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Discussione: Scrittori conservatori

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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Shakespeare più «romano» che «britannico»
    L'enigma del Bardo
    Elisabetta Sala
    Elisabetta Sala, docente di Lingua, Letteratura e Storia inglese nei Licei statali, si interroga sul «mistero» dell’uomo Shakespeare e della sua opera letteraria, tutta pervasa da un che di enigmatico, di mai pienamente spiegabile che certo contribuisce alla sua fortuna, ma che è in parte reso più comprensibile riferendolo alla sua dissidenza politica e religiosa. Il suo cattolicesimo, appreso in famiglia, spiega vari episodi della sua vita, dalla misteriosa «fuga» da Stratford per recarsi a Londra a fare l’attore all’inspiegabile rirtiro dalle scene al culmine della carriera. Allo stesso modo rende intelligibili molte sue critiche alla Regina Elisabetta e al dispotismo del governo inglese, soprattutto verso i sacerdoti cattolici, presenti in molte sue opere, da Romeo e Giulietta al Mercante di Venezia e così via. Il teatro, del resto, era l’unico mezzo di comunicazione di massa che il governo non riusciva a controllare completamente. Shakespeare era certamente un grandissimo artista, un mago della parola; ma il suo messaggio non si fermava al livello estetico o all’intrattenimento puro. Pertanto, Shakespeare morì papista perché era rimasto tale per tutta la vita. La studiosa ha analizzato più ampiamente i fondamenti del cattolicesimo shakespeariano nel volume L’enigma di Shakespeare edito recentemente dalle Edizioni Ares (pp. 472, euro 24).


    A quattrocento anni dalla stesura della Tempesta, e dal suo famoso «addio al teatro», William Shakespeare continua ad affascinare il mondo, né le sue opere hanno mai smesso di calcare le scene. Sarà per il suo sano realismo, sarà per l’abilità poetica, per l’universalità del suo genio, per la perfezione tecnica che sul palco funziona sempre. Ma è anche perché il suo genio inesauribile, o «myriad-minded» nel noto aggettivo coniato da Coleridge, non è mai del tutto comprensibile, afferrabile, inscrivibile nello schema di una cultura o di un’epoca. Da qualunque prospettiva lo si possa inquadrare, c’è sempre qualcosa che sfugge: proprio come nel sorriso della Gioconda.
    Da sempre, ai margini della critica seria, c’è chi cerca di trovare qualcosa di insolito nel suo Dna. Per dirne una, in Italia esiste l’ipotesi strampalata che il suo nome fosse il calco di «Crollalanza», una famiglia di emigrati siciliani. Sotto l’assurdità della pretesa, il desiderio neanche troppo recondito di sentire Shakespeare come «uno di noi». Perché Shakespeare parla al cuore.

    «Il cuore del suo mistero»
    In un famoso brano dell’Amleto i due amici-traditori, Rosencrantz e Guildenstern, cercano di carpire al principe il suo segreto: egli, ben più furbo di loro, evade le inchieste con grande nonchalance e dice apertamente che non riusciranno mai a strappargli «il cuore del suo mistero» (Ham. 3.2, 353-354): è il drammaturgo, qui, a parlare in prima persona e a sfidare letture troppo semplicistiche? Se sì, chi sono Rosencrantz e Guildenstern?
    Il cuore del suo mistero.
    Da una parte ognuno di noi ne ha uno, ne è uno. Ogni uomo, altro tema dell’Amleto, è un mistero insondabile perché fatto a immagine di Dio, dotato di facoltà infinite, nobile per natura (2.2, 305-310). Ognuno di noi, dunque, resterà sempre un mistero se non agli occhi di Dio.
    D’altra parte, però, torniamo a parlare di un «mistero» letterario: l’opera shakespeariana è tutta pervasa da un che di misterioso, di enigmatico, di mai pienamente spiegabile che certo contribuisce alla sua fortuna. La sua reticenza somiglia molto, ancora una volta, a quella del principe Amleto, che vorrebbe parlare ma non può: «Spezzati, cuore mio, perché devo tenere la lingua a freno» (1.2, 159).
    Come tutti i letterati del tempo, che scrivevano sotto un regime dittatoriale dei più duri, quello instaurato dai protestanti, neppure Shakespeare poteva dire tutto quello che avrebbe voluto; diversamente da molti altri, però, non volle rinunciarvi. Significa che il «mistero» moltiplica i suoi strati, che bisogna leggere tra le righe: ciò rende il tutto molto più interessante e complicato.
    Il mio studio segue un settore molto specifico della critica shakespeariana: quello, uscito alla ribalta soltanto nel Novecento, della sua dissidenza politica e religiosa. Ricostruendo l’atmosfera del tempo, risulta meno difficile capire che cosa il Bardo dell’Avon avesse da dire ai suoi contemporanei. Giacché il teatro era l’unico mezzo di comunicazione di massa che il governo non riusciva a controllare completamente. Shakespeare era certamente un grandissimo artista, un mago della parola; ma il suo messaggio non si fermava certo al livello estetico o all’intrattenimento puro.
    È illuminante, in questo senso, sapere almeno a grandi linee che il governo elisabettiano rappresentava una minoranza all’interno della minoranza protestante: per lo meno a livello statistico, dunque, era altamente probabile che chi non appartenesse a quella ristretta cerchia nutrisse almeno qualche rimpianto, qualche simpatia per l’antica fede cattolica, spazzata via da un giorno all’altro attraverso un atto del parlamento. Come dire che la maggioranza dei sudditi era potenzialmente colpevole di altro tradimento e che il compito del governo protestante, con i suoi raffinati servizi segreti, era quello di stanarne il maggior numero possibile e inoculare negli altri una dose sufficiente di terrore da renderli innocui. Emerge una parola forse nuova ai più, un nuovo reato da condannare senza sconti: «ricusante», che indica quei cattolici inglesi che rifiutavano di presentarsi al servizio religioso di Stato prescritto per legge dai protestanti.
    Dissidenza religiosa uguale dissidenza politica.
    Accostando il canone shakespeariano con una certa attenzione, è facile avvertire un alone filocattolico: rimpianto per un passato perduto, simpatia per gli ordini religiosi (regolarmente sbeffeggiati, invece, dagli scrittori protestanti), invocazioni in nome dei santi, della Madonna, delle reliquie, della Santa Croce; toccate e fughe che accennano alla confessione, alla Messa, al Purgatorio, istituzioni e concetti condannati dal protestantesimo. Una questione, dunque, di atmosfera innanzitutto; di un certo clima, che non sfuggì a diversi critici ottocenteschi con l’orecchio allenato. A partire da quel momento, vita e opere di Shakespeare cominciarono a essere rivisitati, scandagliati, riesplorati. Diverse furono le scoperte interessanti.

    Indizi biografico-ambientali
    Tanto per cominciare, l’ambiente in cui Shakespeare fu allevato era anticonformista quanto bastava appena a non finire nei guai: nelle ondate persecutorie che si scatenavano regolarmente, era raro che non uscissero nomi ad esso connessi. Qualche esempio. Il padre, John, nascose tra le travi della soffitta un testamento spirituale cattolico, redatto nientemeno che da san Carlo Borromeo e diffuso in Inghilterra dai missionari gesuiti. Il documento fu rinvenuto nel Settecento, ma la sua autenticità venne dimostrata solamente nel 1923. Il nome di John Shakespeare compare inoltre nella lista di ricusanza compilata nel 1592; quello della giovane Susanna, figlia del drammaturgo, comparirà invece nel 1606. La madre, Mary Arden, apparteneva a un’antica famiglia gentilizia il cui capostipite, Edward Arden, subì l’atroce pena dei traditori nel 1583 soltanto per la sua religione cattolica. Persino i maestri di scuola di Stratford erano per lo più filocattolici o ricusanti; uno di loro fuggì all’estero per farsi gesuita; un altro ebbe un fratello giustiziato per il suo sacerdozio.
    E poi c’è la famosa «pista del Lancashire», suggerita dapprima, timidamente, nel 1937 e poi con sempre maggior forza: il giovane Shakespeare potrebbe essersi allontanato da casa per andare a fare il pedagogo-musico-attore presso una grande famiglia ricusante del Nord; dove, ancora una volta, entrò in stretto contatto con lo straordinario padre gesuita Edmund Campion, che avrebbe subito il martirio di lì a poco.



    Ed ecco gli «anni perduti», in cui Shakespeare misteriosamente lasciò a Stratford moglie, figlioletti piccolissimi, fratelli, amici e genitori e, in una data imprecisata, si recò a Londra a cercar fortuna nel peggior modo possibile: facendo l’attore. Si era scelto la professione più insicura del mondo, poiché, tra pestilenze e divieti della municipalità puritana, l’ambiente teatrale era a continuo rischio di chiusura. Ma, ancora una volta, dietro l’apparente irrazionalità di quel trasferimento emerge una possibilità molto concreta e logica: quella di una fuga. Giacché proprio in quel periodo la famiglia Arden cadde in disgrazia in seguito a una «congiura» cattolica, la stessa che travolse Edward, e tutti i parenti furono inquisiti dal governo. Per secoli la tradizione volle darci a bere una fuga in seguito a una caccia di frodo… Ma andiamo, siamo seri. Se fuga fu, fu da qualcosa di molto più grosso e pericoloso.
    Da chi andò William, una volta a Londra? Probabilmente cercò la protezione di un nobile filocattolico che, guarda caso, aveva stretti legami con le famiglie ricusanti del Lancashire. Peccato che il nobile in questione, Ferdinando Lord Strange, desse fastidio a qualcuno molto in alto e fosse eliminato senza tanti complimenti. Da chi? Dal governo, suggeriscono gli studiosi alla luce degli studi più recenti. Fatto sta che Shakespeare dovette cercare la protezione di qualche altro… nobile cattolico: il conte di Southampton, rampollo della famiglia dei visconti di Montague.

    Opere intrise di allegorie
    Montague? Sì, è proprio il nome inglese dei «Montecchi», la famiglia di Romeo. Interessante, allora, individuare un possibile riferimento ambiguo alla regina stessa in un brano dell’apparentemente innocente Romeo e Giulietta. Dalla sua postazione sotto il balcone, infatti, Romeo invoca l’amata e la paragona al sole (2.1, 46-51):

    Arise, fair sun, and kill the envious moon,
    Who is already sick and pale with grief
    That thou, her maid, art far more fair than she.
    Be not her maid, since she is envious.
    Her vestal livery is but pale and green,
    And none but fools do wear it; cast it off!

    «Sorgi, fulgido sole, e uccidi la luna invidiosa / che è già malata e pallida di dolore / perché tu, sua damigella, sei molto più bella (fulgida) di lei. / Non essere sua damigella perché è invidiosa. / La sua vestale livrea è pallida e verde / e la indossano soltanto i folli: gettala via!».
    Perché Romeo, innamorato, ce l’ha tanto con la luna, che di solito degli innamorati è complice? Illuminante è il fatto che essa fosse un simbolo assolutamente ricorrente e ormai scontato nientemeno che della regina, Elisabetta «la grande», la Regina Vergine, nella veste di Diana, Cinzia, eccetera. Peccato che, a differenza di quelle, ella non fosse immortale né eternamente giovane. In quel periodo aveva oltrepassato i sessant’anni e, vero, era invidiosa della bellezza delle giovani damigelle di cui si circondava. Ancora più interessante è il fatto che una di esse fosse da poco stata resa gravida proprio dal conte di Southampton. A convalidare l’allegoria, qualora il pubblico non se ne fosse accorto, abbiamo la livrea «pallida e verde» della luna: quella della regina era bianca e verde. Per questo, a titolo di foglia di fico, l’aggettivo «pale» fu in seguito sostituito con «sick», malaticcio. La pericolosità del messaggio si estende, come al solito, su vari livelli: semplice satira, con la bellezza della giovane esaltata di fronte all’avvizzimento e all’invidia della sovrana; vera e propria sovversione, d’altro canto, se si considera che la giovane è invitata a «uccidere» la – già moribonda – luna e, in ogni caso, a non servirla.
    Passiamo a qualche altro indizio nelle opere. Perché, per esempio, Shakespeare infarcisce i drammi classici di elementi anacronistici come abbazie, chiese, campanili, monasteri? Nella Commedia degli errori, per dirne una, un’abbazia accanto ai «fossi» fa da riferimento topico al luogo di un’esecuzione. Ha una certa importanza, come si scoprì negli anni Trenta, che lo scenario fosse esattamente lo stesso accanto al primo teatro in cui Shakespeare lavorò: lì fu giustiziato un sacerdote cattolico per il solo fatto di essere tale. Tributo a un martire?
    I sacerdoti erano braccati dal regime e automaticamente colpevoli di alto tradimento per la loro semplice presenza su suolo inglese: è quanto accade allo sfortunato mercante degli Errori: in questo senso è di una certa rilevanza che «mercante» fosse una parola in codice per «missionario». Ovviamente i riferimenti erano molto più espliciti per chi li sapeva riconoscere, mentre potevano passare quasi inosservati a occhi disattenti o a orecchie profane.
    Ritroviamo riferimenti ai sacerdoti, e alla barbarie loro inflitta dal regime, nel Mercante di Venezia, in cui la pena del cuore strappato era anche troppo realistica e applicabile al quotidiano. Soprattutto, il missionario braccato per cui «nessun porto è libero» è Edgar nel Re Lear, costretto a travestirsi da povero demente per sfuggire alla cattura. Nello stesso dramma abbiamo una delle scene più agghiaccianti dell’intero canone: la tortura e l’accecamento (senza processo) dell’anziano duca di Gloucester, falsamente accusato di tradimento. Tale accusa, in Shakespeare, è solitamente riservata a personaggi innocenti, i quali, anzi, sono i più fedeli in assoluto e disposti a pagare la loro fedeltà con la vita. Fondamentali, a questo punto, gli studi accademici che hanno rintracciato quanto l’intero canone sia pregno dell’influsso di scrittori gesuiti, soprattutto dei padri Robert Persons e Robert Southwell.
    Leggendo tra le righe, gli elementi sovversivi si fanno via via più fitti, persino nelle commedie, persino in quelli che sembravano innocenti poemetti classicheggianti, persino in alcuni dei Sonetti. Nella Lucrezia, addirittura, si dipana non una storiella di intrattenimento ripescata dai libri di scuola, ma una pericolosa allegoria delle violenze inflitte al Paese da re Enrico VIII in persona (riprese poi un po’ ovunque e in modo particolarmente chiaro nel Racconto d’inverno); nella Venere, la seduzione politica della corte elisabettiana a danno dei giovani nobili provenienti da famiglie cattoliche. E via di questo passo. Stupiscono alcuni temi ricorrenti che, se riscontrati in opere isolate, possono non destare particolari sospetti, ma che diventano messaggi chiarissimi proprio per la loro ricorrenza lungo tutto il canone, dalle opere giovanili a quelle mature, dalle commedie alle tragedie, ai drammi storici, ai romances. Parliamo dell’esilio dei buoni, del diritto al tirannicidio e, soprattutto, dell’invasione straniera (spesso guidata da quegli stessi esuli «rinnegati») come unico rimedio per salvare un Paese ferito e oppresso dai suoi stessi governanti.

