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  1. #11
    SENATORE di POL
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    Veramente qui si sta parlando d'altro. In ogni caso il buon Martino è un sostenitore di posizioni libertarie, anche, ad esempio, contro l'uso delle cinture di sicurezza, eccetera. Sono posizioni che molto spessonon condivido perchè troppo astratte ed eccessive, ma hanno una loro logica ferrea e discendono dal principio di libertà e responsabilità individuale e dalla contestazione di ogni ruolo paternalistico dello Stato. Sono idee che possono essere respinte, ma aiutano a riflettere.......su libertà, responsabilità, autorità e bene pubblico.

    Saluti liberali.

  2. #12
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    Sono idee che possono essere respinte, ma aiutano a riflettere.......su libertà, responsabilità, autorità e bene pubblico.
    Veramente a me più che sul bene pubblico, fanno riflettere sul male individuale.

    Che ne diresti di incoraggiare anche la guida senza patente, in stato di ubriachezza, sotto l'effetto della droga, a 220 Km/h?

    Questo si che aiuterebbe a riflettere!!

    P.S.: Non rimproverare Tony, certo che è fuori tema. Ma chi credi che abbia letto tutti i tuoi chilometrici post?

  3. #13
    SENATORE di POL
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    Vedi i problemi posti da Martino sono seri, e non possono essere affrontati con una battuta di spirito. Sono decenni che i liberali-libreristi litigano fra loro su questi argomenti, con argomentazioni di grande rilievo e spessore culturale. Ripeto....io non sono sempre d'accordo con Martino, ma ammetto che, se seriamente intese (al di là di ogni polemica politica o di schieramento) molte sue idee "libertarie" meritano di essere esaminate e contribuiscono ad arricchire il dibattito sulla libertà individuale e il bene pubblico. Libero ovviamente tu di persarla diversamente.

    Cordiali saluti.

  4. #14
    SENATORE di POL
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    Predefinito La diagnosi di Fazio.

    dal sito di Ideazione :

    " La diagnosi di Fazio: giudizi scomodi e pregiudizi ideologici
    di Massimo Lo Cicero

    Le quattro coordinate di base della diagnosi di Fazio sull'economia nel 2001 sono tutte molto ruvide nei confronti dei paradigmi interpretativi che dominano la scena domestica in Italia. L'impianto logico del Governatore si fonda su giudizi molto espliciti. Primo : la condivisione della interpretazione che Alan Greenspan offre della crisi americana e della possibilità di superarla. In uno con il giudizio sulla sostenibilità della terapia fiscale per fronteggiarla. Secondo : il riconoscimento degli effetti positivi della globalizzazione sulla crescita futura dei paesi più deboli, a patto che il mondo sappia dare vita ad istituzioni capaci di governare questa dimensione globale dell'economia. Ma i governi e gli stati non hanno un ruolo esclusivo nella progettazione di queste nuove istituzioni. Terzo : l'affermazione che l'economia italiana sia riuscita a darsi nella prima metà degli anni Novanta una ragionevole stabilità monetaria ma, nei cinque anni successivi, non abbia trovato la strada della crescita. Ma la strozzatura dell'espansione non è venuta dal sistema degli intermediari finanziari, che hanno retto la sfida di una trasformazione competitiva: essa deriva dalle regole che disciplinano il mercato del lavoro e la previdenza e dalla complessiva inefficienza della macchina pubblica. Lo stato costa molto; l'amministrazione pubblica controlla il 50% delle destinazione del prodotto interno lordo; gli effetti di questo dilagare dello stato sono inefficienti ed inefficaci, contemporaneamente. Quarto : la denuncia del fatto che l'economia privata del nostro paese, stretta tra la dilagante mediocre presenza dello stato, i vincoli esistenti sul mercato del lavoro e la mancata diffusione della cultura finanziaria si è rifugiata in una ridicola dimensione d'impresa.

