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  1. #21
    SENATORE di POL
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    Se non sai che cos'è il capitalismo democratico non è colpa nostra, forse neppure tua. E se non lo sai perchè ti ostini a volerne parlare lo stesso?

    Saluti liberali

  2. #22
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    Abbiam capito che d' economia il Pfb ne capisce poco o punto.
    Eccolo quindi accusare il sottoscritto di ignoranza in materia.
    "Capitalismo democratico" è un ossimoro.
    I capitalisti devono mirare al profitto, assicurare la democrazia non è affar loro.
    Capitalismo etico invece mi sta bene.
    Significa sempre libertà di accumulare, fare profitti, ma con certe limitazioni.
    Alcune delle quali sono il rispetto dell' ambiente e un più consapevole sfruttamento delle risorse.
    Cose chieste a gran voce, inutilmente, dal "popolo di Seattle".
    Ma simili limitazioni non sono previste dal liberismo in salsa texana di George Dabliù.
    Infatti si è ben guardato dal firmare il protocollo di Kyoto.
    I liberisti nostrani stravedono per lui e per la sua deregulation e intendono seguirne le gesta.
    Ecco quindi la vergognosa depenalizzazione del falso in bilancio e la prossima cancellazione di reati tributari e societari.
    Cosi la porta per una futura Enron italiana è spalancata.
    Bello vero?

    saluti
    G. Guelfi

  3. #23
    SENATORE di POL
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    Abbiamo capito che il signor Gianni G. non ha la minima idea di quello che dice, ne' quando parla di storia, ne' di altro. Il Capitalismo Democratico è una formazione storico-sociale, non un modo di organizzazione dell'impresa. E' la combinazione storica fra economia del libero mercato, istituzioni rappresentative liberali e società civile democratica. Rigurado agli estremisti sfasciavetrine del "popolo di Seattle" e alle altre utopie anticapitaliste, lasciamo proprio perdere. Circa il liberalismo economico sarebbe bene che il signor Gianni G. prima di dire spropositi contasse fino a cento....quanto meno.

    Saluti liberali

  4. #24
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    Non far confusione colle parole.
    Non esiste un "liberalismo" economico semmai un "liberismo" economico.
    I termini liberale e liberalismo son pertinenti a filosofie o partiti politici, non a scuole economiche.
    Infatti si dànno casi di governi liberali che però, in economia, non sono liberisti.
    E dei governi antiliberali che invece lo sono.
    Ti è chiara la differenza?
    Aveva proprio ragione mio padre a dirmi: studia figlio mio, sennò da grande voterai Forza Italia.

    saluti antiliberisti
    Gianni Guelfi

  5. #25
    SENATORE di POL
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    Visto che non hai studiato o comunque NON hai IMPARATO quasi nulla, dato le grosse...ehm....imprecisioni che scrivi.... è per questo che voti per la sinistretta massimalista italica?
    Uno che dice che non esiste "il liberalismo economico" ha bisogno proprio.....di tornare a scuola, ad iniziare dalle elemantari.

    Saluti liberali

  6. #26
    SENATORE di POL
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    dal sito di Ideazione...

    " Globalizzazione e partecipazione
    di Pier Paolo Baretta

    A sostegno della tesi che propone la partecipazione dei lavoratori alla vita e alle scelte dell'impresa vi è una abbondante letteratura ed una memoria storica che coinvolge filoni culturali del mondo del lavoro, anche molto diversi tra di loro per gli esiti ideologici o politici ai quali sono approdati, ma tutti orientati da una visione evolutiva del capitalismo . Si pensi alle origini del movimento operaio quando, sia pure in una logica difensiva, si affermarono forme importanti di mutualità e di attività economiche vere e proprie. La storia dei fondi di mutuo soccorso e la straordinaria avventura della cooperazione sono stati anticipatori di un'idea di capitalismo nel quale i lavoratori contano davvero, in prima persona e in quanto persone . Idea alternativa ad una concezione di capitalismo fondato sulla pionieristica, ma totalizzante, figura del "padrone"; alternativa, inoltre, anche alla concezione comunista per la quale, più che il lavoratore, conta per lui lo Stato; o a quella del "capitalismo compassionevole". Ricordo, ancora, il filone culturale nordico dell'autogestione (Meidner e il suo "capitalismo senza padrone"), o la ben conosciuta cogestione tedesca. Penso alla dottrina sociale della Chiesa, al socialismo di inizio secolo o, infine, a tutto il filone corporativo che ha dato vita all'identità di una parte della destra.

    Il bisogno di partecipazione trova, comunque, un'attualità urgente ed inesorabile oggi, nell'epoca storica della globalizzazione. Sotto i nostri occhi le opportunità straordinarie ed inedite della dimensione globale sono troppo spesso offuscate dalle forme ingiuste e drammatiche con le quali la mondializzazione avanza. Dobbiamo anche, con tristezza, riconoscere che troppe volte il permanere di situazioni estreme trova avallo in alcune scelte sbagliate e miopi che sono state compiute da grandi organismi internazionali quando intervengono a…"sostegno" dell'economia dei paesi emergenti. Al contempo la fragilità delle istituzioni politiche mondiali rende esplicito ed urgente il problema della governance e del modello economico e sociale. Viviamo, infatti, in una società complessa, nella quale la cittadinanza non si esaurisce nello scambio/scontro tra salari e profitti, ma in un delicato equilibrio di convivenze e di relazioni, individuali e collettive, sia dentro che fuori il lavoro. Viviamo in una libera e moderna economia di mercato protesa verso forme sempre più sofisticate di competizione, basate sul massimo dell'efficienza e dello sviluppo tecnologico . In questo contesto la forma più matura per realizzare un modello economico e sociale che affermi giustizia, uguaglianza e solidarietà, senza rinunciare allo sviluppo economico ed al benessere materiale è, senza dubbio, la democrazia economica e la partecipazione dei lavoratori alla vita dell'impresa .

