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Discussione: Scrittori conservatori

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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Un ricordo del ‘fratello maggiore’ Domenico Settembrini
    di Dino Cofrancesco
    Se gli studiosi – quelli che hanno qualcosa da dire, s’intende, non i predicatori e i venditori di fumo – si dividono in pittori e in scultori, Domenico Settembrini apparteneva, senz’altro, alla seconda categoria. Il suo argomentare era caratterizzato da una logica implacabile portata a tagliare i grandi problemi della storia e della politica, con precisione, sì, ma, non di rado, anche con l’accetta – come gli rimproveravano, talora, amici e colleghi, che pur ne avevano grandissima stima.
    Fu lui, in particolare, a mettermi in guardia dai socialisti alla Kautsky, critici sì del marxleninismo, ma perché miravano agli stessi scopi – l’abolizione dell’economia di mercato – con strategie diverse e più rispettose dei diritti e delle libertà individuali (il che, peraltro, non era poco). Ma fu soprattutto lui – che nelle lettere chiamavo scherzosamente il mio ‘fratello maggiore’ – a rafforzare (e, forse, fin troppo) il mio penchant incontenibile per la demistificazione, per la critica spietata dei luoghi comuni, delle mitologie politiche nate dalla retorica e non dalla vita reale, delle ‘repubbliche immaginarie’ che non rimangono sogni nel cassetto ma si traducono in insurrezioni armate, in assassini di esponenti politici e di giornalisti scomodi. La sua Storia dell’idea antiborghese in Italia, 1860-1989: società del benessere, liberalismo, totalitarismo (Ed. Laterza 1991) è non poco emblematica di tale attitudine ed è così radicale e originale da sconcertare anche quanti come me erano stati da lui convertiti all’idea che non ci sono terze vie, di cui le nostre avanguardie intellettuali sarebbero le interpreti, ma solo la società aperta, da un lato, con la sua accettazione del mercato e dello ‘stile limitato’ della politica – leggi: democrazia liberale e sovranità del popolo nello spazio concesso dalla costituzione o, meglio, dai ‘diritti naturali’ indisponibili – e il dirigismo totalitario, dall’altro, con la sua idea forte di ‘bene comune’ chiaro, ovviamente, solo alle menti dei filosofi aspiranti reggitori.
    Il tema della diversità nell’illuminismo, il principio illuministico che «al di sopra dell'autonomo giudizio dell'individuo, di ogni singolo individuo, non v'è autorità legittima, perché ogni autorità è tale solamente se trova riscontro nella libera adesione della coscienza del singolo individuo» fa correre il rischio all’individualismo liberale di «precipitare nel suo contrario: dall'anarchia al dispotismo. Ciò è stato riconosciuto anche esplicitamente da due grandi classici del liberalismo, Montesquieu e John S. Mill. E' stata riconosciuta, cioè, la necessità che la libertà individuale, la libertà di dissentire, lo scontro delle idee, delle passioni e degli interessi poggi, se la società non ne deve finire disintegrata, su una fede comune in alcuni principi fondamentali; fede che deve essere nei più, nella stragrande maggioranza, più forte ed indiscussa di quanto non lo sia l'attaccamento alle proprie idee particolari, ai propri interessi, al proprio "partito", di modo che questa fede, restando al di fuori e al di sopra del perpetuo scontro intorno alle idee e agli interessi personali o di gruppo, non solo non venga da questo tumulto neppure scalfita, ma costituisca anzi l'argine che serve a regolarne il pacifico svolgimento, al punto da essere essa a renderlo possibile».
    Chi voleva fare di Settembrini il Pangloss del liberalismo contemporaneo aveva sbagliato indirizzo ma è non poco significativo che questa preoccupazione per le ‘ricuciture’ sociologiche neppure per un momento lo portasse a simpatizzare con quanti intendevano ‘eticizzare la politica’ e dare un supplemento d’anima a una nazione, come quella italiana, segnata dal familismo amorale e dalla ricerca continua e frenetica del ‘particulare’. I fautori della ‘riforma morale e intellettuale’gli piacevano poco.
    In un saggio, che poteva leggersi come una sintesi magistrale del suo pensiero, Fascisti e azionisti, carissimi nemici. La ‘terza via’ fra corporativismo e liberalsocialismo, ‘Nuova Storia Contemporanea’(a. II, n.4, luglio-agosto 1998), scriveva: « perché la rivisitazione dell’azionismo costituisce (..) un’angolazione particolarmente proficua per comprendere le ragioni storiche della ‘anormalità’ italiana? Perché essa consente di mettere in luce come, a partire dalla cultura delle riviste del primo Novecento, l’Italia ha avuto una classe intellettuale che, salvo pochissime eccezioni, è stata caratterizzata da un orientamento rivoluzionario palingenetico, profondamente elitario e aristocratico, profondamente diffidente, per non dire sprezzante, anche quando credeva di parlare e di battersi in nome della più avanzata democrazia, verso la massa degli uomini comuni, degli uomini della strada, ritenuta materia amorfa, cui andava dall'alto insufflata un'anima. Le divisioni, le vere e proprie fratture, come quella mortale tra fascisti e azionisti, che possiamo prendere, per quest'aspetto, a simbolo di tutto l'antifascismo, intervenivano soltanto sul tipo di anima da insufflare».


    Un romanzo su "Maria e i fratelli"
    Carlo Alianello racconta la grandezza di Maria e Giuseppe
    di Gianandrea de Antonellis
    ROMA, sabato, 12 maggio 2012 (ZENIT.org).- Lo scrittore romano, ma di origini lucane, Carlo Alianello (1901-1981) è famoso soprattutto per la trilogia “borbonica” (L’alfiere, L’eredità della priora, Soldati del Re), ma merita di essere ricordato per i suoi romanzi di carattere religioso (Il mago deluso, Maria e i fratelli, Nascita di Eva).
    Soprattutto in Maria e i fratelli (1955) si esprime appieno la sua spiritualità profondamente mariana, con la riproposizione della storia di Gesù Cristo letta attraverso gli occhi di Sua Madre.
    Fin dall’inizio l’autore mette l’accento sulla regalità della ascendenza di Gesù, sottolineando come sia Giuseppe che Maria provengano dalla stirpe di Davide. La nobiltà della Madonna, inoltre, si esprime attraverso il suo dignitoso comportamento, il suo distacco dai beni materiali (non così superiore si dimostra, invece, suo zio Alfeo, che pure fa di tutto per organizzare il matrimonio con Giuseppe, anch’egli del tutto distaccato).
    Toccante è la descrizione della nascita del Bambino nella mangiatoia di Betlemme:
    Il Re nato stava nella mangiatoia e tutti lo potevan vedere. Un fagottino di panni, una testina tonda e rossetta, come si conviene a chi è giunto alla luce da un’ora appena; e adesso dormiva. Vicino c’era la mamma; e così giovane, Dio! Quei pastori non avevano visto mai una bellezza tanto rara, che quasi non gli sarebbe parsa neppur bella, al loro modo di guardare le donne, così gracile e squisita, se non avessero inteso che per lei non c’è altro confronto che gli angeli. Le poche pastore tramezzo agli uomini nel piangevano di tenerezza e se la rimiravano rapite, stando in ginocchio sulla paglia, perché lei era al centro d’ogni luce. (Cap. I pastori, I, p. 68)
    Passando, per necessità di sintesi, al momento finale della vita umana di Gesù, quello del Golgota, lo scrittore sottolinea ancora la nobiltà della Madonna:
    Allora Maria attraversò decisa il cerchio dei sacerdoti e dei sinedriti e salì sul monticello, con Giovanni e Maria Maddalena che la seguirono lesti. Giacomo le andò appresso, ma si fermò sul ciglio; e c’erano anche la madre e Salome.
    Il decurione s’alzò di scatto, i soldati avevano fatto un fascio delle lance e sedevano sugli scudi, fuorché l’unica sentinella che andava su e giù, e già apriva la bocca a sbraitare, ma il centurione lo fermò con un cenno.
    –È la madre – spiegò.
    Il sottufficiale lo guardò sbalordito e poi volse ancora gli occhi verso Maria, perché la cosa non gli pareva giusta. Come poteva essere la madre di Gesù, di quel pezzo d’uomo grande e maturo, lei, una donnina esile che va dritta come una giovinetta?
    Eppure il signor centurione ha visto bene, ha ragione. Quel viso straziato, ma non sconvolto, dove il pianto non ha singhiozzi, ma lacrime sole trattenute e lasciate una per una, è un viso di mamma.
    Anche il centurione guardava Maria e non aveva visto mai un dolore così accorato e così composto, una bellezza tutta pura e tutta scoperta, che non c’è altre parole per precisarla, se non quelle due: bellezza e dolore.
    Ma il decurione gli interruppe il pensiero: – Questi? – e indicava Giovanni e Maria Maddalena che erano giunti con la Vergine ai piedi della croce.
    – Lasciali stare – disse il centurione. (Cap. Il segno di contraddizione, III, pp. 376-377)
    La fede di Alianello è piena e sincera. E non poteva essere diversamente, per uno scrittore che si era pienamente consacrato a Maria, come egli stesso racconta nel libro autobiografico Lo scrittore o della solitudine (1970):
    [...] Congregazione Mariana vuol dire unione fraterna nel nome di Maria. Nella cerimonia d’ammissione io mi son votato a Lei, come, secondo la vecchia formulazione feudale, cavaliere a Dama e Signora. Ho giurato e, se non ho sempre mantenuto il mio giuramento, non fu mai per infedeltà, ma per debolezza, così come quando il cavaliere si alleggeriva talvolta di corazza, giaco e morione; l’armatura di ferro è dura a portarsi, dura milizia è la vita degli uomini.
    Però quella fede donata, quel prestato giuramento non l’ho scordato né lo dimenticherò mai per l’onore della mia Dama, neppure quando non vi saranno più né luoghi né tempi per correr quintane e nessun infedele porterà più colori avversi contro il suo azzurro manto. Resterà un nome solo, un tempo incommensurabile, un unico confine senza limiti né misure: l’eternità, dico, nel nome di Dio. (Lo scrittore o della solitudine, p. 84, cap. V)
    E conclude il suo diario ancora ricordando il suo amore per la Madre di Dio:
    Ora ho sempre sul mio scrittoio l’immagine della Vergine che mi conforta, anche nelle mie cadute, perché uomo sono e fragile, e, se lo spirito è intrepido, la carne è stanca e malata, non di mali corporei, ma di superbia, di sprezzo per un certo mondo che brulica di soprusi e d’inganni, di poca carità, non verso i piccoli e i bisognosi, ma verso i grandi e i superbi, anch’essi bisognosi, anch’essi miserabili, ma non abbastanza perché io riesca ad amarli, com’è dovere di cristiano. (Lo scrittore o della solitudine, p. 138, cap. VIII)
    Carlo Alianello è attualmente uno scrittore ingiustamente poco considerato: sconta il fatto di essere «a metà strada tra Manzoni e Balzac», come scrissero di lui, vale a dire un grandissimo scrittore, ma in ritardo sui tempi, vissuto in un periodo che ha preferito la novità astrusa e lo sperimentalismo fine a se stesso anziché la vera bellezza. Ma il tempo permetterà di riscoprire la sua grande vena poetica.
    ZENIT - Un romanzo su "Maria e i fratelli"



    Ma che borghesi gli antiborghesi
    di Giampietro Berti
    Deve ancora essere scritto un libro che racconti senza pietà gli innumerevoli disastri compiuti da molti intellettuali nel corso della prima metà del Novecento, dato che la stragrande maggioranza parteggiò per il fascismo, il nazismo e il comunismo.
    Ciò che li accomunava era l'odio radicale contro il liberalismo conservatore, additato come causa ideologica della legittimazione di una società tendente alla pace e al benessere, e quindi avversa a concezioni ideologiche «eroiche» ed «estreme» del vivere sociale. Tale stato d'animo non è si è esaurito con la caduta del fascismo e del nazismo, ma è continuato fino al '68 e oltre, quando ha trovato ulteriore alimento nella sistematica avversione a tutta la civiltà occidentale.
    Abbiamo ora a disposizione una raccolta di saggi di uno dei grandi maestri italiani della storiografia filosofica, scomparso di recente, Paolo Rossi: Un breve viaggio e altre storie. Le guerre, gli uomini, la memoria (Cortina, pagg. 189, euro 13); saggi che riguardano alcuni momenti salienti della nostra storia nazionale, come il fascismo, la Seconda guerra mondiale, il dopoguerra e gli anni di piombo. Essi delineano alcune figure della cultura italiana intrise di quell'animus ideologico che abbiamo appena descritto.
    Uno dei tanti banchi di prova dell'avversione antiliberale è riscontrabile, a giudizio di Rossi, nel secondo dopoguerra, quando si registra il repentino passaggio di molti intellettuali dal fascismo all'antifascismo; passaggio che, opportunismo a parte, delinea una continuità ideale; continuità a suo tempo sintetizzata dalla battuta di Ennio Flaiano, per il quale ci sono due fascismi in Italia: il fascismo e l'antifascismo.
    Leggendo l'impietosa ricostruzione di Rossi ne abbiamo la piena riprova nella biografia di molti esponenti della cultura di sinistra; un percorso intellettuale emblematicamente rappresentato dal filosofo Enzo Paci, passato dal fascismo all'antifascismo per approdare, durante il '68, a un estremismo radicale e irresponsabile. Tale estremismo è rintracciabile in molti altri intellettuali. A esempio nel marxista Cesare Cases, il cui radicale antioccidentalismo si spinse ad affermare che la liberazione dell'uomo consisteva «nello scrollarsi dalle spalle la civiltà occidentale». Rossi, soprattutto, è caustico nei confronti di coloro che demonizzano l'Occidente senza ripudiare nei fatti nulla del benessere che esso produce. Sempre sull'onda di questa irresponsabilità autoreferenziale possono essere visti anche i contraccolpi del marxismo: la sconfitta storica ne ha fatto affiorare la vera natura, l'essere cioè una gnosi travestita da scienza. La contrapposizione manichea fra il Bene e Male si rintraccia, a esempio, nel profetismo millenaristico di due famosi intellettuali marxisti, Alberto Asor Rosa e Danilo Zolo. Quest'ultimo ha affermato che il terrorismo globale può essere definito come una «replica sanguinosa» provocata dalle «strategie egemoniche degli Stati Uniti». Ne consegue che per sconfiggerlo bisogna «liberare il mondo dal dominio economico, politico e militare degli Stati Uniti e dei loro alleati europei». Insomma, la colpa è tutta dell'Occidente.
    Dove però il catastrofismo apocalittico, quale forma di autocompiacimento anti-borghese, trova per Rossi il proprio apogeo è negli incredibili giudizi «estetici» di Pietro Citati e Guido Ceronetti riguardanti l'attentato dell'11 settembre 2001.
    Così Rossi: «Pietro Citati ha scritto che Osama bin Laden e i suoi compagni “posseggono un genio della politica come oggi nessuno al mondo. Hanno una grandiosa immaginazione, una ferrea volontà, un'estrema lucidità razionale, un'intuizione potentemente semplificatrice, una spaventosa audacia intellettuale”. (A sua volta) Guido Ceronetti parlò della follia di chi aveva fatto costruire “quelle sciagurate Torri Gemelle”, affermando che il pensiero di ricostruirle “è della stessa natura tenebrosa del progetto terroristico che le ha abbattute”». Qui ogni commento è superfluo.



    Roger Scruton
    L'Occidente si può ricostruire. Per il «filosofo più influente al mondo»
    nella nostra civiltà il rancore ormai ha preso il posto della fede, «ma
    i barbari non hanno ancora distrutto tutto. La pietas ci salverà»
    di Emanuele Boffi
    A chi gli chiede di rispondere all'accusa di essere un «reazionario»,
    risponde: «Sì, sono un reazionario. Nel senso che reagisco a ciò
    che vedo».
    Roger Scruton coltiva il sano pessimismo dei bastian contrari
    e l'irriducibile speranza degli architetti medioevali che, anche
    in tempi di barbarie, sanno dove andare a porre la pietra angolare
    dei loro pensieri.
    Giornalista, scrittore, filosofo, insegna all'Institute for the
    Psychological Sciences della Virginia. E' l'autore della Guida
    filosofica per tipi intelligenti e del Manifesto dei conservatori,
    scrive di vino sul The New Statesman e dei temi più disparati
    sull'American Spectator. Quello che per il New Yorker è
    «il più influente filosofo al mondo» ama la musica (è compositore),
    l'architettura (ma non le archistar) Thomas Stearns Eliot e Dante
    Alighieri. Eppure Scruton, anche quando s'ostina a pestare
    il mortaio sull'insensatezza degli idoli moderni, non si sofferma
    mai alla sterile elegia del passato. è per questo che, proprio
    al termine dell'ultimo libro si trova il capitolo "Raggi di speranza",
    in cui il filosofo inglese elenca le persone e i gruppi di persone
    che hanno saputo nell'ultimo mezzo secolo del Novecento
    «rigettare il nichilismo dominante»:
    «Giovanni Paolo II, il movimento giovanile di Comunione
    e Liberazione, fondato in Italia da don Luigi Giussani,
    correnti filosofiche tipo quella promossa da René Girard
    in Francia, da Jan Patocka in Europa Centrale, da Czeslaw
    Milosz in Polonia e Aleksandr Solzenicyn in Russia».
    Un suo maestro, Thomas Masaryk, negli anni Trenta, previde
    un futuro in cui «ogni fede sarebbe stata messa in dubbio, ogni
    moralità relativizzata, ogni appagamento annientato».
    E, aggiunge Scruton a Tempi, «certamente abbiamo fatto molta
    strada in quella direzione. Ma non siamo ancora arrivati a quel punto,
    e l'umanità nel passato è spesso tornata indietro dall'orlo del baratro...».

    Nichilismo a luci rosse
    Eppure i segnali che giungono, in particolare dal Vecchio Continente,
    sembrano indicare che il piede che franerà nell'abisso è stato levato.
    Nella sua Inghilterra - dove, ebbe a dire, ormai «Dio è uno straniero,
    un clandestino» - Sky Real Lives ha mandato in onda il suicidio
    di Craig Ewert, malato di Sla. Il suicidio uscito dalla sfera della disfatta
    e della ribellione privata si è trasformato in show, documentario, reality.
    Per Scruton, in storie come questa, c'è «il potenziale per una sorta
    di pornografia della morte. I cuori delle persone saranno induriti dalle
    immagini del suicidio al punto che nessuno reagirà nemmeno se il suicidio
    è manifestamente assistito, e nemmeno quando quel che è presentato come
    "suicidio" non lo è affatto, ma è piuttosto il frutto di una manipolazione
    o di un inganno».
    Così come è una frode quella spacciata dal sito internet
    del quotidiano francese Liberation che ha scelto di ospitare
    un "Osservatorio sull'eterosessualità".
    Sulle istanze omosessuali - «è l'ortodossia della nuova ummah
    dei disaffezionati» - Scruton puntò l'indice contro «la filosofia contemporanea
    che ha ridotto il problema della morale sessuale a quello dei diritti.
    Viviamo in un tempo esposto alla causa del nulla e ciò è dimostrato
    dalla mancanza di volontà di avere figli, cioè di creare qualcosa
    che abbia un significato al di là del momento».

    L'uomo, bestia morale
    Ed è una costruzione anche quella che vuol farci credere di essere
    solo delle scimmie in giacca e cravatta, ma non per questo più
    evolute degli orangutan del Borneo. Sulle istanze dell'ambientalismo
    più sciocco Scruton riversa spesso una ferocia cannibale.
    Tempo fa allevò e mangiò un maiale cui aveva dato il nome
    del grande teorizzatore dei diritti degli animali: Singer.
    Lo ha pasciuto, sgozzato e quindi macellato a casa sua, il tutto -
    orgogliosamente - al di fuori di qualsiasi confine di legalità.
    E a chi gli chiedeva conto dell'"efferato delitto", Scruton
    non aveva altro da far notare se non che «siamo diversi
    dagli animali, siamo esseri morali, mentre gli animali
    non lo sono. Da qui la domanda se mangiarli o meno.
    Loro non si pongono questa domanda. Difendo l'opinione
    secondo cui noi dobbiamo mangiarli perché, se non
    li mangiassimo, non esisterebbero».
    E' per questa ragione che può solo ridere amaro della Spagna
    di José Luis Rodriguez Zapatero, paese che ha voluto garantire
    i "diritti fondamentali" anche alle grandi scimmie antropoidi.
    «La Spagna di Zapatero - spiega - è un ottimo esempio
    di una nazione in fuga dal proprio passato e dalla propria
    identità spirituale.
    È in uno stato di ripudio, e non sorprende la scoperta
    che il movimento per i diritti degli animali ha messo radici
    laggiù, dove tutte le forme tradizionali di distinzione hanno
    subito un processo di erosione.
    Il problema, ovviamente, è che si possono garantire diritti
    agli scimpanzé, ma non si può insistere sui loro doveri,
    e di conseguenza i diritti diventano vuoti privilegi che
    non portano beneficio né all'umanità nella quale vivono
    immersi gli scimpanzé né agli stessi scimpanzé.
    Immaginiamo di garantire "libertà di movimento"
    o "libertà di associazione" agli scimpanzé.
    Come sarebbe la nostra vita?».

    La gratitudine e il perdono
    La filosofia di Scruton può essere riassunta in parole "antiche",
    e bellissime, con cui il filosofo cerca di sottrarre l'esistente
    dalla coltre dell'indistinto. Pietas, gratitudine, perdono, riso
    (Scruton ha scritto pagine chestertoniane sull'idea di ironia).
    Parole che si contrappongono a multiculturalismo, tolleranza,
    altruismo («l'altruismo, a differenza della pietà, ha esiti sadici»),
    termini ormai usati per legittimare, spesso, violenze indicibili.
    Per questo, per Scruton si tratta di recuperare un senso dell'umano
    che solo la tradizione cristiana è ancora in grado di comunicare.
    La pena è barare sul senso dell'evidente, come ebbe a dire
    a Giulio Meotti del Foglio: «E' vero che il feto è un collage
    di elementi chimici, ma solo nel senso che la Quinta sinfonia
    di Beethoven è solo una collezione di suoni, la Monna Lisa
    di colori e i Promessi Sposi di parole.
    Creazione significa invece creare un significato. Se gli esseri
    umani cominciano a scomporre il tutto nelle parti, si ritroveranno
    in un mondo senza significato di atomi disconnessi in cui niente
    sembra prendere parte al presente».
    In tempi in cui tutto, per diritto, deve essere permesso, Scruton
    ama ripetere che «la vera libertà, la libertà concreta non è
    agli antipodi dell'obbedienza, ma solo l'altro lato di essa».