    Ma - smentendo una leggenda nazionale - il Governatore dimostra che la dimensione microscopica delle imprese italiane non è efficiente e non consente di affrontare la sfida delle tecnologie e della crescita. Fazio denuncia esplicitamente i vizi di questa anomalia dimensionale: molte imprese troppo piccole, da un parte, e poche imprese grandi dall'altra. Mancano le imprese di medie dimensioni mentre le grandi imprese, a loro volta, sono piccole per presentarsi adeguatamente alla scala del mercato mondiale ed europeo e, spesso, non hanno la capacità di competere su quei mercati. Si tratta di quattro verità molto scomode da accettare . Non mancano, infatti, i primi tentativi di deformare il contenuto della diagnosi per denunciarne la inadeguatezza, seppure implicitamente. Giuseppe Turani, ad esempio, si produce in un peana delle medie imprese presentandole come casi di dimensioni più piccole ma di successo: che i mercati finanziari non riescono a vedere e che, al contrario delle grandi, presentano performance migliori. Turani non commenta Fazio ma presenta i risultati di una indagine di Mediobanca anche se il suo articolo appare, sulle pagine di un quotidiano romano, dopo la presentazione delle considerazioni finali. Sarà anche vero che si indovina quando si pensa male ma è davvero strano che Turani arrivi alla medesima conclusione di Fazio - peccato che in Italia ci siano così poche imprese medie capaci di fare innovazione e sviluppo - mentre il lettore trae da quell'articolo la sensazione che l'Italia non sappia capire quanto valgono le sue imprese piccole. Cioè una smentita implicita della denuncia di Fazio. Essendo la definizione di piccolo e le conseguenze dell'analisi i punti ambigui ed opachi dell'articolo di Turani rispetto alla diagnosi di Fazio.

    L'impianto del Governatore, insomma, si contrappone a due strade intellettuali molto apprezzate in Italia: quella delle tecnocrazie europee e quella delle ricette socialdemocratiche per riformare il capitalismo . Fazio ripiega su una terza tradizione: quella del cattolicesimo liberale . Quella che difende lo stato ma non lo considera un demiurgo e che non mitizza la funzione delle minoranze illuminate, chiamate a governare la cosa pubblica nell'interesse del bene comune. Il Governatore guarda e commenta; misura la distanza che ci separa da paesi che hanno seguito altre strade e denuncia come l'Europa socialdemocratica registri una performance nella equità della redistribuzione dei redditi, in favore dei salariati, peggiore di quella realizzata negli Stati Uniti, all'insegna del capitalismo. Sono proprio queste opzioni americane - per un "istituzionalismo" dove lo stato sia solo primus inter pares rispetto alle altre organizzazioni pubbliche; per le analisi di Greenspan; per la responsabilità di ogni individuo nella costruzione del futuro - che alimentano la diffidenza di un parte della cultura nazionale verso Antonio Fazio. Gli Stati Uniti non sono un modello positivo per una parte della nostra classe dirigente. Ma questo, forse, è proprio il quinto fattore di ritardo che Fazio non ha indicato e che implicitamente si potrebbe aggiungere alla sua lista delle cause che frenano la nostra crescita .

    7 giugno 2002

    maloci@tin.it
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    Saluti liberali

  5. #15
    SENATORE di POL
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    Predefinito

    da www.lastampa.it


    " IL DIBATTITO TRA ESPERTI, OPERATORI E POLITICI
    Gli otto nodi da sciogliere per riformare il capitalismo
    Lo scoppio della bolla speculativa e la raffica di nuovi scandali negli Usa hanno messo a nudo i punti deboli del sistema finanziario occidentale

