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    Predefinito Re: Padania celtica e germanica

    Benetti irlandesi, sono proprio come i lombardi. In più liberali
    di Mario Taccone
    «L’Irlanda e la Lombardia sono sorelle senza saperlo» ripeteva spesso Carlo Linati, scrittore comasco innamorato di quei verdi pascoli e di quelle scogliere sull’oceano, e d’altronde un famoso editore dublinese emigrato dall’Alto Lario, Vincent Caprani (affettuosamente ritratto da Joyce nel suo Ulisse), sosteneva che in fondo «gli irlandesi sono dei lombardi che non si preoccupano della pioggia». Le due citazioni rimarcano un’affinità evidente, sensibile, che si può rintracciare nel comune substrato celtico (a volte banalizzato da certa politica tinta di verde troppo acceso, a rilevare – e uso il verbo fuori da ogni facile retorica nazionalista – che un bergamasco è più simile a un irlandese che a un fiorentino) ma facilmente deducibile anche a livello di costumi, di attitudini, di modelli di sviluppo.
    Il confronto è indebito solo in apparenza, perché ormai da molti anni l’Irlanda si è scrollata di dosso i suoi ritardi e i suoi antichi complessi d’inferiorità (quella logora iconografia macchiettistica di vecchie con lo scialle in testa, emigranti al porto, pastori rossicci con la bocca piena di patate) ed è diventata una nazione moderna e avanzata, molto simile al futuristico profilo metropolitano della nostra regione.
    La crisi, ad esempio, infuria anche tra arpe e folletti, ma l’Irlanda, dopo una profondissima recessione negli anni ’80, ha saputo avviare una lunga fase di ripresa, convogliata poi in un vero e proprio boom. “Tigre celtica” è la definizione che ha iniziato a circolare ai piani alti delle banche, definizione sorprendente per un paese che, fino a qualche tempo fa, sembrava arrancare in una marginalità senza sbocchi.
    Come ci è riuscita? Applicando i più elementari principi del liberismo, detassando gli utili delle imprese, snellendo una burocrazia sclerotica e farraginosa. Ha applicato una bassissima tassazione delle imprese che, aggirandosi intorno al 12%, oggi rimane la più bassa d’Europa. È arrivata a detassare, caso unico al mondo, persino i diritti d’autore: accuse di concorrenza sleale sono piovute dai quattro angoli del pianeta, ma gli irish hanno fatto di testa propria, e sono diventati il primo esportatore mondiale di software e di servizi del terziario avanzato. Una piccola Silicon Valley trapiantata da questa parte dell’Atlantico, e capace di vendere microchips insieme a maglioni di lana e latte di pecora.
    C’è poi un altro fattore interessante, rintracciabile appena sotto le percentuali esatte delle statistiche, e riguarda un atteggiamento culturale tout-court verso se stessi e la valorizzazione delle proprie risorse. Un elemento fondamentale, nella lenta ma imperiosa renaissance gaelica, è legato alla capacità di fare sistema dei propri valori, definire e rendere riconoscibile il marchio del territorio, e prendere una cultura generalmente defilata e periferica (capace di picchi straordinari, si pensi a Wilde e Beckett, ma per il resto limitata all’intellettualistica riesumazione di antichità gaeliche, e ad un folklore popolare ricco ma superficiale) ed elevarla ad identità contemporanea perché viva nel presente.
    Efficientissimi i trasporti, impeccabili i servizi, tutta una rete di itinerari, di percorsi, di bellezze artistiche e naturalistiche letteralmente “cavate fuori” da una politica in grado di farlo. Il tutto senza la paura ipocrita dell’indotto e del commercio, senza quella cultura filistea e snob che si sente svilita se fa guadagnare qualche euro.
    Un solo esempio: quando andai a Dublino visitai la fabbrica della Guinness, la celeberrima birra scura. Ora, la Guinness è molto buona, forte, aromatica (e io non riesco mai a tenere il gomito basso!) ma è pur sempre solo una birra. Gli irlandesi ci hanno cucito addosso un vastissimo progetto di marketing, hanno saputo creare un immaginario, una rete di associazioni, capaci di trasformare una pinta in un’esperienza, in uno status. Questa non è furberia pubblicitaria, è amore per se stessi e per le proprie capacità promozionali e imprenditoriali. Quelle che, forse, potrebbe insegnarci la “sorella” Irlanda.
    Benetti irlandesi, son proprio come i lombardi. In più liberali | L'intraprendente

