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    Ghibellino
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    Predefinito Metafisica della guerra: Ungern (Sternberg) Khan

    di Luca Leonello Rimbotti




    Il caos ribollente che emerse dalla rivoluzione russa del 1917 portò a galla ogni sorta di relitto. Fu come un’enorme ondata tellurica che si rovesciò sull’Europa orientale e sull’Asia centrale, dando la stura a oscuri patrimoni psicologici, a paure ancestrali, a vendette primitive che sembravano relegate a secoli lontani. La rivoluzione sovietica è stata non di rado paragonata più a un cataclisma cosmico che a una rivolta sociale di qualche proletariato industriale. Piuttosto, fu una specie di arcaica guerra di razze, un riaffacciarsi nella storia del diritto dell’orda, un dilagare del terrore e di antichissime, perdute memorie di delitto e di magia criminale.

    Quando Ferdinand Antoni Ossendowski – lo scrittore polacco che visse in diretta l’esperienza della guerra civile e che nel 1922 pubblicò il famoso Bestie, Uomini, Dei – affermò che dietro le forze evocate dal bolscevismo agivano misteri occulti e superstizioni primordiali, non faceva che sollevare il coperchio di un calderone, il cui contenuto era rimasto sempre ignoto, ma ben presente all’Europa, il presentimento di un incubo.

    L’Asia come mistero, come ventre spaventoso di ogni sciagura, uno spazio demoniaco sempre incombente. La rivoluzione sovietica agì sulla psiche occidentale con questi contorni di incontrollabile tregenda. In questo modo, le tradizioni solari legate al Levante, le mistiche asiatiche di liberazione, vennero sepolte sotto una spessa cortina di terrore. Pensiamo a cosa ha scritto Nolte circa le origini prime del Nazionalsocialismo. Reazione istintiva e radicale alle notizie traumatiche che provenivano da Est: reazione di sangue, prima ancora che di ideali politici. Reazione di pelle e di istinti agli eventi che, una volta di più, a Oriente aprivano la porta al mostruoso irrompere di entità terrorizzanti per ogni europeo. Nuovi Gengiz-Khan, nuovi tartari, nuove tragedie riapparivano all’orizzonte. Tutta una letteratura europea, diciamo così “di viaggio”, sorse sin dai primi anni Venti in Europa, ad alimentare la sensazione che l’Asia di nuovo si fosse messa in moto, con tutto il carico dei suoi spaventosi giacimenti memoriali. Basta ricordare che Ossendowski, autore di una quindicina di libri su questi temi, all’epoca riscosse un grande successo editoriale in tutta Europa.

    Ad esempio, nel suo libro L’ombra dell’Oriente tenebroso, risalente al 1923 e pubblicato in Italia nel 1928, scrisse che il bolscevismo aveva scoperchiato i fondali asiatici della storia, accendendo fiamme in tutto l’Oriente, dalla Siberia alla Cina, dal Tibet alla Mongolia e a alla stessa India. Una vendetta di razze schiave? «Del giorno della vendetta adesso cantano i Kirghisi, i Kalmuchi, i Djoungari, i Buriati, i Tartari e gli arditi capi dei khunkhusi cinesi… Questo è intanto lo scopo principale della “grande” rivoluzione russa, rivoluzione dei nomadi, dei suicidi, degli stregoni e delle streghe, dei flagellanti e di tutti gli altri “diavoli” e quasi mostri apocalittici…». Si capisce che, con una simile prosa, gli animi in Europa facessero presto a surriscaldarsi. E a correre ai ripari, agitando simboli radicali di difesa, di identità e di salvezza comune. La culla del Fascismo.

    In un altro suo libro, L’uomo e il mistero in Asia, tradotto in italiano nel 1926, Ossendowski parlò ancora dei suoi viaggi siberiani e mongolici, descrisse la barbarie ottusa accanto al permanere di leggende d’amore, il convivere del magismo superstizioso accanto a medievali ascetismi. Come quello del “monaco nero” incontrato nella terra degli Ainu. Un fanatico illuminato che risuonava di un sinistro rumor di catene ad ogni movimento: portava indosso delle verigi, catene incrociate sulla schiena a mo’ di cilicio. Personaggi di questa fatta, in una cornice di sangue, fuoco e massacri – secondo la «vocazione al genocidio del comunismo sin dalle sue origini» – contribuivano potentemente a mobilitare le coscienze occidentali.