    Come l'Eucarestia nelle catacombe
    Nel suo Il tramonto dell'Occidente Oswald Spengler scriveva:
    «Un giorno l'ultimo ritratto di Rembrandt e l'ultima battuta
    di Mozart cesseranno di esistere perché l'ultimo occhio
    e l'ultimo orecchio accessibili al loro messaggio saranno scomparsi».
    Scruton ha già osservato che è senz'altro veritiero che l'uomo
    moderno vaga come un cieco in una valle nebbiosa, ma anche
    che «sta emergendo un forte movimento laico e soprattutto
    cattolico che va nell'opposta direzione, rappresentato
    da Karol Wojtyla e da Joseph Ratzinger».
    Non è ancora giunto il tempo di suonare le campane a morto.
    «No, ricostruire è ancora possibile, e lo vediamo accadere.
    La fede è difficilmente reperibile in un'epoca di buio,
    ma brilla come una luce all'orizzonte, e quella luce cresce
    come ci si avvicina ad essa. I barbari non hanno distrutto tutto,
    ci hanno solo obbligato a interiorizzarlo, a ospitarlo dentro
    noi stessi come memoria e a tenerlo lì, come una volta
    l'Eucarestia era tenuta nelle catacombe».




  2. #22
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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    È arrivata l’ora di scoprire tutta un’altra America
    I coloni e gli indiani andavano d’amore e d’accordo. Abraham Lincoln era un "sincero" razzista. E Roosevelt non capiva nulla di economia
    di Matteo Sacchi
    Gli Stati Uniti sono un’icona prima che una nazione, un luogo simbolo. E come tutti i luoghi simbolici, che conquistano l’immaginario, difficili da descrivere. Soprattutto per gli storici.
    C’è una specie di «effetto Morgana» (quello che fa tremolare l’asfalto sotto il sole) che distorce la percezione di alcuni momenti epocali. E hanno un bel da fare gli specialisti nel cercare di cambiare le cose... Giusto per fare un esempio, la strategia missilistica nucleare degli Usa è stata fortemente sviluppata e resa flessibile da Kennedy (era anche un fan delle azioni delle forze speciali), il quale per tutti resterà sempre un presidente «colomba». Per fortuna però ci sono ricercatori e divulgatori che si ostinano ad andare contro corrente. Di uno di questi, Thomas E. Woods jr., è appena stata pubblicata in Italia Guida politicamente scorretta alla storia degli Stati Uniti d’America (D’Ettoris Editori, pagg. 346, euro 24,90, prefazione di Marco Respinti). Woods è docente di Storia presso il Ludwig von Mises Institute ed è uno dei più noti tra gli storici conservatori Usa. Il suo libro, che ha un preciso taglio politico e negli States ha sollevato un putiferio, è interessante proprio perché con piglio semplice e manualistico fa il tiro al piccione contro una serie di luoghi comuni, allineando tanti fatti e poca ideologia. Eccone alcuni tra i tantissimi e gustosissimi del libro.
    COLONI E INDIANI
    Nonostante la vulgata, i puritani nel fondare le prime colonie non rubarono la terra agli indiani. La ottennero con trattati e relazioni commerciali che per moltissimo tempo resero felici e soddisfatte entrambe le parti. E molto spesso i tribunali del New England nelle dispute, peraltro piuttosto rare, presero posizione a favore dei nativi. Gli scontri con gli indiani iniziarono molto dopo e non sono quindi un «peccato originale» nella nascita degli States...
    RIVOLUZIONI A CONFRONTO
    La rivolta fiscale delle tredici colonie e la conseguente Guerra di indipendenza (1775-1783) è stata molto spesso presentata come il modello della Rivoluzione francese (1788-1799). E contingenze politiche dell’epoca hanno in effetti fatto in modo fra i rivoluzionari (Thomas Jefferson stazionò a lungo a Parigi) ci fossero buoni rapporti, soprattutto in chiave anti inglese. Però le radici ideologiche delle due rivoluzioni erano completamente diverse. Gli americani avevano portato avanti una rivoluzione di stampo conservatore, non volevano trasformare la società delle colonie, ma soltanto tutelarla. I giacobini francesi invece volevano una renovatio totale del mondo.
    SECESSIONE
    È uno dei periodi su cui la costruzione mitologica è più forte. Peccato però che gli Stati del Sud avessero il diritto costituzionale di separarsi: già dalla nascita degli Stati Uniti molti Stati avevano elaborato clausole che consentivano il distacco dall’Unione se questa fosse diventata oppressiva. E gli stessi antischiavisti avevano chiesto a gran voce di separarsi dagli Stati del Sud. Quanto alle reali opinioni di Lincoln durante la sua carriera politica, molti storici fanno piazza pulita dei suoi discorsi da cui escono frasi come questa: «C’è una differenza biologica tra la razza bianca e quella nera che, credo, impedirà sempre alle due razze di vivere insieme sulla base di un’uguaglianza politica e sociale». Per i primi diciotto mesi di conflitto i Nordisti ebbero un solo obbiettivo: impedire il distacco del Sud, gli schiavi c’entravano ben poco.
    NEW DEAL
    Roosevelt è presentato solitamente come colui che ha tirato gli americani fuori dalla Grande Depressione. Woods però evidenzia anche valide opinioni contrarie. Lo statalismo di Roosevelt contribuì a tenere alti i prezzi agricoli a costo di macellare migliaia di capi di bestiame. Il risultato fu la fame. Quanto poi ai salari bloccati e al dirigismo statale, potrebbero aver rallentato la ripresa di anni.



    Il Medioevo "impeccabile" che smentisce i soliti romanzi
    Redazione
    Il romanzo storico, si sa, “tira” sempre; e tra le ambientazioni favorite per questo genere di racconti il medioevo è costantemente in pole position: cavalieri e armature, castelli e cattedrali, monaci e codici sono uno scenario ideale per collocare le più mirabolanti avventure. Ma il medioevo dei romanzi è quasi sempre il medioevo della cultura dominante, Chiesa corrotta, nobili prepotenti ed eretici poveri e leali che cercano di combattere l’una e gli altri: in fondo un pretesto per ribadire nell’immaginario collettivo dove stiano i buoni e i cattivi.
    Niente di tutto questo, invece, ne La congiura delle torri, opera prima d’un giovane insegnante ligure trapiantato nella bergamasca, che proprio a Bergamo e nel suo contado ambienta la sua avventura. Un medioevo storicamente impeccabile, innanzitutto: la vicenda che fa da sfondo alla storia – la disputa tra le grandi famiglie locali per contendersi il controllo del vescovado della città – è ricostruita fedelmente sulla scorta dei documenti d’epoca, frequentati pazientemente dall’autore seguendo la valida consulenza della medievista Maria Teresa Brolis. E come l’ambientazione, così sono realistici i personaggi, tanto quelli storici quanto i parti della fantasia: tra le mura dei castelli come fra quelle dei monasteri, tra le strade della città come lungo i viottoli delle campagne, compaiono uomini e donne veri, con i loro pregi e i loro difetti, i loro slanci ideali e le loro bassezze, la fedeltà e i tradimenti di cui tutti siamo capaci. «Bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima – direbbe il poeta –, eppure sempre in lotta, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce»: ecco, i celebri versi di Eliot calzano a pennello all’avventura umana dei protagonisti di questo romanzo, che procedono nella vita «spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via».
    In breve, la storia. Folco, secondogenito dei conti Lamberti, viene ospitato nella foresteria del monastero di Astino, mentre Landolfo, nobiluomo bergamasco, lo introduce al mestiere delle armi. Arruolato nelle milizie di Landolfo, Folco si trova coinvolto nelle guerre che oppongono fazione a fazione, città a città, sostenitori del Papa e partigiani dell’imperatore, sperimenta la fraternità che nasce coi commilitoni sul campo di battaglia e scopre di quanto tradimento siano capaci quelli che sembrano amici. Tra uno scontro e l’altro si innamora, prima di una fanciulla promessa a un giovane del campo avverso, poi di una seconda; ed è anche – paradossalmente – grazie all’esperienza dell’amore con queste donne che Folco comprende poco a poco quale sarà la sua vocazione: «guerriero di Dio», monaco e cavaliere a un tempo, secondo la rivoluzionaria proposta che san Bernardo sta predicando anche a Milano. Un racconto insomma che attraverso avventura, amore e amicizia mette a tema la questione di tutti, per che cosa vale la pena spendere la vita.
    E pazienza se la lettura è resa a volte impegnativa da una sovrabbondanza di metafore e da salti di registro linguistico spesso arditi e originali, ma più adatti a fermare lo sguardo del lettore sul verso di una poesia che a farlo scorrere in avanti nello svolgimento di un romanzo: Fadigati è giovane, ha talento, deve solo imparare a disciplinarlo; e il seguito – che il finale aperto delle Torri preannunzia inevitabile – confermerà il suo valore.
    Francesco Fadigati, La congiura delle torri, ed. Bolis, pagg. 350, euro 14.
    LETTURE/ 1. Il Medioevo "impeccabile" che smentisce i soliti romanzi | pagina 2



    Siti scrive bene ma l’economia non fa per lui
    di Carlo Lottieri
    Nel 1956, in quella New York che più di un decennio prima l'aveva accolto dopo la fuga dall'Europa dei totalitarismi, un ormai settantenne Ludwig von Mises scrisse un testo ancora oggi prezioso: La mentalità anticapitalista. Quell'aureo volumetto viene subito alla mente di fronte all'ultimo romanzo di Walter Siti, intitolato Resistere non serve a niente (edito da Rizzoli), in cui trova conferma un dato importante: e cioè che in tanti casi la civiltà occidentale ha preservato i propri spazi di libertà non grazie agli intellettuali, ma nonostante loro. Per molti tra quanti insegnano nelle università, producono film e - appunto - scrivono romanzi, le relazioni libere e volontarie che hanno luogo tra quanti negoziano beni e denaro sono qualcosa di riprovevole in sè. La celebre formula del comunista Bertolt Brecht



    secondo cui sarebbe un crimine non già assaltare una banca (derubare il prossimo), ma crearne una (ossia predisporre servizi finanziari che aiutino i risparmiatori a gestire i loro risparmi, e li facciano avere a chi ha idee e voglia di lavorare, ma è privo di risorse), gode di grande prestigio nell'intellighenzia occidentale.
    Siti ha inventiva e doti di scrittore. D'altra parte, la qualità artistica non dipende dalla capacità di essere un buon analista di questioni sociali, come conferma il fatto che le curiose teorie economiche di Ezra Pound, fiero nemico dell'usura, non pregiudicano il valore delle sue opere.
    In merito a quanto Siti afferma, è davvero sbagliato lasciar intendere che poichè la prostituzione è uno scambio, si potrebbe derivarne l'idea che lo scambio è una prostituzione. La falla logica è evidente a chiunque, come se si dicesse che siccome i danesi sono europei, gli europei sono danesi. Per giunta, condannare lo scambio vuol dire condannare la socialità stessa. La relazione mutualmente vantaggiosa che due giovani sviluppano, in internet, quando utilizzano eBay per vendersi un libro non ha in sè nulla di immorale. Senza leggersi le oltre mille pagine di Human Action di Mises (straordinario trattato sulla complessità, anche morale, delle relazioni di scambio), è sufficiente osservare gli affreschi senesi di Ambrogio Lorenzetti sugli effetti del Buongoverno per comprendere quale ruolo occupi.









    Per di più, l'alternativa allo scambio non è il dono, che comunque esige proprietà privata e libertà negoziale. L'alternativa allo scambio è la sua proibizione a opera di sistemi criminali simili a quelli che affascinavano Brecht: un interdetto che nega l'altro nella sua dignità di persona. Assai bizzarramente, dedicando grande attenzione a mafiosi e truffatori, nel romanzo si attacca l'ordine economico basato sulla proprietà privata, ma in tal modo si ricade in quello che potremmo chiamare «il paradosso di Proudhon», il quale un giorno sostenne che la proprietà è un furto: senza tener presente che ladri e furti rinviano alla proprietà e che non si può parlare degli uni senza riconoscere l'esistenza della seconda.
    Se è contestabile la fatwa lanciata da Siti contro lo scambio e la libertà economica, stesso discorso vale per la condanna del denaro. Dove manca il denaro, non c'è alcun orizzonte di autonomia e alcuna possibilità di scelta, ma solo il trionfo delle logiche del clan.
    Siti scrive bene ma l’economia non fa per lui - Cultura - ilGiornale.it

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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Metamorfosi delle rockstar Le tasse diventano esagerate e loro dicono cose di destra
    Dai Beatles di "Taxman" fino agli Afterhours, tante le canzoni anti fisco. L’agenzia delle entrate trasforma in liberisti anche i divi progressisti.
    di Paolo Giordano
    Rockstar si nasce, forse. Ma liberali si diventa per forza. Specialmente dopo la dichiarazione dei redditi. Rivoluzionari in sala prove. E poi borghesi dopo il primo posto in classifica.
    Sex tax and rock’n’roll. E non c’è bisogno di Checco Zalone, che nel neo aspirante tormentone La Cacada canta a modo suo che «è necessario far qualcosa por le casse dell’erario» ma poi tra le righe butta lì un verso che neppure Beppe Grillo ai bei tempi: «Se si stada lisensiata, se hai la casa pignorada, a l’ufficio dell’entrata puoi ballare la cacada». Qui si scherza, d’accordo ma, insomma, troppe tasse. Ciclicamente, nella storia della musica leggera, se ne sono lamentati in tanti, ricchi famosi famosissimi. Spesso imprevedibili come i Kinks di Sunny afternoon del 1966: «Il fisco si è preso tutta la mia pasta».
    E spesso incompatibili come Billy Bragg, cantautore punkfolksoul inglese che spesso è più a sinistra di Mao Tse tung ma che in Ideology del 1986 si è lamentato delle troppe tasse arrivando nel 2010 ad annunciare di non pagarle proprio, a meno che fossero ridotti i benefit statali ai manager della Royal Bank of Scotland. Dunque Robin Hood (evasore) a beneficio di tutti. Mah. Toglietemi tutto, ma non esagerate con le tasse. Di certo l’apripista in materia è stato quello che George Harrison ha scritto per Revolver dei Beatles: Taxman. «L’ho scritta quando ho capito per la prima volta che, nonostante avessimo iniziato davvero a guadagnare soldi, li stavamo spendendo quasi tutti in tasse», ha spiegato George Harrison.
    Ai tempi, l’erario di Sua Maestà era feroce con i ricchi, arrivando a prendersi circa il novanta per cento dell’incasso. Chiedere, please, agli Who, che nel 1975 pubblicarono Success story: «Ho dovuto suonare qualche concerto/ Sei (parti - ndr) per l’esattore e una per la band».
    Mica gli unici a lamentarsi. «Prendi quel contante con entrambe le mani e mettilo da parte» cantano allusivamente i Pink Floyd nella favolosa Money. Qualcuno lo ha attutito avvolgendolo in versi di protesta (come l’anti Vietnam Fortunate son di Creedence Clearwater Revival del 1969) o di riflessione sul lato oscuro del successo (Movin’out di Billy Joel del 1977). O di disillusione, come Johnny Cash in After taxes: «Si può sognare una luna di miele per due, ma puoi fare solo quello perché al momento giusto lo Zio Sam ti porta via tutto».
    I più spiritosi ci hanno scherzato su. Vedasi Willie Nelson che ha accennato al problema in Tired del 2004 dopo che, nel 1992, aveva pubblicato un intero disco (Who’ll buy my memories?) per pagarsi un debitone da 32 milioni di dollari con il fisco. E comunque, dai Jethro Tull di Lap of Luxury passando per i Cheap Trick di Taxman mr Thief o Jimmy Buffett di Carnival world fino agli Abba di Money money money del 1976 e all’essenziale Marvin Gaye di Inner city blues del 1971 («Non posso pagare le mie tasse»), la voracità dell’esattore ha fatto lacrimare il rock. Anche in Italia. C’è chi si è lamentato ironicamente come i Pitura Freska di Tasse del 1993: «Se ti vol star trancuio ne la to casa, paghighe la tassa sinò ti va in strada» (e non c’era ancora l’Imu). O come Er Piotta di Pago le tasse del 2004.
    E chi, come gli Afterhours, hanno messo tra parentesi la poesia per cantare: «Un mondo di tasse scorre via, sognavo diversa l’anima mia» (da Questo pazzo pazzo mondo di tasse del 1997).
    In poche parole, la musica leggera ha per decenni condiviso con il pubblico preoccupazioni e angosce. Poi, vuoi per allineamento ideologico o per convenienza pelosa, su argomenti equivocabili come il fisco ha preferito astenersi. Con il risultato che nel 1966 potevano permettersi di protestare (con conseguenti polemiche) anche i più grandi di tutti, i Beatles. Oggi riesce a farlo, scherzando per carità, solo un comico prestato alla musica. Fate voi com’è cambiato il mondo.
    http://www.ilgiornale.it/spettacoli/...e=0-comments=1



    COMICS - Su fronti opposti: "Neonomicon" di Alan Moore e "Sacro Terrore" di Frank Miller
    C’è tutto un mondo che separa Frank Miller e Alan Moore, e non riguarda solamente le opposte fazioni politiche alle quali appartengono. L’uscita in contemporanea dei loro ultimi lavori (dopo un lungo periodo di silenzio, per entrambi) è l’occasione per fare il punto sulle rispettive specificità artistiche, per capire come sia cambiata la loro concezione di quello stesso mezzo di comunicazione che contribuirono a rilanciare negli anni Ottanta
    Sono stati probabilmente i due maggiori numi tutelari della rivoluzione dei comics avvenuta negli Ottanta, i fautori di quell’onda restauratrice che ha risollevato il fumetto supereroistico dalla crisi profonda del decennio precedente: se si apre un qualsiasi volume di storia o critica fumettistica, tra i nomi di spicco di quel periodo non possono certamente mancare Alan Moore e Frank Miller, i cui rispettivi Watchmen e Il ritorno del Cavaliere Oscuro sono tutt’ora considerati veri e propri capisaldi del genere (insieme a Maus di Art Spiegelman), due opere in grado di raccogliere l’eredità monumentale del maestro Will Eisner e di trasformare il fumetto in vera e propria forma d’arte agli occhi dell’opinione pubblica. Al di là delle facili catalogazioni (il fumetto era arte ben prima di loro), questi due autori, così diversi per stile e sensibilità, hanno avuto l’indubbio merito di aver iniziato il grande pubblico (cioè i lettori Marvel e DC) a una complessità di contenuti che fino a quel momento era riservata prevalentemente a prodotti certamente non di largo consumo. Oltre ai titoli già citati, chi oggi volesse avvicinarsi per la prima volta al mondo dei fumetti non potrebbe assolutamente fare a meno di autentici capolavori come V for Vendetta, The Killing Joke, From Hell, Swamp Thing (Moore) e Ronin, Elektra Assassin, Batman Year One e Daredevil: Born Again (Miller), solo per elencarne alcuni.
    Due autori diversissimi tra loro, dicevamo: ciò che invece li ha accomunati negli ultimi anni è stato il progressivo allontanamento (in tempi e modi differenti) dai colossi dell’industria editoriale - questi ultimi sempre meno disposti a garantire loro libertà creativa - per rifugiarsi nelle realtà indipendenti.