    Bargniff e compagnia briscola: breve bestiario del folklore lombardo
    di Andrea Panigada
    Sott al pont de ciff e ciaff, là ghe sta Bargniff-bargnaff!
    (dialetto milanese)
    Le figure del nostro folklore non hanno nulla da invidiare a quelle irlandesi, sia per numero che per varietà, e anche nella sola Lombardia ne abbiamo una discreta schiera...
    Questa breve e tutt’altro che esaustiva rassegna inizia proprio dal Bargniff: chi è costui? È un essere mitico che abita sotto i ponti, nelle acque limacciose di Po e Ticino, segnatamente tra Milanese e Pavese. Coloro che hanno avuto la sventura di avvistarlo, lo descrivono in genere come un enorme rospo dagli occhi di fuoco, oppure come un bue. Il Bargniff è un individuo dal quale guardarsi bene. Meglio non aggirarsi lungo acquitrini e corsi d’acqua durante la notte: potreste incontrarlo e lui vi proporrebbe uno dei suoi quasi insolubili indovinelli. Se non saprete rispondere, il Bargniff vi si scaglierà addosso e vi trascinerà nelle gelide acque notturne, annegandovi, mentre lui se la sghignazza furiosamente. E’ difficile, se non impossibile, risalire alle origini certe di questo come di tutti gli altri miti lombardi; sicuramente sono antichissimi e risalgono spesso a prima di Cristo. A volte sono proprio frutto di sincretismo tra paganesimo e religione cristiana.
    Il caso più eclatante è quello delle streghe, diffusissime in tutta la Lombardia, che hanno spesso un tratto distintivo: adorano la Grande Madre della Natura, divinità di origine chiaramente pagana – di cui sono le sacerdotesse – identificata poi dalla Chiesa, per comodità, in Satana...
    L’arco alpino lombardo abbonda di personaggi decisamente particolari, tutti tristemente famosi e tutti con abitudini notturne, ovviamente. Il Tettavach è uno strano rettile-chimera, un lungo e grosso serpente nero in grado di rubare il latte delle vacche e addirittura di introdursi nelle culle dei neonati con lo stesso scopo.
    Suo parente stretto è il Tatzelwurm, un lucertolone con due o quattro zampe, la coda tozza e le stesse abitudini alimentari del suo consimile. Qualcuno sostiene che esista veramente e c’è anche una foto –finta– che lo ritrae, scattata nel 1934 da un tale Balkin.
    La Cavra Besula è invece un enorme caprone dagli occhi iniettati di sangue che si annuncia con un terrificante verso e rapisce, con intento di cibarsene, i pastori che hanno abbandonato il loro bivacco.
    In valle Camonica ogni anno si svolge la tradizionale cattura del Badalisc, un essere dalla grossa testa, ricoperto di pelle di capra con bocca enorme e, ancora una volta, immancabili occhi fiammeggianti. Sempre in Val Camonica, ma anche nelle Valli Bergamasche e in Valtellina si aggirano i Confinati, anime di persone morte insoddisfatte, che sono state mandate al confino tramite un esorcismo in vallate laterali ed inospitali, in modo tale da non poter nuocere ai vivi.
    La Lombardia orientale è invece la tradizionale dimora dello Squasc. Si tratta di un essere piccolo, peloso, fulvo, simile ad uno scoiattolo senza coda ma con volto antropomorfo. E’ una creatura meno spaventosa delle precedenti, in quanto solo in parte malvagio: metà Uomo Nero, perché spaventa i bambini, metà folletto per via dei suoi tiri birboni, riservati di preferenza alle belle ragazze.
    Nel Lodigiano troviamo due miti al prezzo di uno: un drago che terrorizzava gli abitanti delle rive di un lago che non esiste più! Si tratta del Tarantasio, che infestava acque del lago Gerundo. Si nutriva essenzialmente di bambini, aveva un fiato pestilenziale con cui ammorbava l’aria e causava la terribile febbre gialla. Coltivava inoltre il discutibile hobby di affondare barche dopo averle opportunamente fracassate. La sua scomparsa è in qualche modo legata al prosciugamento del lago stesso: per alcuni uccisione e bonifica sono da attribuirsi a San Cristoforo, per altri all'imperatore germanico Barbarossa, per altri ancora al capostipite dei Visconti che adottò poi il drago nel proprio stemma gentilizio. La leggenda del drago del Lago Gerundio fu fonte di ispirazione per lo scultore Luigi Broggini che la prese a modello per ideare l'immagine del cane a sei zampe, marchio simbolo dell'Eni.
    Un discorso a parte vale per il lupo, animale assolutamente reale, ma mitizzato per il terrore che incuteva nei tempi passati, al punto da alimentare fantasie e credenze. Nel XV secolo i comaschi pensavano che il lupo avesse una natura per cui «devora li cristiani», mentre nel corso del XVII secolo tra Varesotto, Bergamasco e Bresciano si contano svariate decine di aggressioni e di vittime dei lupi, al punto che da Milano si organizzò un esercito di 500 uomini armati di falci, tridenti e schioppi per cacciare la belva. Non stupisce quindi che nelle tradizioni popolari il lupo sia sinonimo di ferocia, o addirittura incarni qualcosa di malefico come i gatti e i cani neri. Da qui a ritenere che alcuni uomini potessero trasformarsi in lupi mannari per divorare bambini il passo è breve. Addirittura un filosofo, Pietro Pomponazzi (1462-1525), originario di Mantova, nel suo “De Incantationibus” sosteneva che le passioni umane avessero il potere di alterare i lineamenti, dando così un avallo “scientifico” alle credenze popolari in materia di licantropia.
    In conclusione merita una citazione un diavoletto assolutamente insospettabile: Arlecchino. Dietro la popolare maschera c’è infatti un retaggio molto complesso; i suoi natali sono indiscutibilmente bergamaschi, ma il suo nome pare provenga da quello del diavolo francese Harlequin (alias Herlequin, alias Hellequin), capo addirittura di una propria squadra di demoni. Secondo altri, invece, il nome deriva da Erlenkönig, un folletto della mitologia scandinava.