    Difatti, non fu per caso che ancora nel 1930 Malaparte, allora direttore de “La Stampa”, incaricò il giornalista Corrado Tedeschi di fare un lungo viaggio in Asia centrale. Ne uscì Siberia rossa e Manciuria in fiamme, pubblicato da Barbèra nel 1931. E di nuovo furono racconti di orrore allo stato puro. I bassifondi umani erano dappertutto, uscivano ancora allo scoperto come danze macabre. Squadre di banditi cinesi a caccia di coreani da abbattere… cosacchi sbandati che ammazzavano a fucilate i cercatori d’oro e di ginseng… e poi sciami di fuggiaschi vaganti nella zona dell’Ussuri: «come jene, finivano a morsi i corpi dei coreani uccisi dai konkusi…».

    La figura del barone Romàn Fiodòrovic von Ungern-Sternberg appartiene a questo contesto. La leggenda si è impadronita di lui, ma la storia ne presenta ugualmente dei contorni credibili. Comandante di una divisione asiatica di cavalleria anti-comunista, autoproclamatosi generale, guidava col pugno di ferro una sparuta unità di forse un migliaio di guerrieri raccogliticci, volontari tibetani, guardie bianche, cosacchi del Baikal, mongoli, buriati… Erano tutto quanto rimaneva della contro-rivoluzione, dopo il tracollo dell’esercito di Kolchak alla fine del 1919… Braccati dalle masse bolsceviche e dalle truppe dei “signori della guerra” cinesi, in un’area che dalla Transbaikalia raggiungeva l’estremo Oriente siberiano. Spalleggiato dalle poche forze degli atamani anti-bolscevici, Ungern-Sternberg fece storia marginale, ma vera, fatta di violenza, brutalità e distruzione.

    Consapevole che il terrore lo si batte soltanto col terrore, attuò la terra bruciata e combattè il comunismo col ferro e col fuoco. Personaggio romanzesco. E, infatti, gli sono stati dedicati romanzi storici, fedeli alle tracce lasciate dagli archivi e dalle fonti diplomatiche, ma arricchiti dalla vena descrittiva. Ad esempio, nel 1995 Renato Monteleone scrisse Il quarantesimo orso. La saga d’un “barone pazzo” tra le rovine dell’Impero zarista, pubblicato da Gribaudo. Adesso le Edizioni di Ar pubblicano Il dio della guerra di Jean Mabire, uscito in Francia nel 1987. E l’autore definisce il suo scritto proprio una fusione tra la finzione romanzesca e il saggio storico.

    Portatore di una singolare mistura di religiosità paganeggiante, sensitiva, tradizionalista, Ungern-Sternberg, ben presto ribattezzato Ungern-Khan, si presenta come uno dei più caratteristici tra i “tipi” umani fondamentalisti mobilitati in Europa come reazione al bolscevismo. Favorevole al reinsediamento dello Zar sul trono, ma ben conscio delle scarse probabilità di pervenire al successo, era dominato da quella rigida etica dell’ordine interiore che gli faceva preferire l’istinto di lotta e la mistica della guerra ai calcoli sulla riuscita materiale delle sue azioni. Alla maniera di Nietzsche, proclamava che «solo una cosa conta: diventare ciò che si è e fare ciò che si deve». E ardeva, in quest’uomo agitato da forze ferree e da visioni trascinanti, lo stesso fuoco mistico delle saggezze orientali.

    Come ha scritto anni fa in un articolo Pio Filippani Ronconi, il “barone pazzo” andava medianicamente alla ricerca di una sapienza occulta da risvegliare, provocando gli eventi con un «senso magico del destino», che ben si inseriva in quella lotta apocalittica tra la luce e la tenebra che eresse il muro d’odio di cui rimase intriso tutto il secolo XX. Contro la tenebrosa sovversione che avanzava a valanga, Ungern-Sternberg volle dunque «evocare misticamente il principio opposto, quello solare, che segnava il suo stendardo».

    Jean Mabire – in questo suo testo affascinante, che racchiude il segreto storico non della sola Russia, ma dell’intera Europa del Novecento – aggiunge di suo alcune memorabili pennellate descrittive. Come quando, nel corso di una drammatica conversazione con Ossendoswski in una iurta desolata, fa annunciare al barone la profezia: «Vedo già quell’orrore sul mondo: la morte degli individui e delle nazioni! Sotto i colpi del terrore o delle comodità, non fa differenza. Poi verrà il caos, il nulla. La fine della Storia». Ebbro e insieme lucido, capace di lampeggianti visioni, agitato da divinazioni e da sogni di dominio metafisico, il “barone pazzo”, sulla soglia della catastrofe e della finale vittoria sovversiva, si apriva dunque ad annunci apocalittici, rafforzando il suo alone di semidio. Qualcosa di cui le cronache riportano che fosse veramente circondato, almeno agli occhi dei suoi fanatici seguaci, come in un’aura di violento potere spirituale.