    Ma oltre a questo, anche la loro produzione è divenuta sempre più rarefatta: se Miller si è lasciato tentare dalla regia cinematografica (la collaborazione a Sin City e il disastroso The Spirit), Moore, dal canto suo, ha fatto parlare di sé più per i coloriti commenti riguardanti le trasposizioni hollywoodiane delle sue opere (oramai celebre l’espressione per il Watchmen di Zack Snyder: “un piatto di vermi vomitati”) e per le sue attività collaterali (è anche mago, romanziere e musicista), che non per il suo lavoro di fumettista, ormai concentrato quasi unicamente sul completamento del capolavoro La Lega degli Straordinari Gentlemen. L’ultima volta che si è sentito parlare di loro due insieme è stato qualche mese fa, a riguardo del movimento Occupy Wall Street (che, come noto, ha assunto come simbolo la celebre maschera di V): in quell’occasione Frank Miller ha criticato aspramente i manifestanti definendoli come “un branco di zoticoni, ladri e stupratori, una folla scalmanata, alimentata da nostalgia dell’epoca di Woodstock e da un putrido e falso senso di giustizia”; la risposta di Alan Moore non si è di certo fatta attendere (“Saranno vent’anni che evito di guardare quello che produce Frank Miller”), a dimostrazione dell’abisso incolmabile che ormai separa i due autori. Rigidamente conservatore il primo, spirito anarchico e ribelle il secondo: ora che sono tornati contemporaneamente sugli scaffali delle librerie con le loro ultime opere, è possibile evidenziare ancora di più, se possibile, il divario che separa questi due stili assolutamente antitetici, quasi due mondi paralleli, certamente due sguardi diversissimi sul medium fumetto.
    Neonomicon nasce come continuazione di Il cortile, una breve storia di neanche 50 pagine tratta da un racconto di Alan Moore stesso ma sceneggiata da Anthony Johnston. In essa lo scrittore inglese prendeva spunto dagli universi di H.P.Lovecraft per immaginare la discesa negli abissi della follia da parte di un investigatore, chiamato a risolvere una bizzarra catena di omicidi; nonostante il limite di pagine imposto dal racconto, Il cortile già lasciava intravedere una brillante rilettura delle tematiche lovecraftiane. Neonomicon nasce dichiaratamente come un lavoro alimentare, caratteristica che sin da subito ha spinto molti ad etichettarlo frettolosamente come prodotto “minore” o “su commissione”: può certamente non trattarsi di un’opera sentita e necessaria, alla quale dedicare anni di studi e approfondimenti per portarla a compimento (come ad esempio il mastodontico From Hell), ma l’impressione che si ha non appena terminata la lettura è che, indubbiamente, ci si trova dinanzi a una riflessione filologica e assai complessa di tutta la maggiore produzione lovecraftiana. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un vero e proprio revival nei confronti dei racconti dello scrittore di Providence, tanto al cinema quanto nei fumetti: ebbene, si può affermare senza dubbio alcuno che finora nessuno era stato in grado di sviscerare e reinterpretare questa poetica come ha fatto Alan Moore con il Neonomicon.
    Tutt’altro discorso invece per Frank Miller: il suo approccio, si sa, non è mai stato di quelli cerebrali, anzi. Autore più di pancia che di cervello, ha sempre rappresentato il mondo attraverso le tinte manichee dei suoi profondissimi bianchi e neri (basti pensare al lungo ciclo di Sin City): senza chiedere niente a nessuno, senza mai sentire il bisogno di giustificarsi (o scusarsi) per le idee messe in campo. E anche stavolta è andato fino in fondo, forse persino troppo. Il suo Sacro Terrore è stato al centro di aspre polemiche ben prima di venire pubblicato, rinnovando le solite (stanche) accuse di fascismo, razzismo e via dicendo. Che Miller non fosse un democratico, è oramai cosa nota. Il suo conservatorismo di destra continua a stare scomodo a molti, ma l’impressione è che si tratti più di un disagio preconcetto che altro: diciamo questo perché siamo convinti che qualsiasi cosa (libro, film, fumetto, musica o altro), prima di essere giudicato, andrebbe affrontato. A prescindere dalla posizione politica del suo autore, la quale dovrebbe rimanere di scarso interesse almeno fino a quando non arrivi a coinvolgere i contenuti stessi dell’opera.
    Sacro Terrore vede finalmente la luce dopo un iter creativo a dir poco travagliato: il progetto nasce qualche anno fa con il nome di Batman: Holy Terror, quando fu Miller stesso ad anticipare l’identità del nemico dell’uomo pipistrello, e cioè nientemeno che Osama Bin Laden. Nelle intenzioni iniziali sarebbe dovuto essere il terzo capitolo della grande saga di Miller cominciata nel 1986 con Il ritorno del Cavaliere Oscuro e proseguita nel 2001 con Il Cavaliere Oscuro colpisce ancora: la cattura e uccisione del leader talebano però, e soprattutto il rifiuto drastico della DC Comics dinanzi allo sviluppo del progetto, hanno portato l’autore a rivolgersi presso la casa editrice indipendente Legendary Comics, trasformando l’identità del protagonista nel più anonimo Fixer e recuperando il formato 28x21 già sperimentato con 300. Collocando l’azione in una metropoli di fantasia chiamata Empire City (ma il riferimento a New York è palese, data anche la presenza di una simil statua della libertà), Sacro Terrore racconta la lotta senza quartiere di un giustiziere mascherato contro un nemico invisibile: il terrorismo islamico. Dedicato alla memoria del giornalista e regista olandese Theo Van Gogh, il volume è narrativamente e ideologicamente ridotto all’osso: buoni contro cattivi, senza sfumature di sorta. Un urlo di rabbia cieca e incontrollata, lontanissimo da qualsiasi forma di perbenismo o politically correct…



    L'Islam radicale? Raccoglie l'eredità di comunisti e nazi
    Ernst Nolte indaga le radici storico-culturali dell'avversione musulmana per l'occidente
    di Giampietro Berti
    Quali sono stati i due movimenti politici più importanti che negli ultimi due secoli si sono opposti con maggior determinazione all’avvento della modernità rappresentata dal liberal-capitalismo? Non c’è dubbio: il comunismo e il nazionalsocialismo.
    È la tesi di Ernst Nolte, il quale però ora aggiunge alla lista un terzo nemico della società aperta, l’islamismo nel nuovo saggio Il terzo radicalismo. Islam e Occidente nel XXI secolo, Edizioni Liberal, pagg. 341, euro 23.
    Venticinque anni fa lo storico tedesco scandalizzò la storiografia mondiale affermando che la causa del nazismo andava ricercata nel comunismo. Con la rivoluzione d’Ottobre il bolscevismo si presenta come un fenomeno mondiale che tenta l’annientamento di ogni borghesia nazionale, cioè uno sterminio generalizzato di classe, dando inizio alla guerra civile europea. Di qui la reazione nazista: allo sterminio di classe viene opposto lo sterminio di razza. Scatta un antagonismo imitativo, la creazione originale produce una copia: il Gulag genera Auschwitz.
    Ora Nolte ritorna all’idea della comparabilità tra comunismo e nazismo ponendola quale premessa per la comprensione storica del terzo grande radicalismo avverso alla modernità e all’Occidente: l’islam. Anche l’islam, infatti, è un fenomeno antimoderno perché la sua intima natura è data dalla negazione radicale del progresso. Il comunismo, il nazismo e l’islamismo, con diversi intenti, sono risposte «religiose» tese a fermare l’avanzata rivoluzionaria del liberal-capitalismo.
    Naturalmente va osservato che mentre il comunismo e il nazismo sono nati all’interno dell’Occidente, essendo un prodotto estremo della secolarizzazione, l’islamismo ne è del tutto estraneo. Comunque, a fronte del processo della modernità, il comunismo, il nazismo e l’islamismo, «nonostante le profonde differenze», risultano convergenti.
    Nolte descrive storicamente l’avversione islamica all’Occidente partendo dalla Prima guerra mondiale per giungere fino ai nostri giorni. La sua attenzione è rivolta in modo particolare verso lo Stato d’Israele, definito la fonte della modernità nel contesto del mondo islamico; mentre del tutto discutibile è la sua distinzione fra antisemitismo e antisionismo, che di fatto riecheggia gli stereotipi propri del terzomondismo islamico. Detto questo, osserviamo, da parte nostra, che la vittoria definitiva del capitalismo sul comunismo ha dissolto ogni vera alternativa storica al capitalismo medesimo. Il comunismo, infatti, era un sistema socio-economico radicalmente opposto perché pretendeva di costituire un mondo superiore rispetto al liberalismo e alla proprietà privata. La realtà islamica, invece, non ha nulla di tutto questo, non avendo un suo specifico sistema di produzione e di distribuzione della ricchezza, né di organizzazione tecnica delle risorse, vale a dire un sistema che sia congruo al proprio finalismo religioso: il sapere teologico del clero sciita nulla sa della gestione dei pozzi petroliferi. L’islam è radicalmente opposto all’Occidente solo in termini religiosi e politici.
    L’avanzata della modernità produce degli esiti incontrollabili, come osservò, con straordinaria lucidità, Oriana Fallaci. Ne consegue, purtroppo, la quasi impossibilità di una comparazione tranquilla tra la civiltà occidentale e quella islamica; permane, insomma, quello scontro di civiltà, già rilevato a suo tempo da Samuel Huntington.


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Ray Bradbury, occhi sgranati sulle stelle
    Enrico Leonardi
    Strano destino quello di Ray Bradbury, scomparso il 6 giugno 2012 all’età di 91 anni: apprezzato dai lettori “non specializzati” di Fantascienza; oggetto di malcelata diffidenza quando non addirittura di palese avversione sia da parte dell’ala più “hard” degli appassionati (che lo definiscono “un poeta”, prendendo le distanze dalle sue rarefatte atmosfere, dai suoi arabeschi stilistici), sia da parte dell’ala più ideologizzata, che non riesce a digerire il suo costante riferimento ai valori del passato.
    Eppure Ray Bradbury è un personaggio importante nella storia della FS: enfant prodige degli anni d’oro, ha traghettato molti lettori sulla riva sconosciuta del mondo “oltre la collina”, ricco di orizzonti inaspettati.
    I suoi capolavori, come “Fahrenheit 451” e “Cronache marziane”, conservano un fascino ed una attualità insospettabili: rivelano un interesse genuino per l’immutabile umanità dei protagonisti, più che per i congegni mirabolanti e le astruserie tecnologiche; fanno brillare una ricerca stilistica non disprezzabile, sulla scia di Poe, Hawthorne, Hemingway.
    Il sottofondo chiaramente avvertibile dell’opera di Bradbury è un grido di allarme sulla civiltà postbellica come si stava delineando negli anni Cinquanta del secolo scorso: in “Fahrenheit 451” (storia della conversione di un vigile del fuoco alla rovescia, incaricato di bruciare i libri in una società che vuole eliminare la memoria del passato) la rivolta è indirizzata contro la disumanizzazione, lo strapotere dei mass media, l’assassinio della vera cultura (“Ci mancano tre cose in questa società”, dice il vecchio Faber al protagonista Montag, “la verità della vita, il silenzio, la libertà di agire in base a ciò che crediamo”).
    “Cronache marziane” è una parabola sul sogno americano, sulla “Nuovissima Frontiera” che le rosse sabbie di Marte rappresentano. Bradbury sembra qui cercare una chiave di lettura per la storia americana: anche Marte è la Terra Promessa, un luogo vergine, utopico, dove finalmente ricominciare daccapo; e anche qui si succedono le ondate dei colonizzatori: dapprima gli eroici esploratori, i pionieri; poi gli idealisti carichi di ottimismo; infine i meschini burocrati, gli avidi mercanti. L’arenarsi del mito, l’infrangersi del sogno sembrano una triste costante storica; finché giungono uomini senza potere, capaci di rivivere i valori del passato, e pronti quindi per poter costruire una nuova civiltà, finalmente umana.
    Nel caleidoscopio di immagini multicolori, nel fragile intarsio di legni preziosi delle pagine di Bradbury riecheggiano parole ormai dimenticate, la nostalgia per la verità dell’uomo.





    RAY BRADBURY/ Pianeti e astronavi? Gli servivano per arrivare a Dio
    Walter Gatti
    Ho cominciato a leggere Ray Bradbury da Cronache Marziane quando ero alle scuole superiori e non ho più smesso. Ho letto piu volte le sue cose migliori, a partire da Fahrenheit 451 (di cui adoro anche l’immobile trasposizione cinematografica firmata da Truffault) e il Popolo dell’autunno, ma non mi son fatto mancare nemmeno le sue cose più folli come Morte a Venice, spumeggiante pseudo mistery ambientato nella città gioiello californiana, oppure le raccolte horror Molto dopo mezzanotte e La follia è una bara di cristallo (che raccolgono spunti di autentica paura, tra demoniache presenze e bizzarre antropofagie di gruppo).
    Se è vero che il racconto era forse il suo modello letterario preferito e se la fantascienza gli ha dato la celebrità che lo accompagnerà nei decenni di produzione letteraria, è anche vero che Ray ha scritto sceneggiature cinematografiche, saggi, libri per ragazzi, pièce teatrali e decine di articoli per testate californiane, alternando visionarietà noir a un buon umore vicino a quello di Alfred Hitchcock (con cui ha lavorato) e Walt Disney, suoi amici carissimi.
    Più continuo di Fredric Brown, meno strettamente ancorato alla science fiction di Heinlein (tanto per citare autori suoi amici), Bradbury non ha mai avuto rapporti con Asimov e Clarke, con cui pure condivide l’olimpo della fantascienza, ma verso cui non aveva interesse perché, diceva, la letteratura di pianeti e astronavi non suscitava in lui alcun interesse: aveva curiosità solo per le storia di uomini che nel futuro si trovavano a che fare con gli stessi problemi del nostro presente o del passato remoto.
    Gli altri hanno scritto decine di titoli, lui invece poche cose, eppure sublimi. Sta di fatto che Bradbury, come spesso si legge, ha umanizzato la fantascienza. Non avendo gli interessi astrofisici, cibernetici o matematici che muovono gente come Robert Sawyer, Stanislaw Lem o Ben Bova, Bradbury ha concentrato la sua attenzione su quale sarà la fine dell’uomo, delle sue verità, della sua memoria nei possibili futuri che l’attendono. Come la metterà l’uomo quando si troverà alle prese con la giustizia, la sacralità, la ricerca di senso, la fratellanza, la morale, mentre intorno a lui sfrecciano le astronavi e dominano i robot. Questo era il suo tema. Chi ama 2001 Odissea nello spazio, Blade Runner e Solaris sa di cosa parliamo.
    Tra le altre cose, le opere di Bradbury si sono intrecciate più e più volte con il senso d’attrazione dell’uomo per il divino e con la sua tradizione religiosa. Nelle Cronache, gli uomini scoprono stupiti che i marziani vivono ormai in uno stato di perfetta comunione con il divino.
    In Fahrenheit 451 gli uomini che Montag incontra al termine della sua fuga portano nomi biblici − Genesi, Deuteronomio... − perché essi sono il loro compito, cioè esprimono la propria vocazione personale avendo imparato ognuno un libro della Bibbia, visto che tutti i Libri Sacri del pianeta sono ormai stati bruciati dalle squadre di incendiari del potere assoluto.



    Bradbury però, a differenza dei teologi della fantascienza (come Heinlein e Zelazny, ed anche più tardi Phil Dick) aveva interesse per il rapporto umano con il divino, più che per le sue ipotetiche forme sociali. Diceva sempre che il Vangelo di san Giovanni era il suo libro preferito. La forma dell’amore era quella che lo attirava nella sua fede un po’ giocosa e un po’ universalista.
    E così − come a volte accade nella fantascienza, dove i racconti offrono sprazzi unici, come mostrato da due capolavori come Sentinella e Risposta, di Fredric Brown − il vertice della sua fantascienza biblica Bradbury lo raggiunge in un racconto presente in un opera “minore” come L’uomo illustrato. Il racconto è L’uomo, storia di un’astronave che vaga per i pianeti d’una lontana galassia per incontrare nuove forme di vita. Su un pianeta accade qualcosa di insolito: gli abitanti non sono per nulla interessati ad incontrati gli astronauti terrestri. Motivo? Sono troppo occupati ad ascoltare un visitatore giunto da pochi giorni che gli sta aprendo gli occhi sulla vita e sulla morte, sulla bellezza e sull’amore. Chi è questo visitatore? Da dove viene? Cosa vuole? “È colui che tutti attendono, da sempre”. Nel racconto riaccade piu o meno quello che sulla Terra è accaduto tra Betlemme, Cafarnao e Gerusalemme.
    L’epilogo è figlio del genio di Ray. Il capitano Hart esplode con le sue nevrosi, incapace di credere che il divino possa essere cosi vicino a lui, mentre il più concreto, l’astronauta Martin, capisce e va ad incontrare quell’uomo, mescolandosi alla folla di quel pianeta lontano. Bradbury l’ha scritto nel 1948, quando aveva solo 28 anni. Ieri se n’è andato, novantunenne. Chissà quali cronache astrali potrebbe scrivere, ora sta vedendo tutto e non deve più “immaginare”.



    Aslan di Narnia: imagine di Cristo
    “Riguardo all’altro nome di Aslan, vorrei davvero che fossi tu ad indovinare. C’è mai stato qualcuno in questo nostro mondo che: 1) giunse nello stesso periodo di Babbo Natale; 2) disse di essere il figlio del Grande Imperatore; 3) per la colpa di qualcun altro diede se stesso a degli uomini cattivi che lo derisero e lo uccisero; 4) tornò in vita; 5) viene alle volte chiamato l’Agnello (vedi la conclusione del Veliero)? Davvero non sai il Suo nome in questo mondo? Pensaci su e fammi sapere la tua risposta!”

    Così C.S.Lewis, autore dei tre volumi de Le cronache di Narnia da un episodio dei quali è tratto il film di A.Adamson in questi giorni sugli schermi, rispondeva ad Hila, una bambina americana lettrice delle sue fiabe. La decisione di dare vita ad una allegoria di Cristo, nella sua creazione di fantasia, è evidente. Il leone Aslan è figura di Cristo che vince il gelo e la morte del mondo offrendo se stesso alla morte per la salvezza di uno dei bambini protagonisti della fiaba, Edmund, colpevole di tradimento, e risorge a vita nuova, per essere con i suoi nella battaglia finale contro la Strega Bianca e le forze maligne che la accompagnano.
    Meno noto è che proprio la riflessione sul significato del sacrificio di Cristo, ripresentato dalla figura di Aslan, sia all’origine della conversione al cristianesimo dell’autore inglese.
    Così egli stesso racconta ad Arthur Greeves la notte decisiva della sua vita – il 19 settembre 1931 – nella quale, fino alle 4.00 del mattino, si trovò a discutere con H.Dyson e con J.R.R.Tolkien, l’autore de Il Signore degli anelli, della realtà della morte in croce di Cristo, finendo per esserne conquistato:
    Quello che mi ha trattenuto (perlomeno durante l’anno passato, all’incirca) non è stata tanto una difficoltà a credere, ma piuttosto a sapere cosa la dottrina volesse significare: non puoi credere a una cosa mentre ignori cosa questa sia. La mia difficoltà era la Dottrina della Redenzione nella sua interezza, in che modo la vita e morte di Cristo “avessero salvato” o “spalancato la salvezza” per il mondo. Capivo come una salvezza miracolosa potesse essere necessaria: uno può vedere dall’esperienza di tutti i giorni come il peccato (per esempio nel caso di un alcolizzato) possa portare l’uomo a un punto tale che egli sia destinato a raggiungere l’Inferno (la completa degradazione e miseria) in questa vita, a meno che un qualche aiuto o sforzo non semplicemente naturale prenda l’iniziativa. E potevo bene immaginare un mondo intero nella stessa condizione, e in maniera simile la necessità di un miracolo. Quello che non riuscivo a capire era come la vita e la morte di Qualcun Altro (chiunque questi fosse) duemila anni fa potesse aiutare noi adesso – se non nella misura in cui poteva esserci utile il suo esempio. E la questione dell’esempio, sebbene tanto vera e importante, non è il cristianesimo: proprio al centro del cristianesimo, nei Vangeli e in san Paolo, trovi qualcosa di completamente diverso e misterioso, espresso in quelle frasi di cui io mi sono fatto gioco così spesso (“propiziazione”, “sacrificio”, “il sangue dell’Agnello”), espressioni che riuscivo a interpretare solo in modi che mi parevano o sciocchi o scandalosi.
    Ora, quello che Dyson e Tolkien mi hanno mostrato era questo: che se io incontro l’idea del sacrificio in un racconto pagano questa non mi crea alcun problema: anzi, che se mi trovo davanti un dio che si sacrifica, ne sono attratto e misteriosamente commosso: ancora, che l’idea del dio che muore e risorge (Balder, Adone, Bacco) mi colpisce così tanto a condizione che io la trovi ovunque tranne che nei Vangeli. La ragione è che nei racconti pagani io sono stato preparato a percepire il mito nella sua profondità e suggestione di significati oltre ogni mia capacità di comprensione, anche se poi nella freddezza della prosa io non riesco a dire “cosa significhi”.
    Ora, la vicenda di Cristo è semplicemente un mito vero: un mito che agisce su di noi come gli altri, ma con la tremenda differenza che questo è davvero avvenuto nella storia. [...]
    Cioè, i miti pagani sono Dio che esprime Se stesso attraverso la mente dei poeti antichi, facendo uso delle immagini che vi ha trovato, mentre il cristianesimo è Dio che esprime Se stesso attraverso quello che chiamiamo “realtà”. Perciò è vero, non essendo una “descrizione” di Dio (cosa che una mente finita non potrebbe racchiudere) ma la via attraverso cui Dio sceglie di mostrarsi alle nostre limitate facoltà. Le “dottrine” che tiriamo fuori dal mito vero sono certamente meno vere di questo: traducono in concetti e idee quello che Dio ha già espresso in un linguaggio più adeguato, la vera incarnazione, crocifissione e resurrezione, verificatesi nella storia.
    E’ sufficiente tutto questo per credere al cristianesimo? In ogni caso adesso sono certo che: A) in un certo senso, questo è il metodo con cui il cristianesimo deve essere avvicinato, così come mi accosto agli altri miti; B) fattore più importante e ricco di significato, sono quasi certo che sia tutto accaduto per davvero.

    Fino a quella notte Lewis si era sì accostato al cristianesimo, trovandolo l’unica visione “non noiosa” del mondo, ma non ne aveva ancora preso in seria considerazione la possibile verità.
    Il testo fantastico de Le cronache di Narnia, nell’episodio Il leone, la strega e l’armadio, ci presenta la legge della giustizia, stabilita dal grande Imperatore – fuor di metafora, da Dio – per la quale chi ha fatto il male (in questo caso Edmund, uno dei quattro fratelli, che più volte per ottenere piccoli vantaggi o per aver salva la vita ha tradito i suoi fratelli) è responsabile delle conseguenze di morte che ha generato:
    – Tu hai un traditore qui, Aslan – cominciò a dire la strega. Naturalmente tutti sapevano che alludeva a Edmund, ma il ragazzo, dopo tutto quello che aveva passato e dopo il colloquio della mattina con Aslan, non ci pensava più: guardava il grande leone senza curarsi di quel che diceva la Strega Bianca.
    – Ebbene, quel traditore non ti ha recato nessuna offesa – obiettò Aslan.
    – Hai dimenticato la Grande Magia?
    – Diciamo che l’ho dimenticata – rispose gravemente il leone.
    – Parlamene tu.
    – Devo parlartene io? – chiese la strega con voce stridula. –
    – Devo ripeterti quello che è scritto là, sulla Tavola di Pietra? Devo farti ricordare che proprio su quella tavola sono scritte le stesse cose che la spada ha inciso profondamente nella roccia infuocata della Collina Segreta? E anche quello che è inciso sullo scettro dell’imperatore d’Oltremare? Sai bene qual è l’incantesimo che l’imperatore ha gettato su Narnia fin dall’inizio dei tempi. Sai bene che ogni traditore mi appartiene, è mio per legge. Ogni tradimento mi dà diritto a un’uccisione!
    – Ah, capisco! – esclamò il castoro, con tono ironico. – Quella là crede di essere la regina e invece funziona da boia per conto dell’imperatore d’Oltremare. Capisco… capisco…
    – Buono, buono, mio caro castoro – disse Aslan, e fece sentire un ringhio soffocato.
    – Quell’essere umano mi appartiene – continuò imperterrita la strega. – Ho diritto a confiscargli la vita, a prendermi il suo sangue.
    – E vieni a prendertelo, allora! – esclamò il toro con la testa d’uomo: la sua voce assomigliava a un profondo muggito.
    – Imbecille! – replicò la strega con un sorriso che era quasi una smorfia crudele. – Credi dunque che il tuo padrone possa togliermi i miei diritti con l’uso della forza? Lo sa bene, lui, cosa stabilisce la Grande Magia: se non avrò il sangue di quel traditore, Narnia sarà distrutta dall’acqua e dal fuoco! Questo dice la Grande Magia!
    – E’ vero – mormorò Aslan. – Non posso negarlo.
    – Oh, Aslan! – esclamò Susan, e poi, avvicinando le labbra all’orecchio di Aslan, sussurrò: – Non possiamo permetterlo. Voglio dire che tu non lo permetterai, vero? Non si può far nulla per rompere l’incantesimo? Voglio dire, tu non puoi fare qualcosa contro la Grande Magia?
    – Qualcosa contro quello che l’imperatore ha stabilito dall’inizio dei tempi? – chiese Aslan volgendo verso la fanciulla uno sguardo lievemente accigliato.

