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  1. #21
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    Predefinito re: Per una sinistra rivoluzionaria

    Lettera aperta ai compagni e alle compagne di Rifondazione Comunista - Partito Comunista dei Lavoratori

    Lettera aperta ai compagni e alle compagne di Rifondazione Comunista



    19 Novembre 2015




    PER MANTENERE UNO SPAZIO POLITICO CLASSISTA E ANTICAPITALISTA, PER RILANCIARE UN PROGETTO COMUNISTA E RIVOLUZIONARIO

    Cari compagni e care compagne,
    il Comitato Nazionale del vostro partito (7/8 novembre 2015) ha di fatto avviato lo scioglimento del PRC nella cosiddetta costituente della “sinistra italiana” che partirà a gennaio.
    Il referendum interno serve a dare convalida formale ad una scelta pubblica già compiuta e già annunciata da parte della Segreteria nazionale del PRC.
    Che questa sia la scelta, quale che sia il giudizio di merito, non può essere motivo di dubbio. Il richiamo formale al PRC e al suo “rafforzamento” che la mozione della Segreteria contiene serve a indorare (e a nascondere) con parole auliche una scelta reale esattamente opposta: quella di dissolvere il vostro partito in un contenitore più ampio, diretto dai gruppi dirigenti di SEL e di ex bersaniani del PD.


    IL PRC SI SCIOGLIE IN UNA GRANDE SEL (... UN PO' PIÙ “A DESTRA”)

    La vostra Segreteria afferma che il processo costituente della sinistra italiana si fonda sulla comune accettazione del “superamento del centrosinistra”. È falso. Com'è del tutto evidente, i gruppi dirigenti di SEL ed ex bersaniani muovono in una direzione dichiaratamente opposta: quella di “ricostruire il centrosinistra”, oggi precluso dal renzismo. Per questo preservano centinaia di assessori in tutta Italia nelle giunte di centrosinistra, nonostante Renzi. Se alle prossime elezioni amministrative, nella maggioranza dei casi, sceglieranno di presentarsi autonomamente e in alternativa al PD è perché il renzismo ha rotto i vecchi equilibri del “caro centrosinistra”: per ricomporre il centrosinistra occorre dunque contrapporsi a Renzi, ricostruire un proprio pacchetto di consenso, e poi ribussare alle porte del PD. Sperando che ad aprire la porta torni, prima o poi, il caro vecchio Bersani. Non solo: proprio per rafforzare nella stessa composizione del nuovo soggetto la vocazione programmatica del centrosinistra, i gruppi dirigenti di Sinistra Italiana vogliono aprirlo a settori cattolico-ulivisti del tutto estranei ad ogni tradizione politica e culturale della sinistra. Il respingimento pubblico e sdegnato dell'appellativo giornalistico di “cosa rossa” cos'è se non il riflesso di tutto questo?

    L'argomento consolatorio secondo cui il “processo costituente sarà dal basso” e “conteranno le nostre idee” capovolge la realtà dei fatti. Tutto il processo è decollato dall'“alto”. Prima dall'accordo tra i gruppi dirigenti delle diverse formazioni e soggetti, inclusa la vostra Segreteria. Poi dall'iniziativa pubblica e pubblicizzata dei gruppi dirigenti e parlamentari di SEL e degli ex bersaniani, che hanno attivato la presentazione in tutta Italia del nuovo soggetto, ben prima dell'assemblea di gennaio. Gruppi dirigenti di SEL ed ex bersaniani che già godono in partenza della rendita di posizione di unica rappresentanza parlamentare della nuova formazione (assieme a Civati) da qui alle prossime elezioni politiche: con l'enorme peso condizionante che questo fatto esercita sulla costituzione materiale del nuovo soggetto, la sua presenza mediatica, la sua immagine pubblica, la selezione materiale delle sue rappresentanze sul territorio. La presenza diffusa all'atto di presentazione a Roma di Sinistra Italiana di settori di burocrazia CGIL, ARCI, vecchio associazionismo di estrazione PD, reso orfano del renzismo, prefigura gli equilibri interni reali alla nuova formazione, e la dinamica annunciata della sua evoluzione, più di mille rassicurazioni formali. La conclusione è semplice: la vostra Segreteria nazionale avvia lo scioglimento del PRC in un contenitore diretto (politicamente, culturalmente, organizzativamente) da un personale politico del tutto organico alla tradizione di governo del centrosinistra. Dunque alla gestione capitalistica della crisi. La difesa platonica e formale della “ragione comunista” da parte di Paolo Ferrero potrà forse valere sul terreno negoziale con gli altri soggetti della Costituente in ordine alla salvaguardia di singoli ruoli dirigenti. Ma nessuna riserva indiana per dirigenti nazionali del PRC potrà mascherare lo scioglimento e la liquidazione del partito entro un nuovo soggetto politico cui spetterà, non a caso, la piena sovranità delle scelte elettorali, politiche, istituzionali.


    UN EPILOGO ANNUNCIATO

    Non siamo meravigliati dal triste epilogo della parabola di Rifondazione. Quando rompemmo col PRC nel momento del suo ingresso nel governo Prodi, con tanto di ministri (Ferrero) e cariche istituzionali (Bertinotti), dicemmo apertamente che la compromissione di governo con la borghesia italiana, contro i lavoratori, avrebbe avviato la liquidazione del PRC. Perché ne minava alla radice le ragioni di classe, e al tempo stesso confermava nella forma più clamorosa l'assenza, nei suoi gruppi dirigenti, di ogni programma comunista.
    Fummo facili profeti. Quanto è avvenuto nei dieci anni trascorsi ha confermato la previsione. Il ministro che entrò in quel governo, votando missioni di guerra, leggi di precarizzazione del lavoro, abbassamento delle tasse sui profitti (l'Ires dal 34% al 27%!), è oggi il segretario che scioglie il partito. Dopo averlo imboscato negli ultimi anni in tutte le possibili combinazioni di liste e soggetti “civici” (da Ingroia a Spinelli), privi di ogni riferimento di classe.
    Negli ultimi mesi, in particolare, la linea della Segreteria del PRC sulla Grecia è stata davvero emblematica. Prima la giustificazione della capitolazione di Tsipras alla troika; poi il pubblico sostegno a Tsipras alle elezioni anticipate di settembre, quando chiedeva il mandato sul programma di austerità concordato; poi il plauso alla “vittoria” di Tsipras in compagnia delle Borse e dei governi capitalistici europei; infine la continuità dell'appoggio a Tsipras nel momento stesso in cui vara le politiche di lacrime e sangue contro i lavoratori subendo il primo sciopero generale di massa (12 novembre), hanno scandito di fatto, nel loro insieme, una confessione pubblica: il gruppo dirigente del PRC non ha altro orizzonte strategico reale che il governo “progressista” del capitalismo, in Italia e nel mondo. Per di più in un contesto storico in cui il riformismo ha esaurito il proprio spazio storico e dunque maschera la continuità delle controriforme (come proprio la Grecia insegna). Perché allora meravigliarsi dello scioglimento del partito in una costituente di sinistra dichiaratamente governista? Ogni confine reale, politico e programmatico, tra PRC e SEL si dissolve nell'adattamento comune al capitale.


    UN PROGETTO CLASSISTA E ANTICAPITALISTA, COMUNISTA E RIVOLUZIONARIO

    Detto questo, non consideriamo lo scioglimento del PRC un fatto “che non ci riguarda”. Non solo perché i promotori del PCL militarono in Rifondazione Comunista per quindici anni, dando battaglia coerente su un programma anticapitalista in contrasto con i suoi gruppi dirigenti maggioritari (Bertinotti, Cossutta, Diliberto, Rizzo, Ferrero, Vendola). Ma anche e soprattutto perché sappiamo che nel vostro partito, al di là dei suoi gruppi dirigenti, hanno continuato a militare tanti compagni e compagne sinceramente comunisti, che hanno cercato nel PRC uno strumento non di resa ma di lotta, non di governo ma di rivoluzione. Compagni e compagne che abbiamo trovato e troviamo in tante battaglie comuni, nel movimento operaio, nei movimenti giovanili, nelle lotte ambientaliste, sul territorio, sempre contro il comune avversario di classe. E quindi anche contro le coalizioni di centrosinistra sposate da SEL (e anche in tanti casi dal PRC) o i governi di unità nazionale in cui stava Fassina.

    Perché questo sbandamento e questa ulteriore dissoluzione si inserisce in un contesto di profonda involuzione della coscienza di classe. Le sconfitte dello scorso ventennio, i processi di scomposizione e ricomposizione determinati dalla crisi e dalle ristrutturazioni in corso, la compartecipazione alle tante giunte e governi di centrosinistra da parte delle principali organizzazioni del movimento operaio, hanno logorato in larghi settori di massa la capacità di riconoscere le differenze di classe, la consapevolezza dei propri interessi, la propria identità e forza collettiva. Hanno creato confusione, consumato immaginari e scomposto relazioni sociali.
    Questa scelta di sfumare il proprio colore e il proprio anticapitalismo, seppur simbolico e retorico più che reale, all’interno di un indistinta sinistra italiana, pensiamo quindi che rilanci e rinforzi questo processo generale di involuzione della coscienza di classe.