    Oltre a questi tratti luciferini – nel senso del principio di luce condannato alla sconfitta – Ungern-Sternberg veicolava anche gli antichi miti tantrici delle affiliazioni iniziatiche. Mano militare dello Hutuktu di Urga – terza incarnazione di Maitreya, il Buddha venturo, dopo il Dalai Lama e il Pancet Lama –, Ungern-Khan riviveva la leggenda del “Re del Mondo”, il sovrano invisibile, e cercava febbrilmente di attuare le predizioni dell’agarttha Shambala, la “inafferrabile Terra degli Iniziati”. Tutto ciò, al fine di restaurare il grande ciclo cosmico scaturito dal Kalachakra, la “ruota del tempo”. Mabire, a un certo punto del suo racconto storico, descrive la cruda scena del dialogo tra la strega zigana e il barone baltico-ungherese: ai vaticini di morte della donna, rapita da possessione sciamanica, risponde l’uomo, ormai invasato al punto da ritenersi veramente il “dio della guerra” scaturito dalle profondità asiatiche: «Morirò presto! Ma che importa! Il mio corpo morirà, non il mio sogno… E nell’ultima battaglia, il Re del Mondo uscirà dal suo palazzo sotterraneo…». Sottesi a questi scenari letterariamente incisivi, c’erano viventi tradizioni di potere – e di potere metafisico – che ancora in quei decenni di rivolgimento avevano un loro ruolo anche politico, prima che tutto diventasse soltanto suggestivo richiamo culturale.

    Nei pochi mesi in cui Ungern-Sternberg tenne il governo a Urga, dal febbraio al luglio 1921, prima di essere abbandonato dai suoi ultimi fedeli, quindi catturato, processato dai rossi e fucilato, effettivamente si verificò il singolare caso di una cerca reale di qualcosa di irreale. A metà strada tra il monaco guerriero, lo spietato persecutore del sovversivismo e l’ispirato evocatore di tradizioni ancestrali, Ungern-Khan adombrò una sorta di ribellione eurasista contro il mondo moderno, condotta sotto simboli solari. Dal punto di vista militare, la sua avventura non ebbe molta rilevanza. Ne ebbe una dal punto di vista dello stile caratteriale e spirituale.

    Mabire rimarca che il generale-barone morì solitario e tradito: «Fino all’ultimo, rimase fedele all’unico uomo che avesse mai riconosciuto come capo: se stesso». Ma, secondo Filippani Ronconi, il suo destino si proiettò nella storia: «Nello stesso tempo… il mito del Re del Mondo giungeva per vie misteriose a gruppi di giovani intellettuali, corroborando con il suo simbolo solare i nuovi meditatori del “Vril” e le assisi della Thule-Gesellschaft».

    * * *

    Tratto da Linea del 17 aprile 2009.





    ( Fonte: Centro Studi La Runa )

    Metafisica della guerra: Ungern (Sternberg) Khan – di Luca Leonello Rimbotti « dagobertobellucci
    Se guardi troppo a lungo nell'abisso, poi l'abisso vorrà guardare dentro di te. (F. Nietzsche)

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    Predefinito Re: Metafisica della guerra: Ungern (Sternberg) Khan