    Sia la old che la new economia sono, infatti, ad un bivio. Proprio le periodiche oscillazioni spettacolari degli indici borsistici dimostrano, particolarmente dopo l'11 di settembre, che lo sviluppo economico non può seriamente affidare il potere sul destino delle imprese ad un modello basato quasi esclusivamente sugli esiti dei mercati finanziari, anziché alle intelligenze progettuali e produttive . Soru sostiene che la proprietà delle imprese di Internet è di chi ci lavora, perché il prodotto immateriale è la conoscenza e l'intelligenza; nella multimedialità il prodotto è plasticamente rappresentato dai contenuti; nella logistica è l'intelligenza organizzativa che fa la differenza; nelle imprese di produzione di beni e servizi è sempre più la qualità che determina il successo. Provocatoriamente e paradossalmente si potrebbe affermare che una buona democrazia economica ed una buona partecipazione tutela il mercato libero ma reale di più del Down Jones o del Nasdaq. Per realizzare un'economia di mercato, per gestire la competizione globale della produzione, della finanza, per… fare futuro non c'è, allora, solo la scuola di Chicago, ma anche le teorie economiche dei premi Nobel A. Sen e Stiglitz.

    Tra antagonismo consumato e partecipazione mancata

    Da questa visione generale discende la natura culturale e politica dell'approccio partecipativo alla competizione economica. Non si tratta, dunque, di un'impostazione difensiva, protezionista; al contrario, è aperta al cambiamento sociale ed incide sul futuro assetto dei rapporti tra capitale e lavoro. Questione attuale anche nel nostro paese. Dobbiamo, infatti, riconoscere che in tema di relazioni sindacali siamo in mezzo a un guado. Da un lato assistiamo ad una crisi evidente del modello antagonista. Esso, anche se riscuote ancora un discreto consenso sia nel fronte sindacale che imprenditoriale e, ahimè, anche nella politica, dimostra, in pratica, di non essere in grado di rispondere, né per le imprese né per i lavoratori, alle sfide che derivano dalla modernità . Rispetto ad alcune situazioni come, ad esempio, nel Terzo mondo, dove la battaglia sociale e sindacale è ancora direttamente intrecciata con la lotta per la libertà o i diritti fondamentali di accesso alla vita, prima ancora che alla cittadinanza, l'antagonismo è, purtroppo, talvolta la sola risposta di fondo che si può dare. Ma, in una società democratica, come la nostra, a fronte di una matura realizzazione di conquiste sociali consolidate negli stessi ordinamenti, a fronte di una pluralità dialettica di istituzioni e rappresentanze, si rende necessaria una risposta più alta, più elaborata e complessa dello scontro sociale o, addirittura, di classe.

    Anche quando queste conquiste sociali fossero messe in discussione - e una nutrita schiera di liberisti ci prova -, la complessità intrinseca alle società industriali evolute o perfino post industriali, rende la risposta propria del modello antagonista una risposta bloccata, insufficiente, inadeguata a cogliere queste complessità e a farle evolvere verso una governance positiva. Serve, invece, elaborare una risposta riformista e partecipativa. Ma bisogna riconoscere, anche, che alla crisi del modello antagonista (non del conflitto! Questa distinzione va fatta sempre perché vi è molta strumentalizzazione su questo punto: il conflitto è una condizione di normalità democratica) si contrappone una preoccupante fragilità della democrazia economica . Le cause di questa fragilità sono molteplici. Quello che mi interessa evidenziare, in questa sede, è che questo stare in mezzo al guado, tra antagonismo consumato e partecipazione mancata, non produce né lo scenario che molti sperano, ovvero la desertificazione delle regole sociali e l'avvento dell'individualismo più esasperato, né, al contrario, quanto sperano i vari Bertinotti, ovvero l'avvio di un ciclo di lotte contro la globalizzazione. Il rischio è l'avvento di una palude di indifferenza e corporativismo, che sarebbe la peggiore soluzione alla crisi di rappresentanza e di identità che sia il lavoro che il capitale attraversano.

    In questo scenario va rafforzato il tentativo europeo di competere sul piano internazionale con un proprio modello sociale. Va riconosciuta l'audacia, se si pensa al modello americano o a quello di molte economie emergenti, della scelta europea di affermare la propria capacità competitiva globale senza rinunciare ad un modello sociale fondato sulla collaborazione, o - per dirla meglio con un'espressione europea, meno gradevole linguisticamente in italiano, ma più efficace - sul "partenariato" tra gli attori . Il dibattito europeo sulla partecipazione economica ha avuto varie fasi di avvicinamento: dal primo Rapporto Pepper del '91 alle Raccomandazioni del '92, all'ultimo Rapporto Pepper del '97 che, per la prima volta, introduce il concetto di azionariato collettivo. Inoltre, ricordo il Rapporto Davignon. Ma, negli ultimi tempi, i processi di integrazione monetaria e politica (non dimentichiamo che si sta discutendo di una Costituzione!) stanno determinando un'accelerazione normativa che produrrà una vera e propria rivoluzione organizzativa.