    A questi compagni e a queste compagne chiediamo allora di non ripiegare le bandiere. Di non piegarsi ad una scelta di liquidazione tra le braccia di Vendola e Fassina. Ma anche di non arrendersi allo sconforto e alla tentazione di abbandono come è avvenuto per decine di migliaia di compagni e compagne in tanti anni.

    Noi non siamo più un “gruppo”, ma un piccolo partito, l'unico oggi esistente in una dimensione realmente nazionale a sinistra del PRC. Un partito impegnato nella lotta di classe e nei movimenti di massa, che lavora per la più larga unità d'azione dei lavoratori e delle loro organizzazioni, e che vuole introdurre in ogni lotta la prospettiva di un governo dei lavoratori: l'unica vera alternativa, quella rivoluzionaria.
    Un partito che si presenta come tale alle elezioni, in contrapposizione ad ogni forma e logica di centrosinistra, e contro ogni camuffamento “civico”, per presentare il programma comunista alle più larghe masse, fuori da ogni logica minoritaria o rinunciataria.
    Un partito schierato internazionalmente al fianco dei lavoratori, dei popoli oppressi dall'imperialismo, delle loro lotte di emancipazione e liberazione, a partire da una logica classista, estranea al campismo e allo stalinismo.
    Un partito impegnato per la ricostruzione dell'Internazionale comunista e rivoluzionaria, al fianco delle nostre organizzazioni sorelle di Grecia, di Turchia, di Argentina, e di altri Stati e nazioni: per unire in ogni paese e sul piano mondiale tutti i sinceri comunisti che vogliono battersi per il potere dei lavoratori. Contro ogni illusione di “riforma sociale e democratica” dell'Unione Europea o della NATO.

    Certo, la costruzione di un partito rivoluzionario è terribilmente complessa. Tanto più in un paese come il nostro segnato da un profondo arretramento del movimento operaio e della sua coscienza. È una costruzione controcorrente, in un campo di rovine prodotte da chi ha disperso grandi potenzialità e grandi occasioni. Ma rinunciare alla costruzione di questo partito, per accontentarsi della sola esperienza dei movimenti, renderebbe un pessimo servizio ai movimenti stessi, che tanto più in un quadro di frammentazione hanno bisogno di incrociare una prospettiva unificante. Come non ci si può semplicemente organizzare in una rete o un coordinamento diffuso di soggetti ed esperienze diverse, che si ritrovano su un minimo comun denominatore di resistenza o opposizione. Serve un partito. Tanto più oggi, di fronte ad una crisi profonda ed epocale del modo di produzione capitalista, che scuote il consenso e l’egemonia delle classi dominanti, che divarica condizioni sociali e disuguaglianza, che precipita le contraddizioni intercapitaliste e lo scontro di classe. Serve una direzione alternativa. Un soggetto organizzato e radicato che porti in ogni lotta il senso di un progetto generale, che sviluppi la coscienza, che contrasti la demoralizzazione o le illusioni. Per l'appunto, un vero partito comunista.

    Questo è il nostro progetto ed il nostro tentativo. Vi proponiamo quindi di confrontarci con noi, sul passato e soprattutto sul presente della lotta di classe e del ruolo indispensabile del partito, per mantenere ed allargare nel nostro paese uno spazio politico classista e anticapitalista, per provare a costruire insieme il partito comunista e rivoluzionario.

    Partito Comunista dei Lavoratori

    partecipate e aderite al partito COMUNISTA in pieno congresso a questo link http://forum.termometropolitico.it/6...l#post13212177

  2. #22
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    Predefinito Re: Per una sinistra rivoluzionaria

    La sezione PCL diventa ora la sezione dell'alleanza "Per una sinistra rivoluzionaria", che comprende PCL e Sinistra Classe Rivoluzione.
    Venezuela e Zimbabwe nei nostri cuori!

  3. #23
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    Predefinito Re: Per una sinistra rivoluzionaria

    Aquarius – Contro il razzismo di Salvini e l’ipocrisia del Pd. Unità di classe di tutti i lavoratori!

    La vita di 629 tra uomini, donne e bambini ha occupato il centro della campagna razzista del Ministro dell’interno e capo della Lega, Matteo Salvini. L’operato del governo giallo-verde è un attacco ai diritti dei profughi da respingere, senza se e senza ma.

    È una campagna totalmente strumentale: la Marina italiana che nega lo sbarco all’Aquarius è la stessa che ha concesso l’approdo ai porti italiani di una nave di un’altra Ong, la Sea Watch, con 223 profughi, il giorno prima. Il 14 giugno oltre 900 persone sono sbarcate a Catania dalla nave “Diciotti” della Guardia costiera italiana.

    Il governo giallo-verde non ha intenzione di chiudere i porti, ma di usare l’Aquarius come specchietto per le allodole per la propria base elettorale e, allo stesso tempo, per alzare la voce ai tavoli dell’Unione europea.

    Mentre combattiamo la xenofobia di Salvini e soci, rifiutiamo di unirci al coro in difesa dell’Unione europea e dei suoi presunti “valori”. L’Unione europea è tutto fuorché un esempio di accoglienza. Nel 2017 nelle acque del Mediterraneo hanno perso la vita 3017 persone, nei primi cinque mesi del 2018, ben 638. E questi sono solo i dati ufficiali. Nessuno nei palazzi di Bruxelles, Parigi, Berlino o Madrid ha versato una lacrima per queste morti.

    Sulla pelle degli immigrati si gioca uno scontro tra le borghesie europee. É vomitevole l’atteggiamento del governo Macron, che ha respinto oltre 10mila immigrati alle frontiere di Bardonecchia e Ventimiglia solo quest’anno. È solidarietà di pura facciata quella del governo del socialista Sanchez, che accoglie la nave a Valencia ma mantiene i muri, anzi le reti, alte 12 metri nelle sue enclavi in terra africana a Ceuta e Melilla, per impedire l’entrata di tanti disperati.

    Non abbiamo nessun valore da condividere con quell’Europa tanto democratica e solidale da rinnovare (lo scorso aprile) l’accordo con la Turchia per trattenere i profughi siriani lontano dai suoi confini. Costo totale dell’operazione, sei miliardi di euro. Con una faccia tosta da criminale incallito, Erdogan ha spiegato che con quei finanziamenti sistemerà i profughi nelle zone conquistate all’Ypg, la milizia popolare curda.

    Un’Europa che con la nuova Operazione Themis, che dal primo febbraio ha sostituito Triton, ribadiva il principio dell’inviolabilità della “Fortezza Europa” e “elimina l’obbligo di trasferire i migranti soccorsi in Italia” (il sole 24 Ore) e che, quindi, ha fornito un appiglio legale alla posizione di Salvini rispetto alla questione Aquarius.

    Il capo della Lega non ha il dono dell’originalità nemmeno sulla proposta di chiusura dei porti italiani. Tale idea era stata avanzata nell’estate scorsa da Minniti, suo predecessore al Ministero degli interni. Il Partito democratico oggi si atteggia a campione di solidarietà ma ieri, al governo, è stato artefice dell’accordo con la Libia per la costruzione di 34 centri di “accoglienza” sul suolo del paese africano, finanziati dall’Italia. Centri in realtà di detenzione, veri e propri lager, oggetto di condanna dell’Onu per torture, stupri e ogni tipo di abuso nei confronti di centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, ma che hanno assicurato a Minniti il plauso bipartisan di tutte le principali forze politiche.

    E infatti, hanno tranquillizzato l’opinione pubblica e bloccato gli sbarchi: gli arrivi dalla Libia sono diminuiti dal 2016 del 78%. La gestione dell’emergenza umanitaria è stata “esternalizzata” ai signori della guerra libici. Libia oggi “terra di nessuno” anche a causa della guerra imperialista che portò alla caduta e poi uccisione di Gheddafi, approvata dal governo Berlusconi al cui interno c’era la Lega, un tempo “Nord”.

    Il terreno fertile per la propaganda razzista è stato preparato dai governi del partito democratico a colpi di emergenze securitarie e di Daspo urbani. Il nostro antirazzismo non ha nulla a che spartire con la pietà caritatevole da salotto buono di “Repubblica”.

    In Italia in realtà non c’è nessuna “emergenza migranti”. C’è un emergenza lavoro che non c’è, un emergenza salari da fame, un emergenza pensione a 70 anni, un emergenza casa… e ne citiamo solo alcune.

    Davanti a una situazione insostenibile, milioni di lavoratori e giovani hanno dato fiducia al M5S (e in misura minore alla Lega) perché arrivasse un cambiamento. Il nuovo governo giallo-verde è nato sulla base del ricatto di Mattarella e dei mercati: Salvini e Di Maio sanno che non potranno rispettare nessuna delle promesse fatte ai lavoratori e ai pensionati. Utilizzano allora un’arma di distrazione di massa come il razzismo, che in tempi di crisi economica e sociale come quelli che viviamo in Italia può trovare un’eco, almeno temporaneamente, nella mancanza di una qualunque alternativa da parte del movimento operaio e soprattutto della sua direzione.