    IL DRACULA dei MONGOLI QUEL SIGNORE DELLA GUERRA CHE SOGNAVA GENGIS KHAN Premesso che Ungern Khan - il più affascinante tra i soldati in guerra "contro Trockij e contro Cristo" - non è morto ma reincarnato, dichiarato appunto Mahakala da Thubten Gyatso, tredicesimo Dalai Lama; premesso che la sua tomba è puro luogo indifferente alla geografia, dove tra le dure crete di Novonikolaevsk c' è solo la Croce di San Giorgio, la medaglia che inghiottì prima di essere fucilato dai bolscevichi; premesso che ancora oggi vi arrivano gli sciamani per gridare "Urrah, urrah, urrah"; premesso che il suo anello con il segno di Shiva, lo swastika - non la chevalière del lignaggio baltico, ma l' anello del Re del Mondo - gli è stato prelevato il 15 settembre 1921 dal suo carceriere, il generale sovietico Bljucher, e poi, all' epoca della Grandi Purghe, passato nelle mani del maresciallo Zhukov, il vincitore di Stalingrado (fino a venti anni fa ancora in mano alla figlia di quest' ultimo); premesso tutto ciò, il libro di Vladimir Pozner, Il barone sanguinario (Adelphi) è pura mistificazione intorno alla vita e al destino di chi inventò la più abietta delle torture: legare i polsi dei prigionieri con stracci sporchi di sterco di cavallo; supplizio destinato non certo all' olfatto, bensì a produrre vermi che rosicchiavano la carne fino a far staccare, tra atroci tormenti, le mani. Premesso tutto ciò, la menzogna non può offendere Roman Nicolaus Fiodorovic von Ungern-Sternberg, signore della guerra, sotto il cui vessillo marciò la divisione di dungani, mongoli, cinesi, giapponesi, karakalpaki, sarti, turkmeni, calmucchi, baschiri, kirghisi, tatari e, naturalmente, russi. Fecero orda, tutti quegli asiatici, riconoscendo in lui l' erede di Gengis Khan «...per poi dedicarsi alla restaurazione della monarchia zarista». Onorarono una storia che Pozner, dalla felice penna, ricostruisce catalogandone gli enigmi, le false piste e i misteri fino a farne un mostro da destinare al folklore. Fu a Urga che Ungern liberò il Dalai Lama fatto prigioniero dai cinesi, ristabilendolo sul trono quale prefigurazione del Buddha venturo. Il barone ebbe come appellativi, nell' ordine, "pazzo", "nero" e, appunto, "sanguinario", ma sotto il magnifico mantello di ufficiale imperiale vestì sempre la tunica gialla del lama. Come Bram Stoker per Dracula, anche Pozner sottrae vita dalla straordinaria personalità di Ungern Khan per farne un personaggio da destinare all' anatema. E come il conte Vlad Tepes di Valachia, un altro signore della guerra, fu proclamato vampiro da Stoker e perciò macchiato per sempre fino a farne maschera di successo ma pur sempre maschera, così il barone, il "sanguinario", lo sterminatore nemico delle sorti progressive dell' umanità, è il macabro Dracula a noi più vicino. Quando Pozner se ne occupa, infatti, accettando la proposta di scriverne la biografia, studia vicende concluse da appena qualche decennio eppure già soffuse di un' aura leggendaria. Comincia da Parigi, dove interroga tassisti che fanno il baciamano alle signore quando entrano nelle loro vetture, e indossano camicioni da lavoro il cui taglio, impeccabile, rivela un' antica educazione: sono granduchi, principi e generali rifugiatisi in Francia dopo la Rivoluzione d' Ottobre. Ci sembra di riconoscerli tra le comparse del film Anastasia, fanno il loro dovere di chaffeur come se il carburatore delle Renault potesse far sentire il tintinnare degli speroni e lo stridere delle sciabole a beneficio di uno stile. E di ogni struggente malinconia, Pozner, giornalista ma anche sceneggiatore, produce effetti in crescendo per costruire una pessima reputazione al suo "personaggio". Lui che ebbe modo di sfogliare album e diari dove capita di trovare in allegato campioni disseccati di flora della Transbajkalia, nega al Barone almeno due capitoli fondamentali: il ruolo sacerdotale che fu predominantee poi ancorai significati legati al sollevamento di un esercito così fortemente asiatico nel momento in cui Mosca diventava capitale del bolscevismo internazionale. È stato più rispettoso Hugo Pratt, che volle mettere il Barone sulla strada di Corto Maltese, di quanto abbia fatto Pozner impegnando il Barone, nella pagine meno plausibili di un libro comunque fantasioso, in una discussione su Albert Einstein con due prigionieri bolscevichi ebrei. È una sorta di gara tra la teoria della relatività e le carte celesti tracciate dai Lama tibetani; ma, a voler essere pignoli, le mappe lamaiste non hanno avuto neppure la smentita da Galileo ma sono cose evidenti nel deserto del Gobi «dove ci sono serpenti che, quando un' ombra si posa su di loro, si slanciano in avanti e riescono a trapassare un cammello e due casse di tè». Pozner non accenna al fatto che il barone, erede di una schiatta cui bastava leggere il proprio albero genealogico per conoscere la storia del mondo, non era un convertito ma nato lamaista tibetano, compagno d' arme di mongoli abituati a consumare pasti - nell' era dei monopoli e del capitalismo - in teschi intarsiati d' oro e di argento; non era ovviamente occidentale, europeo e "cristiano" di educazione, e non poté accettare il mutarsi del suo mondo secondo i principi del Terrore, "la giustizia del popolo", che vedeva precipitare nel kaliyuga, ovvero l' età oscura, l' ordine gerarchico della Siberia "bianca" e della Mongolia, già cuore di nitore di uno spazio che si dilata dal Baikal allo HsingKiang e al Tibet, già patria spirituale dell' ineffabile Shambhala, "la terra degli iniziati". Pozner, che scrive un libro pensando di liquidare un avventuriero sotto la categoria del "sadico", non considera quanto per Ungern Khan, pur nella consapevolezza della disfatta, fosse di prim a r i a i m portanza iss a r e l o stendardo di una cultura antica oltre cinq u e m i l a anni in contrapposizione col principio opposto, quello fugace e terreno della moderna società materialista. M i l i t a n t e comunista, Pozner, nel solco di una c e l e b r a zione cui non si sottrae né il cinema sovietico ( Ego zovut Suche Batur, diretto nel 1942 da Alelsandr Zarchi e Josif Chejfiz) né la monumentale "Enciclopedia sovietica", fa di questo eroe della Russia bianca una leggenda nera, secondo il noto principio: tanto più grande è il nemico tanto maggioreè il merito nell' averlo sconfitto, specie se a far da coro, nella scena del processo, vengono convocati cinesi e contadini desiderosi di sapere chi fosse mai Don Chisciotte, quel "Don Chisciotte" da destinare alla fucilazione. La scrittura di Pozner è sontuosa: le ragazze nei collegi attendono il passaggio dei reggimenti per organizzare i balli mentre i soldati, attardati tra le pagine, battono le mani per il freddo e sembrano applaudire lo scenario dell' inverno ingoiati dalla solitudine. Il barone Ungern-Sternberg di Pozner onora i sogni dell' infanzia edè fratello dei mongoli cui ha dato una direttiva di marcia verso il sole: «Essi non hanno né mura né città e le case se le trascinano ovunque vadano. Inoltre, sono abituati, dal primo all' ultimo, a tirare con l' arco stando a cavallo, non vivono di agricoltura, ma di allevamento, e hanno come unica dimora dei carri coperti: come potrebbero non essere invincibili?». Il barone Ungern Khan, nel libro di Pozner, parla con le descrizioni di Erodoto: peccato che in questa biografia manchi la sua ultima notte di libertà nella yurta di Ja Lama, il calmucco nel cui nome "ja" c' è "khalka", ovvero fato, destino, karma. Ma non è precisamente una biografia quella di Pozner, è solo un romanzo. Lui è il Bram Stoker del Comandante della Divisione asiatica di Cavalleria, legittimo erede di Gengis Khan, pellegrino in cammino verso il Re del Mondo.
    PIETRANGELO BUTTAFUOCO

