli anni 1964-68 (ce ne ha parlato Luigi Compagna, nella sua testimonianza), nasceva da una intuizione precisa dei limiti del nostro sistema politico. La politica italiana, da Depretis a Giolitti a De Gasperi, si è sempre fondata sulla mediazione.
    In una democrazia bloccata come la nostra, la mediazione diventa surrogato dell’alternativa. Che poi Moro l’abbia colta in quanto congeniale al suo temperamento, questo è indubbio. Ma non si trattava di pigrizia: più spesso era un’esigenza di riflessone prima dell’azione. A Moro erano più utili i silenzi delle parole. Eppure, avvertiva come nessun democristiano la crescita della società civile, sapeva che la società cresceva di più e più in fretta dello Stato. Ed era convinto, con un fondo di storicismo pessimistico, che «di crescita si può anche morire»: aggiungendo quanto egli disse in un altro e non dimenticato discorso alla Fiera del Levante, che io ho spesso citato da presidente del Consiglio, talvolta nello stupore generale: «Siamo pronti ad operare serenamente, come se ciascun giorno fosse indifferentemente il primo o l’ultimo del nostro mandato».
    A questa convinzione si deve il suo estremo accordo con Ugo La Malfa, alle soglie dell’emergenza: concepita mai come fine a se stessa dal leader repubblicano, mai in chiave di acrobazie di schieramento, ma sempre e soltanto in vista di avviare un processo di risanamento delle strutture economiche e produttive, impensabile senza un largo consenso, senza una piattaforma estesa al potere sindacale: tante volte, e per colpa della classe politica, trasformato in potere o in strapotere.
    Tocca al potere politico, al potere democratico, assumere intere le sue responsabilità, maneggiando con efficienza e onestà gli strumenti di cui dispone, per un governo programmato dall’economia che non sia il pasticcio dello Stato assistenziale nella resa codarda a tutti gli interessi organizzati: ecco cos’era, per La Malfa, la sfida dell’emergenza. Una sfida che venne interrotta nel momento stesso in cui sarebbe dovuta incominciare, quel tragico 16 marzo di sette anni fa.
    «Che cosa resta oggi di quella politica, di quel progetto?»: fu la domanda che mi pose una giornalista nel settembre ’83, mentre infuriavano talune polemiche che suscitavano in noi il ricordo dei versi di Ungaretti: «Cessate di uccidere i morti / non gridate più, non gridate». «Io appartengo alla scuola – risposi – che non distingue nella storia le cose fallite e le cose riuscite. Tutto riesce un po’ e un po’ tutto fallisce. Direi che del progetto di Moro rimane poco: oggi il PCI ha scelto l’alternativa e fra DC e PSI si parla di bipolarismo, termine che Moro non avrebbe mai usato. Si è arrestato il progetto che egli, insieme con La Malfa, aveva contribuito a porre in atto. E questo arresto è anche all’origine delle nostre presenti difficoltà».
    Da quell’intervista ad oggi – è trascorso un anno e mezzo – non ho mutato opinione. Il male oscuro che attanaglia la vita politica italiana sta in quel regime di democrazia bloccata che sia Moro sia La Malfa avevano tentato di superare. Non ci sono riusciti: ed oggi ripercorrerne stancamente le orme, in condizioni così diverse, non servirebbe a nulla. Ma è certo che si impone uno sforzo supplementare di fantasia, capace di contrastare il passo ai fenomeni di sfiducia e di lacerazione del tessuto politico (e non ne sono mancati, in queste settimane, inquietanti sintomi).
    C’è una parola che ha accomunato almeno tre degli uomini cui oggi si rende omaggio, da Pietro Nenni (che per primo la lanciò nel dibattito politico) a Ugo La Malfa e a Enrico Berlinguer (per quanto riguarda l’amico Morlino, egli fu così fedele discepolo dell’on. Moro, che può essere inquadrato nello stesso gruppo): ed è la parola emergenza. Fu coscienza della complessità e drammaticità della situazione italiana; fu ripulsa degli schemi fatti, prefabbricati e definitivi, con tanto di preambolo e di non-preambolo, della vita italiana; fu consapevolezza che due grandi stagioni della vita italiana, il centrismo e il centro-sinistra, si erano esaurite senza lasciare indicazioni sufficienti per il futuro, ma che non era ancora possibile delineare una formula di alternanza organica e rassicurante, finché non fossero prefissati certi punti di sicurezza occidentale, che sono quelli per i quali egualmente, e in modi diversi, si batterono Aldo Moro e Ugo La Malfa.