    Le sue più antiche origini sono da ricercarsi nella cultura celto-germanica, diffusa anche in Padania
    "Caccia Selvaggia", un mito indoeuropeo
    La magia di un corteo composto da elfi, guerrieri, animali, fate e folletti
    Andrea Mascetti
    In tutta Europa è diffusissimo il mito della "Caccia Selvatica", rappresentato nei racconti popolari come un grande corteo fatato composto, a seconda delle varianti locali, da anime di defunti, guerrieri caduti in battaglia, animali, elfi, fate, folletti e da mille altre creature che l'immaginario dell'uomo Europeo ha fatto propri.
    Secondo la mitologia nordica è il potente dio Wotan (Odino) che precede la corsa degli spiriti e degli esseri fatati; è lui, il dio della guerra dei nostri antenati Longobardi, che corre nelle notti di tempesta in attesa del Ragnarokk, il tempo della fine del mondo. Anche di Re Artù si dice che guidi un esercito di guerrieri caduti fra i dolmen della Bretagna e, per rimanere nel campo della mitologia legata ai cicli del Graal, elementi analoghi li possiamo trovare in Goffredo di Monmouth, nella sua Vita Merlini, dove si narra di quando Merlino si presentò alle nozze della moglie Guandalina (che voleva sposarsi con un altro uomo), in groppa ad un cervo seguito da un armata di cervi, capre e daini.
    Le più antiche radici di questo mito vanno ricercate nella cultura celto-germanica che tanto peso ha avuto nella definizione etno-culturale dei nostri popoli e del nostro patrimonio di miti e leggende. Il mito della caccia selvaggia, in particolare, era diffusissimo in Scandinavia, Inghilterra Austria, Germania, Svizzera e, naturalmente, nelle nostre zone alpine e prealpine.
    In Valle d'Aosta molte leggende parlano di questi cortei di spiriti che attraversano ghiacciai e valli nelle notti; nella Valtournanche, ad esempio, abbiamo due testimonianze interessanti. La prima narra che, sul ghiacciaio del Teodulo, si può scorgere, nelle notti di luna piena, una strana processione di anime guidate da un alfiere che conduce lo spettrale corteo da un capo all'altro della distesa gelata; la seconda leggenda segnala, sulla Gobba di Rolen, la presenza delle Fate della Neve che di notte giocano a rincorrersi per tutta l'estensione della colata di ghiaccio con le sembianze di fuochi luminosissimi.
    In Lombardia la "cascia selvadega" è presente in diverse episodi che vedono coinvolti uomini famosi e poveri pastori. Nel comasco, ad esempio, troviamo la leggenda relativa all'edificazione di San Pietro al Monte, relativa al voto del principe longobardo che recuperò la vista bagnandosi ad una fonte presso Civate, dopo essere stato accecato per aver inseguito ostinatamente un cinghiale diabolico.
    In Piemonte si ricordano i "canett" del cuneese che corrono nel circondario di Villar S.Costanzo nella notte tra il 31 Ottobre e il primo Novembre (la notte che per i Celti coincide con la festa di Samonios, il capodanno celtico che permetteva il passaggio dal modo degli spiriti a quello dei viventi) provocando una canea infernale. Sono tre le specie che vengono ricordate: alcuni lanciano grida più profonde e sono grossi animali più neri della notte, altri sono di media taglia e di colore grigio come le nuvole cariche di pioggia e gli ultimi infine sono piccoli e bianchi, simili ai cuccioli.
    Nella Valle di Challan, troviamo una cacciatrice selvaggia: è una capra che porta al collo delle campanelle che risuonano in modo lugubre, mentre erra di colle in colle aggirandosi in special modo sui lastroni di ghiaccio o sulla neve.
    Nella bergamasca, si chiama ancora "cascia morta" o più semplicemente "caccia del diavolo". La tradizione è particolarmente viva in Val di Scalve e in Val di Gandino dove con questi appellativi si indicano i fantasmi dei cacciatori invisibili che, se vengono chiamati a gran voce dagli increduli o dagli incauti, depositano, come prova della loro esistenza, dei pezzi di carne sulla soglia delle abitazioni, come nel caso di un'altra leggenda della Val Cavargna (tornando per un attimo nel comasco), nella quale si racconta di quando una valligiana un po' troppo intraprendente, al passare del corteo di spiriti ed esseri fatati, chiese: "O casciaduu de la bona cascia, demm un poo de vostra cascia"; al mattino, davanti alla porta di casa, trovò solo brani di carne putrefatta.
    Un poeta, Bartolo Belotti, così descrive la "cascia" che corre nei pressi del paese di Spino, località vicino a San Pellegrino: "Negra di pelo, orribile, con gli occhi fiammeggianti, / vedevasi una cagna, /fuggire velocissima ululando; /e dietro a essa una affannosa mutadi segugi fantastici, e dovunque / voci d'inferno e stridere di catene, /che l'eco ripetea di balza in balza".
    Sempre sulle prealpi lombarde è diffusa la versione cristianizzata della "masnada", dove si narra di una folla di cani invisibili che altro non sarebbero che le anime dannate di cacciatori morti in peccato mortale i quali, nel giorno di S.Brigida (che coincide con la festa celtica di Imbolc), che una volta era il giorno di apertura della stagione di caccia, si radunavano in una casupola diroccata e la sera, dopo l'Angelus, sguinzagliavano i loro cani per le ampie vallate e per tutta la notte se ne andavano di roccia in roccia a fischiare e a urlare per richiamare quella scatenata folla di animali dispersi lungo i monti.
    Sempre in Lombardia, presso Como, si narra che in occasione dell'ultima visita di Eugenio IV a Firenze furono visti più di 4000 cani che correvano verso il nord; questi precedevano una immensa quantità di bestiame dietro al quale venivano una moltitudine di uomini armati a piedi o a cavallo, alcuni senza testa, altri con teste appena visibili; infine, dietro al singolare corteo, apparve un gigantesco cavaliere subito seguito da un altro corteo similare.
    A Bagolino, presso Brescia, le edicole funerarie poste sulla parete esterna del cimitero proteggono il viandante e sbarrano la strada alle streghe e ai morti cattivi che cavalcano come forsennati sopra un cavallo bianco seguiti da cani neri. Fuori dal paese li si sente abbaiare nella selva. Sono chiamati Baieti, strani e lugubri latrati che si odono particolarmente nelle notti estive.
    Ma è nel Veneto che troviamo le tracce più significative di questo mito indoeuropeo; secondo la tradizione, infatti, fu il Concilio di Trento che confinò i vecchi idoli pagani della caccia selvaggia nella splendida Val di Genova. Quivi sorgono tre chiese, edificate a quel tempo, che ne bloccano l'uscita: S.Stefano, al centro della vallata; S.Martino, in alto vicino alle grandi cime; S.Giuliano, in fondo dove la montagna è meno aspra. Infine una quarta chiesa dedicata a San Virgilio, tiene a bada i demoni che premono da Nambrone a Nambino. Di notte però, quando l'oscurità avvolge le montagne, le potenze oscure lasciano libero sfogo a tutta la loro esuberanza e, da una parte all'altra della valle, è tutto un agitarsi di presenze inquietanti e fantastiche che scorrazzano fino alle prime luci dell'alba. Così non è difficile udire, specialmente nelle dodici notti che vanno da Natale all'Epifania, i misteriosi richiami dei cagnolini di Altrech che abbaiano da un versante all'altro della montagna con echi che si spengono in lunghi acuti.
    Altri personaggi della mitologia alpina, per metà animali e per metà diavoli, che possono in qualche modo ricondurci alla caccia selvaggia, sono il famoso "Ce de Lu" (Capo dei Lupi) conosciuto in tutto il sud Tirolo e specialmente nella Valle Udai e nella Val Duron; ed anche tale "Zampa de Gal", che sembra faccia buona guardia all'ingresso della Val di Genova.
    Di queste e di molte altre leggende legate al mito della Caccia Selvaggia troviamo indicazioni interessanti in almeno due libri che vogliamo segnalare all'attenzione dei lettori: il primo è "La Caccia Selvaggia" di Dario Spada (Edizioni Barbarossa), mentre il secondo è "Leggende delle Alpi" di Maria Savi-Lopez (Edizioni Piemonte in Bancarella). Ma mille altre leggende sparse sui nostri monti e nelle nostre campagne attendono solo di essere riportate al nostro immaginario per permetterci di riudire quegli antichi miti che i nostri antenati ci hanno lasciato in eredità e di cui è nostro compito conservare il calore ed il senso più profondo, per non dimenticare mai chi siamo e da dove veniamo.
    "Caccia Selvaggia", un mito indoeuropeo