    La tradizione: morì papista
    Qui il terreno si faceva davvero caldo per il nostro drammaturgo e per la sua compagnia: tanto che una volta, addirittura, furono inquisiti dal governo per la parte che un loro dramma aveva avuto nell’incoraggiamento di una congiura di palazzo. Parliamo del Riccardo II e della congiura di Essex, del 1601. La paura avrebbe dovuto ammutolirlo; Shakespeare invece procedette direttamente a rappresentare l’Amleto, infarcendolo di riferimenti obliqui all’intera faccenda, oltre che di rimpianto per il bel tempo andato, dove le anime del Purgatorio chiedono aiuto ai vivi. Sarà anche stato sostenuto da ambienti cattolici importanti, ma certo la sua audacia è sorprendente.
    Finché, nel 1610, Shakespeare fu pubblicamente accusato, nero su bianco, di essere stato in combutta con il nemico numero uno del regime, padre Persons. L’accusa non ebbe conseguenze penali, ma non sarà stato un caso, forse, se egli si ritirò dalle scene l’anno seguente, al culmine della carriera, senza un’apparente spiegazione.
    Ma perché, due anni dopo, quando ormai non stava più a Londra, fece il suo primo e unico acquisto di un immobile in quella città per non abitarvi mai? Perché cedette quella porzione di palazzo, la Blackfriars Gatehouse, a un oscuro fittavolo per un prezzo simbolico?
    Tutto diventa molto più chiaro quando si scopre che il suddetto palazzo era un rifugio per sacerdoti e ricusanti braccati dal governo, i quali avevano forse il compito di ripagarlo pregando per la sua anima. Magari proprio per questo Prospero, il protagonista della Tempesta, si congeda dal suo pubblico augurandosi che «la loro indulgenza lo renda libero» (cfr Temp., ep. 20).
    Le voci non mollarono la presa neppure dopo la morte: a fine Seicento il reverendo anglicano Davies, lo stesso che addusse la caccia di frodo come motivo della fuga a Londra, dichiarò che Shakespeare «morì papista». Certo che morì papista: perché era rimasto tale per tutta la vita. Nonostante tutto il Sette e l’Ottocento si siano fatti in quattro per cancellare quella “macchia” dalla sua reputazione e per trasformarlo nel paladino del sistema.
    Con tutto questo, ben inteso, il mistero del suo cuore rimane, altrimenti non sarebbe Shakespeare. Ma molte tessere del puzzle scivolano al proprio posto, molti nodi vengono al pettine e il Bardo dell’Avon è sempre più «uno di noi». Paradossalmente, sempre più «romano» e sempre meno «britannico».



    Chesterton e il miracolo del quotidiano
    di Redazione
    Il convegno su Chesterton Common sense day, la paradossale bellezza del quotidiano, all'Oratorio San Filipppo Neri di Genova, ha visto una sala gremita di universitari e liceali. Ad introdurre Guido Milanese della Cattolica, direttore del Gruppo Vocale Ars Antiqua che coltiva il canto gregoriano con appuntamenti in oratorio tra febbraio e aprile. Con una prima interpretazione di senso comune ha sottolineato la positività della crisi nel far scoprire la vacuità di fondamenti creduti sicuri come produttività e monetizzazione d'ogni atto, mentre Chesterton si batteva per la capacità di ognuno nel dar senso alla vita: valore mai riducibile al farsi guidare da altri.
    Poi Emilio Biagini, conoscitore di molte lingue e preside della mattinata, presenta Michael Aeschliman, primo relatore, (già professore all'Università di Boston, autore di un testo sullo scientismo). Biagini traduce alcuni «calembour» di Chesterton poichè il bostoniano per farli risaltare parla in inglese misto ad italiano. Aeschliman insiste sull'affetto, in Usa e Canada, per l'inglese Chesterton: «Gli americani lo amarono perchè non li considerava come dei “senza cultura”. Fu un democratico, vicino al concetto di sussidiarietà, voleva facilitare l’accesso alla terra dei contadini in quanto la piccola proprietà rende liberi. Antimperialista, patriota, rivendicò all'Inghilterra, in crisi dopo l'età vittoriana, la gloria delle radici latino-cristiane».
    [Le stesse radici alle quali si richiamò Winston Churchill, nel suo messaggio indirizzato a Mussolini il 16 maggio 1940, un messaggio personale che era un appello accorato per evitare la guerra:
    “Ora che ho assunto l'ufficio di Primo ministro e di ministro della Difesa torno con la memoria ai nostri incontri di Roma e sento il desiderio di rivolgere parole di buona volontà a Voi come capo della nazione italiana, attraverso quello che sembra divenire un baratro sempre più allargantesi. E' troppo tardi per impedire che scorra un fiume di sangue fra il popolo italiano e quello britannico?
    Non c’è dubbio che entrambi possiamo infliggerci gravi danni e massacrarci duramente, oscurando il Mediterraneo con la nostra lotta. Se Voi così deciderete, bisogna che sia così, ma io dichiaro che non sono mai stato nemico del popolo italiano, né mai sono stato avversario nel mio cuore di colui che dà le leggi all’Italia.
    Sarebbe fuori luogo fare previsioni sul corso della battaglia che ora divampa in Europa, ma sono sicuro che qualunque cosa possa accadere sul continente europeo, l’Inghilterra combatterà sino alla fine, anche se completamente sola, come abbiamo già fatto altre volte. Io ritengo anche, con qualche buon motivo, che saremo aiutati in maniera crescente dagli Stati Uniti, e, anzi, da tutte le Americhe.
    [Affermazioni profetiche, come profetiche appaiono quelle contenute negli altri discorsi di Churchill di quel periodo




    ]
    Vi prego di credere che è senza alcuno spirito di debolezza o di paura che io Vi rivolgo questo solenne appello DI CUI RIMARRA’ MEMORIA.
    Attraverso tutte le epoche, sopra tutti gli altri richiami, ci giunge il grido che gli eredi comuni della civiltà latina e cristiana non debbono affrontarsi l’un l’altro in una lotta mortale. Ascoltatelo, Ve ne scongiuro con tutto l’onore e tutto il rispetto, prima che lo spaventoso segnale sia dato.
    Esso non sarà mai dato da noi.” ]
    Quindi Edoardo Rialti, docente di Letteratura inglese e francese a Firenze, collaboratore del Foglio, delinea i personaggi negativi dei romanzi di Chesterton: l'ateo contro il credente di Ortodossia (il capolavoro), il ladro gentiluomo contrapposto a Padre Brown, e soprattutto Domenica, protagonista de L'Uomo che fu Giovedì, capo del consiglio supremo anarchico come della polizia. Domenica è la Natura, divisa tra conservazione delle cose e rivoluzione come voglia di cambiamento. Era questo il romanzo preferito di Mussolini, intervistato bene da Chesterton, che invece sbeffeggiò, nel 1937 del consenso, Hitler come il «gigante dai boccoli d'oro».
    Poi intervengono giovani cattolici agguerriti che hanno abbracciato la battaglia di fede di Chesterton, facendone un nostro contemporaneo. Elisabetta Sala (Università Cattolica) ne ripercorre le radici cattoliche in Inghilterra: da Chaucer a Thomas More, allo stesso Shakespeare, che ora la critica riconosce come cattolico.
    Ubaldo Casotto (giornalismo sociale con trasmissioni in Rai, primo assunto da Ferrara al Foglio, poi vicedirettore al Riformista), non riesce a giungere da Roma e la sua relazione è letta a due voci da Padre Mauro de Gioia e dal professor Sanguineti. Punta al «miracolo» della realtà che ci rimanda all'autore. Accosta Chesterton a Pasternak che affermò: «L'antipotere è l'uomo vivo».
    «Buon senso, buona vita, buon umore: Benedetto XVI e Chesterton» è la relazione conclusiva, di Andrea Monda, con riferimento a una frase di Chesterton citata dal Papa in un'intervista: «Credere ci fa volare come angeli», (l'umorismo ci permette d'uscire da noi stessi, il demonio è caduto per eccesso di gravità). Di Monda, che ha lasciato il posto sicuro in banca per insegnare religione nelle scuole, uscirà a marzo un libro su Benedetto XVI e libro, L'anello e la croce, è diventata la sua tesi di laurea su Tolkien.
    Chesterton e il miracolo del quotidiano - Genova - ilGiornale.it


  2. #12
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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Roger Scruton
    Del buon uso del pessimismo (e il pericolo delle false speranze)
    La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Ed è proprio su di esse che si concentra in questo libro la critica radicale di Roger Scruton.
    La moderna storia europea è stata funestata da tragedie incomparabili (su tutte il nazismo, il fascismo e il comunismo). Responsabili di questi orrori sono, secondo l’autore, gli idealisti e utopisti di destra e di sinistra, che, ignorando la natura umana, immaginano un futuro inevitabilmente radioso, credono nel ritorno a un felice stato di natura (che non è mai esistito), considerano l’utopia una forza positiva della storia.
    Questi «ottimisti senza scrupoli» hanno in comune il desiderio di imporre, spesso con la violenza, la propria visione del mondo basata su false speranze di palingenesi illusorie: è il caso dei giacobini francesi, dei rivoluzionari russi, dei nazisti, dei comunisti, dei terroristi islamici e, in una dimensione meno tragica ma altrettanto «distruttiva», dei burocrati dell’Unione Europea, degli economisti, dei sociologi, dei politologi e dei vari esperti votati al benessere e al miglioramento dell’umanità.
    Del buon uso del pessimismo costituisce, fin dal titolo, un invito ad adottare un atteggiamento serenamente pessimistico, non dettato da una visione tetra della condizione umana, ma dalla consapevolezza dei vincoli e dei limiti della natura dell’uomo, che rendono impossibile ogni pianificazione e trasformazione idealistica della società.
    La forza della civiltà europea non risiede nel falso idealismo. Per scongiurare i pericoli insiti nell’ottimismo occorre riscoprire i suoi due grandi valori fondanti: il perdono, che ci viene dalla tradizione cristiana, e l’ironia, che dobbiamo invece a quella greca.
    «In questo libro esamino quella forma di ottimismo che Schopenhauer ha definito “perversa” o “senza scrupoli” (beden-kenlos), e illustro il ruolo svolto dal pessimismo nel restituire equilibrio e saggezza alla condotta umana. Non condivido la cupezza assoluta di Schopenhauer, né la filosofia della rinuncia che egli ne deriva. Non ho dubbi sul fatto che san Paolo avesse ragione nel raccomandare fede, speranza e carità (agape) in quanto virtù che indirizzano la vita al Bene più grande. Ma non ne ho nemmeno sul fatto che la speranza, separata dalla fede e non temprata dall’evidenza della storia, sia una risorsa pericolosa, una risorsa che minaccia non solo chi la coltiva, ma anche tutti coloro che subiscono gli effetti di queste illusioni.»