    I valori della “nuova Italia”

    Emergenza come senso del provvisorio, come coscienza del limite, come freno a tutte le forme gestuali o spettacolari che tendono a risolvere il problema italiano in termini di pure modifiche istituzionali e di esclusi assetti di vertice. Come coscienza anche – lasciatemi dire – di un potere, quale quello che emerge dalla legittimità democratica, che dev’essere rinnovato, riconsacrato nelle sue fonti originarie, liberato dalle incrostazioni parassitarie e settoriali, risentito nella sua forma primigenia di ricerca del consenso, di collettiva solidarietà.
    Ecco perché, al di là delle formule che sono parecchio consunte e logorate, si impone più che mai la necessità di uno sforzo comune, oltre i confini della stessa maggioranza parlamentare, nella salvaguardia di quei valori che vorrei chiamare, con un termine caro ai giuristi più avanzati, indisponibili della Repubblica: i valori che si identificano in un’Italia più pulita, sgombrata dai centri di potere invisibile, inquinante e corruttore, libera dalle minacce del terrorismo, salda nelle sue alleanze di libertà e di progresso.
    E vorrei concludere con le parole usate da Aldo Moro nel suo discorso con cui presentò il governo bicolore democristiani-repubblicani: «Indubbiamente, di una crescita si tratta. Questa Italia disordinata e disarmonica è però infinitamente più ricca e viva dell’Italia più o meno bene assestata del passato. Ma questa è solo una piccola consolazione. Perché anche nel crescere si può morire. Ma noi siamo qui perché l’Italia viva, e non come uno Stato di gracili strutture economiche e politiche, ma come un grande paese moderno e civile, che abbia trovato il giusto ritmo fra lo sviluppo economico e sociale e il progresso istituzionale e politico.
    «Anche i più severi osservatori stranieri, che ci vedono, purtroppo, decaduti ed ai margini in un processo storico, del resto difficile per tutti, esitano alla fine nel prevedere che vada perduto e possa essere perciò abbandonato al suo destino un paese, come il nostro, che per la sua posizione geografica e la sua vocazione storica, europeo e mediterraneo, Nord e Sud, Ovest ed Est, coinvolgerebbe nella sua rovina molti che si sentono al sicuro. Ma quel che impedisce al pessimismo degli stranieri di esprimersi fino in fondo è, più che la fortuna, proprio il complesso talvolta velato delle virtù morali e civili del popolo italiano, quella sua pazienza e disponibilità e fantasia e capacità di lavoro che sono il riflesso di una storia dolorosa e coraggiosa, quell’attitudine a comprendere e cooperare che condiziona la salvezza».
    Di quella pazienza, di quella disponibilità, di quella fantasia, noi vorremmo essere ancora dotati, perché la storia non è quella che appare dai dati spesso limacciosi della cronaca: è quella che noi possiamo costruire con la nostra dedizione e col nostro sacrificio.

    Giovanni Spadolini
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  8. #238
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Scopi dei partiti minori (1954)