    In realtà Salvini sa benissimo che di immigrati il capitalismo ha bisogno. Ha bisogno di chi raccoglie i pomodori a due euro all’ora, necessita di disperati disposti a lavorare a tutti i costi da utilizzare come leva per diminuire salari e diritti per tutti i lavoratori, italiani e immigrati. Non a caso Salvini propone di ammorbidire la legge contro il caporalato “che invece di semplificare le cose (per i padroni?, ndr) le complica”.

    L’emergenza profughi è un affare per tante aziende. Dei 5 miliardi di euro destinati all’accoglienza da parte dello Stato, ben pochi vanno ai richiedenti asilo. La stragrande maggioranza se li intascano affaristi (di qualunque colore politico) la cui unica morale è il profitto.

    Insomma, il razzismo serve al capitalismo, non solo dal punto di vista della propaganda.

    Nella lotta contro il razzismo e la xenofobia non basta dunque un’opera di controinformazione, pur giustissima. È necessario operare una netta separazione tra le bandiere del movimento antirazzista e quelle del partito democratico e dotarsi di un programma che punti all’unità di classe tra lavoratori italiani e immigrati

    Tale programma deve prevedere l’abolizione del decreto Minniti, della Bossi-Fini e di tutte le leggi che discriminano gli immigrati, l’abolizione del reato di immigrazione clandestina e della logica dei flussi; la cittadinanza italiana dopo tre anni di residenza per chi ne faccia richiesta e per tutti i nati in Italia. Antirazzismo è anticapitalismo!

    Aquarius ? Contro il razzismo di Salvini e l?ipocrisia del Pd. Unità di classe di tutti i lavoratori! | Rivoluzione
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  4. #24
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    Predefinito Re: Per una sinistra rivoluzionaria

    Domanda, perché i trozkisti (PCL e Alternativa Comunista) non mettono il feed rss ai loro siti come i loro benemeriti compagni di Sinistra Classe Rivoluzione?
    Venezuela e Zimbabwe nei nostri cuori!

  5. #25
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    Predefinito Re: Per una sinistra rivoluzionaria

    Prima gli sfruttati! La campagna contro gli immigrati è contro di te

    “Prima gli italiani” è la bandiera di Salvini, con Di Maio complice.
    Richiama facile consenso ma è una truffa contro di te. Serve a distogliere il tuo sguardo da chi ti sfrutta per indirizzarlo contro altri sfruttati. Perché il tuo vero nemico non è l'immigrato, è il padrone che ti toglie il lavoro, che ti paga un salario da fame, che ti costringe a orari massacranti, oppure il banchiere che ti impicca a un mutuo che vale una vita. Guarda caso sono gli stessi capitalisti cui Salvini e Di Maio regalano la Flat tax mettendola sul tuo conto. Altre decine di miliardi regalati ai padroni, pagati inevitabilmente coi tagli alla sanità, ai servizi, al lavoro (come hanno fatto i governi del PD). Gli italiani che vengono “prima” sono loro, non sei tu. Tu sei quello che paga. Per loro non è mai finita la pacchia, per te non c'è mai stata.

    “Cacciamo 500.000 clandestini”, grida Salvini.
    Ma i “clandestini” sono quelli che la legge Bossi-Fini ha reso tali. Perché magari hanno perso il lavoro, e dunque il permesso di soggiorno. Perché senza permesso sono sfruttabili senza tutele e senza limiti, a esclusivo vantaggio dei profitti. Perché anche centinaia di migliaia di immigrati regolari, nei campi o nei cantieri, vengono costretti a 12 ore di lavoro per un euro all'ora dalla sola paura di perdere il lavoro, e dunque il permesso. E per questo sono usati a loro volta come arma di ricatto contro i lavoratori italiani. Regolarizzare gli immigrati, cancellare la Bossi-Fini, è dunque nel tuo interesse, non in quello del tuo padrone. A uguale lavoro, uguali diritti!

    “Gli immigrati arrivano in troppi, dobbiamo respingerli”.
    La verità è che troppi sono i giovani, le donne, i bambini, costretti a fuggire da guerre e saccheggi che da sempre i capitalisti di casa nostra portano a casa loro, a caccia di petrolio, litio, cobalto, espropriando terre e corrompendo governi. In tutta la storia dell'umanità nessuna legge per quanto dura ha mai arrestato la fuga dalla fame e dalla morte. Se 34.000 morti nel Mediterraneo non sono stati sufficienti ad arrestare i flussi, quale legge sarà mai “sufficiente”? L'unico vero effetto degli sbarramenti è aumentare le pene dei migranti. Come quelle inflitte dalle milizie libiche nei campi lager finanziati da Minniti (coi soldi tuoi) col plauso di Salvini. Lo stesso che oggi vorrebbe pagare nuovi campi di concentramento in Libia. Questa è la vera complicità coi trafficanti, a tue spese.

    “L'Europa ci ha lasciato soli e ora ci fa la morale”.
    La verità è che nessun governo europeo può fare la morale a nessuno. Ognuno di loro vuole continuare a saccheggiare l'Africa (sgomitando con gli alleati concorrenti) e al tempo stesso respinge l'esodo che quel saccheggio produce. Ognuno dichiara principi umanitari, ma solo quando si tratta della frontiera altrui. Ognuno sventola la propria bandiera nazionale, Macron contro Salvini, Salvini contro Macron, i migranti presi come ostaggio: in realtà ognuno cerca di raccattare consenso tra i propri salariati per amministrare gli interessi dei propri capitalisti. Parlano della tua “sovranità”, ma è la sovranità del capitale contro di te. In ogni paese e sotto ogni governo.

    C'è allora un solo modo di risolvere la questione dell'immigrazione. Mettere in discussione un regime inumano che la produce e la sfrutta. Quel regime si chiama capitalismo, in Italia, in Francia, in America e ovunque. Invece di farci arruolare dietro le bandiere nazionaliste dei nostri sfruttatori, in una guerra che non ci riguarda e che è fatta contro di noi, è necessario unire in una lotta comune tutti gli sfruttati, di ogni nazione e colore, contro il nemico comune. Per un'Europa socialista.

    “Prima gli sfruttati” è ovunque l'unica nostra frontiera.

    Partito Comunista dei Lavoratori

    Prima gli sfruttati! La campagna contro gli immigrati è contro di te - Partito Comunista dei Lavoratori
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  6. #26
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    Predefinito Re: Per una sinistra rivoluzionaria

    “Decreto dignità” – La montagna e il topolino

    Il vicepremier, ministro del lavoro, dello sviluppo economico e delle politiche sociali nonché leader del primo partito italiano Luigi Di Maio ha promesso dignità. Parola grossa che vuole condensare in un decreto legge in corso di preparazione proprio mentre scriviamo.

    Dignità per i lavoratori, i disoccupati, i precari, poveri che in questi dieci anni hanno pagato il prezzo maggiore della crisi del capitalismo. Vediamo ora quale topolino ha partorito questa montagna.

    Lotta alla precarietà? Per i contratti a termine rimane il tetto dei 36 mesi (si parlava di ridurlo a 24); si riducono da 5 a 4 (che audacia!) i rinnovi possibil; si introdocono causali iper generiche; si allungano i termini per l’impugnazione; si chiede qualche spicciolo in più di contributi alle imprese. Sparisce l’impegno di abolire lo staff leasing.

    Jobs Act: Nulla di fatto, tutto rimane come prima su articolo 18 e licenziamenti, sfuma anche l’ipotesi di elevare gli indennizzi per chi viene licenziato senza giusta causa.

    Lotta alla povertà? L’idea di un salario minimo legale orario rimane confinata nelle chiacchiere da talk show.
    Delocalizzazioni: Si introduce una penale per le grandi imprese (sopra i mille dipendenti) che delocalizzano all’estero nel caso abbiano goduto di contributi pubblici nei 10 anni precedenti. Una multa che certo non impressionerà le multinazionali, sempre ammesso che non venga poi stoppata in sede Ue.

    Reddito di cittadinanza? “Partiamo subito”, “le coperture ci sono”, e via promettendo. Alla prova dei fatti non ne rimane traccia se non l’ipotesi di finanziare maggiormente il reddito d’inclusione varato dal governo Gentiloni (vedremo se, quanto e con quali risorse). Il reddito d’inclusione, ricordiamolo, tocca marginalmente solo un settore di poverissimi: famiglie con Isee sotto i 6mila euro e un reddito entro i 3mila, in cui ci siano figli minorenni o disabili, o disoccupati over 55.

    Quanto alle ipotesi sul reddito di cittadinanza, i famosi 780 euro, Di Maio è stato chiaro: chi lo prende deve lavorare gratis per il Comune e frequentare corsi di formazione a tempo pieno accettando al massimo la terza proposta di lavoro. Sarà la manna dal cielo per gli enti di “formazione” più o meno fasulli, quasi tutti privati, i Comuni useranno i disoccupati invece di rispettare le piante organiche, ma di posti di lavoro non se ne vedrà l’ombra. Ad ogni modo per il momento anche queste sono chiacchiere da salotto.