    Quaderni padani n.3
    Alberta Dalbosco e Carla Brughi
    Entità Fatate della Padania - Edizioni della Terra di Mezzo
    Recensione di Ottone Gerboli
    Nella edizione originale del diffusissimo e divertente libro sugli gnomi di Wil Huygen e Rien Poortvliet, la cartina della diffusione europea delle simpatiche creature le dava per presenti nella penisola solo attorno al Monte Bianco e in alcune valli del Tirolo meridionale. Nella edizione italiana essi erano invece segnalati un po’ dappertutto, ivi comprese alcune isole mediterranee. Se la seconda versione era dettata da evidenti ragioni commerciali, la prima risentiva di un luogo comune assai diffuso all’estero ma generato in Italia e secondo il quale la romanizzazione prima e la cristianizzazione dopo avrebbero completamente ripulito tutta la penisola da ogni traccia di culture preesistenti (soprattutto di quella celtica) e di tutti i loro corollari di presenze fantastiche.
    Il “piccolo popolo” ed ogni altra entità fatata, panteistica o di sacralizzazione della natura avrebbero cioè abbandonato le nostre terre cacciati dal cristianesimo, dall’illuminismo e dal positivismo. La luce mediterranea avrebbe così diradato le brume delle foreste nordiche dove si annidano esseri e mondi strani. La ricchezza della mitologia tradizionale e della cultura dell’immaginario popolare europeo si sarebbe ridotta a sole fiabe moraleggianti o a storie “alla De Amicis”, edificanti, melense e patriottiche: agli gnomi ed agli elfi si è sostituito il lugubre e sfigato Pinocchio.
    Ma si tratta evidentemente solo di una situazione di facciata giacchè - sotto sotto - il piccolo popolo non ha mai veramente abbandonato queste terre e resiste alla “luce della civiltà mediterranea”, proprio come le lingue locali e il colore degli occhi della nostra gente.
    Lo dimostra questo interessante lavoro di due appassionate studiose di cultura padana. In realtà esso è qualcosa di più di una affascinante lettura, è uno studio serio di “catalogazione” delle entità presenti nella tradizione e nell’immaginario popolare delle varie contrade padane. Ne risulta un elenco molto lungo e minuzioso di creature dai nomi bizzarri e dalle abitudini stravaganti, ne risulta un panorama estremamente variegato che tocca tutte le parti della terra compresa fra le Alpi e gli Appennini.
    Anche al di sotto dell’apparente leggerezza della narrazione, traspaiono il preciso raccordo e la derivazione dalla mitologia più “seria”, di cui queste creature sono la deformazione o la trasformazione popolare sopravvissuta a secoli (ormai millenni) di tentativi - sistematici e non - di cancellazione, di demonizzazione o di scherno.
    Certo esse dimostrano una forza di persistenza incredibile se si pensa alle legioni di divinità mediterranee di importazione sbattute come extracomunitari nelle nostre campagne e nelle nostre vallate (ma fortunatamente non sopravvissute alle asperità del nostro clima) e agli eserciti di preti, esorcisti, predicatori e missionari che ne hanno distrutto i luoghi di culto, ne hanno ridicolizzato o colpevolizzato le immagini e perseguitato i credenti.
    Grandi foreste sono state tagliate, pietre sacre ridotte a davanzali, montagne ri-sacralizzate, fiumi cementati e un intero habitat (fisico prima ancora che culturale) è stato massacrato, ma queste creature - evidentemente dotate di una forza incredibile -
    resistono nei recessi del territorio e delle menti degli uomini.
    La loro forza sta proprio nel legame con la natura e con la cultura popolare. Esse sono emanazione della natura e dello spirito popolare, sono parte di essi, e riacquistano inevitabilmente vigore con la rinascita dell’amore e del rispetto per la natura e per la propria identità. Gli esseri fatati proteggono la natura e puniscono gli uomini quando la trattano male: nani, fate, folletti, uomini selvatici, anguane, gigiatt e servanot sono amici dell’uomo quando questi lo è della natura e - in caso contrario - gli organizzano ritorsioni tremende.
    Essi sono emanazione delle più profonde radici culturali dei nostri popoli, e non è un caso che somiglino tanto ai loro omologhi e parenti d’oltralpe.
    Il loro riconoscimento (nel senso di “conoscere di nuovo”), il loro ritorno di famigliarità costituisce un altro tassello della ricostruzione dell’identità di una terra oppressa anche nella dimensione fantastica da satiri mediterranei, topi americani e da puffi televisivi.
    Ancora una volta ritiratisi nelle campagne più lontane, sui monti più alti e nelle vallate più remote, i nostri si sono salvati, ed ora tornano a ripopolare il paese. Il loro ritorno è il nostro ritorno alle origini ed alla cultura dei padri, la loro libertà è la nostra.
    Anzi, la loro stessa vitale esistenza costituisce per noi una bandiera di libertà ed uno sprone: questo paese non morrà mai finchè anche il suo piccolo popolo vivrà.
    Questa è anche la battaglia dei guriuz, dei mazapegul, dei bargniff, e di tutte le altre entità fatate e leggendarie che popolano (e rendono ancora più sacra) la Padania, contro fauni lascivi e mediterranei e contro l’apolide schiera delle ossessive e tecnologiche creature che ci invadono dagli schermi televisivi.














  2. #22
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    Predefinito Re: Padania celtica e germanica

    Fammenti dal libro di Ciola.

    "Il nome celtico Benaco viene cambiato in Garda dai goti"

    "con la Þiðrekssaga e Teodorico Verona entra nell'epica nordica (Teodorico infatti è Dietrich von Bern in norreno e islandese è Þiðrik af Bern, ) dove Bern è il nome di Verona "

    "la germanizzazione, cominciata già al tempo dell'impero, si accentuò con goti e Longobardi e diventò massiccia , specialmente in Piemonte, Lombardia e Toscana.

    Un'altra tribù germanica, i veneti si era acquartierata nella provincia che ne porta il nome" Montanelli Dante e il suo tempo.



  3. #23
    Οὖτις
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    Predefinito Re: Padania celtica e germanica

    i miei avi erano di Gallio. interessante notare come il nome derivi da un antroponimo latino GALLICUS. dite che si chiama così perchè vi stanziava una tribù nord africana?
    bella la citazione iniziale nella pagina di wikipedia:
    « Gel, Gel! in dise Tak, loite Gel alle Jar... »
    Gallio (Italia) - Wikipedia
    ...vivono tutte ancora le isole madri di Eroi
    ogni anno rifioriscono...


  4. #24
    Οὖτις
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    Predefinito Re: Padania celtica e germanica

    leggetevi questo interessante documento, selezionando "COLLEZIONE DI DOCUMENTI STORICI" dal link: Download | Documenti storici su Posina | Storia di Posina
    ...vivono tutte ancora le isole madri di Eroi
    ogni anno rifioriscono...