    Basti come esempio l'intreccio tra la direttiva sulla società europea e quella sull'Opa. E' ragionevole, infatti, pensare che il recente fallimento della direttiva sull'Opa europea sia solamente un fallimento congiunturale. Ma, allora, quando alla Società di statuto europeo, già approvata ed in via di trasposizione nei diversi Stati membri, si affiancherà l'Opa europea, avremo operante un nuovo sistema di regole che, scavalcando i singoli diritti nazionali e le relative Autorità di regolazione dei mercati, anzi obbligandoli ad un adeguamento forzato del loro diritto societario, consentirà, non solo una nuova organizzazione delle società per azioni, delle società anonime, delle società di capitali, ma anche una loro nuova contendibilità sovranazionale . Sono molte le direttive europee già entrate nella nostra vita quotidiana in punta dei piedi. La legge italiana sulla parità nasce dalla trasposizione di una direttiva europea; così come il decreto 626 sulla sicurezza, così come la legge sui Cae. A ben vedere si tratta di una strumentazione che, mentre afferma dei diritti, favorisce una prospettiva di rapporti non solo negoziale, ma anche di tipo partecipativo. Oltre alla società europea è stata, nelle settimane scorse, approvata la direttiva sulla consultazione ed informazione ed è in revisione quella sui Cae. Si sta discutendo, inoltre, di responsabilità sociale delle imprese e di partecipazione finanziaria dei lavoratori .

    Sulla base di questo scenario continentale è urgente avviare, anche in Italia, un percorso concreto di iniziative culturali, contrattuali e legislative di sostegno destinate a far sì che la "democrazia economica" diventi centrale nelle scelte di sistema del paese, motivata dalla rapidità e la profondità con la quale sta evolvendo il modello capitalistico. Basti pensare che il mastodontico processo di privatizzazioni avvenuto in Italia (per la verità più radicale rispetto a Francia e Germania) non è evoluto verso quell'idea di capitalismo diffuso sulla quale, negli scorsi anni, si è molto discusso. Mentre la finanza prendeva il ruolo improprio di unico metro di paragone della salute e dello sviluppo delle imprese (il caso Telecom basta per tutti!), che ruolo hanno avuto il capitalismo diffuso, i piccoli azionisti e l'azionariato dei dipendenti? Una nuova stagione di privatizzazioni è alle porte e riguarderà sia le aziende di servizi municipalizzate, sia le grandi utilitis. E' un'occasione da non perdere.

    Ma vi è un'ulteriore riflessione che ci fa sostenere che è attuale occuparsi di democrazia economica e modelli partecipativi. Essa si muove dalla constatazione che l'organizzazione capitalistica del lavoro sta cambiando profondamente . E' in atto una tendenza, maggioritaria in tutti i settori della produzione, dai servizi alla scomposizione del ciclo produttivo. Nelle poste, come nelle banche, nelle telecomunicazioni, nei trasporti, nel manifatturiero, nonché nella pubblica amministrazione: le imprese si aprono e si chiudono come fisarmoniche a seconda della musica che suonano i mercati. I processi di esternalizzazione, out-sourcing, sono all'ordine del giorno ed indicano, ormai, un modello produttivo a rete che se allunga la catena del valore, talvolta interrompe quelli dei diritti. Può la democrazia economica rispondere a tale problematica? Io penso di sì. Accanto ad un'esplicita battaglia per la salvaguardia dei diritti elementari e ad un'irriducibile capacità contrattuale sui processi aziendali e sulle condizioni materiali, si deve sviluppare un sistema complesso finalizzato a saldare tra loro i diversi anelli di questa frantumata catena, attraverso una rete di regole fondate sul principio della consultazione-partecipazione. Questioni come i comitati di consultazione e vigilanza nelle capogruppo, con poteri di intervento sull'intera rete, strutture efficaci di bilateralità, azionariato collettivo, fondi, organizzazioni indipendenti di controllo (esempio: "I consumatori"), sono tasselli che rafforzano il tentativo di orientare positivamente lo sviluppo e la riorganizzazione capitalistica per garantirne la trasparenza .

    Corresponsabilità e mission aziendale

    Contemporaneamente gli imprenditori, mentre operano per frantumare l'assetto produttivo delle loro imprese per sfruttare al massimo i vantaggi derivanti dalla flessibilità (e più esternalizzano più il problema della competizione si acuisce perché si finisce per inseguire una competizione da costi insostenibile!), più chiedono al lavoratore, di qualsiasi settore, di qualsiasi livello - sia esso l'impiegato di concetto o il lavoratore di terzo livello alla catena o sia esso il coordinato continuativo - di vivere il suo lavoro non semplicemente come l'offerta della sua forza lavoro, ma come se dovesse contribuire con qualcosa in più, con un'idea di corresponsabilità, di farsi parte della "mission" aziendale . Insomma, le imprese più stringono ed esasperano il gioco competitivo, talvolta mettendo a rischio il sistema dei diritti, più chiedono ai lavoratori di lavorare come se fossero dei soci. Ma continuano a trattarli come dei salariati! Di fronte a questa clamorosa contraddizione del sistema capitalistico post fordista si apre il vero dibattito sul futuro delle relazioni industriali . Vi è chi ne approfitta per calcare la mano sul primo dei due aspetti ed inseguire un'esasperata logica competitiva, anche a discapito di un equilibrato modello sociale. Non vi è in questa strada spazio per la partecipazione.

    Vi è anche chi, come la Cgil ed una parte della sinistra, si ferma e vede solo il lato oscuro della "forza": la crisi del sistema di garanzie e tutele. Separa i destini del lavoro da quelli dell'impresa rinchiudendosi nell'antagonismo . Io penso che bisogna assumere in pieno la sfida che deriva dal governare questa imponente trasformazione, pari solo, se non per alcuni aspetti addirittura superiore, alla prima rivoluzione industriale per i suoi aspetti sociali e all'introduzione del taylorismo per i suoi aspetti organizzativi e per le conseguenze sul lavoro e la vita delle persone. In sostanza si tratta di comprendere la realtà storica oggettiva nella quale viviamo per rovesciare i termini classici dell'approccio autaritario-rivendicativo sul quale si è fondata l'organizzazione e l'emancipazione del lavoro nel secolo scorso. Per dirla nel modo più semplice possibile: tu, imprenditore, mi chiedi di lavorare con lo stesso atteggiamento e la stessa disponibilità di un socio, ma discuti dei miei diritti e delle mie prestazioni come se fossi un subalterno, un dipendente, un salariato. Io, lavoratore, ti rispondo che ci sto ad assumermi le responsabilità e gli oneri che derivano dall'essere "socio", ma ti chiedo che questa condizione nuova mi venga riconosciuta, ti chiedo di entrare nel gioco. L'impresa diventa anche mia, con tutte le variabili, i limiti, le regole e le condizioni che insieme definiremo .