    Intervistato da Bianca Berlinguer il 26 giugno, Di Maio ha esordito dicendo che intende “porre fine alla guerra tra imprenditori e lavoratori”. Al ministro sfugge evidentemente che questa guerra viene condotta unilateralmente tutti i giorni dell’anno dai padroni (pardon, imprenditori) e che il suo frutto sono state precisamente quelle leggi come la Fornero, il Jobs Act, le privatizzazioni, le leggi precarizzanti, la Buona scuola, e decine di altre, in una lista che si allunga indietro nel tempo almeno di una trentina d’anni.
    Naturalmente gli “imprenditori” non si sono fatti impressionare più di tanto e hanno iniziato subito a strillare come aquile per ridurre ulteriormente le già micragnose misure del decreto intimando che se ci sono soldi vadano a ridurre le tasse sui profitti, alle lucrose grandi opere e al pagamento degli interessi sul debito.
    Se guardiamo ai contenuti reali, Di Maio finora sta seguendo una politica analoga a quella del centrosinistra e del Pd al netto della fase Renzi. Anche sul lavoro festivo senza regole, regalo del governo Monti che ha rovinato la vita a centinaia di migliaia di dipendenti del commercio con turni impossibili (e anche a molti piccoli esercenti costretti ad aperture no stop per fronteggiare la concorrenza della grande distribuzione), Di Maio propone di tornare alla situazione precedente, quando i Comuni “regolavano” le aperture (facendo sempre gli interessi della grande distribuzione); in aggiunta, ipotizza Di Maio, ci saranno 8 (otto) festività garantite. Insomma: tolti Natale e Capodanno il lavoratore avrebbe “ben” 6 tra domeniche e altre feste (Pasqua, Ferragosto…) che avrà la ragionevole certezza di poter trascorrere in libertà… Tripudio.
    Di Maio sceglie un’immagine dialogante: Renzi insultava i sindacati mentre Di Maio li incontra spendendo buone parole e promesse, ma i dossier sul tavolo del Ministero sono brucianti, a partire dal caso Ilva, e non basta dire “incontreremo tutti i sindacati”, bisogna scegliere se schierarsi coi lavoratori o coi padroni.

    Si ripropone con questo governo la storia del poliziotto buono (Di Maio) e di quello cattivo (Salvini) o, se si preferisce, di un pesante bastone accompagnato da una carota molto striminzita.
    Il volto “riformista” e popolare del governo che Di Maio vorrebbe incarnare appare quindi assai pallido precisamente su quel terreno sociale che doveva essere il suo cavallo di battaglia. Del resto è la lezione di tutti quelli che in Europa in questi anni, da Tsipras a Hollande, hanno vinto le elezioni promettendo di cambiare rotta e sono finiti tutti, e molto rapidamente, ad applicare le ricette dell’austerità.

    Il balletto continuerà quest’autunno sulle partite più pesanti della legge di bilancio, delle pensioni, ecc. Non facciamo ipotesi sulle ulteriori contorsioni, ma di una cosa siamo certi: a un certo punto il “terzo incomodo”, la classe lavoratrice, giungerà alla conclusione che se la dignità promessa non arriva con le buone maniere bisogna prendersela scendendo in campo in prima persona nelle piazze. Lavoriamo per questo!

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  7. #27
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    Predefinito Re: Per una sinistra rivoluzionaria

    La prova del budino – Il governo giallo-verde e la classe lavoratrice


    Un vecchio e noto proverbio inglese dice che la prova del budino è mangiarlo. Calza perfettamente anche per l’esperienza che milioni di persone si apprestano a fare del governo giallo-verde.

    Per capirne le prospettive non possiamo accontentarci di giudicare gli avvenimenti a partire dalle parole che rivestono i fatti e le azioni dei diversi partiti. Chi, come gran parte dell'intellettualità progressista di area Pd, pensa di poter “smascherare” o addirittura mettere in crisi questo governo denunciando le incoerenze verbali di Salvini o Di Maio perde il suo tempo.


    Il voto del 4 marzo

    È necessario innanzitutto ribadire che il voto del 4 marzo è stato un voto segnato profondamente dalla condizione sociale. In un certo senso è stato un voto di classe, espresso però in modo passivo, ossia scegliendo (passivamente, appunto) tra gli “strumenti”, i partiti presenti sulla scheda, quelli che meglio si prestavano allo scopo.

    Milioni di lavoratori, giovani, precari, poveri, disoccupati hanno detto in modo chiaro e inequivocabile che i partiti che avevano governato fino ad allora non hanno più il diritto di comandare e devono sparire. Pd, Forza Italia e rispettivi alleati sono stati frantumati dal voto quasi unanime di coloro che hanno pagato più pesantemente gli effetti della crisi economica.

    È stata la condizione sociale a generare questo risultato: chi ha votato M5S e, in parte, persino la Lega, ha espresso un segnale chiaro: meno precarietà, salari e pensioni decenti, meno diseguaglianze sociali, sostegno a chi non ha lavoro. È stata una protesta rabbiosa e sacrosanta contro le politiche condotte per decenni. Tuttavia questo contenuto sociale del voto si è potuto esprimere solo in una forma politicamente e ideologicamente confusa, mescolando aspetti progressisti con altri pesantemente reazionari. E come poteva essere altrimenti?

    Veniamo da anni, decenni lungo i quali i dirigenti della sinistra si sono impegnati allo stremo per screditare come peggio non si poteva qualsiasi prospettiva di cambiamento della società o anche di difesa degli interessi dei lavoratori e dei ceti popolari. Ogni parola è stata trasformata nel suo contrario. La solidarietà non è più l’arma di chi lotta ma la carità predicata da chi ha la pancia piena a chi fatica ad arrivare a fine mese. Chiamano internazionalismo il servilismo verso le istituzioni internazionali del capitale, a partire dall’Ue. Sindacato è diventato, salvo rare eccezioni, sinonimo di svendita dei diritti del lavoro. Nel crollo dei punti di riferimento precedenti, la grande massa ha scelto come ha potuto votando “il cambiamento”.

    In queste settimane tuttavia il razzismo pare farla da padrone e l’ascesa di Salvini sembra inarrestabile. Cosa alimenta questa ondata, che non è certo la prima nel nostro paese? La guerra fra poveri non è certo stata inventata da Matteo Salvini, che peraltro non crede a una sola delle parole che dice. La Lega proclama la guerra ai barconi degli immigrati e firma la pace coi motoscafi di lusso degli evasori fiscali e dei ricchi ai quali promette meno tasse.

    Questa politica disgustosa, arrogante coi poveri e servile verso i ricchi, non mancherà di suscitare una protesta innanzitutto fra i lavoratori immigrati, ma anche fra i giovani che rifiutano le discriminazioni, le ingiustizie, la repressione.


    I margini economici sono stretti

    Ma è anche una politica dal fiato molto corto. Salvini gonfia il petto sul caso della nave Aquarius dicendo che finalmente l’Italia non ubbidisce più all’Unione europea, ma i nodi verranno ben presto al pettine. Un conto è speculare sulla pelle di 600 migranti, un altro è sfidare davvero le regole e le imposizioni della Bce, di Bruxelles, del grande capitale che comanda in Europa. La verità è che dal punto di vista economico i margini di manovra per questo governo saranno molto stretti, come ha ricordato Giovanni Tria, che per chi non lo ricordasse è il ministro dell’Economia dello stesso governo di Salvini. Tria è stato enfatico: “La posizione del governo è netta e unanime. Non è in discussione alcun proposito di uscire dall’euro. Il governo è determinato a impedire in ogni modo che si materializzino condizioni di mercato che spingano all’uscita.” (Corriere della sera, 9 giugno).

    All’orizzonte c’è la fine del “quantitative easing”, vale a dire che la Bce smetterà di acquistare titoli emessi dallo Stato italiano. Il “bazooka” di Draghi è ormai scarico. La Bce ogni mese comprava 9-12 miliardi di Btp, cifra scesa poi a 7 miliardi e ora attorno ai 3,5 miliardi. Nel 2019 dovrebbe scendere a zero.

    Questo significa che lo Stato italiano, che ogni anno deve rinnovare prestiti per 3-400 miliardi di euro, non potrà più contare su quell’“affezionato cliente” che è stato Mario Draghi. Per convincere i “mercati” si dovranno quindi offrire interessi più alti. Di quanto? Difficile stimarlo, si parla di 7 miliardi in più all’anno come cifra prudenziale, ma potrebbe essere molto di più. Negli Stati Uniti i tassi sono in rialzo e questo eserciterà una pressione diretta anche sull’Italia che ad ogni turbolenza economica e politica tornerà ad essere facile bersaglio della speculazione finanziaria.

    Le prospettive sono problematiche anche sul piano industriale: la modesta ripresa dell’Italia dipende fortemente dalle esportazioni, ma a livello internazionale c’è una vera e propria escalation di dazi doganali e ritorsioni reciproche. Per l’industria italiana, che ha in Germania e Francia i suoi primi due mercati di sbocco, non è certo appetibile una rottura con l’Unione europea.