  5. #25
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    Predefinito Re: Padania celtica e germanica

    Historiae et imago Cremae. Nel 589 il viaggio di nozze di Teodolinda, regina dei Longobardi, fece tappa nel nostro territorio
    di Luigi Dossena
    "Teodolinda tenne a Crema longa dimora". Ebbene sì, la regina dei Longobardi, col suo primo marito, Autarit, passò e rimase nel nostro territorio dopo il matrimonio a Verona, durante il viaggio di nozze, nel 589, scrisse Pietro Da Terno nella sua Storia di Crema.
    La necropoli ad Offanengo
    Nei primi anni Sessanta del Novecento venne scoperta ad Offanengo una necropoli barbarico-longobarda e vennero alla luce, tra le altre cose, due croci longodarde, che si trovano al museo di Crema. Una terza sparì, trovando un'altra dimora. Le tombe, secondo gli storici, erano di nobili e principi. A quel tempo, Cremete ospitò a Palazzo Pignano Agilulfo, che era cognato del defunto Autari. Agilulfo era il duca di Torino.
    La nascita di Crema
    Alboino viene in Italia nel 568, anno secondo del suo regno e il 15 agosto del 570, nel giorno dell'Ascensione di Maria Vergine, nasce Crema. Intorno alla chiesetta della Mosa e ad una rocchetta alzata verso oriente. Tutto qua, questa era Crema a quel tempo. Il signore di quelle terre, era il cremasco Cremete, che signoreggiò per 25 anni e quando morì non lasciò nè figli nè eredi.
    La fatal Verona
    Tornando alla nostra Teodolinda, figlia del re dei bavari, appena convolata a giuste nozze col quarto re dei Longobardi, Autari, terminata la solenne cerimonia nella fatal Verona, partì per raggiungere Pavia, capitale dei Longobardi. Io me la vedo Teodolinda, piissima, passeggiare per Crema dopo aver pregato nella chiesetta di Santa Maria della Mosa, sulla quale sorgerà il Duomo.
    Le chiare acquee
    Ora con Autari, ora con Agilulfo, lei alta, leggera e leggiadra, dagli occhi chiari, cerulei con abiti bianchi, finemente ingioiellata. Con il conte Cremete come guida turistica, la coppia regale risaliva il Ghirlo, le quattro vie, scendeva verso piazza delle erbe, infilando stretta Grassinari, rimirando "le chiare acque della roggia Crema e roggia Fontana".
    Mantova e Cremona distrutte
    Crema era città celtico-insubre e da quei tempi anche Longobarda, un regno che assicurò una lunga pace. Agilulfo si convertì al cristianesimo, seguendo la fede della consorte. Nel 604 il re Agilulfo fece radere al suolo Mantova e soprattutto Cremona, città romana nata nel 218 avanti Cristo. Ci fu già in quei secoli la maligna desiderata dei cremaschi e del signore di Crema, il conte Cremete?
    Crema on line | Historiae et imago Cremae, il viaggio delle nozze della regina Teodolinda



    DALLA NEBBIA DEL TEMPO: LA TAZZA D'ORO DI MONTECCHIO EMILIA
    Mostra archeologica, dal 28 settembre al 6 ottobre 2013
    Visite guidate sabato 5 ottobre
    Castello Medievale di Montecchio
    Piazza della Repubblica
    Montecchio Emilia (RE)
    info presso la Biblioteca Comunale tel. 0522.861864
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    COMUNE DI MONTECCHIO EMILIA - Home Page
    Il Comune di Montecchio Emilia, la Soprintendenza per i beni Archeologici dell'Emilia-Romagna e la Provincia di Reggio Emilia celebrano l'eccezionale reperto archeologico rinvenuto nel suo territorio nel marzo 2012: una straordinaria tazza d'oro, risalente all'Età del Bronzo antico (XVIII-XVII sec. a.C.), rinvenuta durante un controllo di archeologia preventiva all’interno della cava di inerti “Spalletti”, sui terrazzi di sponda destra dell’Enza tra S. Ilario e Montecchio.
    Sabato 5 ottobre ore 16, visite guidate con letture a tema curate dall’associazione teatrale Sipario Aperto
    La mostra è aperta dal 28 settembre al 6 ottobre 2013 all'interno del castello Medievale di Montecchio Emilia nei seguenti orari: dal lunedì al sabato dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18, domenica dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 19
    "... al di là dell’eccezionale preziosità del reperto, la Tazza d’Oro di Montecchio Emilia è un oggetto destinato a cambiare radicalmente diverse idee consolidate sui commerci e sugli scambi nell’Europa antica...". Filippo Maria Gambari Soprintendente Archeologico dell'Emilia-Romagna.
    A poco più di un anno e mezzo dal momento del ritrovamento, la Tazza d'Oro di Montecchio Emilia continua a suscitare sorpresa. Sono tuttora in corso gli esami dei campioni del contenuto terroso del reperto, eseguiti dal Dipartimento di Scienza della Terra dell'Università di Milano e dal laboratorio diretto da Alessandra Giumlia-Mair.
    Tuttavia lo svuotamento e ripulitura della tazza fornisce oggi alcuni dati certi. Pesata senza la terra che la riempiva, il reperto risulta pesare circa 254 grammi, compreso il manico. Considerato che la tazza ha perduto un frammento corrispondente circa a 1/5 del totale, si desume che il peso complessivo potesse aggirarsi attorno (e non meno) ai 300 grammi, il che fa dell'esemplare di Montecchio Emilia il più pesante tra le altre rare tazze simili rinvenute in Europa. Questo dato deve poi essere correlato all'elevatissima purezza dell’oro (non si tratta di lega ma di oro naturale presumibilmente da lavaggio) e al più consistente spessore medio (0,5 - 0,6 mm), decisamente più alto rispetto agli altri esemplari europei.
    In attesa dei risultati definitivi delle analisi, si può comunque sottolineare l’alto livello tecnologico e di competenza artigianale di realizzazione. Resta probabile una produzione cisalpina, se non direttamente locale, con collegamenti e influenze della produzione europea continentale.
    La forma della tazza, caratterizzata da un fondo convesso con carena accentuata e pareti concave arcuate, e da una ansa a nastro tra l’orlo e la carena, rimanda a tipologie ben note anche nelle versioni ceramiche, tipiche dell’avanzata antica età del Bronzo europea e presenti sia nella cultura cisalpina di Polada sia nella cultura mitteleuropea di Aunjetitz/Unetice e nelle facies a questa collegate fino alle coste atlantiche.
    I ritrovamenti di tazze come quella di Montecchio sono estremamente rari in Europa per l’altissimo valore intrinseco di questi oggetti fin dall’antichità: di fatto, il nostro esemplare si può confrontare solo con altri quattro in Europa.
    Una tazza quasi uguale alla nostra, con ansa e orlo decorato, è stata rinvenuta isolata, all’interno di un vaso in ceramica, a Fritzdorf (Germania, comune di Wachtberg, Rhein-Sieg-Kreis, Land NordReno-Wesfalia) l’11 novembre 1954 dal contadino Heirich Sonntag. Rimessa in forma togliendo gli effetti dello schiacciamento, è oggi conservata nel Landesmuseum di Bonn. Le sue misure, del tutto analoghe alla tazza di Montecchio, sono: altezza cm. 12,1, diam. max. cm. 12,2, spessore medio lamina mm. 1,3, peso 221 g, composizione del metallo circa 79% Au, 19% Ag, 2% Cu.
    Una tazza simile era stata trovata a Plumilliau in Bretagna in un tumulo armoricano sconvolto, scavato nel XIX secolo; questo esemplare è da tempo perduto ma le collezioni francesi conservano tutt'oggi il singolare cucchiaio in lamina d’oro ad esso associato nella tomba.
    In Inghilterra due tazze coeve, oggi esposte al British Museum, mostrano una tipologia simile ma resa con una forma modellata a costolature orizzontali, anche a causa degli spessori più sottili della lamina. La tazza di Rillaton, alta poco più di 11 cm, fu rinvenuta nel 1837 da operai spietratori in una cista in pietra con i resti di uno scheletro maschile, un pugnale in bronzo ed altro sotto un tumulo di pietre (cairn) della Cornovaglia (Bodmin Moor – Rillaton); rimodellata dopo la scoperta, la coppa ed il pugnale arrivano dal tesoro dei Duchi di Cornovaglia al British Museum nel 1936. Molto simile risulta anche la tazza di Ringlemere, alta nelle attuali condizioni di schiacciamento 14 cm, per un’altezza probabile originaria di poco più di 12. Fu ritrovata nel 2001 in un tumulo al centro dell’henge di Ringlemere (Sandwich – Kent) da cercatori con metal-detector e consegnata per il premio ai sensi del Treasure Act del 1996; il premio d’acquisto fu fissato a 270.000 sterline (circa 400.000 Euro).
    Altre tazze in metallo prezioso, sono stata trovate a Eschenz (Svizzera), Gölenkamp (Germania) e nel tumulo di Saint Adrien, in Bretagna (quest'ultima in argento).
    Dalla nebbia del tempo: la tazza d'oro di Montecchio Emilia