    Aslan si ritira per un incontro a tu per tu con la Strega Bianca. Al termine del loro colloquio non spiega ai fratelli ed al suo esercito radunato ciò che avverrà, ma tutti avvertono che qualcosa di grande sta per accadere:

    E la discussione tra il leone e la strega continuava. Finalmente si udì la voce di Aslan che disse:
    – Tranquillizzatevi, va tutto bene. Ho sistemato la faccenda. La strega rinuncia ai suoi diritti sul sangue di vostro fratello.
    Allora si udì uno strano suono, come se tutti, che fino a quel momento non avevano osato neanche respirare, ora tirassero insieme un gran sospiro di sollievo. La Strega Bianca se ne stava andando: aveva sul volto un’espressione di gioia feroce. A un certo punto si fermò e voltandosi disse:
    – E come faccio a essere certa che manterrai la promessa?
    – Raaauuug – ruggì il leone, e fece l’atto di alzarsi dal trono dove stava seduto.
    La Strega Bianca restò a guardarlo un attimo, sbalordita. Poi Aslan spalancò maggiormente la bocca, lei si raccolse la gonna tra le mani e fuggì a gambe levate.

    Solo le due sorelline seguono il leone, nella notte, fino al luogo nel quale si rivela il segreto del colloquio fra Aslan e la Strega Bianca. Susan e Lucy, vedendo il leone che si fa legare e porre sull’altare, sulla Tavola di pietra, senza reagire, capiscono che Aslan ha offerto la sua vita in cambio di quella di Edmund. Le due bambine assistono così alla sua terribile morte, offerta in sacrificio:

    Eppure, se il leone avesse voluto, una sola zampata poteva significare la morte dei suoi assalitori. Non reagì, invece, neanche quando i suoi nemici cominciarono a stringere i nodi, tirando le corde così forte che esse sembravano sul punto di segargli la pelle; poi lo trascinarono verso la Tavola di Pietra.
    – Basta, ora – comandò la strega. – Dobbiamo sistemargli la criniera, prima di tutto!
    Dalla folla dei suoi seguaci si levò un altro coro di risatacce volgari. Un orco si fece avanti: teneva in mano un paio di forbici e, zac-zac-zac, cominciò a tagliare ampie ciocche di peli dorati. Quand’ebbe finito, e sul terreno si ammassava il resto della lunga criniera, l’orco si tirò da parte. Le due ragazzine poterono allora vedere, sempre nascoste tra i cespugli, che il povero Aslan sembrava ben diverso da prima. Anche i nemici si accorsero della differenza.
    – Be’, dopo tutto non è che un gattone! – gridò uno.
    – E noi avevamo tanta paura di quello là! – esclamò un altro. Tutti si misero a sbeffeggiarlo con frasi idiote, come: “Micio, micio… quanti topolini hai acchiappato oggi?” oppure: “Vuoi un po’ di latte nel piattino, micetto?”
    – Oh… come possono fare una cosa simile! – mormorò Lucy mentre le lacrime le rigavano il volto. – Sono dei bruti, delle belve! Ora che avevano superato il primo momento di sorpresa, Lucy e Susan si accorgevano che, così tosato, Aslan sembrava anche più bello, più coraggioso, più paziente che mai.

    Se tutti deridono l’impotenza di Aslan che non si ribella, non così avviene per Susan e Lucy.
    Vedendolo morire così, le bambine comprendono di trovarsi dinanzi ad un evento che supera tutto ciò che finora hanno visto in vita.

    – Vigliacchi! Vigliacchi! – singhiozzava Susan. – Hanno paura di lui anche adesso! Quando questa operazione fu compiuta (e Aslan era un unico ammasso di corde!) sulla folla cadde un profondo silenzio.

    La Strega Bianca, regina del male, prima di spezzare la vita del leone Aslan, pronuncia la sua terribile condanna. E’ l’ultima illusione del male che, togliendo di mezzo Cristo, sa che, con la sua fine, anche l’uomo è perduto. E’ straordinario lo scambio di parole del testo evangelico: il Cristo sembra “non aver potuto salvare gli altri”, oltre che se stesso!

    – E allora? Chi ha vinto? E tu, pazzo, credi che con questo salverai quel traditore? Io ti ucciderò al posto suo, come era nel nostro patto: così la Grande Magia sarà rispettata. Ma quando tu sarai morto, chi mi impedirà di uccidere anche lui? Chi lo strapperà dalle mie mani, allora? Mi hai consegnato, e per sempre, tutto il paese di Narnia. Hai perso la tua vita, ma non hai salvato quella di lui. Capiscilo finalmente e muori nella disperazione!
    Le due sorelline non videro il momento preciso in cui la malvagia strega vibrò il colpo. Non avrebbero mai potuto sopportare un simile spettacolo: perciò si coprirono gli occhi con le mani.

    Quando tutti hanno abbandonato la scena, per precipitarsi a sconfiggere l’uomo nella grande battaglia e quando anche le bambine stanno per abbandonare il luogo della morte di Aslan, il sepolcro, ecco la meraviglia della resurrezione:

    – Oh, Aslan! – esclamarono entrambe fissandolo impaurite e contente al tempo stesso. – Non eri morto, allora, caro Aslan?
    – chiese Lucy.
    – Non lo sono più – rispose il leone.
    – Non sei… non sei un… – domandò Susan con voce tremante. Non sapeva decidersi a dire la parola “fantasma”. Aslan si avvicinò, piegò un poco la testa e le diede una leccatina sulla fronte. Susan sentì il calore del suo fiato e quella specie di profumo che sembrava diffuso intorno a lui.
    – Ti sembro un fantasma? – chiese Aslan.
    – Oh, no! Sei vivo, sei vivo! – gridò Lucy, e tutt’e due si lanciarono verso di lui, ripresero ad abbracciarlo e accarezzarlo e coprirlo di baci.
    – Ma cosa significa tutto questo? – chiese Susan quando si furono un po’ calmate. Aslan rispose:
    – Significa che la Strega Bianca conosce la Grande Magia, ma ce n’è un’altra, più grande ancora, che lei non conosce. Le sue nozioni risalgono all’alba dei tempi: ma se lei potesse penetrare nelle tenebre profonde e nell’assoluta immobilità che erano prima dell’alba dei tempi, vedrebbe che c’è una magia più grande, un incantesimo diverso. E saprebbe così che, quando al posto di un traditore viene immolata una vittima innocente e volontaria, la Tavola di Pietra si spezza e al sorgere del sole la morte stessa torna indietro!
    – Oh, è meraviglioso! – esclamò Lucy battendo le mani e saltando dalla gioia. – E ora, come ti senti, Aslan?
    – Sento che mi ritornano le forze e, bambine mie, prendetemi se vi riesce!

    Aslan è realmente morto. Non si è trattato di una morte apparente. Ma la sua vita di risorto è altrettanto reale. C’è un orizzonte più grande della Grande Magia della giustizia, c’è la presenza originaria di Dio e della sua bontà e misericordia, ciò che la Strega Bianca ignora, non volendo amare e credere.
    In un’altra opera, Il cristianesimo così com’è, che C.S.Lewis scrisse per esporre la fede cristiana a chi non la conosce, il nostro autore si sofferma a presentare estesamente il significato della morte redentrice di Cristo, al cuore dell’esperienza cristiana della vita:
    Ci viene detto che Cristo è stato ucciso per noi, che la sua morte ha redento i nostri peccati, e che morendo Egli ha reso impotente la morte stessa. Questa è la formula. Questo è il cristianesimo, ed è questo ciò che dev’essere creduto. Qualsiasi nostra teoria su come la morte di Cristo abbia operato tutto ciò è, a mio parere, affatto secondaria; è solo un disegno, uno schema da lasciare da parte se non ci aiuta, e da non confondere, anche se ci aiuta, con la cosa essenziale. Alcune di queste teorie, nondimeno, meritano di essere considerate. La più nota è (che)… abbiamo ottenuto il perdono perché Cristo si è offerto di essere punito al posto nostro.
    Apparentemente, è una teoria assurda. Se Dio era disposta a perdonarci, perché mai non l’ha fatto? Che senso c’era a punire, invece, un innocente? Io non ne vedo alcuno, se pensiamo a una punizione in senso giudiziario. D’altra parte, se pensiamo a un debito, è molto sensato che una persona provvista di mezzi lo paghi a nome di chi non ne ha. O ancora, se all’espressione “pagare la penale” non attribuiamo il significato di subire un castigo, ma quello più generale di “far fronte a un impegno” o di “saldare un conto”, è esperienza comune che quando uno si è messo in qualche impiccio, il disturbo di tirarlo fuori tocchi di solito a un buon amico.
    Ebbene, in quale “impiccio” si era messo l’uomo? Aveva cercato di agire per conto proprio, di comportarsi come se appartenesse a se stesso. In altri termini, l’uomo caduto non è soltanto una creatura imperfetta che ha bisogno di migliorarsi: è un ribelle che deve deporre le armi. Deporre le armi, arrendersi, chiedere scusa, capire che ci si è messi su una strada sbagliata ed essere pronti a ricominciare la vita dalle fondamenta: è questo l’unico modo di uscire dal nostro “impiccio”. Questa operazione di resa – questo fare macchina indietro a tutta forza – è ciò che il cristianesimo chiama pentimento. Ora, il pentimento non è un gioco da ragazzi. E’ una cosa molto più ardua che cospargersi il capo di cenere. Vuol dire disimparare tutta la presunzione e la caparbietà cui da migliaia d’anni siamo avvezzi. Vuol dire uccidere una parte di sé, subire una specie di morte. In realtà per pentirsi occorre essere persone buone davvero.
    E qui viene l’intoppo. Solo una persona cattiva ha bisogno di pentirsi: e solo una persona buona può pentirsi perfettamente. Peggiori siamo, più abbiamo bisogno di pentirci, e meno ne siamo capaci. La sola persona che potrebbe farlo perfettamente sarebbe una persona perfetta – e non ne avrebbe bisogno. Badate bene: questo pentimento, questo volontario sottomettersi all’umiliazione e a una specie di morte, non è qualcosa che Dio esige da noi prima di riaccoglierci, e da cui potrebbe esimerci se volesse; è semplicemente una descrizione di ciò in cui consiste l’atto di tornare a Lui. Se chiedi a Dio di riaccoglierti senza questo atto, Gli chiedi in realtà di lasciarti tornare senza tornare. Non è possibile. Benissimo, dunque: dobbiamo compiere questo atto. Ma la stessa cattiveria che ce lo rende necessario, ci rende incapaci di compierlo.
    Possiamo farlo se Dio ci aiuta? Sì, ma che cosa intendiamo parlando di aiuto divino? Intendiamo che Dio mette in noi, per così dire, un poco di Sé. Dio ci presta un poco del Suo raziocinio, ed è così che noi pensiamo; mette in noi un poco del Suo amore, ed è così che ci amiamo l’un l’altro. Quando insegni a scrivere a un bambino, gli reggi la mano mentre forma le lettere: il bambino, cioè, forma le lettere perché le formi tu. Noi amiamo e ragioniamo perché Dio ama e ragiona e ci regge la mano mentre lo facciamo. Se non fossimo caduti, tutto sarebbe facile. Ma adesso, sfortunatamente, abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio per fare qualcosa che Dio, nella Sua natura, non fa mai: arrenderci, soffrire, sottometterci, morire. Nulla, nella natura di Dio, corrisponde a questo processo. Sicché proprio quella strada per la quale soprattutto ci è ora indispensabile la guida di Dio è una strada che Dio, nella Sua natura, non ha mai percorso. Dio può spartire soltanto ciò che ha: e questo, nella Sua natura, non c’è.
    Ma supponiamo che Dio diventi uomo: supponiamo che la nostra natura umana, che può soffrire e morire, si amalgami con la natura di Dio in un’unica persona: allora questa persona potrebbe aiutarci. Potrebbe rinunciare alla Sua volontà, e soffrire e morire, perché è un uomo; e potrebbe farlo perfettamente perché è Dio. Voi e io possiamo compiere questo processo soltanto se Dio lo compie in noi; ma Dio può compierlo soltanto se diventa uomo. I nostri tentativi volti a questo morire possono andare a segno soltanto se noi uomini condividiamo il morire di Dio, così come il nostro pensiero può sussistere soltanto perché è una goccia del mare della Sua intelligenza: ma noi non possiamo condividere il morire di Dio se Dio non muore: ed Egli può morire soltanto essendo uomo. E’ in questo senso che Egli paga il nostro debito, e patisce per noi ciò che a Lui, in quanto Dio, non sarebbe stato necessario patire.
    Ho sentito certuni obiettare che se Gesù era Dio oltre che uomo, le Sue sofferenze e la Sua morte perdono, ai loro occhi, ogni valore, “perché per Lui deve essere stato facilissimo”. Altri potrà (a buon diritto) biasimare la sgarbata ingratitudine di questa obiezione; io sono stupefatto dall’incomprensione che essa rivela. In un certo senso, naturalmente, chi la fa non ha torto. Anzi, si mostra fin troppo moderato.
    La perfetta sottomissione, la perfetta sofferenza, la perfetta morte non solo furono più facili a Gesù perché Egli era Dio: furono possibili soltanto perché Egli era Dio. Ma questo è un motivo ben strano per non accettarle. Il maestro può tracciare le lettere per il bambino in quanto è adulto e sa scrivere. Questo, naturalmente, gli rende le cose più facili, ma è soltanto grazie a questa facilità che egli può aiutare l’allievo. Se il bambino rifiutasse il suo aiuto perché “per gli adulti è facile”, e aspettasse di imparare a scrivere da un coetaneo che non sa scrivere nemmeno lui (e quindi non ha un vantaggio “sleale”), non farebbe molta strada. Se io sto annegando in un fiume vorticoso, un uomo che ha un piede sulla riva può tendermi una mano e salvarmi la vita. Dovrei gridargli (tra un rantolo e l’altro): “No, non è giusto! Hai un vantaggio… stai con un piede sulla riva”? Quel vantaggio – chiamatelo “sleale”, se volete – è la sola cosa che gli permette di essermi utile. Da chi cercheremo aiuto se non da chi è più forte di noi?

    S.Tommaso d’Aquino aveva parlato della redenzione dell’uomo mediante la passione di Cristo come realtà consona sia alla giustizia che alla misericordia di Dio. La morte in croce di Cristo, pur non necessaria secondo una “necessità di coazione”, è necessaria secondo il volere di Dio. L’Aquinate così presentava cinque aspetti di essa: il sacrificio di Cristo, dando all’uomo di conoscere quanto Dio lo ami, mostrandoci l’esempio affinchè “anche noi ne seguiamo le orme”, redimendoci dal peccato ma anche meritandoci la grazia giustificante e la beatitudine, insinuando in noi con più forza l’esigenza di conservarci immuni dal peccato ed, infine, rispettando la nostra natura di uomini poiché l’uomo Gesù, e non solo Dio, ha vinto la morte subendola, era più “conveniente”. “Conveniente” è uno straordinario termine teologico medioevale con il quale si indica ciò che è proprio dell’essere e dell’agire della Trinità, lo stile che è inconfondibilmente unico e appropriato dell’essere divino – era conveniente che fossimo liberati dalla passione di Cristo, piuttosto che da un semplice atto della volontà di Dio!
    C.S.Lewis ha avuto il coraggio di riavvicinare il suo ed il nostro tempo al grande mistero della redenzione umana avvenuta attraverso l’amore ed il dolore di Cristo stesso.




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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    In ricordo di Ray Bradbury
    Marco Respinti
    Il mondo della letteratura, non solo quello dei fan della fantascienza in senso stretto, piange la scomparsa dell’insuperabile Ray Bradbury, morto il 5 giugno all’età di quasi 92 anni. Perché il talentuoso scrittore - noto anche ai profani per titoli immarcescibili entrati addirittura nel gergo quotidiano anche di chi ne ha nel tempo smarrito l’origine, per esempio Cronache marziane (1950) e Fahrenheit 451 (1951) - è stato un alfiere di quell’umanesimo pieno, rotondo e mai al ribasso che dovrebbe essere, e grazie ad alcuni irriducibili «eroi» caparbiamente ancora è, il mondo delle «belle lettere», secondo il modello classico - cioè intramontabile - del vir bonus dicendi peritus.
    Certo, credere ancora nel bello che fa tutt’uno con il buono e con il vero, e questo come compito supremo (poiché intimamente proprio) della letteratura, oggi è da parrucconi. Pensare - come scriveva in sede critica il gran maestro dei conservatori americani Russell Kirk (1918-1994) dei suoi amici e sodali T.S. Eliot (1888-1965) e Donald Davidson (1893-1968) - che il poeta sia addirittura un custode dell’ordine morale e dunque socio-politico è considerato oggi fuori tempo massimo. Ma non di meno è vero.
    Per il mondo dove trionfa il romanzo scipito più che volgare, la poesia dei versacci invece che dei versi o il cinema fatto per generi sessuali e gusti strambi, personaggi come Bradbury sono assolutamente inattuali eppure più che necessari. Possibile davvero che persino un racconto fantascientifico possa far primavera? Possibilissimo. Anzitutto perché, scienza a parte, la fantasia è lo strumento primo e non negoziabile della creazione artistica tout court: applicarla alla scienza piuttosto che alla storia o alle produzioni plastico- figurative è - da questo punto di vista - solo un accidens. In secondo luogo perché il senso autentico di quella potenza evocativa e sublimante che chiamiamo «fantasia» (che serve all’uomo sempre, non solo quando crea artisticamente in senso stretto: cosa sarebbero infatti una professione, una vita familiare, un’attività sportiva o una ricreazione prive di fantasia?) è la capacità di suscitare situazioni, condizioni, stati e figure attraverso cui agire in prima persona «testando» il reale. Antica almeno quanto l’antigiacobino Samuel Taylor Coleridge (1772-1834), la «fantasia» è infatti propriamente «immaginazione». E, osservava perfettamente Kirk alla scuola di mille maestri, essa si divide in «immaginazione diabolica» contro «immaginazione morale» .
    «Perché», ha osservato Kirk, «al pari di Lewis, di Tolkien di altri talentuosi narratori di favole, Ray Bradbury ha sfoderato la spada contro il materialismo cupo e corruttore del secolo XX; contro l’idea di una società ridotta alla mera dinamica produttore/consumatore; contro la bruttezza del vivere moderno; contro il potere senza criteri; contro l’ossessione sessualista; contro l’intellettualismo vuoto; e contro la retta ragione pervertita nel giro mentale di chi dipende solo dalla televisione. I suoi marziani, i suoi spettri e le sue streghe non sono infatti un intrattenimento che distrae; al contrario, essi diventano, per vie misteriose, i difensori della verità e della bellezza».
    Kirk vergò queste parole in un saggio, The Revival of Fantasy, parzialmente dedicato proprio a Bradbury, che fu pubblicato nel fascicolo datato maggio 1968 del mensile tradizionalista cattolico Triumph, fondato e diretto L. Brant Bozell jr. (1926-1997). Poi quel saggio venne raccolto nel volume kirkiano Enemies of the Permanent Things: Observations of Abnormity in Literature and Politics, uscito nel 1969 (Arlington House, New Rochelle [New York]), e quindi riedito in versione riveduta nel 1984 (Sherwood Sug*den, Peru [Illinois]), un libro che osa affermare che in letteratura vale la stessa natura normativa che vige in politica, che il bene è cioè sempre bene, e che il peccato è sempre lo stesso ovunque lo si commetta. Ebbene, nel breve e sapido fraseggio sopra riportato vi è tutta la visione del mondo di Kirk.
    La «spada» che anche Bradbury ha sfoderato per una esistenza intera è la stessa che suggella sin dal titolo l’autobiografia di Kirk stesso, The Sword of Imagination: Memoirs of a Half-Century of Literary Conflict (Eerdmans, Grand Rapids [Michigan] 1995). La «retta ragione» è quel criterio normativo che l’uomo scopre in ciò che lo circonda, e che da lui non dipende, attraverso l’uso coscienzioso ed educato dell’intelletto quale suprema facoltà umana, altrettanto data: Kirk la scoprì in Edmund Burke (1729-1797), il fondatore del conservatorismo angloamericano ai tempi – e contro di essa – della Rivoluzione Francese (1789-1815, a voler, correttamente, considerare come parte integrante di essa pure l’«età napoleonica», 1799-1815), e poi imparò che è la tradizione che almeno da Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) arriva sino al Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) quando l’argomento è il diritto naturale.
    Le «realtà permanenti» evocate nel titolo del suo libro del 1969 sono una citazione da L’idea di una società cristiana (1939) di Eliot che in Kirk diventa proverbiale: Eliot era stato prima maestro e poi amico di Kirk, e quegli gli aveva tra l’altro insegnato a semantizzare in quel modo la philosophia perennis che è l’anima vera di ogni conservatorismo autentico per riconoscerla ovunque la incontrasse, anche nelle fogge più diverse. Appunto in Bradbury, per esempio.
    Nelle bizzarrie, persino negli orrori della fantascienza e del genere gotico (di cui lo stesso Kirk fu autore prestigioso), Kirk seppe così leggere l’ammaestramento sempiterno che risiede nel mito, nelle leggende e persino nelle fiabe, diverso persino, talora contrastante, ma mai contradittorio con il logos nel cercare e soprattutto nel contemplare la verità. E sempre mistico, sacrale, religioso. Una tradizione di umanesimo sincero, l’unico, che dal passato brumoso del genere umano giunge fino a penne sapienti quali i notissimi J.R.R. Tolkien, C.S. Lewis e – magari inconsapevolmente, ma è più un rafforzativo che una obiezione – J.K. Rowling, madre di Harry Potter, lungo una filiera dove scorrono i volti dei fratelli Jacob (1785-1862) e Wilhelm (1786-1859) Grimm, di Hans Christian Andersen (1805-1875), di Charles Perrault (1628-1703), e su su quelli degli ignoti «inventori» di favole e fiabe del tempo che fu. Di cose così Bradbury e Kirk discutevano e chiacchieravano, amici quali erano, entrambi luminari del conservatorismo contemporaneo. Sì, anche Bradbury, nonostante non sembri, benché pochi lo ricordino ora nei necrologi, malgrado meno ancora lo sospettino.
    Gli scenari bradburyani, com’è stato ricordato efficacemente, sono del resto sempre quelli della «Smalltown America» di «provincia»: piccoli borghi, fattorie a misura di uomo, estati torride e inverni gelidi, insegne al neon magari pencolanti e incombenti sull’asfalto in una terra che pare di nessuno e front porch, quelle verande tipiche che nell’«Heartland America» non è casa se mancano. A Bradbury - Kirk è stato maestro di tutti in questa interpretazione peculiare, ma pochi oggi lo rammentano - interessava meno la tecnologia che non l’immaginazione morale. Non prese mai la patente di guida e ogni Natale chiedeva alla moglie che gli regalasse giocattoli, non altro. Le sue storie, i suoi set e i suoi personaggi sono figure: come nella letteratura migliore, dal padre Omero (chissà quando ha calcato il suolo terrestre) al nostro Eugenio Corti, passando per la Commedia definita - con appropriata e opportuna intuizione «angelica» - «divina» e incamminandosi lungo le mille tra strade e viottoli di cui si compone il «canone occidentale». Figure, sì. Gallerie. Persino, nel senso più bello del termine, laboratori: capaci di parlare con lingua non biforcuta poiché sempre ancorati all’unica cosa che conta e che l’uomo conosce, la realtà. Quella data. Da un Altro.
    Per Bradbury è testimonio il testo magistrale, l’arcinoto Fahrenheit 451, in cui l’uomo e la sua libertà spirituale e culturale interiori non possono strutturalmente mai soccombere al potere che li manipola, giacché di altro e da altro sono fatti. Altro d’irriducibile. Ray Bradburty è stato un grande conservatore. Un alfiere dell’unico pensiero autenticamente a misura di uomo, e secondo il piano di Dio.
    Ragionpolitica - In ricordo di Ray Bradbury