    Si può, in definitiva, sostenere che nelle sfide della modernità globale è possibile affermare un nesso logico ed organizzativo, una proprietà transitiva tra: sfida competitiva = qualità del prodotto e del processo = responsabilità = partecipazione. Se si osserva, anche al di fuori degli orizzonti produttivi, i problemi della vita collettiva e dell'organizzazione sociale contemporanea: dall'ordine pubblico all'immigrazione, al governo delle metropoli, ai servizi alla persona e alla collettività emerge, mi sembra, un'esigenza di ordine e di qualità non risolvibile esclusivamente con l'autorità (che ci vuole e deve essere meglio organizzata), ma anche con l'autorevolezza, che deriva da una visione della democrazia diffusa e del coinvolgimento responsabile dei… cittadini-utenti-clienti-soci ecc. La democrazia economica e la partecipazione affermano, in sostanza, una tesi sulla società, ne implicano una visione e un modello di riferimento. Sono, quindi, tesi non solo sul lavoro, la sua emancipazione e i suoi diritti, ma anche sulla democrazia, sul capitalismo, sulle forme e l'organizzazione della vita moderna. Non si tratta né di corporativismo, né di socialismo, né di autogestione: semplicemente, si tratta di partecipazione .

    7 giugno 2002

    (da ideazione 3-2002, maggio-giugno)


    Saluti liberali

  7. #27
    Paul Atreides
    Ospite

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    Originally posted by Pieffebi
    dal sito di "Ideazione":

    "Entrare nel mercato globale per superare il "gap"
    di Giuseppe Pennisi

    La "new economy" delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione crea nuove disuguaglianze? Solo qualche anno fa la "net economy" era ancora agli albori e si temeva che avrebbe comportato un processo di dislocazione ancora maggiore di quello verificatosi all'epoca della prima rivoluzione industriale. Allora l'ipotesi era che la tecnologia dell'informazione e della comunicazione avrebbe creato nuove esclusioni, sia per fasce di età sia per fasce di reddito sia, principalmente, tra paesi dotati e non dotati di infrastruttura di base. Si pensi che alla metà degli anni Novanta, in tutta l'Africa a sud del Sahara c'erano meno linee telefoniche di quante non ce ne fossero nella sola città di Tokio. I timori non sono del tutto fugati. Tuttavia, l'aumento del gap tra fasce di reddito appare contenuto anche nei paesi in cui il reddito viene comunemente giudicato "spettacolare". E appare, tutto sommato, moderato anche rispetto alle aspettative e alle impressioni iniziali.

    Studi più recenti collocano la new economy nel contesto del processo d'integrazione economica internazionale chiamato, giornalisticamente, "globalizzazione". In breve, essi concludono che l'apertura ai mercati e l'integrazione internazionale degli scambi, dei finanziamenti e degli investimenti diretti hanno comportato un aumento delle ineguaglianze mondiali (tra individui e famiglie, anche se non necessariamente tra paesi) dal 1960 al 1975. Da allora, però, si è rilevata una graduale diminuzione delle inuguaglianze, principalmente a ragione della rapida crescita economica di Cina e India: i paesi in via di sviluppo che hanno preso la strada della globalizzazione hanno registrato un tasso annuo di crescita economica del 5% negli anni Novanta (rispetto al 2% riportato dai paesi Ocse); tra il 1987 ed il 1998, la proporzione della popolazione mondiale in "povertà estrema", ossia con meno di un dollaro al giorno, è diminuita dal 28% al 23% - un "successo di proporzioni mai registrate in precedenza nella storia dell'umanità". Pur partendo da livelli di reddito inferiori, i paesi che hanno scelto la globalizzazione, hanno superato quei paesi che, invece, sono rimasti agganciati a politiche "chiuse".

    La storia economica, però, prova anche che l'integrazione economica internazionale e la diffusione delle nuove tecnologie non sono irreversibili: si è dovuto attendere sino alla fine degli anni Cinquanta perché si tornasse ad un grado di integrazione internazionale, quale quello prevalente nel 1910. Le fasi di rallentamento economico, come quella in atto nel 2001, aggravano la minaccia di un ritorno al protezionismo e al rallentamento della trasformazione tecnologica, fenomeni fortemente correlati all'aumento della povertà. I casi di successo negli anni Novanta, quelli di paesi in cui l'integrazione economica internazionale e il progresso tecnologico sono stati accompagnati da una riduzione della povertà, riguardano paesi (India, Cina, Vietnam, Messico, Uganda e molti altri) in cui l'apertura al mercato internazionale è stata sorretta dalla costruzione di istituzioni solide in materia di giustizia, pluralismo di stampa, lotta alla corruzione, sviluppo delle risorse umane ed infrastrutture di base nei trasporti, nell'energia e nelle telecomunicazioni, tutti campi in cui l'intervento pubblico è essenziale per creare e consolidare il capitale sociale.