    IL DRACULA dei MONGOLI QUEL SIGNORE DELLA GUERRA CHE SOGNAVA GENGIS KHAN - la Repubblica.it
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    Predefinito Re: Metafisica della guerra: Ungern (Sternberg) Khan

    Tra mito e storia, leggenda e realtà, sopravvive alla morte il barone Roman von Ungern- Sternberg, spirito e carne d'azione e fascinazione, punto di fusione folle tra Europa e Asia, Zar e Khan, Medio Evo e Ventesimo secolo
    di Federico Mosso - 8 marzo 2016

    Cuore di Tenebra. Nel capolavoro di Joseph Conrad, un misterioso Kurtz regna folle nell’angolo oscuro della giungla, ventre umido e malato dell’Africa Nera.
    Apocalypse Now. Nell’opera d’arte di Francis Ford Coppola, il colonnello Kurtz si erge a dio della morte nei meandri malarici della foresta cambogiana, infero di pazzia e napalm.
    Scivola il vaporetto lungo le acque nere del fiume Congo, naviga il battello militare sul dorso del serpente Mekong, verso gli abissi della Terra, dove l’odio ha le sue radici, dove il male ha la origine; gli orologi vanno in frantumi, il tempo non esiste più e la giungla sussurra, ha fame di uomini.
    “L’orrore! L’orrore!”
    L’orrore di Conrad e Coppola è immaginato, l’orrore del nostro racconto invece, benché romanzato, è reale. Il colonnello Kurtz vive per davvero, Cuore di Tenebra è tra i monti Altaj, non più foresta tropicale, ma rocce e altipiani incontaminati. Questa è la storia del barone Roman von Ungern-Sternberg, l’uomo che volle farsi Khan.
    È la primavera del 1921 ad Urga (Ulan Bator), la capitale del neonato Regno di Mongolia. Un ospite di riguardo è arrivato in città. Ferdynand Antoni Ossendowski, scienziato polacco, scrittore, esploratore, è da mesi che vaga nella taiga siberiana, gelido e sconfinato campo di battaglia della guerra civile russa che infuria da quando i bolscevichi hanno preso il potere; rossi da una parte, bianchi dall’altra a farsi la pelle con furia accesa. La controrivoluzione bianca è condotta con la medesima passione con cui i bolsevichi si dedicano alla rivoluzione, senza dunque alcuna riserva, esitazione, pietà per gli esseri umani.
    Il polacco viene accompagnato alla yurta del generale Ungern-Sternberg della Divisione Asiatica di Cavalleria (Asiatskaja konaja divizija) nella quale servono mongoli, buriati, russi, cosacchi, caucasici, perfino tibetani, coreani, giapponesi e cinesi, una formazione eterogenea; razze e ideali, Europa e Asia sotto le stesse insegne della U nera. L’armata che segue il barone, forte di 6.000 anime votate all’impresa eccezionale o forse ad interessi più pragmatici come saccheggi e ori, è come la sua guida, ovvero fuori da ogni schema, singolare, psicotica. È un esercito schizofrenico, di tagliagole per professione o per passione, di cosacchi dalle lame affilate, di avventurieri senza Dio, di ufficiali alcolizzati, morfinomani e orfani di Zar, di reazionari esaltati, di mercenari, di fanatici buddisti, di veterani dei fronti della Grande Guerra, di unni moderni, di assassini, di proto-nazisti, di pazzi, di cercatori di gloria, di anime perdute, di cavalieri neri.
    All’ingresso della yurta Ossendowski esita, spaventato. Una pozza di sangue sporca l’entrata, decisamente un cattivo auspicio. Ha l’impressione di entrare nalla tenda del diavolo.
    “Entrate!”
    Dentro. Poca luce. Ma non c’è nessuno! Un’ombra si muove. Un volto emerge dall’oscurità. Un uomo pallido, dai capelli e baffi biondo-rossiccio, con l’ampia fronte sporgente, lo fissa senza sbattere le palpebre; non chiude mai gli occhi, mai, rimangono spalancati, sono due pezzi di ghiaccio che scrutano l’ospite. Una belva lo scruta dal fondo della caverna. Lui, il barone pazzo, il barone sanguinario, il barone nero, ora è in piedi, si mostra con la tunica mongola di seta rossa, su cui ha appuntato la Croce di San Giorgio, l’alta onoreficenza zarista ottenuta per il coraggio dimostrato nei combattimenti contro i tedeschi in Galizia, anni prima. Ungern accende delle candele che illuminano la sinistra penombra della yurta. Appaiono icone ortodosse, tappeti, mobili da campo e attorno ad un tavolo altre figure, fino ad un istante prima mimetizzate nel buio. Sono gli attori secondari di questa piece teatrale d’avventura, mistero e tragedia.