    Ultima modifica di Erlembaldo; 30-09-13 alle 00:15

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    Predefinito Re: Padania celtica e germanica

    Lombardia, Cappellini: "Grande attenzione ai siti archeologici"
    Stanziati 1,5 euro per un bando a disposizione dei siti archeologici dell'Unesco
    Questa mattina, presso la piazza San Rocco di Parre, piccolo comune della Valle Seriana, l'assessore alle Culture, Identità e Autonomie della Regione Lombardia, Cristina Cappellini, ha partecipato all'inaugurazione del Parco Archeologico e dell'Antiquarium 'Parra Oppidum degli Orobi', realizzato dal Comune in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici e Regione Lombardia.
    BANDO DA 1,5 MILIONI - "Ho voluto partecipare a questa interessante manifestazione - ha detto l'assessore durante il suo intervento - essenzialmente per due motivi. Il primo riguarda la grande attenzione da parte di Regione Lombardia per le aree archeologiche; uno dei bandi peraltro appena chiuso che il mio Assessorato ha messo a disposizione riguarda proprio i siti archeologici e i siti Unesco, con uno stanziamento di 1,5 milioni di euro. Ricordo anche che una delle mie prime tappe di 'Culture in Cammino' - come abbiamo chiamato il mio 'Assessorato itinerante' - fu proprio presso l'area archeologica celtica di Golasecca, in provincia di Varese".
    IDENTITÀ E APPARTENENZA - "Il secondo motivo per cui sono qui - ha spiegato ancora Cristina Cappellini - è perché penso che la Regione debba stare vicina alle piccole comunità come quella di Parre, dove eventi come questi rinsaldano il legame degli abitanti con la propria storia e le proprie radici, rafforzano il senso di identità e di appartenenza a una comunità che è qui ben rappresentato dalla piazza piena di adulti e di bambini, insieme all'associazione alpini e ai rappresentanti di associazioni culturali e del gruppo folcloristico locale.
    Milano - Lombardia, Cappellini: "Grande attenzione ai siti archeologici" | Lombardia | Varese News