    LE falsificazioni e le frodi rischiano di distruggere il capitalismo» ha ammonito Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve. Enron, WorldCom, Tyco... Scandalo dopo scandalo, il sistema economico americano rivela le sue debolezze, che poi si riflettono sul sistema mondiale. Si impongono certe domande, alle quali si profilano delle risposte. Come migliorare la «governance» delle imprese?
    In teoria, il consiglio di amministrazione, con i suoi 10 o 20 membri, sarebbe il primo contropotere. Dovrebbe controllare e consigliare il presidente e l´amministratore delegato, impedendone eventuali sbandamenti. Nella realtà, il consiglio è composto da membri cooptati che di regola svolgono una funzione meramente notarile. Quando avremo norme contabili mondiali?
    Le imprese non parlano tutte il medesimo linguaggio contabile. L´Europa ha deciso di uniformarsi all´International Accounting Standard (Ias) entro il 2005, gli Stati Uniti sono fermi al loro Generally Accepted Accounting Principles (Gaap). Queste differenze non comportano solo una formidabile complessità di gestione: trattare un´operazione con un sistema contabile o con l´altro può gonfiare o comprimere i risultati di un gruppo. Questa indeterminatezza ha favorito la «finanza creativa» a detrimento della trasparenza dei conti. Per risanare il sistema, i revisori e i regolatori perorano la necessità di una convergenza delle due normative. Frits Bolkestein, commissario europeo al Mercato interno, ha dichiarato che «entro il 2005 è necessaria anche un´armonizzazione globale». Secondo un recente sondaggio McKinsey, il 90% dei dirigenti mondiali gradirebbe effettivamente una normativa comune. Però 8 dirigenti europei su 10 vorrebbero che la norma comune fosse lo Ias mentre otto americani su dieci vorrebbero il Gaap ... Come gestire il problema stock option?
    Alla fine degli Anni 90, gli introiti derivanti dalle stock option rappresentavano l´80% di quanto guadagnavano i dirigenti americani. Questa somma colossale ha avuto effetti perversi: ci sono stati dirigenti che hanno cercato di massimizzare il valore dei titoli a breve termine a detrimento delle strategie d´impresa a medio e lungo. Inoltre le stock option, in quanto remunerazioni sì, ma differite, non vengono contabilizzate nelle spese delle società. Gli estensori delle norme europee Ias hanno invece stabilito l´obbligo di contabilizzarle. La questione trova gli americani divisi: George Bush e la sua Amministrazione si oppongono ma grandi gruppi come la Coca-Cola hanno deciso di introdurre la contabilizzazione per conto loro. Possiamo ancora credere agli analisti?
    La professione dell´analista finanziario è caduta dal piedistallo. Poche settimane prima del fallimento della Enron, alcuni di loro consigliavano ancora di comprare azioni del colosso texano dell´energia. A questi professionisti si rimprovera innanzitutto di non aver mantenuto il dovuto distacco dalle direzioni finanziarie delle imprese. Più nello specifico, molti di loro, impiegati in banche d´affari, sono caduti in un vero e proprio conflitto d´interessi: non osavano esprimere giudizi negativi sulle imprese clienti delle banche per cui lavoravano. Una decine di analisti e diverse banche sono al momento sotto inchiesta da parte dell´autorità che sovrintende al mercato americano, la Securities and Exchange Commission (Sec), e della magistratura ordinaria dello Stato di New York . La Borsa favorisce troppo la visuale a breve termine?
    Che i tempi delle imprese siano compatibili con quelli della Borsa è una cosa di cui, ormai, parecchi dirigenti dubitano. Costoro deplorano un´eccessiva pressione borsistica, troppo spesso priva di rapporto con le prospettive reali di crescita. Si può avere fiducia nelle società di auditing?
    La scomparsa, sotto i colpi del caso Enron, della Arthur Andersen ha avuto l´effetto di una bomba nel mondo ovattato delle società di auditing. Dopo di allora, le cattive notizie si sono moltiplicate. La più recente: Weiss Rating, l´agenzia americana di controllo sugli investimenti dei fondi pensione americani, ha annunciato che il 94% delle società americane ha ottenuto dagli auditor la qualifica di buona salute, ma è dubbio che questa etichetta sia ancora credibile, dato che la stessa Weiss Rating sottolinea che su 100 imprese fallite negli ultimi sei mesi, 42 non avevano avuto difficoltà a ottenere la qualifica alla fine del 2001 e di 22 è stato dimostrato in seguito che avevano contabilità inesatte. Le società di revisione hanno il distacco e la serenità necessari a controllare davvero i conti dei loro clienti? In Francia, per aumentare l´indipendenza e la chiarezza dei bilanci, viene richiesta la certificazione di due distinte società di auditing. L´Italia, il Belgio, la Germania e l´Irlanda hanno mostrato interesse a questo sistema. Si dà troppa importanza alle agenzie di rating?
    Ultima bussola per gli investitori disorientati, le agenzie di rating, incaricate di valutare la capacità delle imprese di rimborsare i debiti, sono diventate protagoniste. Le loro note sono ormai indicatori preziosi per gli analisti finanziari in crisi di identità. «Noi non possiamo prevedere l´avvenire di un´impresa, ne valutiamo solo la solvibilità. Non possiamo sopperire alle inadeguatezze del sistema», mette le mani avanti François Ververka, responsabile di Standard and Poor´s per l´Europa. Il problema è che anche queste agenzie vivono essenzialmente delle parcelle delle imprese che valutano e che la qualità del loro lavoro dipende soprattutto da quella delle informazioni che le stesse imprese forniscono loro . Bisogna rafforzare le autorità di controllo?
    Il dibattito è aperto in tutto il mondo: negli Usa si stanno discutendo nuove regole (e anche nuove sanzioni per i manager «infedeli») mentre nuovi è più efficaci poteri d´inchiesta sopno attribuiti alla Sec, in Italia il Parlamento sta lavorando ad un aggiornamento della legge Draghi (testo unico della finanza). In Francia potrebbe presto vedere la luce una nuova Autorità dei mercati finanziari che unificherebbe le competenze di Cob (Commssione di Borsa) e Cmf (Consiglio dei mercati finanziari). Copyright Le Monde
    "


    Saluti liberli

  6. #16
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    Dal crollo delle borse mondiali qualcuno torna ad attendersi la palingenesi rivoluzionaria, la fine del capitalismo o quanto meno, in una prima fase, del "modello liberista". A costoro ricordo un tardivo insegnamento del signor Lenin : "non c'è assolutamente nessuna situazione che sia senza vie d'uscita per la borghesia". Credo che sia l'unica profezia di Lenin che si è avverata, e continuerà ad avverarsi.