    Molte aree del mondo non partecipano al processo d'integrazione economica internazionale e di diffusione della tecnologia, non in quanto chiudono le porte delle loro economie e della loro società, ma per ragioni geografiche, quali la distanza da reti di comunicazione e conseguenti alti costi di trasporto, prevalenza di malattie come la malaria e l'Aids ed alti tassi di mortalità e morbità. I flussi di scambi e di investimenti non risolveranno i problemi di questi paesi e le migrazioni possono farlo solo in parte, solo la strada degli aiuti, pubblici e non solo, può condurli, gradualmente, verso il mercato globale e quindi verso l'introduzione e diffusione della new economy.

    15 marzo 2002

    gi.pennisi@agora.it
    "


    Saluti liberali.
    Però bisogna mettersi d'accordo. L'esempio della Cina può essere calzante per quel che riguarda i benefici della globalizzazione (ovviamente, sorvolando, ad esempio, sui costi ecologici: immaginiamoci un miliardo e passa di cinesi che consumano energia eguale a quella consumata da un italiano medio) ma non mi pare proprio appropriato per difendere il concetto di capitalismo democratico. Al contrario dimostra come il capitalismo possa svilupparsi e raggiungere risultati di crescita rilevantissimi pur in assenza della democrazia

    Saluti

    Addenda

    Aggiungiamoci a mò di esempio, tutte le altre "tigri asiatiche", in primis la Corea il cui grande sviluppo industriale e capitalistico si è avuto sotto regimi autoritari

  8. #28
    Paul Atreides
    Ospite

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    Originally posted by Pieffebi
    dal sito di ideazione

    "Perché la globalizzazione ci fa bene
    di Cristiana Vivenzio

    Mentre ci s’interroga sui nuovi scenari globali dopo l’11 settembre e si prefigura un nuovo ordine internazionale; mentre si parla di globalizzazione come l’ultima delle ideologie dell’Occidente, contrapposta alla frammentazione del sistema non globale; mentre si prende atto dell’assoluta indecifrabilità di un pensiero unico sulla globalizzazione e s’incrina definitivamente quell’idea che lega la globalizzazione ad una visione esclusivamente economica di questo processo; mentre si moltiplicano gli interrogativi per cercare di spiegare un fenomeno in corso e i tentativi di ovviare ai mali di una globalizzazione senza regole, Paolo Del Debbio – docente di Etica sociale e dei media allo Iulm di Milano ed editorialista del Giornale – scrive: “Global. Perché la globalizzazione ci fa bene”. Un’analisi “sì-global” che affronta questo tema, tanto demonizzato quanto esaltato, partendo dall’assunto fondamentale che dalla globalizzazione non si torna indietro.

    Se globalizzazione significa interdipendenza – prima economica, commerciale e finanziaria poi dell’informazione – questa interdipendenza ha anche posto le basi “per una certa omogeneizzazione culturale, che parte dalla cultura popolare e dai consumi”. Del resto, alcuni studi analitici sull’argomento, condotti da gruppi di ricerca americani e riproposti dall’autore, hanno dimostrato che tanto più alto è il tasso di globalizzazione di un paese, tanto maggiori sono stati i tassi di crescita di quel paese. E, sebbene la maggior globalizzazione accresca anche il divario nella distribuzione del reddito, il beneficio derivante dalla crescita ha sostanzialmente fatto migliorare le condizioni di vita dei più poveri del mondo. Insomma, conclude Del Debbio, la globalizzazione può essere un’opportunità per tutti. Ad avvalorare tutto ciò un altro dato: anche in quei paesi investiti dalla globalizzazione in cui si sono verificati i maggiori problemi di esclusione sociale ed economica di fasce di popolazione, si è rilevato che quell’esclusione è stata dovuta “più all’impreparazione dei destinatari (gli stati nazionali) che non alla globalizzazione in se stessa”.

    Eppure, gli argomenti di protesta portati avanti dai no global, che hanno fatto dell’opposizione ad un pensiero unico, a loro volta, un’altra forma di pensiero unico, rimarcano un problema universalmente riconosciuto, che, in definitiva, è rappresentato dall’ampiezza dello spazio che separa globalizzazione e politica. Là dove finiscono le competenze direttamente attribuibili all’economia di mercato deve intervenire la politica: reti di protezione sociale, tutela e garanzia dei beni pubblici, riconoscimento dei diritti dei lavoratori, tutela ambientale, salvaguardia del patrimonio culturale locale. Un’analisi, questa, che Del Debbio conduce di pari passo con la riflessione che negli ultimi tempi ha investito la riforma dello stato sociale. Allo stato, quindi, il compito di favorire quanto più possibile la partecipazione dei cittadini alla competizione del mercato; allo stato il compito di assicurare la “copertura universale delle esigenze minime e offrire ciò che è necessario perché tutti possano essere messi in grado di entrare a pieno nella competizione della vita”; allo stato il compito di creare pari opportunità; il compito di favorire e sostenere le reti di solidarietà sociale. La risposta ai mali della globalizzazione può essere rintracciata nella ricerca in un principio etico globale che superi le facili strumentalizzazioni dell’universo no-global, e affermi un governo della globalizzazione nella libertà, in cui non venga meno l’individualità degli stati-nazione.

    25 aprile 2002

    c.vivenzio@libero.it
    "




    Saluti liberali.
    Simpatico tentativo di cavarsela con la solita "formula magica", capace di tenere assieme funzioni e ruoli tra loro reciprocamente conflittuali. Infatti, ci sarebbe da interrogarsi seriamente sulla capacità del capitalismo transnazionale o globale di accordarsi o meno col ruolo degli Stati-nazione

    Saluti

    Addenda

    Davvero la globalizzazione significa interdipendenza? Cioè la signorina in questione vorrebbe farci forse credere che l'economia italiana e quella del Cameroun o dell'Indonesia sono interdipendenti? O lo sono quella americana e quella argentina? Ne dubito alquanto.

  9. #29
    Paul Atreides
    Ospite

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    Originally posted by Pieffebi
    dal sito di Ideazione...