    Per questi motivi il presidente di Confindustria Boccia ha dichiarato allarmato qualche settimana fa che uscire dall’Unione europea sarebbe “la fine dell’economia italiana”.

    Questa dura realtà si porrà sul tavolo del governo al momento di fare la legge di bilancio.


    Le promesse di Di Maio

    Il M5S subisce l’offensiva della Lega, ma non va dimenticato che è il primo partito della coalizione di governo, e soprattutto che è stato direttamente investito dall’ondata di speranze generatasi con il voto del 4 marzo. Luigi Di Maio non può certo mettersi a competere con Salvini facendo a chi è più razzista. Userà quindi la sua posizione di ministro del Lavoro per cercare di accreditarsi come l’amico del popolo, il paladino dei lavoratori e il volto democratico e sociale del governo.

    Ridare dignità al lavoro, introdurre un salario minimo, combattere la precarietà, rimettere mano al Jobs Act, dare un reddito ai disoccupati… sono promesse pesanti, che giocano direttamente con la vita di milioni di persone.

    Per il momento Di Maio si sbraccia a destra e a manca: parla di dare diritti ai riders, incontra delegazioni sindacali (compresi sindacati di base) e non risparmia le promesse ai lavoratori di aziende in crisi.

    I lavoratori e i disoccupati hanno dato fiducia a Di Maio e si attendono, anzi esigono risultati. Daranno del tempo ai 5 Stelle, ma non tutto il tempo del mondo.

    Il fatto più rilevante politicamente è la fiducia e la speranza che si riversa su questo governo e in particolare sul capo dei 5 Stelle. I capi del Pd e del centrosinistra e gran parte dei dirigenti della Cgil irridono questi sentimenti e parlano con disprezzo dei lavoratori che si fanno incantare dai “demagoghi populisti”. Per costoro il popolo era saggio e responsabile solo fino a quando votava il Pd mentre ora, dopo avere assaggiato i governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, sarebbe misteriosamente diventato ignorante ed egoista.

    Ma per noi che vediamo e viviamo questi sentimenti a contatto con la nostra classe (pur senza condividerne le illusioni) la valutazione è assai diversa: questa speranza non è un fattore di passività, ma al contrario incoraggerà sempre di più i lavoratori a prendere l’iniziativa, ad avanzare le loro rivendicazioni a un governo che considerano diverso dai precedenti e aperto alle loro istanze.

    In passato l’espressione “governo amico” veniva usata dalle burocrazie sindacali per illudere e addormentare i lavoratori. Oggi moltissimi lavoratori pensano che questo possa essere per loro un “governo amico” che risolva i problemi che i sindacati non hanno combattuto: dalla Legge Fornero al Jobs act e a seguire tutto il resto.

    Poco importa qui discutere sulla buona o cattiva fede di Luigi Di Maio o di altri dirigenti dei 5 Stelle che cercano di assumere un’immagine più di sinistra come il presidente della Camera Fico. La sostanza è che tutti costoro hanno firmato una cambiale alla classe lavoratrice di questo paese, e ora sono chiamati ad onorarla. Se non lo faranno (e noi pensiamo che sarà così) scopriranno ben presto che giocare con le speranze popolari, con la rabbia accumulata dopo anni di sacrifici e di tradimenti e inganni è un gioco molto pericoloso.


    Un governo instabile

    Queste profonde contraddizioni precludono la prospettiva di una alleanza stabile e duratura tra Lega e 5 Stelle. Chi parla come se fossimo alla soglia di un nuovo ventennio fascista prende una cantonata clamorosa. Del resto sbagliano sempre. Parlavano di fascismo alle porte quando Berlusconi vinse per la prima volta le elezioni nel 1994, e dieci mesi dopo il governo cadeva in mezzo a una gigantesca ondata di scioperi. Parlavano di vent’anni di “renzismo” nel 2014, e meno di tre anni dopo Renzi era già un ex primo ministro.

    Il compito della sinistra di classe oggi è quello di costruire una piattaforma ragionata, incentrata sui temi sociali e lavorare con metodo alla costruzione di un’azione politica e vertenziale che faccia leva precisamente su quella speranza di cambiamento che ha segnato il voto.

    Questo non significa dare credito alle illusioni o alle speranze mal riposte. Anche se fino al 4 marzo quasi tutti i dirigenti sindacali demonizzavano i grillini, si iniziano a sentire (ad esempio nella Fiom, ma non solo) voci più indulgenti e aperture di credito da parte di qualche sindacalista che cerca di adattare le vele al cambiamento di vento. Questo atteggiamento è altrettanto dannoso della subalternità al centrosinistra.

    Tutta la nostra battaglia deve fondarsi su una completa indipendenza dai due schieramenti principali che ci sono in parlamento. Dobbiamo insistere instancabilmente sulla necessità di un punto di vista autonomo dei lavoratori, sulla necessità della indipendenza politica e sindacale del movimento operaio sia dal governo che dall’opposizione di centrosinistra. Ma per giungere a questo obiettivo non basteranno la propaganda, la spiegazione e la pedagogia. Sarà necessaria l’esperienza, i fatti concreti, che noi dobbiamo accompagnare con la nostra azione.

    Jobs Act, reddito, salari decenti, precarietà, legge Fornero, ecc.… ai lavoratori e a giovani non ci limiteremo a dire “vi hanno preso per i fondelli!”, diremo invece: “noi pensiamo che Di Maio non vi darà niente di questo, ma vi proponiamo che invece di discutere fra noi di cosa farà o non farà il governo impieghiamo le nostre energie per organizzare assemblee, manifestazioni, scioperi e qualsiasi iniziativa possa coinvolgere la massa in una lotta reale per raggiungere questi obiettivi.”

    Questo approccio è indispensabile sia per agire sulle contraddizioni del governo, sia per separare nettamente la nostra opposizione da quella del Pd, tanto nella corrente confindustriale (Calenda, Gentiloni, Minniti) che in quella che tenta di ricrearsi un’immagine “di sinistra” (Zingaretti, Orfini).


    Per l’indipendenza di classe!

    Solo su questa strada sarà possibile dare sostanza all’obiettivo che dobbiamo porre al centro: raccogliere le forze per la costruzione di un partito dei lavoratori e di tutti gli sfruttati, che nel suo programma, nella sua ideologia e nella sua prospettiva si fondi incrollabilmente sugli interessi autentici della classe lavoratrice contro tutte le compatibilità imposte da questo sistema economico.

    Questa lotta può sembrare oggi al suo punto minimo per chi guarda solo all’irrilevanza elettorale delle forze di sinistra. Ma il motore della storia non sono le schede elettorali, è la lotta di classe che dobbiamo sapere riconoscere anche quando assume forme spurie, confuse e persino paradossali.

    Il voto del 4 marzo è stato precisamente il frutto di una protesta della classe lavoratrice alla quale il Pd e i dirigenti della Cgil hanno impedito per anni di trovare qualsiasi espressione; in questo senso è stata la lotta di classe a generare questo governo e sarà la stessa lotta di classe che ne spalancherà le contraddizioni.

    I lavoratori dovranno toccare con mano ad ogni passo la realtà dei fatti, dovranno inevitabilmente entrare anche in più di un vicolo cieco, ma non rinunceranno a lottare per i loro obiettivi, non torneranno a casa. E quel “cambiamento” generico, confuso, a volte anche mescolato a sentimenti reazionari, dovrà precisarsi sempre di più nel suo contenuto sociale, economico, politico.

    Il nostro compito, e quello di chiunque militi per la costruzione una sinistra di classe e di massa nel nostro paese, è imparare a nuotare in questo gorgo.

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  8. #28
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    Predefinito Re: Per una sinistra rivoluzionaria

    Haiti in rivolta! Sciopero generale contro l’aumento del prezzo del carburante

    Una protesta di massa è scoppiata lo scorso venerdì 6 luglio in tutta Haiti in opposizione al piano del governo di taglio ai sussidi al carburante. Il presidente Jovenel Moïse in un primo momento è apparso determinato ad andare avanti, incurante dalle proteste ma, con le manifestazioni in aumento per dimensioni e portata, sabato il governo ha fatto marcia indietro e ha annunciato una sospensione temporanea del rialzo dei prezzi.

    Non c’è fiducia nel regime e un ambiente insurrezionale si è diffuso in tutto il paese. Le proteste hanno continuato a crescere durante il fine settimana, portando alla fine alla richiesta di dimissioni del presidente e a uno sciopero generale previsto per lunedì e martedì scorsi (9-10 luglio).