    Saluti liberali

  7. #17
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    ma..credo che nessuno in definitiva si aspetti la palingenesi rivoluzionaria dal crollo delle borse..
    semplicemente si vorrebbe capire se e quando finalmente etica e mercato riusciranno a conciliarsi in modo da non giocare brutti scherzi ai piccoli risparmiatori.
    Antonio

  8. #18
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    Predefinito

    non direttamente dal crollo delle borse.....ma dal crollo del capitalismo che qualcuno ritiene esserne, seppur non nell'immediato, l'effetto ultimo....con l'aiuto della spinta delle celebri lotte anti-imperialistiche dei "popoli oppressi" e delle lotte di classe guidate dal "movimento" alleato del Sindacato (epurato dai socialtraditori e socialfascisti firmatari di patti con i governi "reazionari").

    Saluti liberali

  9. #19
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    Predefinito la sfida della democrazia economica

    dal sito di ideazione:

    " La sfida della democrazia economica

    Le ultime vicende politico-economiche italiane - la necessità di riformare il mercato del lavoro, lo scontro sull'articolo 18, il dibattito sul dialogo sociale, lo stesso attentato terroristico che è costato la vita di Marco Biagi - rimandano quasi tutte alla "questione lavoro". Tutto sembra riportarci alla centralità strutturale del mondo del lavoro. Esso è ancora il luogo d'incontro e sovrapposizione tra il momento materiale della trasformazione, la sua percezione produttiva di vitalità simbolica e la costruzione di prospettive di crescita economica e ricchezza diffusa. Certo, la fabbrica e il lavoro operaio hanno perso negli anni significanza sociale; è tramontato il modello fordista; sono emersi nuovi modelli di organizzazione aziendale; l'eredità di questi processi deve, forse, essere ancora registrata dalla politica nelle sue vibrazioni e potenzialità di lunga durata. Eppure, uno dei fulcri della possibile trasformazione politica contemporanea - all'interno del generale processo di mondializzazione dell'economia (di mondiale operari) - si determina senz'altro sulla capacità di governare questi nuovi processi economico-produttivi. La riforma del mercato del lavoro, del resto, a partire dalla revisione sperimentale dell'articolo 18 dell'ormai antiquato Statuto dei lavoratori, è stato uno dei primi impegni assunti dal governo scaturito dalle elezioni del 13 maggio 2001. Si tratta di un'iniziativa necessaria che, però, va inquadrata e chiarita in un processo più vasto e articolato. Un troppo facile nuovismo, giocato sulla sola manovra parlamentare, non riuscirebbe infatti a dare ragione di questa stagione riformista e, soprattutto, rischierebbe di apparire come l'esatto opposto di una consapevole opera di innovazione.

    Non basta pensare di riformare solo attraverso il ricorso a un decreto o a un voto in Parlamento. Occorre spiegare, fornire l'interpretazione complessiva del quadro, dispiegare chiaramente il processo di cambiamento di fronte ai vasti strati della popolazione, soprattutto per vincerne le resistenze diffidenti e il sentimento di paura di fronte al nuovo. Occorre fornire un punto di vista, il punto di vista. Per dirla con le parole dello stesso Marco Biagi: "E' legittimo considerare ogni elemento di modernizzazione o progresso un pericolo per le classi socialmente più deboli. E' sempre stato così nella storia che anche in questo caso si ripete. Tutto il disegno di legge 848 costituisce il passaggio dal vecchio al nuovo e vien da pensare che dopo l'articolo vi sarebbero state altre parti di quel testo a subire il veto di parte sindacale. Lo stesso "Statuto dei lavori" significa rivedere le tutele delle varie forme di lavoro e non solo estendere quelle attuali a chi ancora non ne dispone. Ogni processo di modernizzazione avviene con travaglio, anche con tensioni sociali, insomma pagando prezzi alti alla conflittualità".