    Da: Dott. Silvano Danesi – Appunti per una passeggiata nei prati – Casnigo – 10 Aprile 2011
    Parra, capitale degli Orobi, popolazione celtica della cultura di Golasecca.
    Nel corso della I età del Ferro, la Lombardia occidentale, il Piemonte orientale e il Canton Ticino furono abitate da una popolazione di origine celtica, il cui complesso di manifestazioni culturali è denominato cultura di Golasecca. Parra potrebbe derivare dal gaelico Baar che significa campi spaziosi, come Ceve Baar (Cevo).
    In Valseriana, scrive Adriano Gaspani, “gli archeologi sono stati in grado di rilevare abbondantissime tracce del popolamento celtico, della stirpe degli Orobi, durante l’età del Ferro”, anche se i popoli della Cultura di Golasecca “giunsero in Italia settentrionale in un’epoca precedente, che va dal II millennio a.C. all’età del Bronzo, migrando dal sud dell’odierna Francia, occupando parte del territorio ligure e, dopo un processo di fusione, formando poi quel ceppo di popolazione definito Celto-Ligure”. “Gli archeologi – aggiunge Gaspani -, fin dal secolo scorso, sono stati in grado di mettere in evidenza l’esistenza di un substrato culturale unico diffuso su tutta l’area lombarda, nella zona compresa tra i fiumi Serio e Sesia, che prese il nome di “Cultura di Golasecca”, da una delle principali località, presso Varese, in cui furono rinvenuti i primi reperti pertinenti a tale cultura. Secondo i risultati dell’indagine archeologica, la Cultura celtica di Golasecca si sviluppò durante la prima età del Ferro nella provincia di Novara, in tutta la Lombardia occidentale e in tutto il Canton Ticino, oltre che nella Val Mesolcina nel cantone dei Grigioni, in territorio svizzero, comprendendo non una singola popolazione, ma un certo numero di popoli stanziati nell’area lombarda, piemontese e ticinese i quali sembrano rappresentare in assoluto, in Europa, il più antico ceppo celtico tuttora noto e documentato, risalente addirittura al XIII sec. a.C. quando buona parte della Lombardia assistette allo sviluppo della Cultura di Canegrate, che introdusse fogge ceramiche e manufatti metallici fortemente correlati con quelli tipici della Cultura dei Campi di Urne sviluppatasi più a Nord, in Germania, nel territorio del Reno, nella Francia orientale e sull’altipiano svizzero, cioè nelle regioni ritenute dagli studiosi essere tipicamente le sedi originarie dei Celti e della loro cultura.”
    “La società golasecchiana – scrive sempre Gaspani - era tale da privilegiare la classe guerriera e ovviamente anche quella sacerdotale, secondo una matrice tipicamente celtica, anche se non ci è noto quali fossero la natura e le prerogative della classe sacerdotale presso i Golasecchiani”.
    Parre, l’antica Parra delle genti orobiche, con successivi scavi diretti da Raffaella Poggiani Keller, è stata riportata alla luce negli anni Novanta del secolo scorso. In località Castello sono stati ritrovati i resti di un abitato che si sviluppava su 13 mila metri quadrati di superficie, probabilmente fondato nell’età del Bronzo e del quale sono stati pubblicati i reperti in: L’oppidum degli Orobi a Parre (Bg), a seguito di una mostra e di un convegno tenutisi nella Cripta di Santa Maria della Vittoria a cura della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia.
    Dalle relazioni degli studiosi, raccolti nel volume edito da Edizioni ET, Parra emerge come un punto strategico nei rapporti tra le popolazioni alpine e quella della bassa valle e della pianura padana.
    “Parre, l’oppidum degli Orobi citato dalle fonti – scrive Raffaella Poggiani Keller - per le consistenti strutture insediative e per la cronologia pressoché ininterrotta dalla tarda età del Bronzo all'età augustea, con una successiva ripresa in età romana avanzata, costituisce un punto di riferimento per la conoscenza dell’area celtica alpina lombarda”.
    “Non vi è dubbio –aggiunge Ermanno A. Arsla - che Parre sia stata definitivamente acquisita ai territori dell’Impero romano solo nel 16-15 a.C., al termine delle guerre alpine di Augusto. Fino ad allora rappresentò l’«avamposto» delle popolazioni alpine verso lo sbocco della Valle, il luogo dove due mondi si incontravano e dove si scambiavano prodotti minerari e beni di consumo”. A Parre, scrive Claudio Giardino – “aveva luogo il ciclo completo della produzione metallurgica, dall’estrazione del metallo dai minerali sino alla fabbricazione del prodotto finito, pronto per l’uso. Parre era dunque un sito centrale nell’economia della Valle Seriana, che doveva svolgere un ruolo rilevante nel controllo produttivo, e forse anche politico, del territorio. Il rame prodotto dai metallurghi di Parre contribuiva, in maniera non marginale, ad alimentare quella vasta rete di traffici interregionali che avvolgevano, in una rete di Bronzo, dall’oceano Atlantico sino alle rive del mar Egeo”.
    Scrive in proposito Adriano Gaspani che il pagus celtico di Dossena, centro minerario, produceva minerali che una volta estratti sarebbero poi stati trasportati “a Parre in Val Seriana lungo una mulattiera attraverso il colle di Zambla” e che Parre rimase un importante centro minerario anche in età romana.
    Monte Erbia, antico luogo di culto
    La mia ipotesi è che il luogo nel comune di Casnigo dov’è comparsa per due volte, in epoche diverse, la Madonna, sia un antico luogo di culto dedicato alla Dea Brigit. La località in esame è denominata Erbia o Monte Erbia e se cerchiamo il significato etimologico del toponimo in ambito gaelico, troviamo, nelle lingue gaeliche irlandesi e gallesi e nel bretone, che l’area semantica si restringe a significati che tradotti nella nostra lingua sono: credere, fare assegnamento, intercedere, raccomandarsi, far ricorso, confidare. Nella lingua bretone i termini: erbed, erbedadur, erbedden, erbeder, erbedet, erbedin significano raccomandazione, intercessione, ricorso; erbeder (ien) è l’intercessore. Nelle altre lingue gaeliche (irlandese, gallese) earb corrisponde al verbo inglese trust, ossia credere, far assegnamento, confidare. In antico irlandese erbaim è confidare. In gallese troviamo erfyn con il significato di pregare, implorare e erfyniad con il significato di preghiera, petizione.
    L’etimologia del toponimo, dunque, potrebbe indicare un luogo di preghiera, nel quale chiedere l’intercessione del divino; un luogo dove ci si raccomanda, ci si affida, si prega, si esprimono petizioni. Non è, dunque, un caso che la tradizione popolare abbia collocato in questo luogo ben due apparizioni della Madonna cristiana, essendo Erbia, come rivela il significato del toponimo, un luogo da tempo immemorabile sentito come spazio dove si accede al sacro, veicolato dalla dea Brigit.
    Érfa e Erbia hanno la stessa radice e c’è un preciso legame tra la località Erbia di Casnigo e il torrente Érfa, che probabilmente dava il nome all’antica Vertova, che scorre in una valle suggestiva, dove la natura induce al sacro. A Vertova esiste una zona centrale del paese, sotto il promontorio che oggi ospita la chiesa parrocchiale e nei pressi di una fonte perenne, che si chiama Drüda e che ci riporta, essendo assai improbabile la derivazione da una famiglia romana di Drusi, a una probabile presenza di Druidi.




  7. #27
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    Predefinito Re: Padania celtica e germanica

    1919, Luzzatti, già primo ministro, parla di “Irlanda Veneta”
    Ettore Beggiato
    Luigi Luzzatti fu presidente del consiglio dei ministri dal 31 marzo 1910 al 29 marzo 1911, ma non solo; nato a Venezia nel 1841 fu professore di diritto costituzionale all’Università di Padova, partecipò alla fondazione di Cà Foscari università veneziana, fondatore della Banca Popolare di Milano, esponente di spicco della cosiddetta “Destra storica”, più volte ministro, del Tesoro e dell’agricoltura.