    C’è il generale Boris Rezukhin, vice comandante della divisione e braccio destro del barone. Fedelissimo, cane da guardia in divisa cosacca, è uomo di rara ferocia dalla voce pacata e dai modi cortesi. Non si scompone mai, rimane gentile e sorridente anche quando sbudella. C’è l’aiutante capitano Veseloffsky, alto e dai capelli rossi. Silenzioso, un cobra velenoso, parla poco. Impassibile, ha la faccia scolpita nella pietra, è killer spietato. C’è Bogdo Geghen, il Bodg Khan, l’ottavo Buddha reincarnato, monarca della teocrazia mongola, liberato dalla prigionia cinese da Ungern, il nuovo dittatore di quella terra lontana. Vizioso, sifilitico, avvelenatore, si ingozza talmente tanto di vodka da diventare cieco. È un alleato effimero, il barone dovrebbe ben guardarsi da quell’ambiguo dio vivente. C’è Dambijantsan, un influente lama appartenente all’antico ordine dei berretti rossi, chiamato anche il Monaco Vendicatore. I berretti rossi sono temuti e guardati con sospetto per via delle loro tetre pratiche magiche e il Monaco Vendicatore, esploratore degli aspetti più nascosti e truci del buddismo tantrico, ama terrorizzare la popolazione mongola fin dai primi dei novecento, con la superstizione, con tenebrose arti magiche e più banalmente con la violenza fisica.
    “Ossendowski vi prego, sedetevi con noi.”
    Il tempo e lo spazio mutano, la tenda si stacca dalla terra di Urga, vola verso un’altra dimensione non più di questo mondo. Compaiono alcuni lama che venerano Ungern come la reincarnazione di Tamerlano, il fondatore della dinastia timuride dell’Asia Centrale ricordato come il Grande Emiro. Entrano degli sciamani con maschere spaventose. Dai braceri si diffonde l’odore di incenso, inebriante, stordente. La vista dell’ospite polacco si sfoca, la mente nuota tra le stelle. Gli sciamani suonano i tamburi e soffiano nei flauti, evocano gli spiriti di Gengis Khan e del Mahakala, il Grande Oscuro, divinità guerriera buddista, protettrice della rilevazione; invocano gli spiriti di Shambala e di Agarthi, custodi dei paradisi primordiali dei giusti, luoghi mitici o regni sotterranei, che il barone diventato Ungern Khan vorrebbe riportare sulla terra di Mongolia, ripulendola con pugno di ferro dalle orde cinesi e comuniste, nemiche della tradizione. Su un grande vassoio d’argento eredità di palazzi aristocratici perduti è servito l’essere immondo. Un grosso verme schifoso, di colore rosso, lungo mezzo metro e spesso come un braccio umano: è Allghoi Khorhoi, il verme mongolo della morte che vive nel deserto del Gobi.
    “Ma allora esiste per davvero!” Esclama Ossendowski.
    Il barone impugna un coltello, incide la carne ributtante della creatura leggendaria, taglia delle piccole porzioni. Ne offre un pezzetto all’ospite. Il rito magico prevede l’ingestione dell’ Allghoi Khorhoi e Ossendowski manda giù quel boccone disgustoso. Oblio. Visioni. Il passato prende forma nella yurta.
    Episodi della vita del barone si sbobinano nella mente del polacco, in trance.
    Ungern-Sternberg: famiglia di nobiltà baltica, furono corsari nel Mar del Nord, cavalieri teutonici, crociati in Terra Santa tra cui un fanciullo di 11 anni che partecipò alla penosa “Crociata dei bambini”; tra gli avi di Roman c’è persino un alchimista del XVIII secolo a cui hanno affibbiato il soprannome di “Fratel Satana”. Con tali antenati si fa presto a dannarsi l’anima. Il barone porta al dito un anello di rubino con l’effige di una svastica, antico simbolo buddista dai svariati significati come ruota della dottrina, infinito, sole e tutte le cose. Apparteneva a Gengis Khan, ora è ora è reliquia degli Ungern, e quando il barone cadrà, sarà preda di guerra del generale Bljucher, il “Napoleone rosso”, e dopo le purghe dei ’30, apparterrà al maresciallo Žukov “l’Ariete”, l’eroe di Stanlingrado.
    Passano gli anni di gioventù del giovane Roman, come il nonno anche lui si affascina e si avvicina al buddismo e alle filosofie orientali. Cavalca il ventenne tenente dello Zar Nicola II nelle remote terre di Buriazia bagnate dal lago Baikal. Laggiù, tra monti inesplorati e valli inaccessibili, boschi selvaggi e tribù misteriose, credenze sciamane e antiche leggende, il ragazzo con la divisa da ufficiale di cavalleria rimane folgorato dallo stile di vita delle genti nomadi buriate e mongole, e dai loro misticismi esotici, così lontani e magici rispetto alla solennità tradizionale del cristianesimo ortodosso. La religione buddista tibetana e le pratiche del sciamanesimo contano molto nella crescita spirituale dell’ufficiale, che poi negli anni successivi degenera, si deforma, mischiandosi a qualcosa di diabolico, di primitivamente malvagio, dando concretezza e materia all’orrore. Nella sua mente, visioni mistiche, studi religiosi, credenze orientali, amore per la guerra e utopici piani politici si mischiano in un pericoloso e incontrollabile mix esplosivo. Le