    " Globalizzazione e partecipazione
    di Pier Paolo Baretta

    A sostegno della tesi che propone la partecipazione dei lavoratori alla vita e alle scelte dell'impresa vi è una abbondante letteratura ed una memoria storica che coinvolge filoni culturali del mondo del lavoro, anche molto diversi tra di loro per gli esiti ideologici o politici ai quali sono approdati, ma tutti orientati da una visione evolutiva del capitalismo . Si pensi alle origini del movimento operaio quando, sia pure in una logica difensiva, si affermarono forme importanti di mutualità e di attività economiche vere e proprie. La storia dei fondi di mutuo soccorso e la straordinaria avventura della cooperazione sono stati anticipatori di un'idea di capitalismo nel quale i lavoratori contano davvero, in prima persona e in quanto persone . Idea alternativa ad una concezione di capitalismo fondato sulla pionieristica, ma totalizzante, figura del "padrone"; alternativa, inoltre, anche alla concezione comunista per la quale, più che il lavoratore, conta per lui lo Stato; o a quella del "capitalismo compassionevole". Ricordo, ancora, il filone culturale nordico dell'autogestione (Meidner e il suo "capitalismo senza padrone"), o la ben conosciuta cogestione tedesca. Penso alla dottrina sociale della Chiesa, al socialismo di inizio secolo o, infine, a tutto il filone corporativo che ha dato vita all'identità di una parte della destra.

    Il bisogno di partecipazione trova, comunque, un'attualità urgente ed inesorabile oggi, nell'epoca storica della globalizzazione. Sotto i nostri occhi le opportunità straordinarie ed inedite della dimensione globale sono troppo spesso offuscate dalle forme ingiuste e drammatiche con le quali la mondializzazione avanza. Dobbiamo anche, con tristezza, riconoscere che troppe volte il permanere di situazioni estreme trova avallo in alcune scelte sbagliate e miopi che sono state compiute da grandi organismi internazionali quando intervengono a…"sostegno" dell'economia dei paesi emergenti. Al contempo la fragilità delle istituzioni politiche mondiali rende esplicito ed urgente il problema della governance e del modello economico e sociale. Viviamo, infatti, in una società complessa, nella quale la cittadinanza non si esaurisce nello scambio/scontro tra salari e profitti, ma in un delicato equilibrio di convivenze e di relazioni, individuali e collettive, sia dentro che fuori il lavoro. Viviamo in una libera e moderna economia di mercato protesa verso forme sempre più sofisticate di competizione, basate sul massimo dell'efficienza e dello sviluppo tecnologico . In questo contesto la forma più matura per realizzare un modello economico e sociale che affermi giustizia, uguaglianza e solidarietà, senza rinunciare allo sviluppo economico ed al benessere materiale è, senza dubbio, la democrazia economica e la partecipazione dei lavoratori alla vita dell'impresa .

    Sia la old che la new economia sono, infatti, ad un bivio. Proprio le periodiche oscillazioni spettacolari degli indici borsistici dimostrano, particolarmente dopo l'11 di settembre, che lo sviluppo economico non può seriamente affidare il potere sul destino delle imprese ad un modello basato quasi esclusivamente sugli esiti dei mercati finanziari, anziché alle intelligenze progettuali e produttive . Soru sostiene che la proprietà delle imprese di Internet è di chi ci lavora, perché il prodotto immateriale è la conoscenza e l'intelligenza; nella multimedialità il prodotto è plasticamente rappresentato dai contenuti; nella logistica è l'intelligenza organizzativa che fa la differenza; nelle imprese di produzione di beni e servizi è sempre più la qualità che determina il successo. Provocatoriamente e paradossalmente si potrebbe affermare che una buona democrazia economica ed una buona partecipazione tutela il mercato libero ma reale di più del Down Jones o del Nasdaq. Per realizzare un'economia di mercato, per gestire la competizione globale della produzione, della finanza, per… fare futuro non c'è, allora, solo la scuola di Chicago, ma anche le teorie economiche dei premi Nobel A. Sen e Stiglitz.

    Tra antagonismo consumato e partecipazione mancata

    Da questa visione generale discende la natura culturale e politica dell'approccio partecipativo alla competizione economica. Non si tratta, dunque, di un'impostazione difensiva, protezionista; al contrario, è aperta al cambiamento sociale ed incide sul futuro assetto dei rapporti tra capitale e lavoro. Questione attuale anche nel nostro paese. Dobbiamo, infatti, riconoscere che in tema di relazioni sindacali siamo in mezzo a un guado. Da un lato assistiamo ad una crisi evidente del modello antagonista. Esso, anche se riscuote ancora un discreto consenso sia nel fronte sindacale che imprenditoriale e, ahimè, anche nella politica, dimostra, in pratica, di non essere in grado di rispondere, né per le imprese né per i lavoratori, alle sfide che derivano dalla modernità . Rispetto ad alcune situazioni come, ad esempio, nel Terzo mondo, dove la battaglia sociale e sindacale è ancora direttamente intrecciata con la lotta per la libertà o i diritti fondamentali di accesso alla vita, prima ancora che alla cittadinanza, l'antagonismo è, purtroppo, talvolta la sola risposta di fondo che si può dare. Ma, in una società democratica, come la nostra, a fronte di una matura realizzazione di conquiste sociali consolidate negli stessi ordinamenti, a fronte di una pluralità dialettica di istituzioni e rappresentanze, si rende necessaria una risposta più alta, più elaborata e complessa dello scontro sociale o, addirittura, di classe.