    Ora gli eurocrati capiranno che le culture non sono tutte uguali
    Roger Scruton
    Il mio primo viaggio in Grecia risale a cinquant’anni fa, ci arrivai dall’Inghilterra facendo l’autostop insieme a un compagno di scuola. Andavamo in cerca della mitica terra di Omero, Platone, Tucidide. Ovviamente, non la trovammo…
    Era un paese che doveva ancora entrare nel mondo moderno. I suoi ritmi erano quelli dei villaggi contadini, i suoi diritti e doveri quelli della campagna, un paese dove ogni momento era buono per abbandonarsi al sole, al mare, a una siesta. Era semplicemente inconcepibile, agli occhi di un anglosassone, come un tale paese potesse essere valutato con gli stessi parametri con cui si valutano la Francia o la Germania, o che potesse avere un qualche ruolo in un gruppo economico di cui quei due paesi avessero fatto parte, tantomeno su base paritaria.
    Un giorno restai senza soldi e mi misi in fila a un ospedale di Atene dove si poteva donare sangue in cambio di qualche dracma. Il dottore di turno balzò dalla sedia per dare il benvenuto all’alto ragazzo dai capelli rossi che entrava nel suo studio; poi mandò via i due uomini – entrambi mingherlini – che erano entrati con me, ritenendo che il loro sangue non servisse a nulla. I nomi dei miei sfortunati “rivali” erano Eracle e Dioniso. Si trattò dell’unico segno colto in quella mia prima visita, della discendenza di quella gente dai Greci ai quali dobbiamo la nostra civiltà.
    Non ho alcun desiderio di tornare in Grecia, ho paura di quello che i turisti e la speculazione hanno potuto farle. Però so che, qualunque cambiamento ci sia stato, è impensabile che il paese abbia avuto uno sviluppo pari a quello della Francia o della Germania. E’ ovvio che il paese si sia modernizzato, che siano state costruite strade e che le città siano cresciute, che il turismo abbia spazzato via le antiche, buone maniere contadine. C’è stata anche la rivoluzione sessuale – probabilmente più tardi del 1963, data indicata da Philip Larkin - ma con gli stessi, devastanti effetti sul matrimonio e la famiglia. Non c’è dubbio che le antiche canzoni siano andate perdute, o che le insegne delle multinazionali abbiano conquistato tanti negozi in tutto il paese. Ma è altrettanto sicuro che la cultura locale non è scomparsa.
    La gente continua a considerare il tempo libero più importante del lavoro, i debiti come una cosa secondaria e i creditori come qualcosa di ancor più remoto nella propria rete di rapporti sociali. Se non avete imparato queste cose nei vostri viaggi in Grecia, le potete comunque apprendere leggendo Kazantzakis, Ritzos, Seferis, o qualunque altro scrittore di quel felice momento della letteratura ellenica che coincise con il crollo dell’Impero ottomano. Chiunque tenga gli occhi aperti e sia capace di un giudizio sereno capirebbe che la Grecia è il prodotto di una cultura particolare, e una tale cultura, comunque si sviluppi, non potrà che portare il paese in una certa direzione, ad un certo ritmo.
    Ma sembra che gli architetti dell’euro che non sapessero nulla di tutto ciò. Del resto, se l’avessero saputo, avrebbero compreso anche che l’effetto di imporre una stessa valuta a Grecia e Germania avrebbe incoraggiato la prima a trasferire i suoi debiti alla seconda, nella convinzione che più ci è lontano il creditore, meno stringente è l’obbligo a pagare. Avrebbero dovuto sapere che, se la classe politica greca può usare il debito pubblico per pagare famiglie, amici e dipendenti e per comprare i voti che le servono per restare al potere, allora è proprio così che si comporterà. Avrebbero riconosciuto che cose come leggi, obblighi e sovranità non hanno uno stesso significato andando dal Baltico al Mediterraneo, e che in una società abituata a un governo cleptocratico la via d’uscita più ovvia da una crisi economica è la svalutazione – vale a dire, rubare equamente da tutti.
    Perché mai gli architetti dell’euro non erano al corrente di tutte queste cose? La risposta risiede nel profondo del progetto europeo. Un progetto che celava un programma segreto: distruggere, attraverso una lunga negazione, quella realtà fattuale nota come “nazionalità”. E dato che le nazioni sono portatrici di cultura, un tale progetto implicava, alla fine, negare l’importanza delle culture nazionali. I fatti culturali sono sempre stati trascurati dagli eurocrati. Se si fossero permessi il lusso di considerarli, avrebbero corso il pericolo di rendersi conto che il loro progetto era irrealizzabile. Peraltro, una tale prospettiva non sarebbe apparsa poi così tremenda se solo ci fosse stata un’altra ipotesi da seguire. Però – come tutti i progetti radicali – quello dell’Unione europea venne concepito senza un “piano B”. Attorno al progetto dell’euro si è accumulata un’enorme massa di pretese, i cui confini vengono strenuamente difesi dall’attuale classe politica, che tenta di rintuzzare i costanti attacchi inevitabilmente sferrati dalla realtà delle cose. Ma questa mole di pretese è una piaga purulenta nel cuore del sistema, e un giorno esploderà, sommergendo tutto e tutti con il suo veleno…
    Fu Marx a sostenere che il fondamento dell’ordine sociale, il meccanismo che lo muove, risiede nella struttura economica, e che la cultura non è altro che una sovrastruttura derivata, fatta di istituzioni e ideologie, le cui fondamenta poggiano sull’economia. Dunque è a Marx che dobbiamo questo primo, disastroso tentativo di organizzare la società esclusivamente in base a principi economici, lasciando la cultura a se stessa. Invece è la cultura che determina l’economia, non il contrario; e se c’è bisogno di una prova, basti guardare ai risultati dell’esperimento marxista.


    Esiste un Occidente cristiano? Oh, yes... please
    Andrea Sciffo
    Approdati in America, incontriamo T. S. Eliot, quasi una figura mitologica ancipite, uomo di due mondi, inglese e statunitense, prima anglicano poi cattolico, avanguardista e nonostante ciò tradizionale: negli States egli lasciò non una "scuola", bensì un'impronta.



    Tra quanti liberamente, ma profondamente, a lui si rifanno c'è un poderoso scrittore e pensatore politico del Michigan, Russell Kirk.
    E poi la grandissima, scandalosa scrittrice del sud, Flannery O'Connor: una pellegrina sicura e incolume nel "territorio del diavolo".
    Russell Kirk (1918-1994, di origini scozzesi) esibisce un'opera ricchissima e completamente ignorata presso gli intellettuali nostrani: nei decenni scorsi solo Mario Marcolla ne ha parlato, prima che uscisse Le radici dell'ordine americano.



    Docente universitario di Dottrine politiche, abbandonò l'insegnamento per dedicarsi completamente al progetto di andare alle radici del pensiero conservatore e di riproporlo nel presente, quale alternativa agli errori delle rivoluzioni.
    Redigerà pagine fondamentali: il volume The Conservative Mind - from Burke to Eliot (1953)



    è caposaldo che conferma il motto francese "tout conservation est un acte de sauvetage".
    Spetta alla tradizione fare salvataggio di ciò che di buono sia nel passato, offrirlo al presente in vista del futuro. Kirk fece una ricognizione intellettuale tra i nemici delle verità perenni e della naturale costituzione della persona, per mostrare che costoro, negando la natura creata dell'uomo, introducono l'oppressione benché in nome di "Libertà, Uguaglianza e Fraternità".



    "Lo Stato romano non dimentica mai che la famiglia era il fondamento di tutto l'ordine sociale civile. Questa attività di salvaguardia e sostegno della famiglia passa dal morente Stato romano alla Chiesa universale emergente. Roma è il potere che trattiene, scrisse il cardinale Newman;



    il potere che, nei tempi antichi e anche ai giorni nostri, frena gli uomini e le donne dall'indulgere verso quegli appetiti che, se si realizzasse la loro supremazia, distruggerebbero il genere umano. La famiglia è un'istituzione di controllo, di un controllo portatore di vita contro quanti, in nome dell'emancipazione, vorrebbero renderci tutti orfani. Quando il potere frenante della Chiesa di Roma verrà spezzato, dichiarava Newman, allora giungerà l'Anticristo.



    Fulberto di Chartres, nei tempi medievali, dichiarava che noi moderni siamo nani in piedi sulle spalle di giganti: vediamo più lontano di quanto facciano i giganti, ma solamente perché siamo saliti sulle loro spalle. Quei giganti sono gli uomini sapienti delle epoche classica e cristiana. Da loro ereditiamo l'ordine dell'anima e l'ordine della cosa pubblica. Se pensiamo di liberarci del passato saltando giù dalle spalle di quei giganti, cadremo nel fossato dell'irrazionalità". (da Stati Uniti e Francia: due rivoluzioni a confronto)
    L'autobiografia di Russell Kirk segue l'avventura attraverso il Novecento di un uomo "giunto a concludere che una civiltà non può sopravvivere a lungo alla morte della fede in un ordine trascendente": parlando di sé settantaduenne, lo scrittore ammetteva che "nessuna dottrina è più confortante dell'insegnamento sul Purgatorio, in parte dono di Gregorio Magno alla Chiesa: la via purgativa concede l'opportunità di espiare quanto si sia lasciato scorrere via, una parte preziosa della vita, valorizzando l'attimo presente".



    E l'attimo presente è anche il regno di una statunitense che non fu yankee, la scrittrice Flannery O'Connor (1925-1964), di tempra vivissima, sudista di origini irlandesi in un universo protestante ("Proprio perché cattolica, non posso permettermi di essere meno di un'artista"), morta giovane di malattia inguaribile: lascia due romanzi e due dozzine di racconti, graffi indelebili di narrativa.
    Chi leggesse la O'Connor tenga conto del suo stile deciso, reciso, indelebile, poiché "lo scrittore di narrativa spiega il meno possibile".
    A far sobbalzare è il libriccino Nel territorio del diavolo (Theoria,1993) nel quale l'autrice ricorda che la miniera dell'arte è il tessuto dell'esistenza circostante: un bagno di realtà per gran parte degli artisti contemporanei, vittime dell'irreale.
    "Argomento della mia narrativa è l'azione della Grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo, e l'astuzia più grande del diavolo, ha detto Baudelaire, è convincerci che non esiste".
    La O'Connor pone finalmente il dilemma al livello giusto, non sul piano basso e soffocante della coscienza individuale, ma sulla scena del destino: "Il romanziere cattolico crede che il peccato distrugge la libertà; il lettore moderno crede che sia compiere il peccato il modo di ottenerla. Non c'è molta possibilità di intesa tra i due".
    Ora come sempre si tratta di acconsentire o di cedere, nessuno deciderà al nostro posto, e la scrittura deve esasperare la scelta, non edulcorarla: "Il romanziere di impegno cristiano troverà nella vita moderna storture che lo disgustano, e il suo problema sarà di farle apparire come storture a un pubblico abituato a considerarle naturali". Flannery O'Connor conclude così, con amore severo e indulgente verso il lato grottesco del nostro essere uomini.
    Esiste un Occidente cristiano? Oh, yes... please


  3. #13
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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Preghiera
    di Camillo Langone
    Seppellitelo con uno dei tabarri che gli piacevano tanto. Quindici giorni fa, Sandro Zara del Tabarrificio Veneto mi ha detto che il suo principale cliente era proprio Lucio Dalla: ne comprava tanti, sia per indossarli che per farne dono, sicuro di rimanere impresso più di chi fa regali qualunque.
    Seppellitelo con il suo rosario fra le mani, lui che i miei amici vedevano sempre a Messa, a San Domenico la domenica sera, oppure ai Celestini la mattina, o alle Tremiti d’estate (il rosario che gli aveva dato la mamma quando era partito con gli scout, mi raccontò).
    Seppellitelo con un modellino di Bologna, tipo San Petronio nelle pale d’altare, per quel suo verso, “nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino”, che mi ha fatto capire la città medievale, ergo cristiana, insomma la città per gli uomini e non per le macchine o per gli architetti, molto prima che incontrassi i libri di Pierluigi Cervellati e Marco Romano (un verso che andrebbe scritto a caratteri cubitali in ogni aula universitaria dove si insegna urbanistica).
    Seppellitelo piangendo tutte le lacrime del caso, perché un uomo a così tante dimensioni può risorgere ma non può rinascere.
    Preghiera del 2 marzo 2012 - [ Il Foglio.it › Preghiera ]