    di Giovanni Spadolini - «Epoca», 9 maggio 1954

    Il Congresso nazionale del partito repubblicano a Firenze ha richiamato l’attenzione su uno dei problemi più gravi della vita politica contemporanea in Italia: la possibilità, per i piccoli partiti, di sopravvivere alla stretta dei partiti di massa, di difendere le loro ragioni di vita e di sopravvivenza contro la tendenza dell’elettorato a stringersi intorno alle bandiere dei raggruppamenti a sottinteso «religioso» e «confessionale». Pochi partiti, come il repubblicano, possono vantare una maggiore fedeltà a un certo programma, a un indirizzo di azione politica, al quale hanno saputo sacrificare anche motivi di convenienza e di opportunità.
    Pur di consolidare l’equilibrio «centrista» della vita italiana, il PRI ha rinunciato ad agitare quei motivi di massimalismo anticlericale e di radicalismo democratico, che erano cari a un settore della sua base, che si collegavano alla sua mistica tradizionale di gruppo solitario d’opposizione, e che sono stati facilmente sfruttati dalle liste di disturbo, da tutte le formazioni provvisorie alimentate dall’Estrema Sinistra.
    Quali sono stati gli obiettivi che il PRI si è proposto di realizzare in questi anni? Evitare a tutti i costi la radicalizzazione della lotta politica, e quindi agganciare la DC a una posizione di centro, a una linea di collaborazione democratica, che le evitasse la necessità di dover piegare verso destra. A tal fine il partito non abbandonò la collaborazione governativa ai Gabinetti De Gasperi, neppure quando i liberali sperarono di ritrovare nell’opposizione costituzionale la possibilità di un rafforzamento interno e i socialdemocratici si dedicarono a inseguire il mito dell’«unificazione», come antidoto a quella che era la politica dell’alternativa socialista di Nenni (ormai delineantesi chiaramente dopo il fallimento della formula dei fronti popolari).
    Quella linea di azione non fu smentita neppure dopo il 7 giugno. Piuttosto che indugiare sulle responsabilità dello scacco elettorale, che erano complesse e difficili a determinare, che erano politiche e psicologiche, che toccavano, in diversa misura, tutte le formazioni democratiche, che comprendevano insufficienze tecniche e difetti di propaganda, i repubblicani raffermarono le ragioni fondamentali dell’intesa di centro; e si avvertì anche un loro particolare senso di preoccupazione e di perplessità, allorché, per solidarietà con gli altri gruppi di democrazia laica, decisero di astenersi nella votazione sull’ottavo Gabinetto De Gasperi, la cui caduta rappresentò, per l’opposizione, una vittoria forse più importante del 7 giugno.
    L’adesione del PRI all’esperimento Scelba era quindi scontata in partenza, e la sua mancata partecipazione al Governo volle solo significare che il partito si riserbava una maggiore libertà d’azione, per accentuare la sua presenza ideologica e programmatica, per ricuperare, nel Paese, certune delle posizioni compromesse o perdute nel passato. Il congresso di Firenze ha ribadito quella linea politica, sanzionando la vittoria della corrente centrista; ma ha pure messo in luce, nell’ambito della maggioranza del partito, differenze di interpretazione, che si collegano alla più vasta crisi della Sinistra democratica in Italia.
    C’è un settore del PRI, che punta a ricuperare un’aliquota dell’elettorato di sinistra, che non giudica del tutto impossibile (magari dopo la ratifica della CED) una revisione dell’atteggiamento del PSI, e che non esaurisce le possibilità della democrazia nella formula del governo di centro. Quella frazione, senza dirlo chiaramente, ritiene che le istituzioni sarebbero in grado di sopportare anche un Governo di centro-destra, purché, sul centro-sinistra, maturasse la coscienza di una missione politica unitaria, volta a contendere il terreno al comunismo (magari con la formula dell’«intesa laica»).
    C’è un altro settore del partito, quello che si riconosce nell’onorevole Pacciardi, il quale sostiene al contrario la fedeltà intransigente alla linea del centro, ed è pronto anche a riesaminare un giorno il problema della partecipazione diretta dei repubblicani, in quanto ritiene – né più, né meno dell’onorevole Saragat – che un’alleanza della DC con le formazioni di destra equivarrebbe a una crisi delle istituzioni, spezzerebbe il Paese in due, paralizzerebbe la dialettica democratica e quindi impedirebbe ogni possibilità di ricupero o anche semplicemente di sopravvivenza per i nuclei minori.
    È una differenziazione, che si inquadra in più vasto travaglio. Se ne sono avvertiti i segni nelle voci di nuovi raggruppamenti di centro-sinistra, nelle parole dell’onorevole Gronchi, in certe inquietudini della corrente di «iniziativa democratica». Un solo punto è certo, e l’ha ben individuato l’onorevole Saragat: che riproporre, nella situazione attuale, la formula dell’«apertura a sinistra» significa arrecare un colpo all’equilibrio del Governo di coalizione, mettere in difficoltà la socialdemocrazia, che può restare nel Gabinetto Scelba solo in quanto rappresenti idealmente anche i lavoratori socialisti, ma contro la politica del PSI.

    Giovanni Spadolini
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  9. #239
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Si vuol soffocare la libertà di stampa (1956)