    Una lezione importante
    Volti gnostici del post-moderno: l'antipolitica secondo Voegelin
    Filippo Giorgianni
    Per comprendere il fenomeno montante della cosiddetta antipolitica sarebbe utile riprendere l’immensa lezione di uno scienziato della politica e filosofo politico tedesco, naturalizzato statunitense, oggi quasi del tutto dimenticato: Eric Voegelin, la cui prospettiva è stata ricuperata solo da uno sparuto numero di commentatori – tracce voegeliane in Italia si rinvengono principalmente nei testi del compianto don Gianni Baget Bozzo, nell’approfondimento prezioso di Giovanni Cantoni e del suo seguito associativo, nella poderosa opera composta in una vita da don Ennio Innocenti, nella produzione copiosa di Piero Vassallo, in La speranza nella rivoluzione di Vittorio Mathieu, nel prematuramente scomparso Emanuele Samek Lodovici e nei lontani scritti di Augusto Del Noce nonché in quelli dei suoi (non molti) allievi.
    Perché tale lezione sarebbe così importante? Innanzitutto, perché fornisce una solida, argomentata e comprovata chiave di lettura della Modernità nel suo complesso (e, indirettamente, della Post-Modernità), tale da poter rilevare le caratteristiche tipiche di quei movimenti che, pur diversi, ne sono stati componenti. L’analisi di Voegelin muove da una premessa: prima della Modernità la politica si muove all’interno di una cornice di principi trascendenti, dati per presupposti, lasciandone la discussione solo all’ambito dell’approfondimento filosofico e teologico. In tale contesto, la comunità politica si trova con l’abbracciare una meta religiosa, ma ovviamente posta nell’aldilà: la perfezione terrestre non è concepita e ricercata come raggiungibile in terra, perché la perfezione non è di questo mondo, limitandosi così a porre la perfezione come stimolo ultimo per l’azione umana, ma pur sempre come stimolo riconosciuto come umanamente irraggiungibile (l’agostiniana «Città sul monte», la Gerusalemme Celeste che è solo una Civitas Dei).
    La politica, dunque, non essendo divisione sui principi – ma solo incontro/scontro tra interessi concreti –, non punta a rendere perfetta la realtà sulla base di un’ideologia utopica. Ma, una volta che con la secolarizzazione venga contestato il collante religioso della comunità politica e della società intrise di religiosità, il vuoto di principi che ne risulta viene riempito da mete ideologiche, vale a dire da disegni immanenti, o terreni, che trasportano la perfezione dall’aldilà (trascendente) all’aldiquà (immanente), facendo della politica uno scontro tra diversi modelli ideologici concepiti come perfetti e realizzabili in questo mondo. In altri termini, perdendo la consapevolezza della propria limitata condizione di creatura – vale a dire la consapevolezza di essere imperfetto e dipendente da un Essere superiore che è Dio –, l’uomo, messo da parte Dio, tratta se stesso come una divinità: l’uomo, eliminato il Creatore, si spoglia del suo ruolo di mero cooperatore alla creazione – il professor Tolkien avrebbe parlato di «sub-creatore» – e prova l’ebbrezza di farsi creatore egli stesso, dominatore della realtà, assecondando la propria «libido dominandi», così come individuata da Voegelin.
    Partendo da un’analisi di questo tipo, il tedesco ha il merito di individuare l’essenza di tale immanentizzazione della perfezione celeste: la trasposizione della perfezione dal cielo alla terra – sottolinea Voegelin – non è altro che un recupero (immanente, temporale) dell’antica prospettiva del pensiero gnostico. Scriveva, infatti, Nicolás Gómez Dávila nel primo volume dei suoi Nuevos escolios a un texto implícito: «la Gnosi è la teologia satanica dell’esperienza mistica. Nell’interpretazione gnostica dell’esperienza mistica si genera la divinizzazione dell’uomo». Insomma, ove l’uomo non si apra all’Altro (e, quindi, agli altri), si chiuderà egoisticamente in se stesso, trattandosi come degno degli onori divini, idolatrandosi e, non pensandosi più limitato dall’esistenza di Dio, si crederà essere illimitato che – secondo il celebre adagio di Dostoevskij ne I fratelli Karamazov – tutto può permettersi di fare.
    Se questo è ciò che è avvenuto nella Modernità sotto varie forme – ma con medesima sostanza –, per poter rinvenire tracce gnostiche nel fenomeno “antipolitico” è necessario individuare velocemente le caratteristiche di tale gnosticismo di ritorno, talvolta evidentissimo – è il caso del marxismo e del nazionalsocialismo che, come evidenziato da Alain Besançon (in Novecento. Il secolo del male), lungi da essere dottrine realmente “nuove”, hanno recuperato in modo pedissequo (e, per lo più, inconsapevole) le antichissime eresie gnostiche: l’una riprendendo il nocciolo di moltissimi tipi di gnosticismi, l’altra riproducendo quello della gnosi specificamente marcionita. Ci si può limitare a soffermarsi su tre delle caratteristiche fondamentali dello gnosticismo antico (e moderno):
    a) la pretesa di conoscere (da cui la «gnosi», la “conoscenza”), o la pretesa di possedere, le categorie complete e definitive di comprensione della realtà e la conseguente pretesa di potere risolvere definitivamente tutti i problemi del reale, eliminandone le storture, distruggendo la realtà esistente e costruendone una nuova priva dei difetti della vecchia;
    b) la pretesa degli gnostici di essere “eletti”, “puri”, di non essere contaminati dalle storture del reale che si pretende di poter eliminare, e che, di conseguenza, sono frutto dell’esclusiva azione scorretta di “altri”;
    c) la logicamente successiva individuazione di qualcuno quale causa dei problemi, causa del male, la quale va eliminata, in un modo od in un altro, per risolvere i problemi stessi.
    Sebbene, per confusione concettuale-spirituale, possa non esserne immune anche il credente cristiano, tale prospettiva è esattamente l’opposto di quella cristiana che, sulla base dell’insegnamento evangelico, chiede al singolo di vedersi per quel che è realmente: un peccatore, un imperfetto che non può pretendere di essere privo di difetti e non deve guardare tanto alle colpe altrui, bensì soprattutto alle proprie, riformando ad ogni momento se stesso, e non la società e gli altri che gli sono intorno. Ma ciò che più conta è che la prospettiva gnostica è tipica delle ideologie moderne ed è stata sfruttata ampiamente dall’attività propagandistica dei partiti moderni e anche post-moderni.
    Osservando la storia politica moderna, si rinviene facilmente l’individuazione di categorie di “eletti” portatori della palingenesi della storia, o della salvezza totale in questo mondo – dalla razza ariana con i suoi sogni pangermanisti di ritorno ad una immaginaria età aurea, fino alla classe proletaria con il suo ritorno all’ipotetico e inesistente stato originario attraverso il comunismo, passando per le élites borghesi, portatrici dei “Lumi” in mezzo alla presunta oscurità precedente –, così come si rinviene la demonizzazione di altre categorie viste quali origine dei mali del tempo – dall’aristocratico e dal cattolico nella Rivoluzione francese, alla generica figura del borghese e ai kulaki russi nella puntiforme Rivoluzione socialcomunista, passando per gli ebrei nel nazionalsocialismo –, senza dimenticare, anche in epoca più recente (e ormai post-moderna), il purismo progressista – la cosiddetta e mai esistita «superiorità morale» –, nonché la raffigurazione della persona dell’avversario politico come criminale ed immorale, dotata, da sola, della capacità di ammorbare i comportamenti della società.
    Sebbene si rinvengano anche “a destra” movimenti dotati di tali caratteri, ciò avviene a causa della formazione di “destre” falsate, mere ibridazioni con i progressismi, ma, come rilevato benissimo dal politologo ungherese-statunitense Thomas Molnar (in La Sinistra e ne Il vicolo cieco della sinistra), è solo presso questi ultimi che la tendenza gnostica si “reincarna” pienamente, perché è la sinistra che si fa prima e convinta promotrice di visuali di tal fatta, tramite un insaziabile «messianismo temporale» che le è proprio, come scriverebbe Jean Madiran in La destra e la sinistra.
    Questa tendenza non è altro che la proposizione, perenne e sempre rinnovata, di uno schema che divide tra (presunti) “buoni” e (presunti) “cattivi”, uno schema che astrae dalla concreta realtà – in cui ogni uomo, anche il peggiore, ha i suoi pregi accanto ai suoi difetti – e che pretende di individuare il “nemico” malvagio (variamente inteso e connotato); è una tendenza che, per ciò stesso, è intrinsecamente corrosiva – perché corrode la realtà –, aggressiva e necessariamente violenta – a prescindere come tale violenza si sfoghi –; è, in ultima analisi, una tendenza terribilmente settaria (in senso stretto), in quanto, dimenticando l’ineliminabile imperfezione umana, tende a raffigurare il proprio gruppo politico come privo di macchia e, una volta che le inevitabili macchie umane vengono allo scoperto in tale gruppo, costringe il suo portatore più ideologizzato a chiudersi ulteriormente in se stesso, rigettando dal proprio gruppo il vecchio alleato (divenuto reprobo), in nome della propria presunta superiorità.
    Così si spiegano le non infrequenti lotte intestine nei partiti e nelle coalizioni della sinistra, dove nuovi soggetti si presentano come i volti puliti e come i portatori della integrità ideologica, contro la vecchia dirigenza ormai “corrottasi” nel tempo. Eppure, nonostante il meccanismo diabolico – in senso tanto trascendente quanto letterale (diabolico in greco significa letteralmente “divisivo”) – che ne è alla base, tale tendenza è egemone da qualche secolo a questa parte nella società e nella politica. Ed è egemone anche nei fenomeni più recenti – tecnocrazia, ambientalismo, vegetarianismo, salutismo, animalismo, professionismo dell’antimafia, fino a giungere al nuovo fenomeno del cosiddetto «trans-umanismo» –, non risparmiando appunto nemmeno l’antipolitica.
    Una volta individuate le caratteristiche gnostiche, si può, infatti, facilmente vedere come esse siano esattamente quelle che caratterizzano il fenomeno “antipolitico” che, a ben guardare, non è altro che una nuova faccia della medesima medaglia gnostica costituita dalla politica successiva all’instaurarsi della Modernità: se si osserva il fenomeno “antipolitico”, si vedrà come le sue direttive si muovano sulla base del convincimento (e dell’entusiasmo/risentimento), conscio o inconscio, di poter ribaltare la realtà decadente odierna. Inoltre, in tal modo, i suoi aderenti si vedono come i salvatori di tale realtà, individuandosi come la “cura” di tale realtà e individuando come causa unica del suo degrado non la complessiva azione delle persone in seno alla società, bensì l’azione di una categoria specifica: quella dei governanti, della classe politica attuale. Non è niente di diverso dalla prospettiva – teoreticamente inconsistente – degli «indignados» e di quei movimenti simili che, non a caso, vengono spronati da autori provenienti dalla sinistra – come Stéphane Hessel (autore del libercolo Indignatevi!).
    L’indignato, come l’antipolitico, presuppongono sempre, come ogni gnostico, di non essere capaci di fare il male che gli altri hanno fatto, dando per presupposto di non poter mai cadere nell’errore altrui: sicché, se si parla di questioni sessuali, presuppone che lui, grande accusatore, non si possa sentire minimamente toccato da tali questioni, come se, alla prima occasione utile, non potesse cadere anch’egli come ogni altro/a uomo/donna e come se non potesse essere scoperto, se posto sotto i riflettori come la propria classe dirigente è posta; se si discute di corruzione, dà per scontato che lui mai sarebbe corruttibile e disonesto; se si ragiona di cattiva amministrazione, ritiene che lui non potrebbe che fare meglio, perché portatore del disegno efficace per risollevare il Paese. Quand’anche si raffiguri come scettico e agnostico, si può ben notare come – almeno a livello pubblico – questo soggetto non sia mai minimamente sfiorato da un dubbio sulla propria condotta: è quel vizio ideologico che Voegelin chiama «divieto di fare domande». Ciò che pretende lo gnostico di ieri, di oggi e di domani è che, senza alcun dubbio o domanda, siano abbattuti gli “imperfetti”, che vengano epurati i “difettosi”, così che tutto possa andare per il verso giusto: il metodo muta contingentemente – purghe staliniane, manganellate fasciste, lager, GULag, laogai, o anche soltanto insulto, violenza verbale, pregiudizio, rimozione, vessazioni e ghettizzazione –, ma il contenuto è sempre il medesimo.
    Ciò che, nello specifico, non comprendono gli “antipolitici”, nella loro furia neognostica, è che i problemi finanziari, economici e politici italiani non sono esclusivo frutto della politica e della cattiva gestione della cosa pubblica da parte dei governanti, ma anche del clientelismo e dell’elefantiasi statalistica di cui molti italiani hanno per decenni beneficiato all’ombra della politica e/o della pubblica amministrazione, nonostante oggi alcuni di tali italiani – magari gli stessi – si trovino a protestare dentro di sé o nei dibattiti pubblici o a reclamare in piazza contro il nuovo capro espiatorio per gli effetti di una politica di cui pure hanno beneficiato. Ma soprattutto, ciò che non comprendono è che, nonostante si ritengano diversi – e nonostante la loro ondata venga considerata di “antipolitica” –, essi sono un movimento pienamente politico, perché eguali a tutti i movimenti gnostici di massa moderni e post-moderni e perché le loro premesse concettuali non possono che avere gli stessi drammatici effetti mostrati sinora da secoli di gnosi politica. Le radici dell’antipolitica, dunque, non sono altro che radici profondamente politiche, di una politica – quella moderna – pericolosa e violenta, così come pericoloso è il messianismo temporale, la gnosi, che segretamente la ispira.
    Volti gnostici del post-moderno: l'antipolitica secondo Voegelin | l'Occidentale

  6. #26
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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Nuovi totalitaristi crescono
    Non erano il capitalismo né gli ebrei i veri nemici dei movimenti estremisti che insanguinarono il secolo scorso. Fascisti e bolscevichi volevano cancellare la trascendenza dell'uomo. Proprio come fa, oggi, l'islam radicale. Parla Ernst Nolte
    di Vito Punzi
    Non stupisce più di tanto che l'ultimo libro di Ernst Nolte, definendo l'islamismo come «terzo movimento radicale» accanto a bolscevismo e fascismo, abbia suscitato a suo tempo eco e reazioni significative sulle stampa tedesca. Protagonista nel 1986 della cosiddetta "disputa tra gli storici" per le sue analisi dei due grandi fenomeni totalitari del XX secolo, Nolte è dunque tornato a suscitare polemiche con questo corposo studio (II terzo radicalismo, ora edito anche in Italia per i tipi di Liberai), frutto di una lunga gestazione, nel quale il "pensatore della storia" ritrova nell'islamismo, inteso come dimensione bellica e dogmatica dell'islam, elementi comuni con il bolscevismo e il fascismo.
    L'elemento essenziale che lega i tre "movimenti", secondo Nolte, è l'aspirazione a salvare le relazioni di vita primordiali dalla modernità. Da qui lo storico parte per raccontare il progressivo confronto dell'islam con il mondo a partire dal XIX secolo, iniziando dall'arrivo di Napoleone in Egitto, attraverso il sionismo, interpretato come la sfida decisiva della modernità al cuore dell'islam, per finire con l'islamismo, inteso come forza rilevante nel contesto del conflitto globale.
    Taciuta all'estero dai suoi detrattori, ma anche dai suoi estimatori, la domanda di Nolte si concentra su quale sia il nemico contro il quale combatterono bolscevismo e fascismo, che è lo stesso contro il quale combatte oggi l'islamismo. Quel nemico - è la risposta dello storico tedesco – non è il capitalismo, e neppure l'ebraismo. «È piuttosto un "qualcosa" presente nel capitalismo che è stato a lungo preso in esame da pensatori ebrei e non ebrei: la ricchezza più interiore, o meglio, il destino vero dell'uomo, che va "oltre se stesso", cioè (...) la trascendenza, la necessità di porsi in un rapporto emozionale con il mondo nella sua interezza». Una considerazione che lo conduce all'origine stessa del male, la ribellione dell'uomo contro il suo Creatore. «Se è giusta la tesi degli ideologi islamici – scrive Nolte - secondo la quale l'islam null'altro è se non il ritorno dell'essenza ribelle dell'uomo contro l'armonia dell'universo creato da Dio, allora il concetto di "trascendenza", inteso come qualcosa di negativo e dunque da negare, si lascia usare (nell'islamismo, ndr) in maniera non diversa da come venne usato da Lenin e Hitler».
    Professor Nolte, tutto il mondo ha seguito e segue con attenzione ciò che sta accadendo da oltre un anno nei paesi del Nord Africa e nel Medio Oriente arabo e musulmano. La cosiddetta "primavera araba", quella che i tedeschi chiamano "Arabellion", ha preso apparentemente le mosse da legittime aspirazioni di libertà e giustizia. Oggi, però, i segnali indicano un po' ovunque una possibile deriva islamista del fenomeno, più che una vittoria delle forze democratiche. C'è dunque il rischio reale che la battaglia per la libertà contro i regimi dittatoriali porti all'affermazione di quell'islam radicale di cui parla nel suo libro?
    Nella cosiddetta "Arabellion" si affrontano due forze aspiranti al potere che fino ad oggi sono state sottomesse ai regimi dittatoriali: da un lato quella dei Fratelli Musulmani, la cui storia in una certa misura conosco, e dei salafiti, i quali al tempo di questo mio studio non giocavano ancora un ruolo significativo; dall'altra l'allineamento all'Occidente.

    Lei parla nel libro di Israele come "centro di modernità" nel contesto del mondo islamico, sottintendendo gli stretti legami dello Stato ebraico con l'Occidente. Dopo quanto è accaduto dall'inizio della "primavera araba" ad oggi, quali ripercussioni politiche immagina che ci potranno essere appunto nei paesi occidentali, intendendo tra questi anche Israele?
    Sia i Fratelli Musulmani che i salafiti sono, per motivi facilmente comprensibili, nemici radicali di Israele e i più estremisti tra loro aspirano di fatto all'annientamento dello Stato e del popolo ebraico. I giuramenti degli uomini e delle donne di Stato occidentali non lasciano intravedere alcuna altra via che non sia quella di un sostegno incondizionato a Israele, se necessario anche di carattere militare. Se la richiesta di annientamento avesse come obiettivo solo la scomparsa dell'Israele "sionista", col fine di rendere possibile la convivenza di ebrei, musulmani e cristiani in un unico stato (così come gli Alleati della Seconda Guerra Mondiale non pretesero la distruzione della "Germania", ma della "Germania nazionalsocialista"), in Occidente non sarebbe più possibile la perpetuazione dell'interpretazione unilaterale della richiesta islamica di annientamento, e quegli uomini e quelle donne dovrebbero decidersi: sostenere incondizionatamente anche l'Israele inteso come "potenza d'occupazione" oppure solo l'Israele degli anni 1949-50 riconosciuto dal diritto internazionale.

    Come giudica il ruolo dei salafiti negli atti di vandalismo verificatisi in Germania nelle ultime settimane? Ritiene che questo radicalismo rappresenti il futuro della Germania e dell'Europa?
    Questo radicalismo, di cui sono protagonisti piccolo gruppi, non può essere il futuro della Germania e dell'Europa. Qualcosa del genere potrebbe però accadere qualora proseguisse l'immigrazione incontrollata di musulmani verso l'Europa e se il fanatismo della volontà di "conquista del mondo", immanente all'islam in quanto tale, sebbene spesso mascherato o diventato inefficace, prendesse il sopravvento sulla maggioranza diventata nel frattempo minoranza.