    E’ morto Lucio Dalla, cattolico senza riserve
    Il cantautore Lucio Dalla è morto, stroncato per un infarto a Montreaux, in Svizzera, dove si trovava per una serie di concerti. Tra tre giorni avrebbe compiuto 69 anni. Tra i suoi migliori lavori c’è da ricordare il brano “I.N.R.I.”, l’espressione dell’incontro con il Crocifisso risorto, di un’etica conosciuta e vissuta dal Lucio nazionale, testimoniata senza imbarazzo. Nel 2007 fu tra i protagonisti de “La Notte dell’Agorà” in occasione del grande raduno di Benedetto XVI con i giovani delle diocesi italiane a Loreto. Cantò “Se io fossi un angelo”, datata 1986. Cattolico da sempre, si avvicinò particolarmente alla Chiesa negli ultimi anni. Lui non la chiamava conversione: «Non sono un convertito perché credo in Dio da quando ero bambino». Frequentava la messa a San Domenico a Bologna, a pochi metri dalle Due Torri.
    Fin dal suo primo grande successo «4 marzo 1943», il protagonista si chiamava Gesù Bambino. In un’intervista per “Il Giornale” nel 2007, spiegò che il fatto che ci siano molti artisti cattolici (bolognesi) praticanti, come Luca Carboni, Biagio Antonacci, Paolo Cevoli… «credo che abbia a che fare con la creatività. Non ho mai pensato che dall’uomo potessero uscire risorse e fantasie che non dipendessero da un’apertura dell’anima verso le cose che non sono visibili».
    Disse anche di aver apprezzato molto l’ultimo libro del Papa, Gesù di Nazareth: «Mi ha colpito più di quanto immaginassi. È un libro potente anche se non mi trova d’accordo quando affronta le parabole cercando di dare una logica storica e teologica alle storie del Buon Samaritano e del Figliol Prodigo. Io sento il bisogno di interpretazioni più semplici. Invece mi è piaciuto quando parla del Discorso della Montagna, che assieme alla Crocifissione è il momento più straordinario del Vangelo».
    Per anni Dalla si esibì ai Festival dell’Unità e ai raduni comunisti-marxisti. Sempre nel 2007 volle chiarire la questione: «Non sono mai stato né marxista, né comunista. Se mi sono esibito alle manifestazioni di sinistra è perché sono un professionista: gli organizzatori mi hanno pagato ed io ho cantato. Punto. Non credo che un cattolico – perché io tale sono – debba rifiutare le offerte che gli vengono fatte solo per una questione ideologica».
    Apprezzò anche il messaggio del fondatore dell’Opus Dei, San Josemaria. Qualcuno interpretò male e lui rettificò dicendo che apprezzava il messaggio ma non era iscritto al noto movimento ecclesiale.
    Risposte anche a domande su tematiche bioetiche: «Reputo l’aborto, ad esempio, una cosa negativa. La vita va difesa sempre e comunque, dal suo momento inziale sino alla fine naturale».
    Ancora sul Papa: «Benedetto XVI ha dimostrato ancora una volta di essere un grande e fine intellettuale. Qualche ‘bello spirito’ vuol farlo passare per nemico della ragione, ma il livello della sua catechesi è così elevato da sfuggire a quelle menti che ricercano, nel mondo attuale, solo l’insulto. Il Papa afferma, saggiamente, che fede e ragione devono e possono essere amiche e che non sono affatto categorie contrapposte. Io la penso come lui». Se dovesse dedicargli una canzone avrebbe scelto «senza dubbio la mia ‘Inri’». L’esibizione del 1997 davanti a Giovanni Paolo II la definì invece: «uno dei più grandi momenti della mia vita».
    Il quotidiano “Repubblica” in un articolo nel 1994 riportò alcune frasi di Dalla: «Sono cristiano, sono cattolico, credo fermamente in Dio e professo la mia fede sempre. La fede cristiana è il mio unico punto fermo, è l’unica certezza che ho. La fede è una grande certezza in una società come la nostra che diviene ogni giorno più confusa, più enigmatica. La nostra società moderna ha un grande bisogno di fede. Nelle mie canzoni ci sono molti valori cristiani. Metterei l’accento sulla parte umanistica della vita, quello che cerco attraverso le mie canzoni è invitare ad aumentare la propria coscienza spirituale. Ho trovato una particolare forza nelle parole dei Salmi, non lasciano indifferenti».
    Arrivederci Lucio, e grazie.
    E’ morto Lucio Dalla, cattolico senza riserve | UCCR

    La morte di Lucio Dalla. Il suo rapporto con la fede: intervista con padre Bertuzzi
    Sulla personalità di Lucio Dalla, Antonella Palermo ha raccolto la testimonianza di padre Giovanni Bertuzzi, domenicano, direttore del Centro San Domenico a Bologna, che conosceva bene il cantante:
    R. – Sì, in convento lo conoscevamo tutti perché abitava qui vicino e frequentava la nostra chiesa. Quando era a Bologna, veniva sempre qui da noi, a Messa, ed era amico di diversi domenicani. Lo abbiamo quindi sempre avuto vicino. Partecipava anche ad una missione popolare della nostra comunità, perché sentiva l’appartenenza non solo come cristiano ma anche come cattolico e veniva qui a vivere i Sacramenti nella nostra chiesa.

    D. – Come lo ricorda, lei?

    R. – Lo ricordo come una persona molto disponibile, aperta, gioviale. Io, comunque, lo conoscevo fin da ragazzo perché sono bolognese e lo conoscevamo prima ancora che io entrassi in convento; allora, lui qui faceva parte di una leggendaria “dixie band”, quel gruppo jazz a cui appartenevano anche Renzo Arbore e Pupi Avati: loro hanno incominciato a suonare insieme – lui suonava il clarinetto – e ha sempre avuto una grande sensibilità musicale. Io l’ho apprezzato sempre forse più come musicista che come cantante, ma aveva anche una gran voce: questo sì!

    D. – Ricorda qualche aneddoto, qualche episodio particolare di quei tempi?

    R. – Già allora noi lo apprezzavamo, eravamo suoi fans come bolognesi: lui, Gianni Morandi e Francesco Guccini … C’è un aneddoto che posso raccontare: io celebravo la Messa, un giorno, era una Messa per gli studenti, con degli studenti che cantavano durante la Messa. E a questa Messa partecipava anche Lucio Dalla e gli studenti che cantavano avevano, secondo me, stonato abbastanza … Alla fine, in sacrestia, dissi: “Guardate che, se cantate così, Lucio Dalla non vi scrittura!”. E invece, arrivò Lucio Dalla in sacrestia: era stato colpito dalla voce di uno di questo studenti e lo chiamò a cantare in un suo disco rimasto famoso, perché lui, alla fine di questo disco, ha fatto eseguire da questo mio studente il canto “Vieni, vieni Spirito d’amore”, quel canto famoso… Questo è un episodio abbastanza curioso, perché io non avevo riconosciuto questo talento musicale in questo studente, mentre lui era rimasto colpito dalla sua voce.

    D. – Come si esprimeva la sua spiritualità?

    R. – L’esprimeva con la pratica religiosa cattolica; l’esprimeva con molta generosità e disponibilità nei confronti degli altri. Non c’era alcuna difficoltà a comunicare con lui: appena lo si incontrava, ti salutava con grande affabilità e ci teneva a stabilire un rapporto di dialogo con tutti. Quello che mi ha sempre colpito in lui è che non aveva alcuna riservatezza o altezzosità per quello che era, un cantante famoso; quello che mi ha sempre colpito è stata la sua semplicità e la sua umiltà. Per esempio il padre Michele Casali, che è stato il fondatore del Centro San Domenico, che adesso io dirigo, mi diceva che la famosa canzone “Caro amico ti scrivo” l’aveva composta con lui in parlatorio: era andato a parlare con lui, perché si vedevano molto spesso… praticamente l’ha composta insieme a questo mio confratello!

    Lucio Dalla, l’ultima luna
    Nerella Buggio
    "Io credo che la morte sia solo la fine del primo tempo" (Lucio Dalla)
    E’ inevitabile che la morte, la morte improvvisa di una persona nota, di un artista che ha accompagnato l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza e l’avvicinarsi al declino di molti di noi venga commentata.
    Ognuno commenta come sa, perché la morte rende nudi.
    Lucio Dalla è morto in Svizzera a Montreux la città della musica, la capitale del Jazz. La città dove ci sono gli studi di registrazione che furono acquistati dai Queen, dove la statua Freddie Mercury si specchia sul lago verso il quale guarda.
    Io banalmente appena saputo della morte di Lucio Dalla non ho trovato nulla di meglio da dire: “ieri sera mio marito era a cena a Montreux” notizia vera ma inutile, credo che un buon psicologo forse direbbe che si cerca di collocare la propria vita nei dintorni della morte. Come quando alla notizia della morte improvvisa di qualcuno si dice: - ma come se ci ho parlato ieri?
    Poi inevitabilmente mi sono tornati alla mente episodi legati alle sue canzoni, perché i poeti sanno far tornare alla mente profumi e odori, malinconie e struggenti ricordi.
    C’era “l’ultima luna” nell’aria l’anno in cui decisi che quel ragazzo sorridente e caparbio poteva essere “il mio uomo per sempre”.
    Il nostro amico Giovanni che consapevole della sua somiglianza con il cantante lo imitava, girando per il salone di un'affollata festa di capodanno e cantando - Attenti al lupo -
    Il nostro vecchio impianto stereo, del quale giovani sposi andavamo orgogliosissimi e quei grossi LP che diffondevano musica nell’aria ad alleviare la fatica delle pulizie di fine settimana.
    I viaggi in auto con i bambini cantando a squarciagola. I poeti sono un grande dono, entrano nelle pieghe della vita dei comuni mortali e quando se ne vanno ti obbligano a una passeggiata tra i sentieri del ieri.

    Un amico mi ha mandato via mail una intervista fatta a Lucio Dalla nel 2009, sincero a tratti struggente e ingenuo il suo modo di rispondere alle domande raccontando la vita, come del resto faceva con le sue canzoni. Mi piace condividerla con voi.
    Il grande cantautore si “confessa” in questa intervista

    “GIULLARE DI DIO”, L’ULTIMO STRAPPO DI LUCIO DALLA
    Dopo aver musicato i Salmi ed avere cantato davanti a due papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Lucio apre il suo animo e parla del suo mondo spirituale. “Sono credente e praticante, non mi perdo una messa e giro col rosario in tasca". Un ritratto inedito di uno dei “mostri sacri” della canzone italiana.

    Sei d’accordo su quanto ha detto Benedetto XVI che l’arte, quindi anche la musica, è “epifania della bellezza di Dio”?
    “Assolutamente. A prescindere dal fatto che l’abbia detto il Papa. Io sono convinto di questo, perché è uno dei regali che il cielo fa alla nostra anima. Questa e’ una delle fonti della nostra ispirazione”.

    Sei “esperto” di Papi. Hai cantato al concerto eucaristico di Bologna davanti a Giovanni Paolo II. Il primo concerto rock con un Papa presente. C’erano anche Celentano, Morandi, Bob Dylan.
    “Quello fu uno dei grandi incontri della mia vita . Io, se ricordi, ero uno dei co-produttori dell’evento e suonai con Petrucciani…”

    Quel concerto fu anche un capolavoro di Bibi Ballandi.
    “Si’, e la serata fu straordinaria anche per le emozioni che ci trasmise. Ho ancora negli occhi lo scambio di saluti tra Giovanni Paolo II e Michel Petrucciani. Ci fu un abbraccio a distanza.





    Ho cantato per Papa Wojtyla in San Pietro e alla Sala Nervi in Vaticano”.

    E sei riuscito a dirgli qualcosa?
    “Non molto. Mi sono stupito per l’affabilita’ del Papa nei confronti delle manifestazioni artistiche. Lui che aveva fatto l’attore , che aveva una bellissima voce come cantante. Stavo per musicare dei testi scritti da Karol Wojtyla. Io sono credente…”

    Credente ma forse non praticante…
    “No, sono assolutamente “praticante”, magari con sforzo, ma praticante”.

    Questa, perdonami, non me l’aspettavo.
    “Io non perdo una Messa, è l’unico obbligo – diciamo così – “tecnico” della mia fede. Fa parte del mio rapporto senza interruzione col mio credere”.

    Avevi gia’ fatto una cosa bellissima: musicare i Salmi. Nella tua carriera e’ un’impresa luminosa.
    “Noi veniamo da li’. E’ il nostro linguaggio. E’ stato un lavoro massacrante sulla lingua, sull’ethos spirituale dei Salmi. Oltretutto era musica inedita e la facevo trasportato dal grande pathos linguistico di quei versi, dalla loro profondita’ cosi’ anomala rispetto ad una societa’ come la nostra. Un lavoro che mi ha coinvolto in pieno”.

    Ho letto che sei stato intrigato anche dalle poesie di Alda Merini.
    “Si’, nel 2008 con Marco Alemanno ho realizzato un reading su “Francesco. Canto di una creatura” della Merini nello scenario suggestivo della Basilica Superiore di Assisi. Una esperienza ripetuta a Milano nella Basilica dei Frati Minori Cappuccini”.

    Le tue canzoni sono sempre canzoni molto evocative. Ecco, più che non la rima cuore-amore con una spruzzatina di sesso, ci danno atmosfere. Sono mondi, visioni della vita. Possiamo definirle così?
    “Anche secondo me. Non sono neanche punti di vista che sono una forma riduttiva, anche se precisa. Ho sempre cercato di interpretare l’aspetto più umano, più legato agli uomini, quindi, per forza di cose, legato a Dio. Io, personalmente, mi sento dentro un’ampolla che mi connette con l’esterno. Di notte, ad esempio, vado a concentrarmi sulla terrazza di casa mia a Bologna. Non c’e’ niente che mi divide dal cielo, neanche dal cielo che ho dentro…”.

    Hai spiegato come avviene quella che chiamiamo “ispirazione”, come nasce e si sviluppa. La tua e’ una musica di impegno sociale. Penso a “ Piazza Grande” del 1972, a Sanremo, dedicata mi pare ad un senzatetto. Sbaglio? E questa cifra e’ rimasta.
    “Se per caso dovessi zoppicare sarebbe un segno completamente diverso da un handicap. E’ il mondo degli altri la prima cosa che colgo. Non sono capace, neanche lontanamente, di rifiutare qualcuno, non sono insensibile verso chi soffre”.

