Un dibattito falsato da troppi errori
Tutto quel che dovreste sapere sull’Islam
di Khaled Fouad Allam
In questi ultimi tempi uno dei temi centrali del dibattito politico e culturale è stato quello della compatibilità fra islam e democrazia. Eterna questione che agita la società contemporanea, ma che spesso viene posta considerando la religione musulmana un fenomeno definitivamente definito, dunque irriducibile e irriformabile. Vorrei richiamare qui quattro errori di partenza che nel dibattito attuale spesso falsano il discorso sul rapporto fra islam e democrazia.
Il primo errore di numerosi esponenti della cultura e della politica sta nel ritenere che l’islam e i musulmani non si integrino in Occidente ma rimangano sempre uguali a se stessi. La tesi non è nuova: già nel 1935 un grande storico medievista, il belga Henri Pirenne, nel saggio Maometto e Carlomagno sviluppò e argomentò questa tesi. Opponendo la conquista islamica a quella germanica, egli affermò che mentre il mondo germanico aveva finito col romanizzarsi, il mondo islamico era rimasto tale e quale, incrinando l’unità mediterranea, mettendo fine alla tradizione antica, spingendo l’Europa in quello che è stato chiamato il Medioevo.
Secondo Pirenne la conquista musulmana ha sempre implicato un’islamizzazione totale: a sostegno della sua affermazione, egli sottolineò come nella Spagna del IX secolo anche i cristiani non conoscevano più il latino e si dovevano tradurre in arabo i testi conciliari. La storiografia più recente ha messo in luce come questo fenomeno abbia un’altra, semplice, spiegazione: dal IX al XII secolo, l’islam - e la lingua araba che ne è uno dei veicoli - funziona da cultura dominante; e la cultura medievale del mondo islamico è all’epoca il vettore portante della modernità. Allora la civiltà islamica aveva qualcosa da offrire, ed era perciò egemone.
Ma oggi non lo è più; e dunque un’islamizzazione massiccia dell’Europa e dell’Occidente mi sembra davvero improbabile. Certamente vi saranno delle conversioni, ma si tratta di conversioni individuali, legate a percorsi e traiettorie personali, esattamente come le conversioni al buddismo, agli Hare Krishna, ai testimoni di Geova ecc. E coloro che oggi agitano la minaccia di un’islamizzazione delle nostre società alimentano paure e stereotipi che risalgono all’età medievale, ma che nell’immaginario collettivo continuano a funzionare, con il loro corteo di paura, veicolando l’ideologia della sicurezza e il discorso xenofobo. Il secondo errore consiste nel considerare l’immigrazione come un semplice trasferimento di identità.
Anche secondo questa ipotesi, gli immigrati rimangono tali e quali; si occulta così tutta la traiettoria molto complessa che il vivere in prima persona l’immigrazione comporta. Il fatto di vivere in un’altra società implica in ogni caso una diluizione dell’identità di partenza: l’immigrato non è mai lo stesso di prima, perché è costretto a confrontarsi in un corpo a corpo con una realtà che gli è completamente nuova, e nel silenzio della società d’accoglienza la sua identità subisce una trasformazione. Questo fenomeno in genere non è oggetto d’interesse; ma ne è oggi testimone la letteratura. Esiste una letteratura dell’immigrazione che non è soltanto narrazione delle difficoltà obiettive, ma che narra proprio il mutamento.
Alcuni studiosi farebbero bene a leggere autori come il pakistano Kureishi e tanti altri che narrano le periferie delle nostre città, dove questo corpo a corpo con l’esistenza si fa storia. Il terzo errore è più legato alla sfera religiosa: non si tiene conto del fatto che nell’immigrazione il rapporto con la religione si trasforma. Quando si correlano islam e immigrazione, si ragiona sull’islam quasi unicamente sulla base di un corpus di testi, il Corano e la Sunna (tradizione profetica), e di una letteratura giuridica spesso decontestualizzata, senza prendere in considerazione un elemento essenziale nell’islam, quello della territorialità in quanto strumento di strutturazione delle comunità musulmane. Si tratta di un aspetto fondamentale per capire l’islam nella storia, e per valutare lo spazio che avrà l’islam in Europa. Non prendendo in considerazione questo dato, si commette un errore di partenza che rovescia totalmente la problematica relativa alla gestione dell’islam in Europa. I musulmani che arrivano in Europa sono orfani del territorio di appartenenza, e ciò implica nei confronti dell’Europa un posizionamento completamente diverso, in una logica che si situa agli antipodi della logica tradizionale dell’islam.
La logica del territorio che esprime la comunità è assente in Europa e in Occidente, e ciò comporta una maggiore individualizzazione della fede. La fede e la pratica religiosa in Europa non risultano più da una coercizione dello Stato, ma da una scelta individuale, proprio perché i musulmani in Europa vivono in una società che non incoraggia affatto un islam di tipo passivo, e in cui l’adesione alla fede e alla prassi religiosa deve essere sempre rinnovata. Poiché lo Stato in Europa è erede di una società che ha operato una separazione fra pubblico e privato, una società che ha fatto della religione una questione privata. E i musulmani devono posizionarsi in funzione di questo tipo di Stato, non di uno Stato musulmano.
Le ricerche in sociologia delle religioni dimostrano proprio questa tendenza: nell’islam dell’immigrazione l’identità religiosa assume una matrice individuale risultato di una scelta personale e non di un controllo comunitario, come dimostra ad esempio una sociologa algerina, Leila Babès, in un’inchiesta fra gli immigrati di seconda generazione in Francia. Certo, con ciò non nego la grande questione giuridica nell’islam. Ma proprio la natura dello Stato in Europa implica che il diritto musulmano non può in alcun modo esprimersi come un diritto positivo: rimane una norma etica.
E quindi viene meno il ruolo del diritto in quanto espressione della religiosità: perché la religiosità si esprime e si esprimerà su altri terreni, quali la mistica o il rigore della prassi religiosa che si traduce in preghiera, pellegrinaggio, imposte. Il quarto errore risiede nel definire i musulmani come appartenenti a un’altra umanità. E’ così che si costruiscono i miti di distruzione collettiva, ieri come oggi, in riferimento all’islam o ad altre religioni. Ma il cristianesimo è tutt’altro. I Vangeli rivelano agli esseri umani la loro responsabilità dinanzi a tutte le violenze della storia. Interpreto così la preghiera per la pace inaugurata dal Santo Padre nel famoso incontro dell’ottobre 1986 e tutto ciò che ne è seguito.
Leggo nella prima lettera di Giovanni: «Chi pretende di essere nella luce / e odia suo fratello / è ancora nelle tenebre. / Chi ama suo fratello / rimane nella luce, / e non corre pericolo di inciampare. / Chi odia suo fratello / vive nelle tenebre / e cammina nel buio. / Non sa in che direzione va, perché il buio gli impedisce di vedere». Ed è questa luce che manca a noi tutti, enormemente.
*Islamologo, docente presso le università di Trieste e Urbino
"La Stampa" 4 novembre 2000