    Anche quando queste conquiste sociali fossero messe in discussione - e una nutrita schiera di liberisti ci prova -, la complessità intrinseca alle società industriali evolute o perfino post industriali, rende la risposta propria del modello antagonista una risposta bloccata, insufficiente, inadeguata a cogliere queste complessità e a farle evolvere verso una governance positiva. Serve, invece, elaborare una risposta riformista e partecipativa. Ma bisogna riconoscere, anche, che alla crisi del modello antagonista (non del conflitto! Questa distinzione va fatta sempre perché vi è molta strumentalizzazione su questo punto: il conflitto è una condizione di normalità democratica) si contrappone una preoccupante fragilità della democrazia economica . Le cause di questa fragilità sono molteplici. Quello che mi interessa evidenziare, in questa sede, è che questo stare in mezzo al guado, tra antagonismo consumato e partecipazione mancata, non produce né lo scenario che molti sperano, ovvero la desertificazione delle regole sociali e l'avvento dell'individualismo più esasperato, né, al contrario, quanto sperano i vari Bertinotti, ovvero l'avvio di un ciclo di lotte contro la globalizzazione. Il rischio è l'avvento di una palude di indifferenza e corporativismo, che sarebbe la peggiore soluzione alla crisi di rappresentanza e di identità che sia il lavoro che il capitale attraversano.

    In questo scenario va rafforzato il tentativo europeo di competere sul piano internazionale con un proprio modello sociale. Va riconosciuta l'audacia, se si pensa al modello americano o a quello di molte economie emergenti, della scelta europea di affermare la propria capacità competitiva globale senza rinunciare ad un modello sociale fondato sulla collaborazione, o - per dirla meglio con un'espressione europea, meno gradevole linguisticamente in italiano, ma più efficace - sul "partenariato" tra gli attori . Il dibattito europeo sulla partecipazione economica ha avuto varie fasi di avvicinamento: dal primo Rapporto Pepper del '91 alle Raccomandazioni del '92, all'ultimo Rapporto Pepper del '97 che, per la prima volta, introduce il concetto di azionariato collettivo. Inoltre, ricordo il Rapporto Davignon. Ma, negli ultimi tempi, i processi di integrazione monetaria e politica (non dimentichiamo che si sta discutendo di una Costituzione!) stanno determinando un'accelerazione normativa che produrrà una vera e propria rivoluzione organizzativa.

    Basti come esempio l'intreccio tra la direttiva sulla società europea e quella sull'Opa. E' ragionevole, infatti, pensare che il recente fallimento della direttiva sull'Opa europea sia solamente un fallimento congiunturale. Ma, allora, quando alla Società di statuto europeo, già approvata ed in via di trasposizione nei diversi Stati membri, si affiancherà l'Opa europea, avremo operante un nuovo sistema di regole che, scavalcando i singoli diritti nazionali e le relative Autorità di regolazione dei mercati, anzi obbligandoli ad un adeguamento forzato del loro diritto societario, consentirà, non solo una nuova organizzazione delle società per azioni, delle società anonime, delle società di capitali, ma anche una loro nuova contendibilità sovranazionale . Sono molte le direttive europee già entrate nella nostra vita quotidiana in punta dei piedi. La legge italiana sulla parità nasce dalla trasposizione di una direttiva europea; così come il decreto 626 sulla sicurezza, così come la legge sui Cae. A ben vedere si tratta di una strumentazione che, mentre afferma dei diritti, favorisce una prospettiva di rapporti non solo negoziale, ma anche di tipo partecipativo. Oltre alla società europea è stata, nelle settimane scorse, approvata la direttiva sulla consultazione ed informazione ed è in revisione quella sui Cae. Si sta discutendo, inoltre, di responsabilità sociale delle imprese e di partecipazione finanziaria dei lavoratori .

    Sulla base di questo scenario continentale è urgente avviare, anche in Italia, un percorso concreto di iniziative culturali, contrattuali e legislative di sostegno destinate a far sì che la "democrazia economica" diventi centrale nelle scelte di sistema del paese, motivata dalla rapidità e la profondità con la quale sta evolvendo il modello capitalistico. Basti pensare che il mastodontico processo di privatizzazioni avvenuto in Italia (per la verità più radicale rispetto a Francia e Germania) non è evoluto verso quell'idea di capitalismo diffuso sulla quale, negli scorsi anni, si è molto discusso. Mentre la finanza prendeva il ruolo improprio di unico metro di paragone della salute e dello sviluppo delle imprese (il caso Telecom basta per tutti!), che ruolo hanno avuto il capitalismo diffuso, i piccoli azionisti e l'azionariato dei dipendenti? Una nuova stagione di privatizzazioni è alle porte e riguarderà sia le aziende di servizi municipalizzate, sia le grandi utilitis. E' un'occasione da non perdere.

    Ma vi è un'ulteriore riflessione che ci fa sostenere che è attuale occuparsi di democrazia economica e modelli partecipativi. Essa si muove dalla constatazione che l'organizzazione capitalistica del lavoro sta cambiando profondamente . E' in atto una tendenza, maggioritaria in tutti i settori della produzione, dai servizi alla scomposizione del ciclo produttivo. Nelle poste, come nelle banche, nelle telecomunicazioni, nei trasporti, nel manifatturiero, nonché nella pubblica amministrazione: le imprese si aprono e si chiudono come fisarmoniche a seconda della musica che suonano i mercati. I processi di esternalizzazione, out-sourcing, sono all'ordine del giorno ed indicano, ormai, un modello produttivo a rete che se allunga la catena del valore, talvolta interrompe quelli dei diritti. Può la democrazia economica rispondere a tale problematica? Io penso di sì. Accanto ad un'esplicita battaglia per la salvaguardia dei diritti elementari e ad un'irriducibile capacità contrattuale sui processi aziendali e sulle condizioni materiali, si deve sviluppare un sistema complesso finalizzato a saldare tra loro i diversi anelli di questa frantumata catena, attraverso una rete di regole fondate sul principio della consultazione-partecipazione. Questioni come i comitati di consultazione e vigilanza nelle capogruppo, con poteri di intervento sull'intera rete, strutture efficaci di bilateralità, azionariato collettivo, fondi, organizzazioni indipendenti di controllo (esempio: "I consumatori"), sono tasselli che rafforzano il tentativo di orientare positivamente lo sviluppo e la riorganizzazione capitalistica per garantirne la trasparenza .