    Prima togliamo i crocifissi, poi i presepi. E poi?
    “Io giro con il mio rosario da boyscout e, vicino al mio rosario da boyscout ho una stella di David. I segni rafforzano la convinzione e, soprattutto, credo che un segno così preciso e’ fondamentale nella nostra comunicazione, da Cristo in poi. Fa parte del nostro DNA, del nostro spirito. Quando Attila venne a Roma per metterla a saccheggio fu fermato da Papa Leone I che innalzava una croce grandissima. Gli unni si fermarono , memori del fatto che , quando pregavano, piantavano nel terreno le spade con l’elsa a forma di croce. Il simbolo e’ stato piu’ forte della vendetta e della sete di conquista; ha agito da deterrente. Attila non poteva combattere contro quel simbolo davanti al quale il suo popolo si prostrava. E giro’ il cavallo e se ne torno’ indietro. Per chi crede nello spirito di Dio fu un miracolo. Il linguaggio simbolico funziono’.”

    Ci stai abituando a tanti strappi. L’ultimo?
    “Ma sai, strappi fino ad un certo punto. C’è una correzione della mia strada, che non faccio da solo. Il mio cammino non è prescindibile dalla mia convinzione, dalla mia fede in Gesù. Certo, ho buttato per aria un mondo. Che Dio mi benedica!”.

    Il cinema ti piace. Nel futuro di Dalla , dopo quello di cantante, avremo quello di attore e regista?
    “Ho fatto molte regie - non di cinema – ma di teatro, di opera, penso alla “Tosca amore disperato “ con la grande orchestra dei Pomeriggi Musicali diretta dal maestro Beppe D’Onghia. Nell’archetipo c’e’ la fede come coraggio, come contributo al cambiamento del mondo. Ho composto tante musiche da film. Il mio grande sogno, e’ vero, è quello di scrivere la sceneggiatura di un film e magari di farlo”.

    Il ritratto che esce da questa conversazione mi lascia stupefatto. Chi avrebbe immaginato un Lucio Dalla così!
    (Dalla e’ emozionato, cambia voce). “Guarda, sono un uomo fortunato. La vera dinamica dell’uomo è questo processo di maturazione o di semplificazione del proprio “io religioso”. Non riesco a capire il fenomeno dell’ateismo, che non vuol dire vivere senza Dio, ma, in modo infantile, non pensarci, o vederlo dall’altra parte del fiume. E invece Dio è talmente dentro di noi. E’ una scoperta che possiamo fare tutti e che possiamo vivere nella sua leggerezza”.

    Potresti usare la frase di Sant’Agostino:”Il nostro cuore e’ inquieto finché non riposa in Te”.
    “Ah, non c’è dubbio! Ho anche l’ambizione di dire che qualche volta, Cristo, che lo sento vicino a me più di qualsiasi altra cosa, possa anche riposarsi o mettere un orecchio alle cose che faccio (ride)… per migliorarle, eh! .. mica per imparare !”

    Magari in prima fila per ascoltarti…
    “Spero proprio di si’!”


  4. #14
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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Scruton: senza nazione siamo perduti
    Dino Messina
    Anche i più convinti europeisti dovrebbero leggere il pamphlet di Roger Scruton, "Il bisogno di nazione", appena tradotto da Le Lettere con una bella introduzione di Francesco Perfetti (pagine 100, euro 10). Non tanto perché sia un libro brillante come il "Manifesto dei conservatori" uscito in Italia nel 2007, ma perché Scruton dice due o tre cose non trascurabili in difesa della nazione. Innanzitutto che non bisogna confondere la nazione con il nazionalismo, con le deviazioni patologiche che hanno portato nel secolo scorso a due guerre mondiali. Se è vero, sostiene Scruton, che fascismo e nazismo sono nati sul tronco del nazionalismo, è anche vero che senza nazioni democratiche come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti non sarebbe stato possibile ristabilire la libertà in Europa.



    La nazione, secondo Scruton, che segue le orme di Edmund Burke e del poeta Thomas Stearns Eliot, è il territorio del «noi», dove si afferma una comunanza di ideali, memorie, progetti, cultura. «Ma le fedeltà nazionali — si chiede il filosofo inglese — possono davvero resistere nel clima delle opinioni attuali?». Le élite intellettuali e politiche europee, a partire dalla Seconda guerra mondiale, hanno sviluppato una «particolare costruzione mentale» che li porta ad ammirare i regimi anti-occidentali, a «schierarsi con "loro" contro "noi"». Poiché si tratta dell’opposto della xenofobia, Scruton propone di definire questo atteggiamento «oicofobia», il ripudio dell’eredità e della casa, uno stadio attraverso cui passano molti adolescenti.
    Questo filosofo conservatore vede come fumo negli occhi il trasferimento di poteri dagli Stati all’Unione Europea. È convinto che, se non si pone un argine, le burocrazie sovranazionali finiranno con il soffocare le nazioni.
    CORRIERE DELLA SERA.it - Blog - Scruton: senza nazione siamo perduti. Dal blog La nostra storia di Dino Messina.

    Scruton: l’Occidente e la bugia della globalizzazione
    Lorenzo Fazzini
    Parafrasando un suo recente titolo, Roger Scruton è convinto che Onu, Ue, Wto e le varie agenzie istituzionali transnazionali siano "false speranze" (vedi il suo saggio Del buon uso del pessimismo, Lindau). Il filosofo inglese, noto per il suo profilo conservatore, sente ormai nell’aria Il bisogno di nazione (Le Lettere, pp. 98, euro 10) rispetto alla melassa globalizzante che sta cancellando differenze, culture, popoli, sovranità. Il docente dell’Institute for the Psychological Sciences (Virginia, Usa) risulta un no global di destra filosoficamente stimolante.

    Lei rilancia il ruolo della nazione di fronte allo strapotere delle istituzioni sovranazionali. Non teme di passare per nazionalista?
    «La gente confonde sempre la difesa della nazione con quella del nazionalismo. Assomiglia al riflesso automatico dell’Unione europea a qualsiasi tentativo di difendere la sovranità nazionale contro la burocrazia di Bruxelles. Nel XIX secolo i momenti nazionalisti sono stati spesso violenti (come in Italia) e ideologici, con marce, bandiere, falsi eroi e spargimenti di sangue. Ricordiamoci che tutto questo è iniziato con la Rivoluzione francese e la sacralizzazione della Nazione.



    Ma la difesa della nazione non è niente di questo».

    Cosa significa?
    «Semplicemente la difesa della sovranità territoriale, dei confini, del quartiere, dei costumi, così come della democrazia e del ruolo della legge. Per definizione non può esistere una democrazia transazionale e il ruolo della legge imposto dai tribunali europei rimane una caricatura della legge. Democrazia e ruolo della legge possono esistere solo dentro i confini di una nazione definita».

    Lei sostiene che l’Onu non è tale, visto che raggruppa anche Stati non democratici. Come vanno cambiate le Nazioni Unite?
    «L’Onu è naturalmente deficitario visto che assegna la stessa credibilità e legittimazione ai tiranni e ai mafiosi e pure ai leader eletti nelle democrazie. Non è possibile prenderlo sul serio: come si fa a considerare autorevole un’organizzazione che nominò l’allora dittatore libico Gheddafi a capo della sua Commissione sui diritti umani? L’unico modo per l’Onu di cambiare consiste nel muoversi verso una direzione democratica e preoccuparsi di quei problemi per i quali le sue decisioni sono assolutamente necessarie per il benessere dell’umanità. Questo significa cambiare rotta per tutte quelle superflue e costose agenzie (come l’Unesco) dove tiranni e bulli possono atteggiarsi come rappresentanti di popoli che mai li hanno eletti».

    Benedetto XVI ha parlato, facendo eco a Giovanni Paolo II, di un certo "odio di sé" dell’Europa, soprattutto rispetto alle sue radici cristiane. Come si giustifica quella che lei chiama "oicofobia" del Vecchio Continente?
    «Quello che Giovanni Paolo II chiamava "odio di sé" io lo definisco "cultura del ripudio". Noi europei veniamo da due guerre che ci hanno causato un grande senso di colpa; abbiamo però anche un’incredibile eredità di civiltà. Ebbene, molte persone sono riluttanti nell’assumere questa eredità e si rifugiano nella colpevolezza. Questo succede in particolare alla sinistra, dove il risentimento verso il privilegio e il potere iniziano a cancellare ogni rispetto per la grande conquista della legge e della libertà che noi europei abbiamo ereditato. Del resto, esiste una sorta di "industria accademica" che si dedica a giustificare la cultura del ripudio».

    Qualche nome?
    «Penso ad alcuni nomi nelle discipline letterarie e nelle scienze sociali: da Foucault
    [Filosofo strutturalista francese, omosessuale, che non a caso è crepato ròso dall’AIDS. Era di sinistra, ma apprezzava il regime islamico dell’ayatollah Khomeini…

    ]
    a Deleuze, fino a Toni Negri
    [ Il “filosofo” condannato per banda armata e concorso morale in omicidio…




    ]
    nonché l’establishment italiano marxista degli anni Settanta. Alla radice vi è la perdita della fede religiosa. Ma anche una sorta di narcisismo, cioè il sentimento per il quale uno stabilisce la propria purezza rigettando le cose piuttosto che sottoporsi al lavoro e alla disciplina richiesti per accettarle».

    Lei critica la Wto perché estende globalmente il libero mercato a scapito delle realtà economiche locali. Bisogna ritornare al protezionismo?
    «Alcuni beni vanno protetti dalla forza del mercato: le relazioni sessuali, i valori familiari, le credenze religiose. Davvero pensiamo che il mercato debba prevalere sull’abitudine islamica delle 5 preghiere quotidiane, un’abitudine che crea uno svantaggio economico alle società musulmane contemporanee? Lasciamo che essi proteggano i loro mercati se ciò significa proteggere i loro valori e stili di vita. È decisamente insana l’idea che il mercato globale debba avere gli stessi nostri standard».


    ALEKSANDR SOLžENICYN E IL SENSO DEL SACRO
    di LUCA NEGRI
    Rischio costante dell’opera di Aleksandr Solženicyn



    è di finire confinata al mero interesse storico, memorialistico, di testimonianza. Questo perché il suo monumentale “Arcipelago Gulag” rimane uno dei testi imprescindibili per comprendere il secolo scorso.



    In quelle pagine la Storia incontra veramente le storie individuali, l’epica diventa diario e viceversa: un grande romanzo, anche se non ha bisogno di ricorrere alla finzione. Infatti Solženicyn fu fin dal principio un grande narratore, un romanziere in cui si davano appuntamento i talenti di predecessori come Gogol’, Dovstoevskij, Tolstoj (stessa cosa succedeva in Pasternak, seppur in tutt’altro modo). Aveva ragione Cristina Campo quando dichiarò a metà degli anni ’70 “oggi Solženicyn è qualcosa che ti fa piegare le ginocchia”.
    Difatti siamo finiti in ginocchio anche leggendo il primo romanzo, l’incompiuto “Ama la Rivoluzione!”, finalmente disponibile in Italia grazie a Jaca Book. Come tutti i romanzieri esordienti, Solženicyn fa un po’ di autobiografia; con la differenza che all’età di trent’anni, aveva già fatto tesoro di esperienze notevoli, e terribili. La principale, quella che segnerà senza dubbio la sua esistenza, avvenne al fronte, mentre combatteva contro le armate di Hitler; in una lettera ad un amico si lasciò scappare qualche dubbio sul modo in cui Stalin stava conducendo la guerra. Bastò tanto poco per gettarlo nell’abisso dei campi di prigionia e dei cantieri schiavisti messi in moto dal “socialismo reale”.
    In quelle condizioni visse per ben otto anni, con periodi più o meno duri, se ha senso distinguere nel livello di male che può fare il totalitarismo. In un intervallo di pace fra giorni più duri, durante il 1948, si mise all’opera per raccontare la storia di un tipo come lui, reso appena un po’ più grottesco e comico; sempre laureato in materie scientifiche, sempre innamorato della letteratura, avido di sapere e d’esperienza, pieno di ideali. In comune anche un sospetto di tumore (tragica realtà che Solženicyn dovrà affrontare, dedicando a quell’ordalia uno dei suoi romanzi più belli, “Padiglione Cancro”) che rende inabili al servizio militare in prima linea.
    Così il protagonista Gleb Neržin rimane a lungo lontano dal conflitto, dietro le quinte della Storia per buona parte del romanzo. Eppure vorrebbe tanto partecipare alla guerra, sente che sarà la scintilla che permetterà lo scoppio della rivoluzione mondiale, l’esportazione del bolscevismo all’estero. È un convinto comunista di ventitré anni, conosce bene formule matematiche e ideologiche, ha letto tanti libri e sente di aver ben chiare tante verità. Dovrà ricredersi, ed imparare ben altre cose, non solo ad avere a che fare con i cavalli in compagnia dei cosacchi del Don. Invece il libro nello zaino, scelto partendo da casa verso l’avventura, un saggio di Engels su “Rivoluzione e controrivoluzione in Germania”, rimarrà intonso, non ci sarà tempo per leggerlo, mentre gli schemi rassicuranti del materialismo dialettico crolleranno sotto i colpi della realtà. Nonostante Gleb sia molto ingenuo e sognatore (potrebbe ricordare il Candido di Voltaire che si crede nel migliore dei mondi possibili) riesce poco a poco a rendersi conto della squallida e tremenda realtà che si cela dietro il mito inculcato a scuola alla sua generazione, quella nata nel 1917, coetanea della Rivoluzione Comunista. Scopre che il regime arresta i cittadini solo per vago sospetto o per alimentare panico, vede con i suoi occhi la corruzione, l’improvvisazione nel condurre la guerra e nel giocare con le vite dei soldati.
    Solženicyn non terminò mai il romanzo, lasciò solo appunti. È abbastanza evidente che il finale, con Gleb finalmente sul campo di battaglia, nella conquista di Orël, non sarebbe stato edificante per l’Urss. Gleb, come prima di lui Solženicyn, aveva imparato a diffidare della civiltà sovietica e si era riaccostato timidamente a cose più antiche e più intime, più universali e personali. Era capitato che uno sventurato come lui gli avesse regalato un tozzo di pane per placare la sua fame. Così gli sovvenne, ricordo d’infanzia lontana, il verso del Padre Nostro dove si chiede a Dio il pane quotidiano. Poi la preghiera riaffiorò tutta. Ed ecco affacciarsi l’altro grande tema di Solženicyn e dei suoi predecessori: la religione, l’ineluttabile senso del sacro. In “Ama la Rivoluzione!” affiora appena, ma pulsa in tutta l’opera, annuncia il suo futuro emergere negli scritti della maturità. Anzi, Gleb appare ancora più interessante se si vede in lui il devoto alla patria comunista, che poi scopre ciò che solamente merita devozione. Ci sembra l’ulteriore dimostrazione del fatto che la prassi marxista-leninista è stata la più grande eresia, il tentativo prometeico e luciferico di sostituire il Vangelo e la Chiesa con la religione civile del socialismo di Stato. Ecco perché leggendo un romanzo simile ci si ritrova con le ginocchia piegate.
    ALEKSANDR SOL