    Dominio dell’imperialismo

    Haiti non ha mai conosciuto la stabilità economica o politica dopo la grande rivoluzione degli schiavi del 1791 e l’indipendenza ottenuta nel 1804. Questa storica instabilità è radicata nel passato coloniale del paese e nella dominazione, moderna e devastante, dell’imperialismo. La classe dominante di Haiti è straordinariamente debole, corrotta e incompetente. Nonostante la rivoluzione e l’indipendenza formale, la classe capitalista di Haiti è stata per lungo tempo totalmente dipendente dai suoi padroni imperialisti e si è dimostrata completamente incapace di sviluppare il paese dal punto di vista economico, politico e sociale.
    Di fatto, la borghesia haitiana è diventata così dipendente dall’imperialismo da poter mantenere il suo dominio solo sulla base del diretto sostegno economico, politico e militare delle potenze imperialiste. Questa situazione lascia al potere l’élite al potere haitiano e dà loro accesso alle briciole dalla tavola degli imperialisti. Per quanto riguarda gli imperialisti, hanno mano libera per sfruttare le risorse di Haiti e la manodopera a basso costo. Dato che gli imperialisti controllano i cordoni della borsa, esercitano un considerevole controllo sul paese. La forza di occupazione delle Nazioni Unite ha il compito di far rispettare questo controllo.
    Gli imperialisti hanno storicamente usato due armi principali per dominare e soggiogare Haiti: il debito e l’occupazione militare diretta. Sin dal primo governo Aristide negli anni ’90, gli imperialisti hanno esercitato il loro controllo legando direttamente i prestiti e gli aiuti all’attuazione di vasti piani di privatizzazione; la creazione di zone per l’esportazione; l’attacco ai salari e ai sindacati; e la fine dei sussidi per il carburante.
    Dopo il crollo del regime di Duvalier, gli imperialisti sono stati principalmente interessati a trovare un governo stabile per proteggere i loro investimenti. Ma un governo stabile è impossibile ad Haiti. La borghesia è troppo debole e la lotta di classe ad Haiti è troppo intensa. Questa situazione è poi amplificata dalla crisi in atto del capitalismo mondiale.
    Ad Haiti, qualsiasi politica governativa a favore degli interessi dell’élite dominante fa infuriare la classe lavoratrice e i poveri, spesso con successive proteste di massa dalle dimensioni insurrezionali. Dall’altro lato, qualsiasi politica o riforma che favorisca gli interessi della classe lavoratrice e dei poveri, non importa quanto mite (come aumentare il salario minimo, costruire più scuole e ospedali e sviluppare programmi di alfabetizzazione), provoca una reazione rabbiosa dell’élite al potere e spesso conduce all’attuazione di azioni paramilitari e colpi di stato. Come abbiamo visto più volte negli ultimi 30 anni, al fine di proteggere i loro interessi (investimenti), gli imperialisti usano anche le forze di occupazione militare per “ristabilire l’ordine”.

    Materiale infiammabile

    Haiti è il paese più povero dell’emisfero occidentale. Recenti statistiche della Banca Mondiale mostrano che più di 6 milioni di abitanti della popolazione di Haiti, pari a 10,4 milioni (59%), vivono al di sotto della soglia minima di povertà di 2,41 dollari USA al giorno, mentre oltre 2,5 milioni (24%) vivono al di sotto della soglia minima di estrema povertà di 1,23 dollari USA al giorno.
    Il reddito nazionale lordo pro capite è 1.730 dollari (a parità di potere d’acquisto). In confronto, la media nel resto dei Caraibi / America Latina è 14,098 dollari. Poco più del 74% della popolazione urbana vive in baraccopoli. Oltre il 75% della popolazione nelle campagne è povera, il 50% dei bambini non frequenta la scuola, con un tasso di alfabetizzazione del 61-64% per i maschi e del 57% per le femmine. Meno della metà degli haitiani nelle aree rurali ha accesso all’acqua e solo il 24% di tutti gli haitiani ha accesso ai servizi igienici (con la maggior parte delle persone che fanno uso di latrine di fortuna).
    Oltre a ciò, Haiti è estremamente esposta ai disastri naturali, che spesso devastano completamente il paese. Nel 2010 un forte terremoto ha colpito Haiti, devastando il paese e distruggendo l’equivalente del 120% del PIL. Si stima che circa 250.000 residenze e 30.000 edifici commerciali siano crollati o siano stati gravemente danneggiati dal sisma. Le stime del bilancio delle vittime variano, ma vanno da 100.000 a 300.000 morti nel disastro. Circa un milione e mezzo di persone sono state sfollate a causa del terremoto. Ad oggi Haiti non si è ancora completamente ripresa e ci sono ancora decine di migliaia di persone che vivono in tendopoli.
    Haiti era ancora sconvolta dal terremoto quando è stata colpita dall’uragano Matthew nel 2016. La tempesta ha distrutto l’equivalente del 22 per cento del PIL. Tra le 500 e le 600 persone sono state uccise e centinaia di migliaia sono stati ospitati in rifugi per senzatetto, con circa 1 milione e quattrocentomila persone che hanno avuto bisogno di assistenza umanitaria, aggravando i problemi ancora presenti del terremoto.
    La situazione rivoluzionaria che si stava sviluppando nel paese durante la seconda presidenza di Aristide nei primi anni 2000 è stata parzialmente fermata dall’occupazione dell’ONU e dal terremoto, dato che il paese era stato distrutto: centinaia di migliaia di persone erano morte e la gente era costretta a concentrarsi semplicemente a sopravvivere.
    Tuttavia, nel 2013 la rabbia delle masse si è riversata nelle strade mentre migliaia di persone hanno protestato contro la mancanza di progressi nella ricostruzione post- terremoto, il livello di corruzione, l’aumento del costo della vita e il ritardo nella convocazione delle elezioni politiche e amministrative.
    Il movimento è nuovamente ripreso nel 2015 fino a quando si sono tenute le elezioni. Sono avvenuto massicci brogli nelle elezioni presidenziali quell’anno. Ad esempio, Jovenel Moïse, imprenditore nel settore dell’export delle banane, che ha contribuito alla creazione di una zona di libero scambio agricolo ad Haiti, e un rappresentante diretto degli interessi imperialisti, ha ottenuto ufficialmente il 32,8% dei voti nel primo turno delle elezioni presidenziali del 2015, eppure secondo gli exit polls del quotidiano Haiti Sentinel aveva ricevuto solo il 6%.
    I brogli elettorali hanno scatenato proteste di massa e le elezioni sono state nuovamente rimandate. Una commissione istituita per indagare sui risultati ha rilevato brogli generalizzati e ha raccomandato di rifare le elezioni. Va notato che varie organizzazioni con sede ad Haiti avevano trovato prove importanti di brogli, ma gli osservatori internazionali hanno approvato i risultati addirittura prima che il rapporto della commissione fosse stato pubblicato. L’imperialismo Usa aveva trovato il loro uomo in Moïses. Dopo aver speso milioni per le elezioni, voleva il candidato preferito al potere, indipendentemente dal fatto che queste elezioni le avesse effettivamente vinte.