    Corresponsabilità e mission aziendale

    Contemporaneamente gli imprenditori, mentre operano per frantumare l'assetto produttivo delle loro imprese per sfruttare al massimo i vantaggi derivanti dalla flessibilità (e più esternalizzano più il problema della competizione si acuisce perché si finisce per inseguire una competizione da costi insostenibile!), più chiedono al lavoratore, di qualsiasi settore, di qualsiasi livello - sia esso l'impiegato di concetto o il lavoratore di terzo livello alla catena o sia esso il coordinato continuativo - di vivere il suo lavoro non semplicemente come l'offerta della sua forza lavoro, ma come se dovesse contribuire con qualcosa in più, con un'idea di corresponsabilità, di farsi parte della "mission" aziendale . Insomma, le imprese più stringono ed esasperano il gioco competitivo, talvolta mettendo a rischio il sistema dei diritti, più chiedono ai lavoratori di lavorare come se fossero dei soci. Ma continuano a trattarli come dei salariati! Di fronte a questa clamorosa contraddizione del sistema capitalistico post fordista si apre il vero dibattito sul futuro delle relazioni industriali . Vi è chi ne approfitta per calcare la mano sul primo dei due aspetti ed inseguire un'esasperata logica competitiva, anche a discapito di un equilibrato modello sociale. Non vi è in questa strada spazio per la partecipazione.

    Vi è anche chi, come la Cgil ed una parte della sinistra, si ferma e vede solo il lato oscuro della "forza": la crisi del sistema di garanzie e tutele. Separa i destini del lavoro da quelli dell'impresa rinchiudendosi nell'antagonismo . Io penso che bisogna assumere in pieno la sfida che deriva dal governare questa imponente trasformazione, pari solo, se non per alcuni aspetti addirittura superiore, alla prima rivoluzione industriale per i suoi aspetti sociali e all'introduzione del taylorismo per i suoi aspetti organizzativi e per le conseguenze sul lavoro e la vita delle persone. In sostanza si tratta di comprendere la realtà storica oggettiva nella quale viviamo per rovesciare i termini classici dell'approccio autaritario-rivendicativo sul quale si è fondata l'organizzazione e l'emancipazione del lavoro nel secolo scorso. Per dirla nel modo più semplice possibile: tu, imprenditore, mi chiedi di lavorare con lo stesso atteggiamento e la stessa disponibilità di un socio, ma discuti dei miei diritti e delle mie prestazioni come se fossi un subalterno, un dipendente, un salariato. Io, lavoratore, ti rispondo che ci sto ad assumermi le responsabilità e gli oneri che derivano dall'essere "socio", ma ti chiedo che questa condizione nuova mi venga riconosciuta, ti chiedo di entrare nel gioco. L'impresa diventa anche mia, con tutte le variabili, i limiti, le regole e le condizioni che insieme definiremo .

    Si può, in definitiva, sostenere che nelle sfide della modernità globale è possibile affermare un nesso logico ed organizzativo, una proprietà transitiva tra: sfida competitiva = qualità del prodotto e del processo = responsabilità = partecipazione. Se si osserva, anche al di fuori degli orizzonti produttivi, i problemi della vita collettiva e dell'organizzazione sociale contemporanea: dall'ordine pubblico all'immigrazione, al governo delle metropoli, ai servizi alla persona e alla collettività emerge, mi sembra, un'esigenza di ordine e di qualità non risolvibile esclusivamente con l'autorità (che ci vuole e deve essere meglio organizzata), ma anche con l'autorevolezza, che deriva da una visione della democrazia diffusa e del coinvolgimento responsabile dei… cittadini-utenti-clienti-soci ecc. La democrazia economica e la partecipazione affermano, in sostanza, una tesi sulla società, ne implicano una visione e un modello di riferimento. Sono, quindi, tesi non solo sul lavoro, la sua emancipazione e i suoi diritti, ma anche sulla democrazia, sul capitalismo, sulle forme e l'organizzazione della vita moderna. Non si tratta né di corporativismo, né di socialismo, né di autogestione: semplicemente, si tratta di partecipazione .

    7 giugno 2002

    (da ideazione 3-2002, maggio-giugno)


    Saluti liberali
    Forse all'autore sfugge un fatto essenziale e cioè che proprio il crollo del sistema fordista e la possibilità per le aziende transnazionali di disperdere la filiera di produzione ovunque, di andarsene "in toto" all'estero, di avvalersi di contratti flessibili ecc, rende aleatorio questo "ideale partecipativo". Anche qui si osanna la globalizzazione cercando, al contempo, di lenirne gli effetti negativi col ricorso a formule che la globalizzazione per prima ha provveduto diligentemente a mettere in crisi

    Saluti

  10. #30
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    Ecco dov' era finita la nostra disputa (mia e di PFB) sul liberalismo e sul liberismo economico.
    Non riuscivo più a trovare il thread. E' ovvio che parliamo della stessa cosa: di un mercato privo di ogni forma protezionistica internazionale, un mercato dove vige il libero scambio e dove la libera manifestazione dei comportamenti economici individuali è la condizione per il miglior funzionamento del mercato stesso.
    Ciò appurato, mantengo la mia posizione che consiste nell' affermare che il termine "liberalismo" è più consono ad una ideologia e/o partito politico che non a un indirizzo economico.

    Gianni Guelfi

 

 
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