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    PROPOSTA CHOC
    Dante all'inferno:
    non è polically correct
    Anna Maria Brogi
    La colpa di Dante Alighieri? Non essere stato polically correct ante litteram. Sfidando spericolatamente ogni (buon) senso storico, i ricercatori di Gerush92, organizzazione che gode del rango di consulente speciale del Consiglio Economico e Sociale dell'Onu, vorrebbero mettere al bando o almeno censurare la Divina Commedia, rea di diffondere "contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza" nei confronti di ebrei, islamici e omosessuali.
    Sotto accusa il canto XXIII dell'Inferno, dove sono puniti i membri del Sinedrio e in cui il sommo sacerdote Caifas è immaginato nudo e crocefisso steso a terra, così che ogni altro dannato lo calpesti. Ma anche il canto XXVIII, dove sono puniti, tra i seminatori di discordia, Maometto e il successore Alì: il primo ha il corpo oscenamente spaccato dal mento al sedere, con le interiora pendenti tra le gambe, l'altro ha la testa rotta dal mento alla cute. Che dire poi dei sodomiti, dannati a correre sotto una pioggia di fuoco?
    Che Dante non fosse tenero non è una novità. Né che il medioevo ignorasse il fair play. A confermarlo basti il trattamento che il sommo, cristianissimo, poeta riserva ad alcuni pontefici. Per Bonifacio VIII, suo bersaglio frequente, preannuncia la dannazione, immaginandolo pronto a traslocare dal soglio ponficio alla bolgia dei simoniaci, conficcato a testa in giù in un buco con le piante dei piedi in fiamme. Ad aspettarlo ci sono Niccolò III e Clemente V. Non va meglio a papa Anastasio II, condannato come ateo tra gli epicurei. E chi non ricorda, nell'antinferno, il disprezzo con cui è liquidato Celestino V, "colui che fece per viltade il gran rifiuto"?
    Non di par condicio si tratta, beninteso. Dante amava e odiava con veemenza, era uomo di fazione. Ma questo non c'interessa, sette secoli dopo. La vera forza di Dante, quella che vince il tempo, è la potenza delle sue terzine, il perfetto equilibrio dell'orchestrazione di un'opera che continua a parlare all'uomo di ogni epoca.
    La provocazione - che auspichiamo sia tale - degli studiosi di Gerush92 ricorda i polveroni che si levano regolarmente contro la Bibbia, che educherebbe alla guerra, o contro testi di altre religioni (recente è il caso della Baghavad Gita, poema sacro indiano, accusata in Russia di incitare all'odio). Di questo passo, perché non censurare l'Iliade e l'Odissea, guerrafondaie e misogine, e magari persino Moby Dick, che fomenta la caccia alla balena?
    Dante all'inferno: non è polically correct | Cultura | www.avvenire.it

    William Buckley, il demiurgo dei conservatori
    di Marco Respinti
    «Kennedy si lamenta continuamente che noi stiamo tentando di diffondere il messaggio comunista in tutta l’America latina. Che si lamenti pure. Diffondere la rivoluzione è affar nostro». Così Fidel Castro arringa i compagni nel thriller di William Frank Buckley jr. Caccia alla mangusta (trad. it., Sonzogno, Milano 1988)



    dove la CIA cerca di far fuori il líder maximo alla vigilia dell’attentato che invece ucciderà JFK.
    Caccia alla mangusta è un’opera di fantasia, certo; eppure Buckley



    qualcosina delle mosse della CIA la sapeva per davvero. Per molti versi Blackford Oakes, il protagonista dei suoi gialli (scontato il riferimento allo 007 di Ian Fleming, anche se qui l’agente è americano), interpreta Buckley stesso: sciccherie, Ivy League e qualche scrupolo morale quando è l’ora di premere il grilletto. Ma su quel melange di fiction e di verità storiche, di cui si compongono giocoforza i polizieschi buckleyani, la precedenza logica e cronologica l’ha proprio il rapporto di amorosi sensi con l’Agenzia, quella vera. Senza di essa, Buckley non sarebbe infatti mai stato Buckley; negli Stati Uniti non ci sarebbe mai stato il movimento conservatore; alla Casa Bianca si sarebbero seduti altri presidenti; insomma, il mondo sarebbe stato diverso. Mettiamola così: egli ebbe una idea geniale; la trasformò in un progetto serio quando a qualche cocktail incontrò le persone giuste che avevano la forza economica di fargliela realizzare; se ne servì con una eleganza che ha fatto invidia a molti; e nel mezzo ci si è pure divertito. La CIA? Sia lodata, se uno come Buckley ha saputo aggiogarla ad maiora.
    Di Buckley il 27 febbraio sono ricorsi quattro anni da quando fu trovato, 82enne, stroncato da un colpo al cuore sul pavimento della sua casa di Stamford, in Connecticut, dove da qualche anno si era oramai ritirato. Non certo a vita privata, ma a riflettere su quella sua esistenza lunga, e ricca, e perché no pure felice, apparecchiandosi alla morte. Sapeva a menadito, perché tutti i conservatori old-style lo sapevano a menadito, quella frase che Platone mette in bocca a Socrate, «Una vita non esaminata non è degna di essere vissuta», e lui di cose da esaminare ne aveva tante.
    Nel 1997 aveva pubblicato Nearer, My God to Thee: An Autobiography of Faith (Doubleday, New York) parlando di Dio, di quel Dio cristiano e cattolico che amava in modo profondo e maschio, anche guascone, ma sempre devoto. Chiedersi di Dio, della morte e pure del dopo è infatti logico se si è credenti della stoffa di Buckley, cioè cattolici "da rito antico", da Catechismo di san Pio X. Era del resto venuto su così, Buckley, rampollo di quei gruppi altolocati e un po’ snob che a New York un tempo c’erano, e che sono stati anche fucina di cattolici tutti d’un pezzo, finiti poi a ingrossare le fila del mondo conservatore. Lì Buckley nacque nel 1925.
    Ricordo distintamente quando, qualche anno prima dell’uscita in libreria di Nearer, My God to Thee, Russell Kirk (1918-1994)



    il decano dei conservatori, ricevette da Buckley - come la ricevettero alcuni altri spiriti magni di quel mondo - una richiesta di proferire qualche pensiero forte su Dio da rimuginare e macerare in quel suo libro di molto dopo, faticoso, accidentato, che egli andava lentamente costruendo. La vertigine sublime del fascino di Dio che tutto abbraccia si palpa sempre in ogni cosa che Buckley ha scritto, e detto, e fatto, persino negli svarioni e negli errori.
    COME CATONE IL CENSORE
    Fu lui che estrasse arbitrariamente il cartellino rosso per estromettere dal "movimento" quei filoni del conservatorismo che non gli andavano a genio o che non gli andavano più giù: gli oggettivisti arci-individualisti della sessuomane Ayn Rand (1905-1982), i libertarian rigidi di Murray N. Rothbard (1926-1995), i complottisti della John Birch Society. I suoi detrattori non gli hanno comunque perdonato soprattutto di aver aperto le braccia a quegli ex trotzkysti spostatisi a destra che negli anni 1970 cominciarono a prendere il nome di “neoconservatori”, insomma gli ultimi venuti nel “movimento” i quali, secondo molti, segnavano un cedevolissimo slittamento verso i falsi miti del “big government”, della “great society”, insomma del pensiero statalista.
    Mastro Kirk invece non perdonò a Buckley i suoi thriller, con qualche donnina svestita di troppo e il nominare la regina Elisabetta senza fare la riverenza tre volte. Buckley invece considerava Kirk un maestro. Certo, tutti i conservatori lo facevano e lo fanno anche se di Kirk non hanno mai letto un rigo; ma Buckley di più, forse più sinceramente. Per questo non osò fare mai quello che fece Kirk.
    Di Buckley ha scritto perfettamente Lee Edwards unendo il dono della concisione, l’abilità di penetrare uno spirito e la capacità di rievocare una vita-opera immensa. Edwards è uno che ha fatto le battaglie del contro-Sessantotto come anima operativa dei giovani riunitisi e cresciuti attorno a Barry M. Goldwater (1909-1998); quindi ha chiuso gli studi all’Università Cattolica di Washington (dove poi ha pure insegnato) e alla Sorbona; ha biografato Ronald W. Reagan (1911-2004) come promessa ventura quando nessuno sapeva nemmeno chi fosse; e infine ha proseguito diventando uno dei più lucidi raconteur di mondi, ambienti, uomini e think tank della galassia conservatrice.
    Nel suo brillante William F. Buckley Jr.: The Maker of a Movement (ISI Books, Wilmington [Delaware] 2010) scrive che Buckley «avrebbe potuto essere il playboy del mondo occidentale, ma invece scelse di essere il san Paolo del movimento conservatore americano moderno». Cioè l’apostolo delle genti allo sbando, capace di organizzare un credo.
    In The Rise of the Right (William Morrow, New York 1984; 2a ed. riv. National Review, New York 1993), il compianto William A. Rusher (1923-2011), che è stato tra i più stretti collaboratori di Buckley, scrisse che negli States, dopo la Seconda guerra mondiale (1939-1945), un mucchio di gente sapeva bene cosa non voleva, ma altrettanto placidamente ignorava cosa volere. Venne allora Kirk che sdoganò il termine-insulto "conservatore", insegnando agli statunitensi la nobiltà e la dignità dell’essere la provincia nordamericana della koinè anglofona nella civiltà occidentale, e tutto cambiò. Nel 1953, Kirk pubblicò quel The Conservative Mind: from Burke to Santayana che il suo maestro (prima) e amico (dopo) T.S. Eliot (1888-1965) amò così tanto da pubblicarne l’edizione britannica con la Faber & Faber e meritarsi la menzione esplicita nell’ampliamento di quel testo seminale, The Conservative Mind: from Burke to Eliot. A Buckley piacque subito quel gioco di pensiero forte, stretto fra le colonne d’Ercole di due spiriti magni del pensiero occidentale (Burke ed Eliot), entrambi figli del popolo e però aristocratici dentro. La cosa faceva insomma per lui.
    Correva l’anno 1955 e Buckley fondò allora National Review con il preciso scopo di conquistare a quella visione del mondo un popolo intero, quello americano.