    Marshall, il Guareschi delle Highlands
    Lorenzo Fazzini
    Teologo narratore, narratore teologico, perspicace scrittore di preti, Chiesa & co. Ma anche, nel giudizio di un insospettabile come il suo primo editore italiano, Leo Longanesi, un autore capace di scrivere «con grande spregiudicatezza, con spirito e con arguzia, tali da piacere anche al lettore più smaliziato». E dunque, proprio mentre in questi giorni (precisamente il 18 giugno) scoccano i 25 anni della sua morte, avvenuta ad Antibes, in Costa Azzurra, Bruce Marshall, scrittore scozzese, cattolico, nato nel 1899, "ragioniere" di professione, scopertosi romanziere grazie a diversi libri di successo, come Il miracolo di padre Malachia, Il mondo, la carne e padre Smith, La sposa bella, oggi editi da Jaca Book, merita una riscoperta. Tanto più che questo narratore si pone alla sequela del beato John Henry Newman, citato esplicitamente nel romanzo su padre Smith.
    «Certamente Marshall non ha la potenza di un Graham Greene, ma nelle sue opere tratteggia così bene la figura del prete che i suoi sono tra i romanzi più perspicaci degli ultimi tempi». L’autorevole giudizio è di padre Ferdinando Castelli, gesuita e scrittore (noto per le sue recensioni letterarie) di Civiltà cattolica. «Marshall è portatore di un umorismo tipicamente inglese che lo accosta a Chesterton. Tale umorismo non è mai amaro ma attento e costruttivo, porta allegria e riconcilia il lettore con la vita. Penso che l’aspetto migliore di Marshall sia l’intelligenza nello scoprire e indagare la figura del prete, nel quale troviamo un condensato di contrari: miseria e gloria, tempo ed eternità, terra e cielo. È splendida ad esempio la figura di padre Smith, che dà il titolo ad uno dei suoi romanzi più belli. A chi non conosce questo autore suggerirei di iniziare da questo libro, insieme a Il miracolo di padre Malachia, dove Marshall ci spiega che il nocciolo del cristianesimo non è il miracolismo ma una vita di preghiera e attaccamento a Cristo». Di parere complementare è Ferruccio Parazzoli, scrittore e saggista. Che invece vede nella storia di padre Malachia (un monaco che fa scomparire una sala da ballo "concorrente" alla chiesa: un intervento soprannaturale verso il quale i fedeli restano freddi e increduli) un esempio «decisamente moderno: il miracolo è una questione centrale del cristianesimo, come testimonia la ripresa di Alessandro Zaccuri nel suo Dopo il miracolo (Mondadori)». Parazzoli giudica Marshall «uno scrittore che mi è stato assai gradito. Oggi è dimenticato, le case editrici (eccetto Jaca Book che ne pubblica alcuni romanzi) lo hanno dimenticato. Addirittura alcune enciclopedie della letteratura non lo citano: una grave ingiustizia! In questo autore troviamo una bella semplicità e ironia, che raggiunge una sorta di tenerezza verso i propri personaggi, in particolare alcune figure di preti».
    Come altri grandi scrittori anglosassoni dell’Otto-Novecento (Chesterton, ma anche Waugh, Dawson, lo stesso Greene) anche Marshall è un convertito, come evidenzia Paolo Gulisano, ricercatore di vaglia sulla letteratura d’Oltremanica: «Dopo la conversione scoprì nella Chiesa cattolica una comunità perseguitata, discriminata, una piccola minoranza che dava la sua testimonianza di fede e carità in una società ostile. È lo scenario dei suoi primi romanzi. Marshall utilizzò tutto il suo talento letterario per narrare la gloria di Dio, che si manifesta in mezzo alle traversie del mondo. Il tutto con un profondo senso dell’umorismo. La Grazia è la grande protagonista, spesso invisibile, delle opere di Marshall. Così le sue pagine sono piene di carità, di comprensione per la fragilità umana, e piene di gratitudine per la misericordia di Dio».
    Quali paralleli potremmo riscontrare da noi? «Giovannino Guareschi scriveva con lo stesso inchiostro spirituale di Marshall – annota Gulisano –. Pur non essendosi conosciuti, avevano uno sguardo comune sulla realtà teso a cogliere il bello e il bene in mezzo alle traversie del mondo e a trasmetterlo ai lettori». Bruce Marshall ha avuto degli eredi? «L’americano Ralph McInerney, autore purtroppo quasi inedito in Italia, ha prodotto una narrativa sullo stile di Marshall, con appassionato talento e rendendo ragione alla verità anche in una letteratura popolare come i gialli, di cui è protagonista il suo personaggio più fortunato, padre Dowling».
    Marshall, il*Guareschi delle Highlands | Cultura | www.avvenire.it







    Se lo Stato si fa pregare per fregarci
    di Redazione
    Alcuni libri sono importanti. Rientra in questa categoria l'ultimo volume di Carlo Lottieri: Credere nello Stato? Teologia politica e dissimulazione da Filippo il Bello a Wikileaks (Rubbettino, pagg. 196, euro 15). La tesi non può lasciare indifferenti: fin dalla sua origine, nel XIII-XIV secolo, lo Stato moderno si è imposto come un nuovo oggetto di venerazione. Per ottenere un controllo crescente sulla vita e sulla proprietà degli uomini, moltiplicando leggi e regolamenti, espropriando beni e risorse, pianificando e regolarizzando comunità e associazioni, questa istituzione ha dovuto «disporre di un potente strumento ideologico, così che i cittadini riconoscessero una qualche legittimità alla sua azione». E poichè nulla più del sacro è efficace in tal senso, lo Stato ha avuto e ha bisogno di costruirsi attorno un'unità di tipo religioso.
    Tutto può essere messo in discussione tranne l'ineluttabilità e la giustezza del suo potere. Per pretendere un'adesione illimitata dei cittadini, ogni valore o fede può relativizzarsi tranne il fatto che lo Stato debba permanere come struttura indiscutibile. Quando diciamo «è stato un onesto servitore dello Stato», implicitamente consegniamo allo Stato un rilievo sacrale, al punto da ritenere degno d'onore essergli servitori. Anche Alexander Rüstow scriveva: «ogni dispotismo ha bisogno dell'aiuto spirituale di una teologia, e quando non ha un ambito sociale religioso a propria disposizione, esso crea il proprio mito e la propria ortodossia».
    Sebbene si annunci come apparato neutrale al cui interno credenze e opinioni possono convivere, per Lottieri lo Stato non può essere a-religioso perchè pretende di rappresentare un'universalità superiore a ogni prospettiva individuale, per cui la volontà di organizzare il mondo prevale sul riconoscimento della persona, e tale volontà è egemonica. Non è un caso che lo statalista Stefano Rodotà affermi che «la ricostruzione della moralità pubblica è oggi il più ricco dei programmi politici». Ovvero lo Stato deve educare e indirizzare il popolo: solo così infatti riconferma la sua sovranità. «È cruciale - scrive Lottieri - il ruolo giocato dagli intellettuali nell'edificazione di tali sistemi di oppressione».
    L'imporsi dello Stato è avvenuto in un preciso momento: durante il Medioevo l'ordine dei poteri era pluralizzato, così che nessuna autorità poteva sovraimporsi sulle altre; ma quando l’ordine pluralistico medioevale entra in crisi, lascia spazio a principati che rivendicano un nuovo potere, sempre più pervasivo, su territori e popolazioni, e, con il parallelo decadere del Cristianesimo, emerge una nuova teologia politica, quella dello Stato.
    La Francia sarà la capitale. Filippo il Bello, infatti, centralizza il suo controllo svuotando le autonomie locali tipiche del medioevo. Ma l'elaborazione teologica dello Stato prosegue nei secoli, da Machiavelli a Kant e Hegel fino all'idea attuale, come dice il filosofo Castrucci, «di pervenire all'unità dell'umanità, unificata sotto una sola legge e giurisdizione», con l'inevitabile sacrificio delle differenti società particolari.
    Se lo Stato prende a modello un individuo generico e astratto e impone di conformarsi ad esso, non basta certo che Wikileaks riveli i segreti diplomatici. Servono altre resistenze. Nel suo libro Denaro e comunità Lottieri scriveva: «la famiglia deve essere pensata come un vero contro-potere, un luogo di resistenza alle centrali di omologazione e pianificazione dello Stato»; in quest'ultimo libro aggiunge: «i militanti della moralizzazione universale devono fare i conti con un insieme disordinato e dinamico di persone e gruppi» che rifuggono da questo ordine sovrano e hanno un punto di riconoscimento: la persona deve prevalere sul principio astratto.
    Se lo Stato si fa pregare per fregarci - Cultura - ilGiornale.it


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Il romanzo non racconta cose vere, ma dice la verità
    Don Mauro Leonardi spiega come arrivare alla verità attraverso il romanzo
    di Antonio Gaspari
    ROMA, lunedì, 25 giugno 2012 (ZENIT.org) - “Abelis”, scritto da don Mauro Leonardi e edito da Lindau, racconta la storia di un bambino che se diventerà cavaliere garantirà la vittoria definitiva sui draghi. Ci sono però problemi, perchè dietro a far diventare cavaliere Abelis si nasconde un terribile segreto.
    A vincere i draghi ed il tremendo segreto ci pensa Lutet, la mamma di “Abelis”, la quel utilizza le armi della poesia, delle bellezza e della verità. In una parola, Lutet ama più di tutti tutti e vince il male.
    Leggere romanzi è bello, si scoprono mondi fantastici e si arriva alla verità in maniera più sofisticata che a leggere saggi. Stupisce scoprire un sacerdote che coltiva questo genere letterario.
    Da anni don Mauro Leonardi scrive racconti saggi e libri interrogandosi sul rapporto tra l’uomo e Dio. ZENIT lo ha intervistato.
    Perché ha scelto di scrivere un romanzo e non un saggio sul rapporto tra l'uomo e Dio?
    Don Mauro Leonardi: Capisco che ci si possa meravigliare che un sacerdote di 53 anni - e al 25esimo anno di sacerdozio - scriva un romanzo e non un saggio, ma la risposta più vera è che il romanzo mi tiene ancorato alla profonda verità della mia vita e quindi della mia vocazione. Ho scritto nella mia vita diverse cose in forma saggistica: due libri e parecchi articoli, ma il romanzo è la mia anima profonda. Questo è il secondo e credo che ne scriverò altri. Il saggio – come ha detto qualcuno – scrive cose vere ma non dice la verità: il romanzo non racconta cose vere, ma dice la verità.
    Quali sono i messaggi che vuole comunicare con "Abelis"?
    Don Mauro Leonardi: Credo che nessun autore di narrativa abbia in primo luogo l’obiettivo di “mandare messaggi”. Io – come racconto nella pagina finale dei “ringraziamenti” di Abelis – ho cercato per dieci anni di capire dove andasse quel bambino (Abelis) che arrivava alla porta di una fortezza che gli si schiudeva dinanzi mostrandogli solo un cavaliere che al posto della pelle aveva un’armatura di ferro. E’ chiaro che allorché tutto tace e finalmente la lampada accanto alla poltrona illumina il libro aperto dinnanzi a me, l’incontro tra me e quei personaggi non è solo “finzione”. “Che bello!” si dice, e son dette le parole giuste. L’arte è una rappresentazione visibile del mondo interiore degli individui che la elaborano e la fruiscono: ecco perché, quanto più un’opera d’arte è grande, tanto più ciò cui allude è il “mondo interiore” di tutta un’epoca, di una società, di una civiltà. Assai spesso l’esigenza espressa da chi gode di un film, come da chi legge un romanzo, cioè da chi si immerge in una storia, è quella di capire meglio sé stessi, di essere di più sé stessi. Ci si immerge in un “mondo altro” per trovare sé stessi. Le luci della sala del cinema si spengono, il libro si apre alla pagina cui eravamo rimasti ed entrando in profondità nei personaggi e nei loro conflitti, in realtà scopriamo la nostra umanità. Si legge un romanzo, si va al cinema o a teatro per entrare in un mondo nuovo, affascinante, per vivere accanto a un personaggio che, a prima vista molto diverso da noi, in profondità è come noi. Se questo non avviene, la realtà di finzione non illumina la nostra realtà quotidiana e perciò quell’opera “ci annoia”, non ci interessa. Sbaglia in maniera grossolana chi pensa che l’anima più profonda dello svago, del gioco, dell’arte sia sfuggire alla vita. In realtà in quel momento si desidera aggiungere profondità ai nostri giorni.
    Di che parla il romanzo "Abelis"?
    Don Mauro Leonardi: Abelis è il bambino che Ciambellano cerca da anni perché, se sarà cavaliere, la vittoria sui draghi sarà definitiva. Ma i cavalieri vivono il segreto terribile cui ho accennato più sopra e che rende tutto atroce e blocca persino Messer Ferriere, che è il braccio destro di Ciambellano: quando divengono cavalieri la loro pelle viene per sempre trasformata in un’armatura di ferro. Si dipana così una storia in cui protagonisti sono – oltre ad Abelis - Blennenort, il solo cavaliere di Arileva che nessuno rispetta e sua mamma, Lutet, che ama lui, Blennenort e gli animali. Anche se sono draghi.
    Che cosa intende per "fantasy metafisico"?
    Don Mauro Leonardi: Che l’ambientazione sia fantasy credo si capisca da sé. L’azione si svolge in un’epoca che potrebbe essere contemporanea a quella del Signore degli Anelli, e anche qui ci sono Re, sapienti, draghi, cavalieri e magia. Abbiamo coniato l’espressione “fantasy metafisico” forse perché abbiamo attinto alla radice etimologica dell’aggettivo: la metafisica – lo sappiamo bene – è per antonomasia quella parte della filosofia che va oltre gli elementi contingenti, sensibili, per arrivare a ciò che è fondamentale, universale. In realtà, lo dicevo sopra, ogni storia deve essere universale e “metafisica” ma questa forse lo è particolarmente. Sia per la trama che per il modo di scrivere in cui spesso il parlare quotidiano si sforza di avere l’eternità della poesia.
    Lei racconta di una donna che con la poesia, la verità e la bellezza sconfigge il male: è un riferimento a Maria?
    Don Mauro Leonardi: In Abelis non c’è nessun riferimento esplicito né a Dio né a Maria, come d’altronde avviene nel Signore degli anelli, capolavoro del cattolicissimo Tolkien che trasuda valori e trascendenza in ogni pagina ma che non lo fa mai esplicitamente. Se però lei mi chiede se Lutet – la donna cui lei allude – sia Maria la mia risposta è gioiosamente affermativa. Sì, per me lo è stata, e diversi leggendo il manoscritto lo hanno pensato. Ho pensato e amato molto Maria, mentre scrivevo Abelis. Soprattutto forse la “donna madre” di cui parla Giovanni nel suo vangelo. Lui che tanto ha amato la Madonna senza mai chiamarla per nome (come d‘altronde ha fatto per sé).
    ZENIT - Il romanzo non racconta cose vere, ma dice la verità

    Buon compleanno, Jean-Jacques!
    di Alessandro Rico
    Ben 300 anni fa, il 28 giugno 1712 nasceva a Ginevra Jean-Jacques Rousseau, che considero, forse ingenerosamente, uno dei peggiori pensatori politici della modernità. Mi limito qui a considerare tre aspetti particolarmente significativi della sua riflessione, dei quali penso tutto il male possibile.
    In primo luogo, il pregiudizio per cui la ricchezza deriverebbe essenzialmente da un’usurpazione. Sin dal Discorso sull’ineguaglianza si evince l’ostilità di Rousseau nei confronti dell’economia borghese, fondata sul commercio e sulla produzione di ricchezza. Come Locke, egli propende per un’origine individualistica della proprietà privata, ma ritiene che il suo riconoscimento renda necessario un vero e proprio colpo di mano: poiché non ci sono motivi validi per giustificare il possesso, i ricchi devono difenderlo attraverso il «patto iniquo». Prima manifestazione della società politica, esso normalizza la proprietà e cristallizza le relazioni tra abbienti e indigenti, come soggezione dei molti schiavi ai pochi padroni.
    Il rifiuto del capitalismo è chiaramente basato su un ingenuo pregiudizio: l’idea che non sia possibile generare sempre nuova ricchezza, ma solo distribuire le risorse esistenti. Ciò fa di quello economico, un gioco a somma zero; così, se uno ha di più, è perché l’ha sottratto a qualcun altro. Non a caso Rousseau accorda la sua preferenza a un modello di società arcaica, in cui prevalga la piccola proprietà terriera e si diffondano frugalità e spirito militaristico: Sparta è in questo senso l’idealtipo politico rousseauiano.
    In secondo luogo, la configurazione illiberale del «contratto sociale», pensato nei termini di una «alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità». Si tratta, per il Ginevrino, di una condizione che, essendo uguale per tutti, nessuno può rendere onerosa agli altri; inoltre, poiché ognuno cede tutti i propri diritti, non c’è alcuno che possa accampare pretese di supremazia; e soprattutto, «ciascuno dandosi a tutti non si dà a nessuno, e poiché su ogni associato, nessuno escluso, si acquista lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna l’equivalente di tutto ciò che si perde e un aumento di forza per conservare ciò che si ha». Tre «garanzie» illusorie, come già sottolineò Benjamin Constant. Non è vero, infatti, che dandosi a tutti non ci si dà a nessuno, perché nel momento in cui bisogna procedere all’organizzazione del governo, necessariamente questo potere illimitato va delegato a qualcuno. E allora, quel qualcuno può avere eccome interesse a rendere onerosa questa condizione per gli altri. Rousseau, che qui è decisamente hobbesiano, sembra non avere la consapevolezza di ciò che a Locke era invece cristallino: il «contratto» mediante cui gli individui costituiscono la società politica deve prevedere la conservazione per se stessi di tutti i diritti, meno che quello a farsi giustizia da soli. Il commonwealth, la salute comune, in quanto tale sorge per impedire agli uomini di danneggiarsi, non per opprimerli – magari nell’illusione di liberarli.
    Infine, il cruciale e problematico concetto di «volontà generale», uno degli elementi più marcatamente tirannici dell’edificio politico rousseauiano. La volontà generale non è la volontà della maggioranza, piuttosto l’espressione dell’io collettivistico e totalitario del corpo politico, che sarebbe offuscata dall’emergere dei “particolarismi”. Si vede come Rousseau liquidi la questione dei corpi intermedi, delle libere associazioni, delle istituzioni locali, o semplicemente dell’individualità: qualunque discostamento dalla suprema unità centralistica del corpo politico va biasimato e combattuto – esattamente l’opposto di quel che sosteneva Montesquieu nello Spirito delle leggi.
    Per ovviare agli ostacoli nel processo della sua affermazione, la volontà generale si affida al «legislatore», figura dai risvolti mistici, che nel suo utopismo assesta un colpo micidiale alla concretezza delle architetture istituzionali liberali, come la montesquieuviana teoria della separazione dei poteri – non stupisce che, al contrario, per il Ginevrino la sovranità sia inalienabile e indivisibile.
    Ma ciò che lascia più perplessi è il capitolo sui «limiti del potere sovrano»: di nuovo, limiti fittizi. È vero che per Rousseau «quanto, col patto sociale, ciascuno aliena del proprio potere, dei propri beni, della propria libertà, è solo la parte di tutto ciò il cui uso importa alla comunità», però subito dopo egli stabilisce che «solo il sovrano è giudice di questa importanza». Un insulto all’intelligenza: il Souverain rimane arbitrio persino dei diritti che sarebbe lecito conservare.
    Rousseau è stato variamente interpretato come pensatore totalitario (Talmon), apostata della modernità (Bedeschi), teorico di una democrazia «radicale», impegnato a decostruire il modello giusnaturalista classico a partire dai suoi stessi strumenti concettuali.
    Basterebbe forse interrogare la Storia e individuare le filiazioni intellettuali del Ginevrino: Robespierre, protagonista del Terrore giacobino; il giovane Marx, che comunque maneggiò le sue opere con scarsa cura filologica. Il Ginevrino è, insomma, uno di quegli autori che va letto, perché ci si possa difendere dalla seduzione che esercita. Della serie: se li conosci li eviti.
    Buon compleanno, Jean-Jacques!