    Gettando benzina sul fuoco

    Alla fine sono state indette nuove elezioni nel novembre 2016 e Moïse ha vinto ufficialmente, sempre tra accuse di frodi e proteste di massa. Dal rovesciamento rivoluzionario del regime di Duvalier negli anni ’80, i tentativi della borghesia haitiana di governare “democraticamente” sono stati un fiasco completo. Considerando corruzione, brogli, molteplici colpi di stato e occupazioni militari, non dovrebbe sorprendere il fatto che il popolo haitiano abbia poca fiducia nella “democrazia” nel paese e ancora meno creda che il proprio voto sia importante.
    L’affluenza alle elezioni del 2000, che portò per la seconda volta Aristide al potere, è stata circa del 50%, e si basava principalmente sull’entusiasmo generatosi all’epoca tra i lavoratori e i poveri nei confronti di Aristide. Dopo il colpo di stato che ha rovesciato Aristide e l’occupazione da parte dei caschi blu delle Nazioni Unite, l’affluenza alle urne del 2006 è scesa al di sotto del 40 per cento. Da allora, i livelli di affluenza sono crollati dal 22% nel 2010/2011, al 28,8% nel 2015 e solo al 18% nelle elezioni del novembre 2016. Ciò significa che, su una popolazione di 10 milioni di persone, solamente 600.000 circa hanno votato per Moïse, che chiaramente non avrebbe alcun mandato se non avesse vinto per mezzo di brogli.
    Moïse, che si è dimostrato rappresentante degli interessi imperialisti ad Haiti, ha assunto la carica all’inizio di febbraio e alla fine del mese aveva firmato un accordo per l’assistenza economica da parte del Fondo monetario internazionale. L’accordo con il FMI garantirebbe l’accesso a 96 milioni di dollari in prestiti in cambio della completa privatizzazione della società energetica statale e dell’eliminazione dei sussidi per il carburante e l’elettricità.
    Gli imperialisti hanno a lungo cercato di eliminare sovvenzioni per il carburante ad Haiti . Per un po’ di tempo è stato in funzione un meccanismo di adeguamento automatico per controllare la spesa statale destinata ai sussidi, progettato dagli imperialisti e dall’élite locale haitiana quando il prezzo del carburante è aumentato nella prima parte di questo secolo.
    Di fronte al terremoto del 2010, il governo è stato costretto ad abbandonare questo meccanismo automatico. Con i prezzi del carburante congelati da marzo 2011, la spesa per sussidi è aumentata quando i prezzi degli idrocarburi hanno ripreso lentamente a salire dopo la recessione del 2008. La Banca Mondiale stima che nel 2014 i sussidi per il carburante ammontassero al 2,2% del PIL di Haiti, superando la spesa sanitaria, che è intorno allo 0,8 per cento del PIL.
    L’argomento che usano gli imperialisti è che, poiché i poveri di Haiti usano una quantità minima di carburante, i sussidi vanno a beneficio sproporzionato dei ricchi. La Banca Mondiale stima che il 20 percento più ricco della popolazione riceva il 93 percento delle sovvenzioni per il carburante. Mentre è indubbiamente vero che i ricchi beneficiano in modo sproporzionato del sussidio per il carburante, questo non è un motivo per eliminarlo per tutti. Ben diverso sarebbe annullare il sussidio solo per la ricca élite (e l’eliminazione di quest’ultimo avrebbe anche un impatto minore sui ricchi), ma si tratta in realtà di attaccare i servizi a beneficio dei poveri e della classe operaia haitiani.
    Gli imperialisti sostengono inoltre che le sovvenzioni non lasciano al governo risorse per investire nella spesa sociale per sanità e istruzione. La proposta degli imperialisti è che se i sussidi per il carburante vengono eliminati, il governo avrà più denaro da investire nelle scuole, nelle cliniche e negli ospedali.
    Ma gli imperialisti non ingannano nessuno. La situazione ha certe similitudini con il gasolinazo in Messico l’anno scorso. I tagli al sussidio per il carburante influenzeranno direttamente e in maniera pesante la vita di milioni di poveri haitiani. La maggior parte degli haitiani vive in baraccopoli, senza connessioni a gas o elettricità. Solo la ricca élite dispone di questi servizi. La maggior parte degli haitiani poveri utilizzano benzina, diesel e cherosene per illuminare le loro case e cucinare, oltre che per recarsi al lavoro, ecc. L’aumento del costo del carburante fa anche aumentare il costo dei trasporti, e quindi del cibo e di altre merci. Tagliare il sussidio per il carburante significa anche che un numero maggiore di bambini non potranno frequentare la scuola.
    Nonostante il fatto che i sussidi per i carburanti agevolino i ricchi in maniera sproporzionata , la realtà è che la classe lavoratrice e poveri di Haiti non possono sopravvivere senza questi sussidi. Un aumento dei prezzi del carburante sarà disastroso per i poveri haitiani che non possono tollerare altri soprusi e attacchi agli standard di vita.
    Inoltre, perché la classe operaia e i poveri di Haiti dovrebbero rinunciano a un sussidio ora in cambio di vuote promesse di aumenti della spesa sociale? Data la storia del paese e la natura del governo, non vi è alcun motivo per avere la certezza che tali promesse saranno mai realizzate.
    Infatti ci sono già stati diversi tagli al sussidio e aumenti dei prezzi nell’ultimo anno. Il governo ha aumentato il prezzo del carburante a maggio 2017. Nell’ottobre 2017 ha riattivato l’adeguamento automatico dei prezzi del carburante e firmato un accordo con i sindacati per eliminare gradualmente il sussidio per il trasporto pubblico.
    Dopo l’accordo firmato nel febbraio 2018 con il Fondo monetario internazionale, il governo ha annunciato l’esistenza di un pesante deficit di bilancio e, insieme al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale, ha incolpato il deficit in gran parte alle sovvenzioni per carburanti ed elettricità. Più recentemente, la Inter-American Development Bank (Banca interamericana di sviluppo) ha offerto un aumento dei finanziamenti se il governo si fosse impegnato pubblicamente a eliminare il sussidio per il carburante. Tutti sapevano che erano in arrivo i tagli ai sussidi per il carburante e una serie di proteste erano già state organizzate, dove la lotta contro l’aumento proposto dei tagli di combustibile era collegata in alcune aree con rivendicazioni del ritiro delle forze di occupazione straniere e un aumento del salario minimo. Varie organizzazioni politiche e sindacati hanno avvertito il governo che se avesse autorizzato i tagli per alimentare i sussidi, avrebbe dovuto affrontare una rivolta.

    Insurrezione

    Alle 16:00 di venerdì 6 luglio, mentre il paese era impegnato a guardare la Coppa del Mondo, il governo ha annunciato i tagli ai sussidi per il carburante. Il prezzo della benzina è aumentato del 38%, il diesel del 47% e il cherosene del 51%. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Tutta la rabbia delle masse che è stata accumulata per anni è improvvisamente esplosa. Aggiungendo il danno alla beffa, il cherosene, che ha subito l’aumento più alto, è la fonte di carburante più utilizzata dai più poveri, dimostrando ancora che si tratta di un attacco ai poveri e la classe lavoratrice. Tali aumenti di prezzo per il carburante sarebbero già piuttosto difficili da affrontare per la popolazione nei paesi capitalisti avanzati, ma ad Haiti renderanno la vita impossibile per milioni di persone.
    La risposta delle masse all’annuncio è stata immediata – e di massa. Le mobilitazioni sono iniziate a Port-au-Prince, ma si sono diffuse rapidamente in altre città e regioni come Les Cayes, Cap-Haïtien, Jérémie e Grand’Anse. Centinaia di barricate sono state costruite a Port-au-Prince per difendersi dagli attacchi delle polizia, paralizzando la capitale. La polizia è stata rapidamente sopraffatta e si è ritirata, lasciando il controllo delle strade ai manifestanti
    Alla fine, i sindacato dei trasporti, del settore pubblico e vari sindacati e organizzazioni rurali e civiche hanno aderito alle manifestazioni. Diversi resoconti indicano che diverse organizzazioni sindacali e altre associazioni si sono riunite per formare un comitato di coordinamento della protesta, che ha rappresentato un importante passo in avanti. Il comitato ha convocato uno sciopero generale lunedì e martedì (9 e 10 luglio). Le rivendicazioni dello sciopero includevano la sospensione permanente dei tagli al sussidio per il carburante, la reintegrazione dei lavoratori licenziati dalle aziende statali, l’arresto da funzionari corrotti implicati nel furto di fondi Petrocaribe e infine, sono state richieste a gran voce le dimissioni del Presidente.
    Altre resoconti forniscono un’indicazione sulla natura insurrezionale del movimento di massa che è scoppiato in tutto il paese. È significativo, come indicazione della rabbia acuta delle masse, che diversi articoli e resoconti indichino che la dimensione e la portata dell’attuale movimento sembrano rendere minuscola quella che portò alla caduta della dittatura di Duvalier.
    Temendo una rivolta dalla portata rivoluzionaria, il governo ha operato una parziale ritirata e sabato, prima delle date proposte per gli scioperi, ha annunciato una sospensione temporanea dei tagli ai sussidi per il carburante,.
    Già nel fine settimana i trasporti sono stati completamente bloccati, tutti i mercati erano chiusi e i media hanno sospeso le trasmissioni. Quando lo sciopero generale è iniziato lunedì, la capitale e la maggior parte del paese sono stati completamente bloccati. Le aziende erano chiuse e i trasporti si si sono fermati.
    Mentre le notizie da Haiti sono difficili da recuperare a causa dello sciopero e della mancanza intenzionale di resoconti da parte della maggior parte dei media stranieri, le ultime notizie mostrano che lo sciopero è continuato ed ha conservato tutta la sua forza nella giornata di martedì. I sindacati dei trasporti si sono uniti allo sciopero e il paese è rimasto bloccato.
    Tuttavia, sembra che il governo stia cercando di riprendere il controllo della situazione. Una manifestazione di fronte al Palazzo Nazionale che era stata convocata per martedì è stata attaccata dalla polizia nazionale. Sembra che le forze ONU, almeno per il momento, non siano intervenute.