idee esaltate del barone affollano il suo pensiero impregnato di filosofie messianiche e di tantrismo. Sogna di creare un ordine militare buddista composto da cinesi, mongoli, tibetani, buriati, afgani, kirghizi e altri. Quest’ordine, una volta creato, sarebbe dovuto essere il baluardo spirituale ed armato contro la Grande Bestia, il bolscevismo e l’occidente corrotto e marcio in mano all’usura, al denaro e alle banche. È la volontà tradizionalista, portatrice della divinità, che si deve scagliare contro la modernità e i suoi giacobini, contro il mondo del progresso, contro le rivoluzioni che dal 1789 stravolgono l’ordine millenario delle cose, contro la borghesia avida, contro l’ateismo.
    Poi la Grande Guerra, Armageddon di trincee e mischia di baionette, è maestra di morte. L’ufficiale mostra carisma, coraggio, capacità al comando, abilità strategica, brutalità contro il nemico, brutalità contro i suoi uomini, che lo rispettano ma lo temono, la disciplina tra le sue fila, è ferrea.
    Una bandiera rossa sventola sugli antichi palazzi imperiali. Il 1917 è rosso, la guerra a ovest è perduta ma non è ancora venuto il momento di deporre le armi: dalla vecchia guerra nasce la nuova guerra, ed è civile, russi contro russi, bolscevichi contro reazionari. L’ammiraglio Aleksandr Vasil’evič Kolčak riunisce e comanda le forze bianche. Defezione: il barone Ungern e l’ataman cosacco Semënov, disconoscono l’esercito controrivoluzionario, e sostenuti dai giapponesi, portano avanti una lotta privata, un conflitto nel conflitto. Dall’effimero Stato cosacco di Transbaikalia conducono le loro operazioni contro tutti: attaccano i rossi, attaccano i bianchi. Sono mesi dove i cavalieri di Ungern approfittano della situazione per dedicarsi ad uno dei loro passatempi preferiti: l’assalto ai treni di rifornimenti delle parti in lotta. Dai boschi innevati a ridosso dei binari, centinaia di diavoli scatenati sbucano con la sciabola in mano gridando il nome di von Ungern-Sternberg, aggredendo i convogli scortati da guardie intorpidite da viaggi lunghissimi che vengono fatte a pezzi senza pietà alcuna. Vengono presi di mira sia i treni battenti bandiera rossa sia quelli con i vessilli zaristi. Non fa alcuna differenza. Anzi, i bottini più pregiati sono proprio quelli depredati all’Armata Bianca dell’ammiraglio Kolkak, che viaggiano dal porto lealista di Vladivostok per rifornire di mitragliatrici e cannoni le operazioni controrivoluzionarie negli Urali e il centro della resistenza antileninista nella Siberia Centrale. Tra Vladivostok e la Siberia Centrale c’è di mezzo il regno guerriero della Transbakaila, dove si aggirano gli squadroni del barone, come branchi di lupi affamati.
    Orrore: l’odio dei contendenti si incancrenisce. Impalamenti, mutilazioni, impiccagioni collettive, caldaie di locomotive a combustibile umano, disertori e nemici bastonati a morte. Ma anche la straordinaria avventura di Mongolia, quando il barone scaccia i cinesi e fonda una monarchia mistica nel cuore dell’Asia, e lui ne è il dittatore.
    Altre visioni si rincorrono nella testa dell’ospite polacco.
    L’uomo che volle farsi Khan è riuscito nel suo intento. Ora di notte, nelle polverose strade di terra battuta di Urga, un diavolo con occhiali da aviatore si aggira a tutta velocità su un infernale carrozza senza cavalli, un’imponente FIAT rossa con i fari spianati tra le gher, terrorizzando i mortali. Battaglie feroci si combattono alle pendici di catene montuose e il suo esercito è seguito da torme di lupi famelici che ripuliscono il passaggio segnato da cadaveri di uomini fatti a pezzi.
    Ossendowski, ospite di riguardo nella yurta del barone ha visto il passato e il presente. Adesso vede anche il futuro. Guarda il barone perdere tutto, tradito dai mongoli prima e poi dai suoi stessi uomini. Il signore della Mongolia e della guerra dichiara l’intenzione di compiere una conversione prima verso ovest, poi verso sud, per raggiungere i monti Altaj e la Zungaria. I suoi soldati, ormai braccati dalle forze rosse, non capiscono. Forse quel pazzo del loro comandante vuole davvero raggiungere il Tibet e il “Regno Sotterraneo”? Ammutinamento, il barone Roman von Ungern-Sternberg, ormai solo e sconfitto, viene venduto da un predone calmucco all’Armata Rossa, che lo fucila a Novonikolaevsk, in Siberia Centrale, alle 6 di mattina del 15 settembre 1921.
    L’ospite polacco si desta dall’incubo. Nella yurta del barone diventato dio della guerra, non c’è più nessuno. Un anello di rubino brilla solitario sul tavolo: ha l’effige della svastica.