    Per uscire dalla crisi non serve più Stato, ma più libertà
    Saba Zecchi
    Lo scorso 12-15 giugno, come negli anni passati, ha avuto luogo a Grand Rapids la “Acton University”, un intenso seminario internazionale di tre giorni e mezzo organizzato dall’Acton Insitute rivolto a chiunque desideri approfondire i cardini su cui si fonda una società libera e virtuosa. Attraendo centinaia di leader economici, politici, educativi e religiosi da oltre 70 paesi, vi si studiano i temi centrali del libero mercato e della libertà religiosa senza trascurare quelli affini come la famiglia, la sussidiarietà, la cultura, la leadership, le politiche pubbliche, la teologia o il magistero.
    L’Acton Institute è il noto centro studi e think tank americano dedicato a integrare le verità cristiane con i principi del libero mercato e a diffondere i principi di una società libera e virtuosa sia nell’ambito politico e imprenditoriale, che in campo religioso.
    Si sostiene, in sintesi, che il libero mercato, regolato dalla responsabilità personale, espressione vocazionale, e con il sostengo giuridico-politico, ma non falsato dall’eccessivo intervento governativo, è campo privilegiato per l’esercizio delle virtù e del raggiungimento del bene comune, come è vero che solo nella libertà si ha la costituzione dell’uomo come essere morale.
    È sufficiente scorrere i numerosi corsi e i nomi dei docenti, da Michael Novak ad Arthur Brooks e Alejandro Chafuen dell’Atlas Foundation, per percepire la ricchezza del seminario. E nei riferimenti storici – a partire dalla varie scuole medievali scolastiche, agli economisti austriaci e ai grandi pensatori inglese come Lord Acton e Edmund Burke – si individua la matrice del pensiero politico.
    Se è difficile riassumere il contenuto dell’Acton University in poche righe, è però molto utile coglierne la prospettiva sull’attuale situazione europea.
    Arthur Brooks, presidente dell’American Enterprise Institute, ha messo a fuoco la questione morale all’origine della crisi attuale e sollecitato dalle domande degli europei presenti ha chiarito quanto sia grave, dal suo punto di vista di cattolico, il problema morale in Europa.
    Un quadro più dettagliato si è avuto con il seminario di Samuel Gregg, the European Social Market, scaricabile dal sito dell’Istituto: troppo Stato centrale che interviene nel mercato; troppe corporazioni e burocrazia, ma poca libera impresa, troppo welfare pubblico e poca natalità. Basti pensare che sullo scarso valore dato in Europa alla libera impresa ha portato come esempio il famoso Articolo 41 della Costituzione Italiana. In sintesi, in Europa abbiamo barattato la libertà con una forma di falsa sicurezza secolare, inutile davanti alla crisi, e viene riconfermato che la crisi europea, già grave, diventa irrimediabile se non viene còlta come opportunità per spiegarne le vere cause, e provare a ribaltare i paradigmi del Big Government a favore del libero mercato.
    Può essere significativo che degli 850 partecipanti al seminario, i paesi non statunitensi maggiormente rappresentati erano quelli sudamericani e, a eccezione della Polonia, erano pochissimi gli europei, e chi scrive era l’unico partecipante italiano.
    L’Europa è vista ormai come terra secolarizzata, senza Dio, e per questo incapace di credere nella persona e nelle sue capacità, e quindi nel mercato regolato da leggi giuste e dal senso morale, quale luogo preferenziale in cui realizzare relazioni piene, e ottima leva per ripartire.
    Eppure si fatica ancora a spiegare la crisi nella sua reale dimensione: la si imputa all’eccessivo liberismo – che però in Europa non c’è, c’è semmai un libero corporativismo -, alla “finanza sfrenata” – che però è regolamentata dalla politica – e si trova la soluzione in sempre maggiore centralismo. Raramente si trova un’analisi così chiara sul divario tra establishment europeo politico, finanziario, corporativo, e popolazione di tax-producer e imprenditori schiacciati da una concorrenza sleale del Big Government, come quella sentita all’Acton University.
    Se l’analisi è sconfortante, non mancano affatto elementi di speranza, ma affondano solo nella consapevolezza della reale situazione in cui siamo, e nella forza delle idee motivate dal senso morale di ciascuno, per usare le parole di Arthur Brooks.
    Infine, è importante segnalarvi che all’Acton Univesity è stato presentato “Defending the Free Market: The Moral Case for a Free Economy” (Regnery Publishing, inc.), ultima pubblicazione del presidente e cofondatore dell’Acton Insititute, Rev. Robert Sirico. Il suo libro illuminante chiarisce molto efficacemente gli elementi per affrontare la questione morale del capitalismo, mettendo a fuoco il fondamento della natura umana, che è di ordine morale, e quindi non riconducibile alla sola sfera economica. Il lavoro, anche il lavoro imprenditoriale, per il cristiano è un mezzo privilegiato per cooperare alla Creazione, per mettere a frutto i propri talenti, esercitare le virtù, e creare relazioni giuste anche nell’ambito degli affari.
    Acton University, cronaca dell'evento | Tempi.it

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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Tolkien, "Il Signore degli Anelli" e le Sacre Scritture
    Paolo Pugni
    “Il Signore degli Anelli' è fondamentalmente un'opera religiosa e cattolica” scrive Tolkien nella lettera del 2 dicembre 1953 a padre Robert Murray: notizia per nulla sorprendente se si considera appunto la vita del suo autore, plasmata da una profonda fede ereditata dalla madre, convertita dalla religione protestante della sua famiglia d'origine - il padre di Mabel, educato in una scuola metodista era poi diventato unitariano - al cattolicesimo, scelta che pagò con la vita, essendo stata ripudiata e abbandonata alla miseria con disprezzo dai suoi.
    Questa è la giusta lente con la quale osservare e comprendere tutta l'opera di JRR e il suo capolavoro in primis, come giustamente fanno notare sia Paolo Gulisano, altra conoscenza di queste pagine, nel bello studio Il mito e la grazia (Ancora), sia Andrea Monda e Saverio Simonelli nel loro interessante saggio Tolkien il signore della fantasia (Frassinelli).
    I pregevoli testi di Gulisano e di Monda-Simonelli, per certi versi abbastanza simili, muovono saggiamente dalla biografia di Tolkien per notare come la sua opera completa, e non solo Il Signore degli anelli, sia un inno alla Grazia con rimandi continui alla Sacra Scrittura. Entrambi i testi si soffermano a lungo sull'intreccio tra biografia e bibliografia, ed entrambi illustrano chiaramente fin dall'inizio il pensiero fondamentale di Tolkien sul senso della vita e della scrittura: il famoso concetto della subcreazione, che vede l'uomo accanto a Dio nell'opera di formazione della realtà, evidentemente con dei distinguo: il subcreato dell'uomo è il mondo dei miti, delle vicende che rimandano a messaggi completi.
    Se Monda e Simonelli paragonano Tolkien al nostro Manzoni, mettendone in evidenza i numerosi elementi in comune, io credo che si possa accostare lo scrittore inglese a Dante: entrambi hanno inteso conferire il senso anagogico al loro lavoro: non simbolo, ma esperienza vera che rimanda ad altri significati o eventi. Non dunque una fiaba o un'opera simbolica è quella di Tolkien, né una parodia o ancora peggio una allegoria. Ma una creazione che rimanda ad altro, così come lo è la Divina Commedia nelle intenzioni di Dante: il fiorentino lo illustra chiaramente nella ben nota lettera a Cangrande della Scala.
    Soffermiamoci ora sulla più nota delle opere di Tolkien, riportata all'attenzione generale dall'evento cinematografico. Se le vicende della trilogia potrebbero essere riassunte dagli ultimi due versi del Padre Nostro, il sugo di tutta la storia può essere espresso citando la conclusione della liturgia della parola della Messa in onore di S.Agnese - 21 gennaio - che recita: "O Dio onnipotente ed eterno (che) scegli le creature più miti e più deboli per confondere la potenza del mondo". In questa frase è racchiuso il messaggio di Tolkien: la fiducia illimitata nel Dio cattolico e nel Suo progetto sulla storia, l'esaltazione degli umili, la "follia" che, come esclama Gandalf durante il consiglio di Elrond, sarà "il manto agli occhi del nemico" così da confondere la potenza del mondo. Parole simili, queste ultime, a quelle contenute nel Magnificat: "ha esaltato l'umiltà della Sua serva… ha rovesciato i potenti dai troni… ha innalzato gli umili".
    Umili e fragili: questa mi sembra essere la fondamentale e decisiva differenza tra il pregevole universo tolkieniano e il divertente, ma anche superficiale mondo di Harry Potter, dove i buoni sono splendidamente buoni e i cattivi perversamente cattivi. Spaccatura manichea pressoché assente nell'opera di Tolkien dove tutti, persino Gollum, possono riscattarsi e dove tutti, persino Frodo, persino Aragorn, persino Gandalf, sono costantemente tentati e non necessariamente capaci di superare la tentazione. Solo gli orchi, scimmie di uomini creati dal fango, e gli emissari di Sauron sono presentati come impermeabili alla salvezza: come peraltro i demoni e satana, secondo quanto scrive il Catechismo della Chiesa Cattolica.
    Tutto Il Signore degli Anelli è pervaso dal senso della fragilità umana che solo in Dio trova compimento e appoggio. In effetti, come fece già notare Emilia Lodigiani nel primo, ed imprescindibile saggio Invito alla lettura di J.R.R.Tolkien (Mursia), il tratto saliente di questo romanzo, come di tutto ciò che ha scritto Tolkien, è la rinuncia. La vittoria sul male è possibile solo rinunciando, con libertà, a qualche cosa di caro. Se è ben noto che è proprio la rinuncia all'anello a salvare la Terra di Mezzo, sono molti altri gli esempi di questa rinuncia presenti nel testo, che si apre proprio con la rinuncia di Bilbo al suo prezioso tesoro che Gandalf affiderà a Frodo. Lo stesso Frodo rinuncia alla vita tranquilla per farsi carico di condurre a termine una missione preclusa agli eroi "istituzionali" Aragorn e Gandalf. Gandalf prima e Galadriel poi rinunciano al possesso dell'anello ingenuamente offerto loro da Frodo, superando la prova - e Tolkien utilizza in entrambi i casi questo vocabolo - come Cristo nel deserto sconfigge il diavolo che gli offre il possesso di tutti i regni della Terra.
    Proprio perché il tema della rinuncia è ben noto, non sembra opportuno soffermarsi su di esso. Vorrei portare invece l'attenzione su altri argomenti che trovano la loro radice nelle Scritture e nella fede cattolica. Mi sembra che questo territorio sia stato poco esplorato; non si è andati alla ricerca della subcreazione tolkieniana legata alla fonte principale della creazione: la Sacre Scritture.
    Che invece sono evocate di continuo e costituiscono una colonna sonora costante, lieve e ineludibile del testo, a cominciare dalla famosa frase di San Paolo: "Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio" (Rm 8, 28). Così infatti accade nel libro. Situazioni che paiono tragiche, estremamente negative, si dimostrano invece preziose per produrre il bene: se Gandalf il grigio non "morisse" a Moria, non potrebbe rinascere come Gandalf il bianco (e qui riecheggia anche la parola di Gesù: "se il chicco di grano non muore…" - Gv, 12,24).
    Senza l'attacco di follia che colpisce Boromir e lo spinge a strappare l'anello a Frodo e senza l'assalto degli orchi la compagnia non si scioglierebbe e l'anello non "andrebbe a est".
    Se Pipino e Merry non fossero rapiti dagli orchi non risveglierebbero la foresta di Fangor e gli ent.
    Se Gollum non fosse fuggito agli elfi e non avesse tradito gli hobbit, l'Anello non sarebbe stato gettato nella fornace ardente.
    La figura del vero protagonista della vicenda, Frodo, è poi ritagliata sulla figura del Santo: un intreccio tra Abramo, pronto a lasciare tutto, la casa, la ricchezza, la posizione, per andare nell'abominio della desolazione; Mosé, il profeta che si sente inadeguato per il compito affidatogli; e lo stesso Gesù, del quale condivide la profonda umiltà e la forte volontà di portare a termine il compito affidatogli a costo della vita. Come scrive acutamente Greta Bertani, nella sua tesi di laurea discussa all'Università di Bologna nel 1995, un saggio che meriterebbe fortuna letteraria per la profondità, la freschezza e la novità delle argomentazioni: "Frodo ha risposto ad una chiamata sebbene desiderasse evitarla, e non sapesse nulla in fatto di armi e guerre". E una volta "chiamato" non si tira più indietro.
    Stranamente nessuno, che mi risulti, ha preso in esame il fatto che Moria, il regno dei nani ormai controllato dagli orchi che la Compagnia dell'Anello attraversa nel primo libro, ha preso il nome dal monte sul quale Abramo viene inviato a sacrificare Isacco.
    Moria infatti è il luogo sul quale verrà costruita, secoli dopo la vicenda di Abramo ed Isacco, la città di Ieru-Salem, il cui Re al tempo del patriarca è quel famoso Melkisedec, re appunto di Salem.
    Uno dei colli di Moria è il Calvario, dove un altro sacrificio verrà officiato: quello di Nostro Signore.
    Ebbene è proprio in Moria che Gandalf muore per poi risorgere: un caso? Credo proprio di no. Una indicazione piuttosto, e molto marcata, che rimanda al vero senso del sacrificio.
    Anche la comunione dei santi è presente nel libro: è la pietà che Bilbo ha mostrato in passato verso Gollum, che, nonostante appaia tutto corroso dal male, gli ispira compassione, a permettere che la missione giunga a compimento. Gli sforzi che i personaggi compiono nella loro battaglia con le forze di Sauron sospingono Frodo aiutandolo a reggere il peso dell'Anello che aumenta man mano che si avvicina a Monte Fato. Palese è il messaggio di come il male corrompa con la sua vicinanza: l'anello, che ben rappresenta il peccato, corrode tutti coloro che ne vengono a contatto: non solo Gollum, che lo ha custodito a lungo, è ridotto ad una scimmia di ciò che era in origine, ma gli stessi Bilbo e Frodo subiscono gli attacchi dell'Unico e sopravvivono solo in funzione di uno sforzo di volontà libera. Frodo almeno fino a quando non sarà così piagato dall'anello da perdere, con la ragione, anche la capacità di intendere e di volere nel momento in cui si trova a poter gettare nella voragine di Monte Fato il "suo tesoro". L'anello è capace di scatenare le tre concupiscenze di S.Paolo: concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e superbia di vita. Lo si nota in particolare nella vicenda di Boromir: il suo desiderio morboso di impossessarsi dell'anello lo spinge ad aggredire Frodo pronunciando parole che si possono collegare direttamente alle tre concupiscenze sopra citate.
    Lo sguardo capace di svelare i pensieri del cuore, che Galadriel, la dama di Lothlorien che può far pensare ad una icona della Madonna, rimanda allo sguardo di Gesù che, come la Parola, penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e discerne i pensieri e gli intenti del cuore (Eb, 4,12).
    La parabola dei talenti riecheggia in questo splendido dialogo tra Frodo e Gandalf:
    "Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai miei giorni!", esclamò Frodo. "Anch'io", annuì Gandalf, "come d'altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato". Dialogo che rimanda anche a questa affermazione di San José Maria tratta da Amici di Dio (212): "L'importante è fare buon uso del tempo, che ci sfugge dalle mani e che, per chi ha criterio cristiano, vale più dell'oro, perché rappresenta un anticipo della gloria che Dio ci concederà".
    La Grazia è presente in ogni pagina del romanzo e si svela proprio al momento decisivo: nessuno può arrogarsi il merito di avere salvato la Terra di Mezzo anche se tutti hanno offerto il loro contributo: tutti i protagonisti dell'opera portano i loro pani e pesci, ma nessuno di loro può moltiplicarli. E' la Grazia, che si è servita di hobbit e uomini, come di elfi e nani, che si è alimentata della pietà di Bilbo e della misericordia di Frodo, dell'eroismo di Sam e della caparbietà di Aragorn, a giocare l'ultima carta.



    I liberali di sinistra che snobbano il mercato (ma non i soldi pubblici) e le fumoserie politiche
    Dino Cofrancesco -
    In Italia la storia del pensiero politico è sempre stata un campo di studi molto coltivato. Fogli come Rivista Storica Italiana, Nuova Rivista Storica, La Cultura, Storia contemporanea, l'Acropoli fino a Nuova Storia contemporanea, hanno dedicato un ampio spazio ai classici della politica. Per di più nel 1968, su iniziativa di Luigi Firpo, Mario delle Piane, Salvo Mastellone e Nicola Matteucci vide la luce Il Pensiero Politico, di elevata cifra intellettuale che diventò quasi la rivista ufficiale degli studiosi di Storia delle dottrine politiche. Seguirono poi altre palestre (da Scienza e politica a Filosofia politica e, di recente, Historia magistra e Rivista di politica) volte ad approfondire temi e autori, da Erodoto a John Rawls, che hanno segnato la riflessione sullo Stato, i diritti, la comunità politica.Di tutto si sentiva il bisogno meno che di un'ennesima rivista, eppure un gruppo di universitari quel bisogno lo ha sentito, fondando una Storia del pensiero politico (Il Mulino), di cui è appena uscito il primo numero, «Dittatura e dispotismo nell'età della democrazia». Si tratta, per lo più, di studiosi - postcomunisti, neogobettiani, liberali di sinistra - che hanno il mercato «in gran dispitto». E a ragione perché se la nuova rivista dovesse reggersi con gli abbonamenti o le vendite in libreria chiuderebbe presto. Per fortuna in Italia la «mano pubblica» ha sostituito da tempo la «mano invisibile» di Adam Smith...Ma ne valeva la pena?
    Leggendo il primo fascicolo non si direbbe. Il farraginoso articolo di apertura, scritto a quattro mani da Luca Scuccimarra e Daniele Di Bartolomeo, «I dilemmi della dittatura. Governo dell'emergenza e patologie del potere nel dibattito rivoluzionario in Francia (1789-93)», dimostra che il termine «dittatura» che, all'inizio della rivoluzione, rinvia al significato classico di conferimento temporaneo di poteri straordinari ai consoli in circostanze drammatiche (come la guerra), finisce poi per caricarsi di un valore così negativo da diventare indistinguibile da tirannide. Tutto qui! Nessun sospetto che, in un'età in cui la società civile non si lascia assorbire dalla politica, l'istituto romano della dittatura non riesca più a giustificare la sospensione dei diritti civili e che la repressione della libertà, la cancellazione delle sue «garanzie», richieda ormai un indottrinamento sistematico di tipo pretotalitario, prematuramente tentato da Robespierre.
    Se Scuccimarra e Di Bartolomeo avvolgono le loro analisi nelle fumisterie del linguaggio accademico-barocco, «in più spirabil aere», almeno per la chiarezza espositiva, ci porta il successivo articolo di Giovanni Borgognone, «Dopo il delitto Matteotti. Gramsci, Gobetti e il problema della democrazia»: vi si dimostra, in maniera convincente, come Gramsci, nella sua contrapposizione al fascismo, pensasse a una «democrazia nuova, “proletaria”, incompatibile con il parlamentarismo e con le istituzioni liberaldemocratiche», una totalitaria «omogeneità sociale e ideologica». Borgognone, però, fa di Gobetti l'antitesi di Gramsci per il suo porre «alla base di una democrazia moderna e vitale l'impegno delle masse, e soprattutto delle élites che ne erano espressione sul terreno della politica e nella prospettiva della lotta e della competizione». Una rigenerazione del Paese affidata alla dialettica tra minoranze borghesi e comuniste? Difficile immaginarlo. Nel migliore dei casi, c'era, in Gobetti, una sottovalutazione dell'incidenza delle ideologie sui processi politici, nel peggiore, il folle convincimento che in Russia i veri liberali fossero Lenin e Trockj.
    I neo-gobettiani, che nulla eccepiscono contro l'ipotesi che, nell'incendio della lotta politica, si depurino i conati sovversivi, per coerenza, dovrebbero essere più comprensivi pure con i liberali simpatizzanti col fascismo: anche loro sottovalutarono gli avversari, illudendosi che il radicalismo delle camicie nere potesse contribuire al consolidamento dello Stato di diritto.
    Come avvertì Ortega y Gasset, la competizione è garante di progresso quando c'è accordo sui «fondamenti». Pensare di spegnere «il fuoco nella mente» di Gramsci e di Mussolini, per farne la destra e la sinistra affidabili di una democrazia «a norma», significava non aver compreso nulla dei «terribili semplificatori». E tanto basti: sul resto non merita intrattenersi.
    I liberali di sinistra che snobbano il mercato (ma non i soldi pubblici) e le fumoserie politiche - IlGiornale.it


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Socialdemocratici, Progressisti e Socialisti: un po’ tutti nazisti!
    REDAZIONE
    Proponiamo in ANTEPRIMA per L’Indipendenza la traduzione integrale in italiano dell’articolo Liberals, Progressives and Socialists di Walter E. Williams, insigne professore di economia alla George Mason University, editorialista per molte testate a livello nazionale. (Traduzione di Luca Fusari)
    In Europa, specialmente in Germania, esporre una bandiera nazista con la svastica è un crimine. Per decenni dopo la seconda guerra mondiale, la gente ha braccato e cercato di punire gli assassini nazisti, che erano responsabili della morte di oltre 20 milioni di persone.
    Ecco la mia domanda: Perché gli orrori del nazismo così giustamente ed ampiamente condannati, ma non quelli del socialismo e del comunismo? Ciò che non è insegnato – e forse è occultato – è che le idee socialiste e comuniste hanno prodotto il più grande male della storia dell’umanità. Voi direte: “Williams, in quale mondo stai vivendo? Socialisti, comunisti e i loro compagni di viaggio, come gli Occupanti di Wall Street sostenuti dal nostro presidente (Obama n.d.t), si preoccupano del più debole nella sua lotta per un posto al sole! Stanno cercando di promuovere la giustizia sociale”. Vediamo un po’ la storia del socialismo e del comunismo.
    Ciò che non è noto è che il nazismo sia una forma di socialismo. In realtà, il termine nazista sta per Partito dei Lavoratori Nazional Socialisti Tedeschi. Gli atti indicibili dei nazisti di Adolf Hitler impallidiscono al confronto con gli orrori commessi dai comunisti nella ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e nella Repubblica Popolare di Cina. Tra il 1917 e il 1987, Vladimir Lenin, Josef Stalin e i loro successori hanno ucciso e sono responsabili della morte di 62 milioni di persone, il loro popolo. Tra il 1949 e il 1987, la Cina comunista guidata da Mao Zedong e dai suoi successori, ha ucciso e si è resa altrimenti responsabile della morte di 76 milioni di cinesi. Il calcolo più autorevole dei regimi più sanguinari della storia è documentato sul sito dell’Università di Hawaii dal Professor Rudolph J. Rummel, e nel suo libro Death by Government (in Italia è stato pubblicato da parte dello stesso autore la raccolta di saggi Lo Stato, il Democidio, la Guerra n.d.t.). Quante cacciate e punizioni ci sono state per questi assassini comunisti?
    Al contrario, è accettabile sia in Europa che negli Stati Uniti issare e marciare sotto l’ex bandiera rossa dell’URSS con falce e martello. Mao Zedong è stato a lungo ammirato da studiosi e persone di sinistra in tutto il nostro Paese, e spesso marciavano intorno cantando le lodi di Mao e agitando il libretto rosso, “Citazioni del presidente Mao Tse-tung”. Il presidente Barack Obama ha come direttrice per le comunicazioni, Anita Dunn, nel suo discorso di commiato nel giugno 2009 alla St. Andrews Episcopal High School presso la Washington National Cathedral, ha detto che Mao è stato uno dei suoi eroi.
    Sia che si tratti della comunità accademica, l’élite dei media, i sostenitori del Partito Democratico o organizzazioni come la NAACP (National Association for the Advancement of Colored People, n.d.t.), il National Council of La Raza, Green for All, il Sierra Club e il Children’s Defense Fund, c’è una grande tolleranza per le idee del socialismo – un sistema che ha causato più morti e miseria umana di tutti gli altri sistemi combinati.
    Oggi la sinistra socialista e progressista non apprezza l’idea che il loro programma differisca di poco da quello nazista, sovietico e dagli assassini di massa maoisti. Uno non deve essere a favore dei campi di sterminio o delle guerre di conquista per essere un tiranno. L’unico requisito è che deve credere nel primato dello Stato sui diritti della persona e delle comunità locali.
    Gli orrori indicibili del nazismo non sono accaduti in una notte. Erano semplicemente il risultato finale di una lunga evoluzione di idee che portarono al consolidamento del potere del governo centrale nella ricerca della “giustizia sociale”. Sono state le generazioni precedenti di tedeschi – che avrebbero rabbrividito al pensiero di un genocidio – a creare il cavallo di Troia per l’ascesa di Hitler. Gli americani di oggi stanno ugualmente accettando il massiccio consolidamento del potere centralista di Washington in nome della giustizia sociale. Se non ci credete, basta chiedersi: da che parte stiamo andando coi piccoli passi: verso una maggiore libertà o verso un maggior controllo del governo sulle nostre vite?
    Forse pensiamo che siamo esseri umani migliori del popolo tedesco che ha creato le condizioni che ha portato Hitler al potere. Io dico, non ci contate.
    Socialdemocratici, Progressisti e Socialisti: un po’ tutti nazisti! | L'Indipendenza