    Occorre, in altre parole, riuscire a fornire rappresentanza politica alle stesse tensioni sociali, inverandole e politicizzandole nei processi di riforma. Il conflitto va compreso non compresso, affrontato non annullato. E' enorme la differenza tra questo approccio - quello giocato sulla libertà, sull'accettazione agonistica della sfida - e il pensiero socialdemocratico e socialmente debole, risentito e rassicurante, tutto ripiegato sulla difensiva. E il plus consiste soprattutto nella prospettiva di mutazione antropologica derivante da un approccio ispirato al riformismo politico e non al rivendicazionismo assistenzialista e conservatore. Un plus, appunto, che fa propria la dinamica della competizione, che si arrischia con travaglio e che, come diceva Biagi, è consapevole di pagare anche "alti prezzi di conflittualità" . Un plus che, però, consentirebbe di coniugare, in un unico progetto, flessibilità del lavoro, energia agonistica, fervore produttivo, creatività della tradizione italiana, nuovo ruolo di supporto degli enti locali (anche sul piano del rafforzamento psicologico dei soggetti impegnati nella ristrutturazione-riappropriazione) . Una ricetta in grado di consentire alle nostra impresa di competere nel mare aperto della globalizzazione. E' su questa base che deve allora impostarsi l'oggettivo interesse governativo per uscire dall'impasse determinato dal minimalismo di una impostazione non coinvolgente rispetto al modello sociale. Una reale azione riformatrice è infatti capace di trasformazioni socio-economiche ma anche - contemporaneamente - di espressione politica e di una narrazione pubblica all'altezza degli eventi.

    Si colloca in questo quadro il dibattito su un nuovo paradigma di relazioni industriali adeguato alle sfide dell'economia globale, un dibattito cui dedichiamo il dossier che segue. Ipotizzare oggi un modello alternativo a quello ingessato dalle vecchie tutele e dalla concertazione delle parti sociali non significa, infatti, tornare a paradigmi socialdemocratici ma, al contrario, introdurre uno schema inedito di democrazia economica che contemperi solidarietà ed efficienza e che tenga conto del tasso necessario di conflittualità. Si tratta della partecipazione competitiva, un modello di relazioni industriali del resto ormai alle porte sia con la società per azioni europea, cui dobbiamo adeguarci, sia con alcuni progetti di legge presentati da parlamentari del centro-destra e recepiti dal ministro Maroni, il quale aveva già dedicato a questa novità l'ultima parte del suo Libro bianco sul lavoro. E' un progetto d'ampio respiro nell'ambito di una società sempre più libera, dinamica e flessibile. Il concetto di partecipazione - nelle sue varie declinazioni: partecipazione attiva di chi lavora alle responsabilità, alle scelte aziendali, agli utili - contiene potenzialità evocative di nuove passioni politiche non inferiori al federalismo o all'estensione degli spazi di libertà (...).

    7 giugno 2002

    (da ideazione 3-2002, maggio-giugno)
    "

    Saluti liberali

  10. #20
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    Ecco qua due pecorelle smarrite che, sospirando, si chiedono dove mai stia di casa il capitalismo democratico (ecché vor di?), il capitalismo etico (andiamo già meglio).
    Non lo troverete mai se vi ostinate a cercarlo tra il modello thathcerian-reaganiano di deregulation che tanto piace ai Chicago boys nostrani, proff. Brunetta e Tremonti.
    Quello che è successo alla Enron e alla Worldcom è paradigmatico di quell' impostazione economica che ritiene basti togliere vincoli (leggi obbligo di bilanci trasparenti) e lacci e lacciuoli (leggi rappresentanze sindacali) che tengono legati gli uomini del fare, per veder immediatamente crescere il Pil a beneficio di tutti.
    Perché parole d' ordine quali "liberi tutti" e "enrichissez-vous" che il liberismo senza vincoli statali sponsorizza, NON favoriranno una crescita a beneficio di molti ma una a favore di pochi.
    E quei pochi sono la ben individuata casta brahminica dei top-executives, degli uomini del fare appunto.
    Casta che anche nei momenti di bufera delle borse (bufera scatenata dalle loro politiche dissennate favorite dalla mancanza di regole) riesce comunque a salvarsi.
    Prendiamone atto (e prima lo faremo meglio sarà):
    il mercato NON si autoregola.
    Ergo, servono dei paletti, servono, se non proprio dei lacci, dei lacciuoli, che solo uno Stato, solo un governo desideroso di proteggere i suoi cittadini lavoratori-consumatori-investitori può introdurre.
    In parole povere: serve un governo socialdemocratico

    saluti keynesiani

    Gianni Guelfi

 

 
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