    di Giovanni Spadolini - «Epoca», 16 dicembre 1956

    Quando la Corte Costituzionale fu chiamata a pronunciarsi in merito all’art. 57 del codice penale, circa la «responsabilità obiettiva» del direttore di giornale, il suo giudizio fu di implicita condanna del sistema vigente e si accompagnò ad un solenne voto per una riforma legislativa aderente allo spirito della Costituzione democratica.
    Non a caso la «responsabilità obiettiva», cioè svincolata da ogni riferimento alla «responsabilità personale», era una tipica eredità del regime fascista, corrispondeva alla trasformazione della stampa da arma di dibattiti e di discussioni in strumento della volontà del regime, equivaleva alla degenerazione del direttore di giornale da interprete della pubblica opinione a veicolo puntuale e disciplinato delle direttive impartite dall’alto. All’occhio attento e sensibile della suprema Corte, non sfuggiva l’insegnamento dell’età liberale, in cui il direttore politico era sottratto alle responsabilità penali attraverso l’istituto della «gerenza» proprio in vista di garantirne la maggiore libertà d’azione e di polemica sul terreno delle idee. E neppure sfuggivano i pericoli per l’intera libertà di stampa, collegati alla sopravvivenza della legislazione fascista e di quella legge dell’8 febbraio 1948 che ne aggravava pesantemente le sanzioni.
    Cos’è accaduto al contrario? Il voto della Corte Costituzionale è stato interpretato in modo veramente singolare e aberrante dai «consultori» del governo incaricati di presentare il nuovo testo di legge. Il progetto che porta il nome del ministro Moro non solo non ripara alle assurdità e alle contraddizioni della legislazione passata ma introduce un tale inasprimento delle sanzioni per i reati di stampa, da rendere praticamente impossibile l’esercizio della professione di direttore di giornale e di creare le premesse per una totale paralisi del diritto di cronaca e di informazione.
    Sul piano dei principi, su quello che la Corte Costituzionale aveva additato all’attenzione del legislatore, nessuna revisione sostanziale è stata apportata. La presunzione di colpa per il direttore sussiste oggi come nel passato: al di là di ogni considerazione della struttura di un giornale moderno. Non solo: ma le sanzioni vengono infinitamente aggravate col risultato di favorire tutte le speculazioni e tutti i ricatti, ma soprattutto col rischio di creare un complesso di intimidazione e di pressione psicologica sufficiente ad annullare la libertà di informazione.
    Accanto alle gravi pene, già contemplate dalla legge del ’48 per i reati di diffamazione (pene superiori all’omicidio colposo!), i limiti della responsabilità civile sono allargati fino alla stravaganza, e neppure il buon senso della magistratura basterà più a neutralizzarle (come era avvenuto fino ad oggi).
    La responsabilità civile del direttore sopravvive anche in caso di assoluzione nel procedimento penale; la riparazione pecuniaria alla parte lesa viene elevata a livelli altissimi; la «provvisionale» sui danni dovrà essere concessa dal giudice, anche quando i danni stessi non siano stati dimostrati. Ma non basta. Sovvertendo un rapporto che è eminentemente di diritto privato, e tornando a delineare una concezione della stampa non lontana da quella dei regimi autoritari, si contempla la possibilità, in caso di recidiva, di interdire il direttore dalla «responsabilità» del giornale per un periodo da tre mesi a tre anni.
    Pericolosa in ogni regime, in ogni periodo, anche con una magistratura libera come l’attuale, una norma simile diventa un’arma di oppressione in mano a chi non conosca gli scrupoli e le remore degli attuali governi democratici. È per questo motivo che un’alta protesta si è levata contro il progetto Moro da parte di tutti i settori più attenti e sensibili dell’opinione pubblica e del Parlamento: preoccupati non tanto della realtà attuale (chi dubita delle fede democratica di Segni o di Moro?), quanto della possibilità che un siffatto meccanismo legislativo possa favorire involuzione reazionarie e liberticide.
    Siamo, per fortuna, in un governo di coalizione; siamo in un governo dove sono largamente rappresentate le forze storiche della democrazia italiana: e nessuno potrebbe sottrarsi ad una pressione politica ed ideale, che si richiama alle origini stesse della nostra formazione unitaria. Lo dimostra il fatto che il ministro guardasigilli abbia dato le più ampie assicurazioni ai rappresentanti della Federazione della stampa; lo dimostra l’impegno assunto dal governo a non prendere nessuna decisione senza il parere delle categoria interessate; lo dimostra soprattutto la tesi, già autorevolmente avanzata, di abbinare le disposizioni innovative sull’art. 57 alla revisione organica della legge stessa. Se qualcuno pensava di conseguire certi obiettivi politici e di «regime» attraverso lo schermo di una legge «tecnica», dovrà ovviamente ricredersi. Ci sono ancora nella società italiana forze «liberali» invincibili. In tutti i partiti, e non soltanto in quelli laici.

    Giovanni Spadolini
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Federico Chabod, profeta e storico dell’Europa senza nazionalismi (1985)

    di Giovanni Spadolini - «La Voce Repubblicana», 25-26 luglio 1985

    Federico Chabod, profeta e storico dell’Europa senza nazionalismi (1985) – Musica e Storia
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 
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