    Il Batman di Nolan vota Tea Party
    Alessandro Rico
    Otto anni dopo la morte di Harvey Dent/Due Facce, Bruce Wayne è un uomo trasandato, malconcio, depresso e solitario. E al maggiordomo Alfred, purché il suo pupillo non rischi la vita, tutto sommato sta bene così. Le carte cambiano, quando la ladra professionista Selina Kyle/Catwoman ruba le impronte digitali del miliardario, per venderle a un infido membro del Cda della sua azienda: il progetto è quello di convertire in un’arma distruttiva un reattore nucleare che la Wayne Enterprise aveva costruito per produrre energia pulita e gratuita. Con il prezioso contributo del perfido e fortissimo Bane.
    Il regista Cristopher Nolan è un artista capace di coniugare il successo commerciale alla densità di contenuti, sondabili, a più livelli, dallo spettatore accorto. I temi che si intrecciano sono molteplici e anche di rilevanza filosofica: la paura, la verità, la conoscenza di sé, la solitudine, la fragilità dell’essere umano. Ma quel che più mi preme evidenziare, in tempi di crisi economica, è l’aspetto politico: The Dark Knight Rises è un manifesto del liberalismo.
    Tutto comincia, dove era finito il secondo capitolo della trilogia: Gotham è la perfetta realizzazione del regno delle leggi speciali, eredità dell’ex procuratore Dent. Poi arriva Bane. Se volete, più sadico di Joker: questi era l’anarchia, lui è il dogmatismo democratico-progressista, la redistribuzione autoritaria delle ricchezze, a tratti il socialismo reale; nella scena dell’assalto alla Borsa rimanda inequivocabilmente a Occupy Wall Street (non è un caso che negli USA, la pellicola sia stata associata all’agenda del Tea Party).
    La vicenda di Joker rappresentava un atto di sfiducia verso il potere, chiunque lo detenesse: persino l’incorruttibile Dent, alla fine, cadeva («La follia è come la gravità: basta solo una piccola spinta»). Al suo estro perverso fa da contraltare il metodo di Bane. Con un piano ben architettato riesce a trasformare Gotham in una Comune socialista, che presto degenera nel Terrore giacobino: saccheggi nelle abitazioni dei ricchi, processi sommari consumati ai piedi di un surreale scranno, sul quale siede lo psicopatico professor Crane/Spaventapasseri. In questo clima giustizialista, persino Catwoman, che da subito si distingue per uno spirito di rivalsa anticapitalista, sospira durante una razzia: «Questa era la casa di qualcuno» (come a dire che il rispetto della proprietà privata è conseguenza naturale del common sense), mentre la compagna di razzia ribatte demagogicamente: «Ora è la casa di tutti».
    La minaccia dell’ordigno nucleare, che incombe ineluttabile su Gotham, può essere diversamente interpretata: è la conseguenza non intenzionale di un progetto ecologista (anche qui, Nolan insiste sul pericolo costante che un immenso potere sfugga di mano persino a un supereroe); è la dimostrazione che la corsa verso il progresso e il sapere non può essere concepita come un’esplorazione solitaria e autoreferenziale (lo scienziato russo, l’unico in grado di fermare la detonazione, viene prevedibilmente assassinato da Bane); ma soprattutto, simboleggia quell’autodistruzione che è l’exitus inevitabile per una società che si voti all’autogestione socialista, alla sospensione del diritto, all’invidia della ricchezza.
    Non mi stupirei, se certi fruitori italiani parteggiassero per Bane. Conosco i miei polli e la loro cultura politica. Anzi, ho già beccato, tra i commenti a qualche recensione on line, l’indignado che si sfogava: «Al posto di Monti metterei Bane. Lui sì che è cazzuto».
    Vorrei concludere sottolineando un aspetto che rivela, se non un messaggio di chiara marca cristiana, almeno una sintonia di spirito con la fede.
    Il vero protagonista del film è Bruce Wayne. Su circa tre ore di film, infatti, Batman è in scena sì e no per quaranta minuti. In più, pressoché tutti i personaggi principali conoscono la sua vera identità: la figlia di Ra’s al Ghul, Selina Kyle, Bane, il giovane e coraggioso poliziotto Blake, alla fine persino il commissario Gordon. E allora, che senso ha portare quella maschera? La ragione è spiegata forse dallo stesso Uomo Pipistrello: «Chiunque può essere un eroe. Anche un uomo normale che mette un cappotto sulle spalle di un bambino, per fargli capire che il mondo non è finito». Quella maschera sottrae l’individualità per allegorizzare l’uomo qualunque, tu, noi, mentre teniamo dietro, quotidianamente, alla nostra vocazione. Molto vicino alla concezione dell'Opus Dei, potremmo dire.
    E comunque, state tranquilli: Batman non muore.
    Il Batman di Nolan vota Tea Party


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Giovannino Guareschi, scrittore autenticamente cattolico
    Domanda: Sono un studente laureando in lettere. Ho deciso di fare una tesi su Giovannino Guareschi. Prima però di addentrarmi nello studio dello scrittore emiliano, gradirei sapere se la sua scrittura fu autenticamente cattolica.. Grazie (Toni, Milano)

    Risponde Corrado Gnerre
    Caro Toni, Giovannino Guareschi non è stato solo un grande scrittore e umorista cattolico, ma quel che è ancora più significativo anche un grande filosofo cattolico. Certamente la sua non è stata una filosofia nel senso stretto del termine: non formulò mai un pensiero sistematico; ma è stato comunque un pensiero ben preciso. È stato il pensiero del “senso comune”, cioè un pensiero autenticamente cattolico. Non a caso lo scrittore emiliano chiamò “mondo piccolo” lo scenario delle sue novelle.
    Ma, di quale piccolezza si tratta? Di quella della semplicità; che è però filosoficamente grande, grandissima, perché legata a quel “senso comune”, che è a sua volta infallibile giudizio di ciò che accade. Si scrive “senso comune”, ma si legge “buon senso”: capacità di giudicare esattamente, in maniera umana ed equilibrata, senza lasciarsi ingabbiare da ideologie di moda e astrazioni di sorta, senza pretendere di “chiudere” il reale in categorie intellettuali e soggettive.
    Facciamo un esempio: per dimostrare che Dio esiste non occorrono argomentazioni di alta filosofia, basta stupirsi dinanzi alla bellezza del creato. E questa possibilità è di tutti; anzi, è particolarmente di chi conserva un animo semplice, piuttosto di chi cade in un inutile intellettualismo. Ecco perché Gesù indicò la condizione del bambino come la condizione indispensabile per andare in Paradiso.
    Ma torniamo allo scrittore emiliano e alla sua chiara filosofia. La grandezza di Guareschi è stata di saper individuare nei suoi personaggi quel buon senso di cui ho parlato prima, di averla saputa individuare in tutti, anche in chi combatteva dalla parte sbagliata. Basti ricordare l’episodio del comunistissimo Peppone che chiede il Battesimo per il figlio, volendogli imporre il nome di “Giuseppe, Stalin, Lenin”; e, al rifiuto perentorio di don Camillo, non lo dice chiaramente, ma con la sua reazione scomposta quasi arriva a “catechizzare” il curato di non poter rifiutare un sacramento che è necessario per la salvezza. Per un comunista ortodosso, è quanto dire! Cederà poi sul nome, inserendo anche “Camillo”, ma non sulla richiesta del Sacramento.
    Qui c’è tutta la poesia del buon senso, l’affezione a una tradizione dei padri che nemmeno una “fede” ideologica erronea di quella portata può scalfire. C’è un cuore che è rimasto ancora semplice, anche se la mente è da tutt’altra parte.
    Lo so che questo modo di Guareschi di descrivere i suoi personaggi non è stato ben digerito da tutti. Lo scrittore emiliano è stato anche accusato di non aver ben capito la tragicità del comunismo; quasi di averlo inteso come una sorta di “cristianesimo impazzito” (per dirla alla Maritain, cioè un’ideologia errata solo per il suo ateismo e non per altro) e non come un’ideologia “intrinsecamente perversa” (come aveva giustamente affermato Papa Pio XI).
    Sono accuse che posso capire, ma che non condivido. E non le condivido perché Guareschi, presentando i suoi personaggi in questo modo, non solo riesce a demolire qualsiasi ideologia contro l’uomo, ma, riguardo al comunismo, riesce ugualmente a dimostrarne l’intrinseca perversità. Tanto intrinseca e tanto perversa che anche il comunista più ortodosso è costretto a comportarsi e a vivere in modo diametralmente diverso rispetto a quello che gli impone l’ideologia… a patto che sia come Peppone, cioè che il suo “buon senso” stia ancora lì, a guidarlo.
    Caro Toni, c’è chi ha definito Guareschi una sorta di “eretico della risata”; e infatti lo è stato. “Eretico” di quello che oggi si suole chiamare “politicamente corretto”. Da una parte, ha fatto divertire non nascondendo le sue simpatie politiche e facendo capire da quale parte fosse la ragione (e non è poco se si pensa dove andasse la cultura in quegli anni); dall’altra, ha riproposto il “buon senso”, quel sano realismo, che in anni di trionfo filosofico di “situazionismo” (non esiste una morale oggettiva ma ogni azione si giudica situazione per situazione) e “nichilismo” (non esiste alcun valore), costituiva davvero un’eresia.
    Giovannino Guareschi, scrittore autenticamente cattolico - Radici Cristiane



    Il ritorno di don Chisciotte, Gilbert Keith Chesterton, Morganti editori, trad. Paolo Morganti, 304 pagine, 15,00 euro ISBN: 9788895916354 (agosto 2012)
    Il ritorno di don Chisciotte è il romanzo di Chesterton rimasto, sino a oggi, inedito in Italia. Michael Herne, in quest’opera letteraria pubblicata nel 1927, è il bibliotecario di Seawood Abbey, un’abbazia trasformata in dimora da lord Seawood. Quando Olive Ashley, amica della figlia del lord, decide di mettere in scena la commedia Blondel il Trovatore, il timido bibliotecario viene coinvolto nella piece teatrale per impersonare un trovatore. Ma poi gli viene proposto di interpretare un altro ruolo, per cui, sopra la calzamaglia verde, indosserà le vesti ben più impegnative del protagonista: niente meno che re Riccardo Cuor di Leone.
    Inizialmente l’insicuro bibliotecario si dimostra refrattario al gioco delle parti, ma poi rimane vittima delle suggestioni della commedia. Herne capisce d’aver trovato nel ruolo recitato il suo vero Io e il senso della vita.
    Rifiuta così di togliere il costume di scena, muovendosi e pensando come un uomo medioevale.
    Chesterton trasforma il bibliotecario nella riedizione del don Chisciotte di cervantesiana memoria, regalando a questa nuova edizione dell’Idealismo e dell’Altruismo incarnato, un potere che il personaggio di Cervantes non ebbe. Douglas Murrel, straordinario personaggio letterario, personificazione dell’uomo altruista, è il Sancho Panza chestertoniano, che seguirà don Chisciotte in giro per l’Inghilterra.
    Il romanzo è inserito nella collana ‘Chestertoniana’, di Morganti editori. Collana curata e interamente tradotta da Paolo Morganti.
    Gli altri titoli pubblicati: Il candore di padre Brown (2007), La saggezza di padre Brown (2008), L’incredulità di padre Brown (2010), Uomovivo (2009). La sfera e la croce (2011).



    Quando Bernanos dichiarò guerra ai tecnocrati (e ai loro robot...)
    Luca Negri -
    Georges Bernanos incarnava il «cristianesimo robusto del Medio Evo», come scrisse il collega e compatriota Pierre Drieu La Rochelle. In effetti la sua entrata in scena fu l'arresto, appena ventenne, dopo tafferugli con la polizia per difendere la memoria di Giovanna d'Arco offesa da un professore universitario. Ma se rimase sempre fedele alla santa guerriera, Bernanos si allontanò dalla destra francese devota come lui alla pulzella d'Orléans.
    Dopo aver visto con i suoi occhi la ferocia della guerra civile spagnola, soprattutto quella dei franchisti, ancor più grave perché giustificata nel nome della cristianità, la distanza dal nazifascismo la volle anche geografica: nel 1938 attraversò l'Atlantico per fare l'esule in Sud America. E alla fine della guerra, sconfitto Hitler, la vera lotta era contro il tecnocratico «impero economico universale».
    La rivoluzione della libertà (Cantagalli editore, pagg. 200, euro 15,50, traduzione e prefazione di Andrea Bellantone) raccoglie inediti del periodo 1942-1945 e il pamphlet La Francia contro i robot scritto durante il soggiorno brasiliano del '44.C'è foga da predicatore medioevale in queste testimonianze, ma lo spirito è libertario, non reazionario. Ai suoi connazionali, ricordava l'orgoglio di rappresentare il vero popolo rivoluzionario, e rivoluzione era per lui «parola religiosa». Quella che invocava doveva farsi «contro il sistema attuale tutto intero», contro «un mondo conquistato dalla tecnica» e «perso per la libertà». Dietro gli uomini politici Bernanos vedeva «i padroni della speculazione universale, i capi dei grandi trust internazionali, i controllori dei mercati». Loro volevano l'uomo ridotto ad «animale economico, non solo lo schiavo ma l'oggetto, la materia quasi inerte, irresponsabile, del determinismo economico».
    In virtù del suo profondo cristianesimo, Bernanos sapeva che «l'uomo non ha contatto con la sua anima se non grazie a una vita interiore e notava che «nella civiltà delle macchine la vita interiore prende poco a poco un carattere anormale. Per milioni di imbecilli, essa non è che un sinonimo volgare della vita subcosciente». Francesi ed europei potevano anche fregarsene della vita interiore, «ma è proprio in essa e attraverso di essa che si sono trasmessi fino a noi quei valori indispensabili senza i quali la libertà non sarebbe che una semplice parola». Né uomo di sinistra, né di destra, ma semplicemente «un cristiano», come lui stesso si definiva, si faceva profeta di una vera «rivoluzione spirituale», di una «nuova esplosione del Cristianesimo». Non c'è comunque dubbio che il medioevale, l'inattuale Bernanos diventi di stretta attualità e nostro contemporaneo quando ammonisce di non affidare la libertà «ai meccanici ai tecnici, agli accordatori, che vi assicurano che essa ha bisogno di una messa a punto, che la vogliono smontare. La smonteranno fino all'ultimo pezzo e non la rimonteranno mai!».



    Echi tridentini in Tolkien - IV parte. San Pio X
    "Ma per me quella Chiesa di cui il Papa è capo riconosciuto ha un merito maggiore, e cioè quello di aver sempre difeso il Santo Sacramento e di avergli reso sempre onore e di averlo messo (come Cristo voleva) al primo posto. “Nutri le mie pecorelle” fu il Suo ultimo incarico a San Pietro; e dato che le Sue parole vanno sempre intese alla lettera, suppongo che fossero riferite principalmente al Pane della Vita.



    E’ stato contro questo che venne lanciata la prima rivolta dell’Europa occidentale (la ribellione protestante) – contro “la favola blasfema della messa”.
    Credo che la più grande e vera Riforma del nostro tempo sia quella portata avanti da san Pio X: superando tutto quello, di cui pur c’era bisogno, che il Concilio deciderà. Mi chiedo in che stato sarebbe la Chiesa se non fosse per quella vera Riforma."
    J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.380.
    Tolkien (1892-1973) ha vissuto i tempi sia della canonizzazione di Papa Sarto, sia dello svolgersi delle assisi del Concilio Vaticano II.
    Che parole profetiche!



    LE QUINTE COLONNE DELL’ISLAM IN OCCIDENTE
    CARLO ZUCCHI
    Rivoluzione. Quell’evento a partire dal quale nulla è più come prima. Parolina magica che evoca nel popolo sogni di libertà, ma finisce sempre per farlo risvegliare nei più orribili bagni di sangue.
    Da sempre, la rivoluzione divora i propri figli. Fu così per Robespierre, che persone più feroci di lui che lo mandarono alla ghigliottina e fu così per Kerensky, che trovò sulla sua strada Lenin, che si dimostrò più abile e spietato di lui. Per non parlare di quanto accadde in Iran nel 1978, dove il teorico della rivoluzione islamica Bani Sadr riuscì a cacciare lo Scià Reza Pahlavi assieme all’Ayatollah Khomeini, che lo nominò Presidente della Repubblica islamica d’Iran nel 1980 promettendo un Islam libero e democratico, salvo poi scatenargli contro i Guardiani della Rivoluzione, facendolo dimettere dalla carica e costringendolo alla fuga in Francia un anno dopo, nel 1981. Eppure, la parola “rivoluzione” ha da sempre scaldato i cuori di popolo e intellettuali. Anzi, soprattutto dei secondi, che sono sempre riusciti a trascinarsi dietro il primo, dando vita a sommosse a cui seguono periodi di anarchia contrassegnati da un vuoto di potere, immancabilmente colmato per mezzo di involuzioni dittatoriali operate dalle frange rivoluzionarie più cattive e violente, che, proprio perché tali riescono sempre a prendere il comando, dando vita a sistemi di potere più burocratici, paludati e corrotti di quello spazzato via.
    Eppure, in qualsiasi testo di storia o di filosofia politica relativo agli ultimi due secoli la rivoluzione è vista come processo catartico e salvifico in grado di liberare le masse dalla miseria in cui le costringono quei ricchi che le masse stesse, accecate dall’invidia nei loro confronti, sognano di far finire nella polvere. Peccato, però, che essendo povere, e perciò prive di mezzi, le masse non abbiano la possibilità di difendersi in questi periodi di caos e violenza incontrollata di cui finiscono per pagare il prezzo più alto.
    Purtroppo, in Occidente, l’intellighenzia e i media che orientano l’opinione pubblica hanno conferito alla parola rivoluzione un significato salvifico. In nome dell’odio verso il cristianesimo e verso il liberal-capitalismo, tutto ciò che mira a distruggere l’ordine esistente va incoraggiato. E la rivoluzione è quell’evento che fa tabula rasa di tutto mondando così dal peccato la società occidentale, come vorrebbe gran parte di quegli intellettuali che in una società di mercato farebbero fatica a campare come correttori di bozze e che, non a caso, campano in gran parte di stipendi pubblici elargiti da università statali sempre più costose e inefficienti.
    Se tutti i movimenti rivoluzionari godono di grande popolarità in occidente è proprio grazie al zozzume intellettuale di cui sopra, coadiuvato da gran parte del mondo dello spettacolo, composto da cantanti e attori con il portafoglio a destra e il cuore a sinistra, come pure la maggior parte di scrittori, artisti e pubblicitari.
    Del resto, la storia si ripete: nell’antica Grecia filosofi e commediografi di Atene parteggiavano per Sparta, che mai avrebbe garantito loro quella libertà di cui godevano ad Atene, mentre oggi nani e ballerine si dichiarano sempre a favore di chiunque uccida in nome della rivoluzione. E se un tempo questa era bolscevica o castrista e oggi è islamica, va bene lo stesso. E poi l’Islam è nemico del cristianesimo. Sì, perché l’intellighenzia non guarda ai principi, ma ai simboli che li rappresentano. E se per anni il cristianesimo è stato additato a simbolo dell’oscurantismo, poco importa che l’Islam costituisca la minaccia più temibile alla nostra libertà, in particolare quella di espressione a cui il mondo della cultura dovrebbe essere particolarmente sensibile. Il cristianesimo è il nemico che va abbattuto anche a costo di lasciare il campo a qualcosa di terribile. Del resto, basta vedere qualsiasi rassegna o festival cinematografico per imbattersi in almeno un film dai contenuti più o meno blasfemi nei confronti della religione cattolica, mentre nessuno osa dire alcunché sull’Islam, altrimenti rischia la pelle. Ma lor signori non si limitano a esprimere la loro viltà attaccando, spesso volgarmente, i simboli dell’Occidente cristiano proprio perché non è pericoloso farlo, ma spesso si ergono a difensori dell’Islam invocando il rispetto per le diversità antropologiche di culture il cui merito, ai loro occhi, è sempre e solo quello di non essere “contaminate” dal cristianesimo e dalla corruzione liberale e capitalistica.
    Gli islamici scagliano aerei contro due grattacieli? La loro è una reazione contro l’Occidente corrotto. Qualcuno rischia la pelle non appena osa criticare l’Islam con libri, film o documentari in maniera assai meno volgare di quel che cineasti vari fanno, senza rischio alcuno, nei confronti della religione cristiana? Cavoli suoi, così impara a criticare i nemici dell’Occidente.
    Certo, denigrare la religione altrui è sempre sbagliato, ma gli assalti alle ambasciate dimostrano che per gli islamici non conta la persona. Per loro, l’altro da sé costituisce un tutt’uno indistinto e se un occidentale incorre nel peccato, tutto l’Occidente va sterminato. Se l’Islam è tutto questo, quale rispetto merita? Se tutto questo, invece, altro non è che una degenerazione figlia di una fase rivoluzionaria, ci decideremo una buona volta a smettere di accogliere le rivoluzioni come eventi forieri di speranza?


 

 
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