    Un titolo tutto sommato anonimo, National Review, che però divenne presto un marchio, d’infamia a sinistra e d’onore a destra. Quel periodico fu da subito tutt’uno con il nome di Buckley, il quale tra i benpensanti, i neogiacobini e gli engagé radical-chic è come dire Sandokan in casa di James Brooke. Il programma fu inequivocabile: mettersi di traverso alla storia - scrisse Buckley nell’editoriale di lancio, con parole divenute famosissime - gridando "Alt!". Era uno splendido reazionario, Buckley, che ha regalato all’America più vero progresso lui di tutto l’esercito dei finti liberali.
    La sua National Review la creò con contatti e qualche denaro (eccoci qua) della CIA.
    Il resto fu tutta farina del suo sacco, sempre senza compromessi, pagando di tasca propria colpi di genio e colpi di testa. Perché nessun agente segreto avrebbe avuto la certosina pazienza che ebbe Buckley nell’investire giorno dopo giorno per decenni finché, timido, spuntò qualche risultato.
    IL CENTRO, IL CUORE, IL FULCRO
    Edwards lo definisce il creatore del movimento conservatore, in quanto "maestro fusionista". L’espressione risale a Frank S. Meyer (1909-1972), l’ex comunista che approdò a destra capendo che divisi si perde. Anzi, scava scava, Meyer comprese pure che la sontuosa cultura occidentale, un tempo omogenea, era stata disgregata dai suoi nemici in tante parrocchie sparse che avevano finito per divenire sètte litigiose e impenetrabili. E che quindi occorreva risalire a unità, fra tradizionalisti e libertarian, anticomunisti e “Cold War warriors”, un bella fusione, appunto. Infischiandosene dei veti contrapposti, Buckely mise National Review al servizio di questo progetto, che molti non capirono fino a tardi (e alcuni non l’hanno capito ancora oggi), ma che fu efficacissimo. Dentro National Review Buckley volle assieme Kirk e Meyer, che si detestavano, e poi molti altri, che analogamente si detestavano, ma che lui riuscì a tenere assieme come una vera squadra con un vero coach.
    Il "movimento" conservatore si cementò su National Review, crebbe in National Review, si alimentò con National Review. Goldwater nacque lì, Reagan anche, Newt Gingrich pure; la Destra divenne una proposta autentica, matura, credibile e possibile dalle sue pagine; e alla fine urrà anche per i neocon poiché, signori, bisogna pur vincerla la guerra.
    Oggi come oggi, a quattro anni dalla dipartita del suo demiurgo, non è affatto ingeneroso dire che senza Buckley National Review non è più quello di una volta. Dalle sue rotative sono passate due o tre generazioni intere, tutte le comparse del mondo conservatore vi hanno firmato almeno una piccola recensione e i protagonisti vi hanno invece depositato migliaia di pagine da antologia. Richard Bookisher, altro buckleyano di ferro, racconta la vicenda con precisione in Right Time, Right Place: Coming of Age with William F. Buckley jr. (Basic Books, New York 2009) e, un bel po’ più a sinistra, lo fece già, pionieristicamente ma non meno bene, nel 1988 John B. Judis in William F. Buckley, Jr.: Patron Saint of the Conservatives (Simon & Schuster, New York). Completa bene il quadro il più recente Buckley: William F. Buckley Jr. and the Rise of American Conservatism di Carl T. Bogus (Bloomsbury Press, New York 2011).
    Il conservatorismo americano è stato fusionista fino al midollo, e questo è un gran complimento, proprio grazie alla sagacia di National Review e di quel suo creatore che ha saputo vedere più lungo di chiunque altro. E pensare che il vero ideatore del temine "fusionismo" fu il cognato di Buckley, L. Brent Bozell (1926-1997), per dileggio. Non ci credeva, Bozell, al "fusionismo". Con Buckley aveva fornito al mondo la prima grande e insuperata difesa di un uomo ingiustamente bistratto attraverso il libro, scritto a quattro mani, McCarthy and His Enemies: The Record and Its Meaning (Regnery, Chicago 1954)



    e poi è stato il ghost-writer del fulminante Il vero conservatore (trad. it., Il Borghese, Roma 1962 di The Conscience of a Conservative, Victor Publishing, Shepardsville, Kentucky 1960]



    con cui Goldwater gettò nell’arena la propria sfida politica. Bozell aveva cioè fatto parte della "banda" per un po’, ma poi aveva mollato tutto. Bozell era uno di quelli famosi, che sedevano rosario al collo e boina roja carlista sul capo a fare ostruzione alle cliniche abortiste, finendo poi in guardina, e così si sentiva in cuore di dovere andare anche oltre i conservatori.
    Era il 1951 quando il giovane Buckley ruppe gl’indugi pubblicando God and Man at Yale: The Superstitions of "Academic Freedom" (Regnery, Chicago), un pugno nello stomaco che urlava ai quattro venti come nella sua alma mater - l’Università Yale, appunto - era scandalosamente vietato parlare non solo di cristianesimo, ma anche di economia di mercato, che per la Destra americana sono invece una sorta di sacre endiadi. Da allora il 26enne Buckley non si fermò più.
    Era quello l’anno in cui fu reclutato dalla CIA, missione di 24 mesi, tra l’altro pure a Città del Messico come agente della Divisione Attività Speciali. God and Man at Yale ebbe l’effetto di una dichiarazione di guerra, quella guerra che per più di mezzo secolo Buckley ha combattuto senza esclusione di colpi.
    SCRIVERE LIBRI, UNA GARA
    Si è sopra citato il suo Caccia alla mangusta. In italiano venne pubblicato un anno appena dopo l’originale, Mongoose R.I.P. (Cumberland House Publishing, Nashville, Tennessee 1987): solerzia inspiegabile, visto che quello resta uno dei rarissimi titoli buckleyani tradotti in italiano. Assolutamente inesplorato nella nostra lingua resta infatti quel massiccio dolomitico che è la strabiliante produzione del fondatore di National Review per elencare la quale ci vuole addirittura un libro intero, William F. Buckley Jr.: A Bibliography (a cura di William F. Meehan III, introduzione di George H. Nash, ISI Books 2002), e tenendo presente che dopo la sua pubblicazione Buckley ha scritto ancora…
    Buckley e Kirk facevano a gara a chi scriveva più libri. Ha vinto Buckley perché ha vissuto più di Kirk, arrivando a quasi 50 titoli fra narrativa e saggistica, diari e memorie. Si sono vedute crestomazie dei suoi detti che ancora egli era in vita.
    Migliaia sono stati i suoi articoli, distribuiti anche per agenzia nell’orbe americano persino tre alla settimana, e i suoi contributi su riviste e giornali disparati. L’antologia postuma Athwart History: Half a Century of Polemics, Animadversions, and Illuminations. A Willam F. Bukley Jr. Omnibus (a cura di Linda Bridges e Roger Kimball, prefazione di George F. Will, Ecounter, New York 2010) è una collana di perle. Proverbiale fu il suo uso magistrale della lingua inglese - che, se il mondo fosse diverso, ci si eserciterebbero gli scolari - pari solo al suo inconfondibile accento snob. In televisione è stato una stella, mattatore incontrastato delle 1429 puntate di Firing Line: in quell’impareggiabile talk show, trasmesso dal 1966 al 1999, passava dal gossip alla teologia senza battere quel suo ciglio da gran signore della comunicazione ma facendo sempre palpitare i cuori.
    Buckley ha avuto nove tra fratelli e sorelle, nel 1950 sposò Patrica Aldeyen Austin "Pat" Taylor (1926-2007), da cui ebbe un solo figlio, Christopher Taylor, nato nel 1952, e tra jazz e Johan Sebastian Bach fu un pianista provetto. Nel 1965 si candidò a sindaco di New York per il Partito Conservatore, una forza politica locale; perse miseramente, ma ce la si racconta ancora che sembra l’Iliade. Diede della "checca isterica" in tivù a Gore Vidal



    fumava come un turco, e si pentì; beveva volentieri un po' di quello buono, e qui già si pentì meno.
    Fu delegato americano alle Nazioni Unite, ma non se ne ricorda nessuno; e quando Reagan vinse la presidenza, nel 1980, Buckley gli fece sapere subito che non avrebbe accettato incarico alcuno nell’Amministrazione. Entrò nella dirigenza di Amnesty International, ma nel 1978 se ne andò perché quelli erano contro la pena di morte. Nel 1991 George W. Bush jr. gli conferì la Medaglia Presidenziale della Libertà e la festa per il mezzo secolo di National Review sembrò l’incoronazione di un re.
    Indossava camicie e cravatte sempre impeccabili e i pullover girocollo erano immancabili; la scriminatura nei capelli faceva un po' Rodolfo Valentino, il suo modo di aggrottare la fronte era un cliché e il suo sorriso pastoso conquistava sempre. Ho conversato con lui una volta e anni dopo ho capito perfettamente quel che intende Edwards quando di lui scrive: «Onorava suo padre, amava Nostra Signora, e crollò quando sua moglie, Pat, morì prima di lui. Considerava il comunismo come il grande nemico degli Stati Uniti e dell’Occidente, un nemico che doveva essere sconfitto e non accomodato. Un giorno riuscì a vedere questo suo obiettivo finalmente realizzato».
    I suoi amici e i suoi collaboratori testimoniano che era convinto di andare in Paradiso. Ora, dicono che a pensar così finisce che in Paradiso uno non ci arriva; ma come negare che quella di Buckley sia sempre stata una vita in contromano?














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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Dickens protagonista di un’apparizione mariana? Un mistero
    Andrea Galli
    Charles Dickens fu mai tentato dal cattolicesimo? La risposta parrebbe scontata: no. Secondo un lettore autorevole come padre Ferdinando Castelli il cristianesimo di Dickens, era fondamenfalmente un’importante espressione etica, fondata sull’insegnamento di Cristo, profeta della giustizia, del perdono e dell’amore. Tuttavia sul "Catholic Herald", settimanale cattolico britannico, William Oddie, saggista e già direttore della stessa rivista, getta il sasso nello stagno ricordando una lettera poco nota dell’autore di Oliver Twist.
    «Permettimi di parlarti di un curioso sogno che ho avuto lunedì notte e dei suoi frammenti che ancora riesco a ricordare», scrisse Dickens all’amico e biografo John Foster durante un soggiorno a Venezia nel 1844. «In un luogo indeterminato, sublime nella sua indeterminatezza, venivo visitato da uno Spirito. Non potevo distinguerne il volto, né mi ricordo di aver avuto il desiderio di farlo.
    Portava un manto azzurro, come una Madonna in un quadro di Raffaello, e non assomigliava a nessuno che io conosca se non per l’altezza... era così pieno di compassione e di dolore per me… da trapassarmi il cuore. E io gli dicevo, fra i singhiozzi: "Oh, dammi una prova del fatto che mi hai veramente visitato… rispondi… a una domanda", supplicando e soffrendo per paura che mi lasciasse, "qual è la vera religione?".
    E mentre indugiava senza rispondermi, dicevo ancora, sempre nell’affanno e nella paura che se ne andasse. “Forse - osservando che ancora esitava e provava una grande compassione per me - è il cattolicesimo romano la religione migliore? Quella che forse permette di ricordarsi di Dio più frequentemente e di credere più fermamente?". "Per te", rispondeva lo Spirito con una celestiale tenerezza, da spezzarmi il cuore, "per te è la migliore!". E allora mi sono svegliato, con le lacrime che mi rigavano il volto, ritrovandomi nella stessa posizione che avevo durante il sogno. Era l’alba».
    Dickens, spiega William Oddie, interpretò di primo acchito quello Spirito come la figura di sua cognata, Mary Hogarth, morta nel 1837. Ma successivamente ritornò sul sogno leggendolo in una chiave più cattolica, indicando la presenza sulla scena di un grande altare, in cui una volta la Messa veniva celebrata quotidianamente, e ricordando il suono delle campane. «Metti il caso», scrisse sempre all’amico Foster, e parlando del suo desiderio di lasciare con i suoi scritti una testimonianza duratura nel tempo in favore degli umili e sofferenti, «che quel desiderio venisse realizzato da un intervento indipendente da me», facendo poi riferimento al sogno e chiedendosi se non fosse stata una vera visione.
    Ma visione di chi? Oddie avanza un’ipotesi: visione della Vergine, che, misteriosamente, rafforzò e accompagnò la vocazione dello scrittore a lottare per la causa del popolo umiliato e schiacciato dalla storia. «Se non lei, chi?» chiosa Oddie, sottolineando come fu lo stesso Dickens a ipotizzare di essere stato protagonista di un’apparizione. Misteri vittoriani, o mariani.
    Dickens protagonista di un