    Roman von Ungern- Sternberg: l?uomo che volle farsi Khan
    Se guardi troppo a lungo nell'abisso, poi l'abisso vorrà guardare dentro di te. (F. Nietzsche)

  4. #4
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    Predefinito Re: Metafisica della guerra: Ungern (Sternberg) Khan

    CarE

    potreste postare qualcosa sulla metafisica delle scazzottate?
    Se possibile allora si capissero perchè le ragazze di Stato e Potenza si sono azuffate per strada che manco le pescivendole, con gente che gridava touttA "io sono uno scrittore" e un altro che controgridava "tu sei un ricchione che si fa inculare dagli eritrei".
    Ma che modi!

  5. #5
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    Predefinito Re: Metafisica della guerra: Ungern (Sternberg) Khan

    Citazione Originariamente Scritto da l'inquirente Visualizza Messaggio
    CarE

    potreste postare qualcosa sulla metafisica delle scazzottate?
    Se possibile allora si capissero perchè le ragazze di Stato e Potenza si sono azuffate per strada che manco le pescivendole, con gente che gridava touttA "io sono uno scrittore" e un altro che controgridava "tu sei un ricchione che si fa inculare dagli eritrei".
    Ma che modi!
    A parte le espressioni un po' colorite della nostra amicA, piacerebbe conoscere anche a me i motivi della implosione di Socialismo Patriottico.

    Meglio aprire un thread a parte per chi sapesse qualche retroscena.
    Se guardi troppo a lungo nell'abisso, poi l'abisso vorrà guardare dentro di te. (F. Nietzsche)

 

 

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