    Una figura così autorevole del mondo politico ed economico sente la necessità di scrivere al nuovo primo ministro, Vittorio Emanuele Orlando, il 7 febbraio 1919, pochi mesi dopo la conclusione della prima guerra mondiale; è una lettera densa di preoccupazione nella quale Luigi Luzzatti, profondo conoscitore della realtà veneta, descrive il profondo malessere e il senso di ribellione contro il Regno d’Italia che agita la nostra società. La guerra, combattuta in larga parte nel territorio veneto, aveva lasciato devastazioni, distruzioni e profonde ferite nel morale dei veneti.
    Luigi Luzzatti rilevava il fatto che in Italia potesse sorgere “un’Irlanda Veneta, mutando i paesi più patriottici e più sobri nel chiedere, in ribelli della disperazione”.
    Nel 1919, giusto per contestualizzare la situazione, i parlamentari irlandesi del partito “Sinn Fein” si rifiutarono di entrare nel parlamento inglese di Westminster e si auto proclamarono “Parlamento dell’Irlanda Indipendente”; ebbe quindi inizio la guerra d’indipendenza condotta dall’Irish Republican Army (IRA) e il 6 dicembre 1922 fu fondato il “Libero stato d’Irlanda”.
    Negli stessi anni il prefetto di Treviso segnala al ministero la possibilità che nel Trevigiano si crei un movimento separatista tendente a staccare il Veneto dall’Italia.
    Ed è un parlamentare repubblicano, Guido Bergamo di Montebelluna (Tv) che denuncia:
    “Il governo centrale di Roma, questo governo di filibustieri, di ladri e camorristi organizzati, non si accorgerà di noi se non ci decideremo a far da noi” e ancora “Ora basta! Il problema veneto è così acuto che noi da oggi predicheremo la ribellione dei veneti. Cittadini, non paghiamo le tasse, non riconosciamo il governo centrale di Roma, cacciamo via i prefetti, tratteniamo l’ammontare delle imposte dirette nel Veneto”
    “L’unità d’Italia è un non senso” scrive il 15 maggio 1920 “La Riscossa”, periodico repubblicano trevigiano, e un anno dopo, il 15 ottobre 1921, si chiede se il Governo andava bene che “il sentimento autonomista dei Veneti si trasformasse in aperta ribellione ed assumesse carattere nettamente separatista”.
    Poi arrivò il fascismo e l’ondata di becero nazionalismo tricolore spazzò via le rivendicazioni venete; ma dopo un secolo i veneti sono ancora qui, “i più sobri nel chiedere” (vuoi mettere il sindaco di Roma che chiede un aiutino di 867 milioni di euro per risanare il buco clamoroso della città eterna?) che sono a un passo di diventare “ribelli della disperazione”.
    Riusciremo questa volta a conquistare quell’autogoverno che la storia ci assegna e ci impone?
    1919, Luzzatti, già primo ministro, parla di ?Irlanda Veneta? | Raixe Venete












  8. #28
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    Predefinito Re: Padania celtica e germanica

    L'autunno è celtico domenica 6 ad Olginate (LC)
    di Maria Vittoria Sala
    Domenica 6 ottobre, a partire dalle ore 110, nell'incantevole cornice del Monastero di S. Maria La Vite di Olginate (LC), si svolgerà la 5a edizione di Autunno Celtico - manifestazione di cultura, arte e musica celtica - organizzata dall'Associazione Culturale "Il Melabò" e dall’Associazione Santa Maria la Vite “Giuditta Podestà”, con il contributo della Provincia di Lecco.
    Il progetto “Autunno celtico”, nato nel 2009, si propone di creare occasioni di riflessione attorno alla cultura celtica e alla sua influenza sulla cultura europea e, in particolare, su quella del nostro territorio, che ha ospitato importanti insediamenti celtici.
    Sarà una giornata interamente dedicata a concerti e danze di musica celtica, strumenti musicali, mostre di quadri e non solo. Non mancheranno momenti legati alla letteratura con letture dedicate a Carlo Del Teglio, poeta premanese dalla “sensibilità celtica”.



    E poi ancora, per l’intera giornata, il chiostro del Convento sarà teatro di rievocazioni storiche a cura dell’Associazione Culturale “I Lupi del Ticino”, che attraverso costumi, utensili da lavoro, vettovaglie ed erbe curative, farà rivivere gli aspetti della vita quotidiana degli antichi celti insubri, e allestirà anche un punto di ristoro con birra e idromele bretoni.



    Saranno inoltre attivi due punti libri, curati, rispettivamente, dall’Associazione Melabò e dall’Associazione Culturale Terra Insubre; quest’ultima, come consueto, farà esposizione di una vasta biblioteca di libri, pubblicazioni e riviste celtiste che sicuramente attrarranno l’interesse del pubblico appassionato del genere.



    Sarà inoltre possibile effettuare visite guidate al Convento di Santa Maria la Vite, un luogo in perfetta sintonia con il tema celtico, in quanto conserva tracce e testimonianze di questa cultura in alcune sue architetture preromaniche e, soprattutto, nell’antico altare in sasso del sacello originario sul quale si è poi sviluppata l’intera struttura conventuale. Il Convento è un monumento storico riconosciuto dal Ministero dei Beni Culturali, le cui origini rimandano al XIII secolo. Sorgeva sull’antica strada che collegava Como con Aquileia e deve il suo nome al fatto che il territorio che lo attorniava era tutto coltivato a viti, oggi scomparse.
    Divenne poi un centro rurale, un filatoio, un lazzaretto, poi nuovamente convento e, infine, dal 1800, abitazione privata della famiglia Podestà tra gli anni Settanta e Ottanta. Qui, nel 1983 Giuditta Podestà, professoressa universitaria di letteratura comparata, ha fondato il Ceislo - Centro internazionale di studi lombardi - ed organizzato corsi e convegni per quasi vent’anni, che hanno portato a Olginate e nel Convento docenti e studenti provenienti dalle maggiori Università europee ed americane. Giuditta ha ipotizzato che è proprio in luoghi come questi, punto d’incontro tra cultura celtica, cultura romanica e cultura lombarda, che si annidano le radici culturali dell’Europa.
    La Chiesa di Santa Maria la Vite, ancora oggi consacrata, rappresenta la parte più antica del Convento e conserva bellissimi affreschi del Quattrocento di Scuola Lombarda, tra cui una sorprendente Ultima Cena riproducente prodotti della cucina lariana (agoni, gamberi di fiume, noci…). Nella cappellina dedicata a S.Antonio si effettua ancora oggi la tradizionale benedizione degli animali del 16 gennaio.
    Attualmente il Convento è ancora proprietà privata della famiglia Podestà ed è sede dell’Associazione Il Melabò e dell’Associazione Santa Maria la Vite “Giuditta Podestà”. Non è aperto al pubblico e le occasioni per visitarlo durante l’anno sono rare, il che fa di Autunno Celtico un appuntamento ancora più imperdibile.
    L'autunno è celtico domenica 6 ad Olginate (LC) - LaBissa.com


    Programma dettagliato
    http://www.ilmelabo.it/default_file/image036.jpg






  9. #29
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    Predefinito Re: Padania celtica e germanica

    bene vicinissimo a dove sono nato io

    sunt cuntènt me 'n ràtt
    Ultima modifica di sciadurel; 05-10-13 alle 11:14

  10. #30
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    Predefinito Re: Padania celtica e germanica

    Citazione Originariamente Scritto da Erlembaldo Visualizza Messaggio
    Sublime.
    Ultima modifica di Eridano; 05-10-13 alle 12:05
    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
    Tacito, Agricola, 30/32.

 

 
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