    Rivoluzione

    Il magnifico movimento insurrezionale del popolo haitiano è riuscito a bloccare i tagli al sussidio per il carburante, per ora. Tuttavia, la sospensione operata dal governo è solo temporanea. Se il governo sopravvive alla mobilitazione, gli imperialisti insisteranno affinché venga attuato l’accordo firmato a febbraio. Come hanno fatto in passato, gli imperialisti tratterranno i fondi di cui il governo ha disperatamente bisogno nel tentativo di affamare il paese fino a quando non verranno attuati i tagli previsti.
    Il governo subirà enormi pressioni da parte degli imperialisti e quindi il popolo haitiano non può avere fiducia nel governo o nella sospensione del taglio delle sovvenzioni.
    Se la mobilitazione si ferma o fa un passo indietro di fronte alla sospensione dei tagli, il governo e gli imperialisti pazienteranno un po’ di tempo, ma a un certo punto cercheranno di ripartire con gli attacchi.
    Non è ancora chiaro come si svilupperà la situazione. Il governo è molto debole, senza alcun mandato o sostegno popolare. Di fronte a una rivolta popolare, è del tutto possibile che il governo cada. Se i lavoratori e i poveri non riusciranno a prendere il potere, si potrebbe aprire la possibilità di un colpo di stato in una forma o nell’altra quando l’élite dominante cercherà di schiacciare il movimento delle masse e di far passare l’accordo del FMI.
    Gli imperialisti hanno a disposizione anche la forza di occupazione delle Nazioni Unite, che a un certo punto potrebbe intervenire per aiutare l’élite al potere a “ristabilire l’ordine” fino a quando non sarà installato un nuovo governo borghese, in ultima analisi per assicurare che l’accordo del FMI sia attuato. Il popolo haitiano si è trovato in questa situazione più volte in precedenza.
    Per la classe operaia e per i poveri di Haiti, non c’è modo di migliorare le proprie condizioni sulla base del capitalismo. Finché i capitalisti rimarranno al potere, il paese rimarrà completamente impoverito e in balia degli interessi delle potenze imperialiste. La classe dominante haitiana e gli imperialisti si sono dimostrati totalmente contrari e incapaci di risolvere qualsiasi problema che i lavoratori e i poveri devono affrontare.
    Solo il socialismo offre una via d’uscita per il popolo haitiano. L’unico modo per fermare in modo permanente i tagli, proteggere gli interessi dei lavoratori e dei poveri, sviluppare l’economia e creare posti di lavoro è cacciare la borghesia e gli imperialisti dal potere.
    Gli interessi della classe lavoratrice haitiana e dell’élite dirigente sono incompatibili. I capitalisti haitiani sono parassiti che traggono i loro profitti dallo spietato sfruttamento del popolo haitiano e dalle briciole gettate dall’imperialismo. Per questo motivo, l’élite al potere haitiano non può tollerare alcuna riforma a favore dei lavoratori e dei poveri, poiché ciò danneggia i loro profitti e mette in discussione il loro dominio sul paese. Hanno dimostrato più volte tutto ciò e la loro volontà di combattere fino alla morte per proteggere la loro ricchezza e potere durante la storia di Haiti. Ecco perché, sulla base del capitalismo, Haiti non sfuggirà mai all’incubo della povertà e del dominio imperialista.
    Le masse lavoratrici e povere di Haiti devono prendere il potere nelle loro mani e formare un proprio governo che governi nei loro interessi. I lavoratori e i poveri devono rivendicare, come primi passi necessari, l’espropriazione delle élite al potere e degli imperialisti, nonché il ritiro delle forze di occupazione delle Nazioni Unite, insieme a un appello alla solidarietà rivoluzionaria da parte dei poveri, dei lavoratori e dei contadini dei Caraibi e tutte le Americhe.

    https://www.rivoluzione.red/haiti-in...el-carburante/
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  9. #29
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    Predefinito Re: Per una sinistra rivoluzionaria

    Amazon, si sciopera in tutta Europa… E in Italia?

    Il 17 luglio c’è stato lo sciopero europeo di Amazon nel giorno del Prime day, Spagna, Germania, Polonia si sono fermate.

    In Spagna lo sciopero è stato di 72 ore, l’adesione è stata dell’80%. Ciò ha scatenato la reazione della multinazionale, che ha assoldato dei crumiri ed ha chiesto alla Polizia di caricare i picchetti dei lavoratori in sciopero. Tre lavoratori sono stati fermati e uno è stato ferito.

    In Italia NO. Perchè? Perchè a maggio è stato firmato un accordo definito “storico” dai sindacati che in verità di storico ha ben poco per i lavoratori. Nel reticente articolo pubblicato su Rassegna.it il giorno prima dello sciopero europeo non si dice che lo sciopero toccava vari paesi europei contemporaneamnete, eppure dovrebbe trattarsi di una buona notizia visto che spesso ci dicono che queste cose sarebbe bello farle ma non si riesce a causa della globalizzazione. Nell’articolo poi si elogia l’accordo italiano scrivendo che “è stato approvato a larga maggioranza”, ma si dimentica di dire che ha votato solo un terzo dei lavoratori.

    Come se ciò non bastasse l’ispettorato del lavoro poco tempo fa ha accertato che Amazon tra luglio e dicembre 2017 (nel periodo degli scioperi in Italia) ha abusato dei contratti a termine e ora deve porre rimedio, ma il nostro sindacato dov’era quando tutto ciò accadeva?
    Per la cronaca è utile ricordare che Jeff Bezos, il patron di Amazon ha un patrimonio da 75,6 miliardi ed è considerato oggi l’uomo più ricco del mondo.
    Qui puoi leggere l’articolo di questo numero di Rivoluzione sull’accordo Amazon, serve una vera battaglia contro un apparato sindacale che dire inutile è ancora troppo poco, sostienici al congresso Cgil.

    https://www.rivoluzione.red/amazon-s...a-e-in-italia/
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  10. #30
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    Predefinito Re: Per una sinistra rivoluzionaria

    Per un mondo senza frontiere e sfruttamento

    Il PCL aderisce al corteo di Ventimiglia del 14 luglio

    I governi europei e la loro Unione varano politiche criminali e inumane verso i migranti. Il governo giallo-verde di Salvini e Di Maio è capofila di queste politiche: chiusura dei porti, boicottaggio dei soccorsi, sostegno alla guardia costiera libica e ai suoi lager, taglio delle risorse per l'accoglienza a vantaggio dei respingimenti, attacco alla protezione umanitaria, discriminazione verso gli stessi immigrati “regolari” per l'assegnazione di asili, case, sussidi... Sulla scia di Minniti, ma oltre Minniti.

    I paesi imperialisti, che sgomitano gli uni con gli altri per la spartizione delle zone di influenza in Africa, vogliono incassare i frutti della propria rapina senza pagarne gli oneri. L'Africa è da secoli terra di saccheggio da parte del capitalismo, a partire dallo schiavismo e dal colonialismo. Le migrazioni di oggi sono l'effetto ultimo di questo saccheggio storico. Anche per questo la distinzione tra rifugiati e migranti economici è del tutto ipocrita. Non solo perché gli stessi rifugiati e richiedenti asilo sono oggi privati dei propri diritti (con la copertura delle Nazioni Unite), ma anche perché morire per fame o per sete non è diverso che morire per guerra. Fame e guerre entrambe portate o alimentate dalla grande rapina imperialista.

    La verità è che gli stessi governi europei di ogni colore politico che impongono sacrifici ai propri lavoratori cercano di dirottare la loro rabbia contro i migranti per impedire che si rivolga contro i capitalisti. Per questo alimentano xenofobia, odio, razzismo, nazionalismo. Le politiche xenofobe servono solo a dividere gli sfruttati a tutto beneficio dei loro sfruttatori.

    È necessario spezzare questa dinamica. È necessario unire la lotta di tutti gli oppressi contro il nemico comune, contro ogni forma di concorrenza al ribasso tra gli sfruttati.

    Certo, occorre battersi coerentemente per i diritti democratici dei migranti contro ogni forma di giustificazione (magari “sovranista”) di politiche razziste.
    Ci battiamo contro la chiusura dei porti e delle frontiere.
    Chiediamo corridoi umanitari a garanzia della vita dei migranti.
    Ci battiamo per un sistema di accoglienza dignitoso e non carcerario, magari finanziato dalla cancellazione delle enormi spese di militarizzazione delle frontiere e dei respingimenti.
    Rivendichiamo l'abolizione delle leggi anti-migranti degli ultimi vent'anni (Turco-Napolitano, Bossi-Fini, Minniti-Orlando), a partire dalla cancellazione del legame ricattatorio tra permesso di soggiorno e lavoro.

    Ma non basta una lotta per i diritti dei migranti se non metti in discussione l'organizzazione capitalistica della società. “Se non c'è lavoro, casa, cure sanitarie per noi, come possono esservi per i migranti?”: questo è il tasto battuto da Salvini e con lui da tutti i reazionari.
    È necessario attaccare frontalmente questo pregiudizio, dimostrare che il problema non sono i migranti ma il capitalismo; che lo stesso capitalismo che è all'origine delle migrazioni è il principale impedimento all'integrazione dei migranti; che una organizzazione alternativa della società è l'unica via per risolvere il problema.

    Occorre rivendicare la ripartizione del lavoro tra tutti, con la riduzione dell'orario a parità di paga.
    Un grande piano di nuovo lavoro in opere sociali di pubblica utilità, a partire da case popolari e asili.
    La requisizione di grandi proprietà immobiliari, per dare a tutti il diritto alla casa.
    L'abolizione del debito pubblico verso le banche e la nazionalizzazione delle banche, per garantire a tutti le protezioni sociali, a partire da sanità, pensioni, istruzione.

    È una piattaforma di lotta che potrebbe unire lavoratori italiani e immigrati, rompere le loro divisioni, moltiplicare la loro forza. Ma l'insieme di queste misure chiama in causa il capitalismo e ne richiede il rovesciamento. Una prospettiva di liberazione per sua natura rivoluzionaria e internazionale.

    Né Unione Europea degli Stati capitalisti né sovranismo nazionalista: solo un'Europa socialista governata dai lavoratori può liberare il vecchio continente dallo sfruttamento e dal razzismo. Solo la classe lavoratrice, al di là di ogni frontiera e di ogni colore, può guidare questa rivoluzione.
    Costruire controcorrente tale consapevolezza tra gli sfruttati è il nostro impegno quotidiano.

    Partito Comunista dei Lavoratori

    Per un mondo senza frontiere e sfruttamento - Partito Comunista dei Lavoratori
    Venezuela e Zimbabwe nei nostri cuori!

 

 
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