    Alda Merini, il talento non è follia
    di Giovanni Fighera
    Alda Merini (1931-2009), la «poetessa dei Navigli», già a sedici anni mette in luce il suo talento e ad appena vent’anni le sue poesie compaiono sulle antologie. Il 1953 è l’anno della sua prima silloge, La presenza di Orfeo, e, nel contempo, del matrimonio con Ettore Carniti, da cui nasceranno in un primo tempo le figlie Emanuela e Flavia e, successivamente, Barbara e Simona. Prolifici anche da un punto di vista letterario sono gli anni che seguono il matrimonio, quando scrive Paura di Dio (1955), Nozze romane (1955), Tu sei Pietro (1962).
    Nel 1965 per disturbi psichici sarà internata al Paolo Pini fino al 1972. La morte del marito nel 1983, il secondo matrimonio con il poeta tarantino Michele Pierri, un altro ricovero nell’ospedale psichiatrico di Taranto, il ritorno a Milano e la rinata vena poetica contrassegnano gli anni successivi. A parte Terra santa risalente al 1984, escono tra le altre raccolte Testamento (1991), Vuoto d’amore (1991), Ballate non pagate (1995), Più bella della poesia è stata la mia vita (2003), Clinica dell’abbandono (2004), Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (2001), Magnificat. Un incontro con Maria (2002), La carne degli angeli (2003). La sua fama sarà consacrata attraverso il conseguimento di numerosi premi letterari tra cui il Premio Viareggio (1996) e il Premio della Presidenza del consiglio dei Ministri (1999).
    Il libro Mistica d’amore, edito da Frassinelli nel 2008, raccoglie cinque opere scritte dalla poetessa dal 2000 al 2007, incentrate su alcune figure centrali della tradizione cristiana: Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (2001), Magnificat. Un incontro con Maria (2002), Poema della croce (2004), Cantico dei Vangeli (2006), Francesco. Canto di una creatura (2007).
    In Corpo d’amore la Merini parla dell’incontro con Gesù: «Mi ha sorpreso,/ enormemente sorpreso/ che da una riva all’altra/ di disperazione e passione/ ci fosse un uomo chiamato Gesù». La scrittrice racconta al lettore, anche a colui che non crede, che Gesù l’ha «fatta fiorire e morire/ un’infinità di volte» e «che si preannuncia sempre/ con una grande frescura in tutte le membra/ come se tu ricominciassi a vivere/ e vedessi il mondo per la prima volta». Il Signore «ti cerca per ogni dove/ anche quando tu ti nascondi/ per non farti vedere». Gesù è la più grande rivoluzione che ci sia mai stata, che ha modificato la civiltà e l’umanità stessa, il modo stesso di «guardarsi negli occhi» e di «porsi delle domande».
    Si alternano nella raccolta versi e prosa, come nel prosimetro la Vita nova, l’opera in cui Dante racconta della sua vita rinnovata dall’incontro con Beatrice, che è per lui l’incontro con Cristo. L’uomo è destinato all’eternità, nonostante cerchi di negarlo in ogni modo, ed è destinato ad essere profeta, cioè uomo di Dio. Nell’amore passa questo incontro dell’uomo con l’eterno. Per questo ciò che più occorre all’uomo è l’amore: «Coloro che salvano gli ammalati non sanno che essi sono malati d’amore, e che basterebbe poco a farli fiorire: un bacio, il canto di una primavera, un fiore mandato al momento giusto, […] una lettera, un abbandono, un momento che duri un’eternità».
    La memoria della poetessa torna all’infanzia quand’era «bambina assetata di Dio» e alla madre che le presentava i fiori di pesco dicendole: «Questa è l’immagine/ del Signore,/ una fioritura continua,/ una fioritura primaverile,/ un mandorlo in fiore». Come si può incontrare ancora Gesù, oggi come duemila anni fa? La poetessa risponde rivolgendosi direttamente a Lui: «Basta vedere qualcosa/ che reca la tua impronta./ E noi siamo pieni delle tue impronte,/ come se tu fossi passato in ogni casa/ a lasciare segni visibili/ del tuo potere».
    Di San Bernardo è il motto Ad Jesum per Mariam. La raccolta Magnificat racconta dell’incontro della poetessa con Maria. Maria è per tutti un esempio. «Il cammino di Maria è l’inverso di quello della maternità, ma è quello giusto. Mentre la donna quando genera ospita il figlio e diventa il suo sacramento di carne, Cristo fece diventare figlia sua madre e la ripartorì nel dolore». Esente dal peccato originale, Maria non fu, invece, immune al dolore. La Merini rilegge le paure che una ragazza di quattordici o quindici anni ha vissuto di fronte all’annuncio dell’angelo, di fronte all’incombenza di dover raccontare tutto a Giuseppe, alla possibilità che lui non le creda: «Ma a Giuseppe/ cosa dirò?/[…] Cosa dirò?/ Che Tu prima di lui/ hai visto la mia solitudine/ e ne hai fatto un corpo?/ Cosa dirò a Giuseppe mio sposo?/ Dirò che l’ho ingannato?/ Dirò che l’ho tradito con Te? Ma come si può tradire un uomo/ con un’essenza divina?/ Cosa dirò a Giuseppe, Signore?». C’è tutta la sua umanità di ragazza che si deve sposare, che è vergine, ma nonostante questo deve rivelare al futuro marito che aspetta un figlio. Un paradosso per chiunque, come un paradosso è la buona novella, l’annuncio del Verbo incarnato. Il suo dubbio si fa paura di morire: «Se Giuseppe mi abbandonasse/ io scenderò in un campo/ per la lapidazione». Il calore dell’invocazione dantesca del canto XXXIII del Paradiso sembra percorrere tutta la raccolta del Magnificat. Maria è figlia e madre. «La sua verginità era così materna che tutti i figli del mondo avrebbero voluto confluire nelle sue braccia […]. Era silenzio, preghiera e voce […]. Era così ombra e luce».
    Nel Poema della croce si rivisita il dramma dell’umanità del Cristo. Gesù ha patito con noi e per noi, ha portato tutti i nostri peccati sulla croce, ma prima ha pianto per il nostro male nell’orto del Getsemani. L’uomo vorrebbe compiere il bene, ma commette il male: «Mentre vorremmo gridare «ti amo»,/ stranamente esce da noi/ un sibilo profondo/ che dice le parole supreme e distorte «io ti odio»».
    Nel Cantico dei vangeli sono riletti alcuni momenti salienti della vita di Gesù attraverso figure che lo hanno incontrato o accompagnato, Maria Maddalena, Pilato, Pietro, … Nel dramma di Pietro che riconosce il suo tradimento, la paura di morire e la viltà, rivediamo tutta la nostra pochezza, ma anche il nostro stupore per la testimonianza di come Cristo ha affrontato la morte: «Perché nudo come un delinquente/ rimanevi così puro?/ Lasciami andare, Signore,/ lasciami scappare,/ […] ma rimarrò sempre/ il tuo migliore amico».
    Nella figura di san Francesco, da cui deriva il titolo l’ultima raccolta di Mistica d’amore, la Merini vede «un affamato di Dio» e della beatitudine, di quella beatitudine che noi conosciamo, ma che, nel contempo, temiamo, perché dovremmo rinunciare al nostro egoismo, al possesso di noi, per scoprire la vera vita: «come un bambino che scopre la vita per la prima volta».
    Tutto dipende da Dio, tutto deriva da Lui. Il talento artistico è in fondo l’espressione di una riconoscenza e di una gratitudine. A quanti le chiedano come si faccia a scrivere un libro, la Merini risponde: «Si va vicino a Dio e gli si dice: feconda la mia mente, mettiti nel mio cuore […]. Così nascono i libri, così nascono i poeti».
    La Bussola Quotidiana quotidiano cattolico di opinione online: Alda Merini il talento non è follia



    Pierre Gaxotte, uno studioso contro il giacobinismo
    di Marco Respinti
    Benemeritamente, la milanese Mondadori ha ristampato La rivoluzione francese. Dalla presa della Bastiglia all’avvento di Napoleone, di Pierre Gaxotte.
    Nato il 19 novembre 1895 a Revigny-sur-Ornain, nel dipartimento della Meuse, nella Francia nordorientale, Pierre Gaxotte entra à l’École normale supérieure nel 1917. Nel 1920 vi consegue l’agrégation in Storia che, nel sistema scolastico francese, consente l’accesso alla docenza nel settore pubblico, mentre contemporaneamente ottiene una licenza in Scienze. Professore di liceo, stringe amicizia con Joseph Arthème Fayard (1866-1936), figlio del fondatore dell’omonima e prestigiosa casa editrice francese - Joseph-François Arthème Fayad (1836-1895) -, attraverso il quale viene presentato a Charles Maurras (1868-1952), il noto intellettuale della Destra monarchica e fondatore dell’Action française, di cui diventerà segretario.
    Nel 1894, infatti, Fayard figlio, subentrato al padre nella direzione della maison, sposta gl’interessi della casa editrice dalla letteratura popolare ad autori decisamente conservatori come Maurice Barrès (1862-1923) e cattolici quali Paul Bourget (1852 -1935).
    Ebbene, alla ricerca costante di nuovi spazi editoriali e sempre al centro di coraggiose operazioni culturali, nel 1920 Fayard crea la collana "Grandes Études historiques" e ne affida la direzione a Gaxotte.
    Fayard non è un editore neutro. Ha la netta percezione che la narrazione della storia - scritta sempre dai vincitori - e la produzione culturale - appannaggio di chi detiene il potere - necessiti, soprattutto del suo Paese, la Francia, emendamenti fondamentali rispetto ai cliché dominanti in cui trionfa la vulgata repubblicano-laicista e lo spirito massonico liberal-socialisteggiante. Per questo mette la propria casa editrice al servizio di una imponente opera revisionista che, coscientemente, concede ampi spazi all’ambiente umano, politico e culturale in quel contesto maggiormente dotato degli strumenti intellettuali adatti a rompere il monopolio del "pensiero unico": la Destra, di cui proprio Gaxotte è un esponente noto.
    DENTRO UN VESPAIO, CON CORAGGIO
    Ora, la Destra in Francia è un vero dedalo. Ai tempi di Gaxotte e di Fayard è la sovrapposizione di anime diverse, persino di "correnti" contrastanti. In essa confluiscono, un po’ alla rinfusa, orientamenti e ispirazioni anche molto distanti tra loro, dai monarchici legittimisti ai cosiddetti orleanisti, dagli eredi del bonapartismo e quelli dello spirito vandeano, dai cattolici fedeli al Soglio di Pietro ai positivisti conservatori convinti che la religione - il cattolicesimo - svolga una essenziale funzione sociale di reazione e di supporto all’ideale monarchico teorizzando però che non è necessario crederci davvero (Maurras fu uno di loro, ma non così tutta l’Action française). Una Destra, insomma, in cui convivono, pur se a fatica, una "vera Destra" e una "Sinistra della destra", quest’ultima essendo la somma - direbbe il più importante pensatore contro-rivoluzionario del secolo XX, il brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) - di molte "false destre".
    Il vizio di fondo degli ambienti più discutibili - e talora francamente impresentabili - di quella galassia è del resto il nazionalismo, sovente smaccato, che è una ideologia tra le ideologie. Per questo, infatti, alcuni di quegli ambienti finiranno per guardare con favore e dunque per affiancare i movimenti nazionalistici europei dell’epoca, sfociati poi in movimenti e in regimi fascisti (o fascistici). Del resto, nel brodo di cultura da cui nasce il "mussolinismo" - prima ancora del vero e proprio fascismo italiano - vi sono cospicui ingredienti francesi, dal sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel (1847-1922) al cosiddetto "boulangismo" (dal nome del generale Georges Boulanger, 1837-1891), vale a dire il movimento di opposizione che, tra il 1886 e il 1889, accarezzò l'idea del golpe nazionalista.
    Gaxotte però no. Aveva idee più chiare. Nuotò in quel mondo, militò tra i maurassiani, partecipò alle attività editoriali di Fayard che fiancheggiavano la "rivoluzione nazionale" auspicata dal leader dell’Action française, diresse i due settimanali politico-letterari lanciati dall’amico Arthème - Candide e Je suis partout, eppure non vi annegò mai. Gaxotte è stato infatti uno di quegli uomini di cultura e di scienza che non hanno mai disdegnato l’impegno politico, né nascosto le proprie idee controcorrente, ma che di certi ambienti hanno più che altro cercato di servirsi: per fare del bene e per indirizzare al bene, anche a costo del fallimento.
    Non scordiamo, del resto, che il privilegio offerto dal riflettere su determinati fatti a distanza di tempo è negato a chi i fatti li vive quando essi accadono. E che se questo certamente non assolve mai dalle responsabilità personali, altrettanto certamente non carica gli uomini liberi degli errori commessi da altri, anche magari molto prossimi. Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) - per non citarne che uno - subì, all’inizio, il fascino del fascismo italiano; e suo cugino Arthur Kenneth Chesterton (1896-1973) fu invece smaccatamente fascista, antisemita e in collusione intellettuale con i nazisti. Per l’Action française di Maurras passarono moltissimi intellettuali cattolici francesi certo non sospetti: il più noto di tutti fu il filosofo Jacques Maritain (1882-1973), che come molti altri poi se ne staccò, ma come scordare che in morte di Maurras tra i suoi laudatores figurò pure il Nobel T.S. Eliot (1888-1965)?
    FUORI DAL CORO, MA RISPETTATO
    Del resto, la stoffa cattiva da cui sono state ritagliate tutte le derive inaccettabili di quegli ambienti recano indelebile la lettera scarlatta del supremo vizio d'Oltralpe: la Rivoluzione Francese (1789-1815, a voler, correttamente, considerare come parte integrante di essa pure l’"età napoleonica", 1799-1815), quella preparata dai cattivi pensieri illuministi e realizzata dai crimini giacobini.
    Nasce lì il nazionalismo, e nascono lì pure il positivismo, il laicismo, il repubblicanesimo "delle logge" o, in alternativa, il monarchismo fine a se stesso, immemore della monarchia tradizionale cristiana. Per la Francia, patria di quella che l’anarco-comunista russo Pëtr A. Kropotkin (1859-1914) chiamava entusiasticamente «Grande Rivoluzione» - la quale, insegnava il socialista Georges Clemenceau (1841-1929), non si può sezionare: o la sia abbraccia tutta, come faceva lui, o la si rigetta in blocco -, si tratta di un nodo psicologico enorme.
    L’opera dunque di uno studioso serio e rispettato, nonostante cantasse fuori dal coro, qual è Gaxotte, è provvidenziale. Tra gli studi da lui pubblicati certamente sono fondamentali La Révolution française (1928), Le Siècle de Louis XV (1933), La France de Louis XIV (1946) e Histoire des Français (1951). Gli ultimi tre sono un vero e proprio gesto d’intelletto d’amore per la monarchia francese e, nell’ottica dell’autore, costituiscono la pars costruens del suo intero impianto culturale, la risposta al "perché no il 1789". In questo rivelano, oltre a numerosi spunti importanti, anche un limite: corrono il rischio di appiattire la critica alla Rivoluzione Francese sull’apologia del cosiddetto Antico Regime (secoli XVI-XVIII), benché forniscano strumenti preziosissimi per smontare certi falsi miti che circolano su quell’ampio periodo storico.
    Imprescindibile, invece, il primo titolo di quel poker, quello che appunto fu tradotta da Rizzoli nel 1949, nella popolarissima ed economica collana "BUR", quindi rilanciato da Mondadori nel 1989, anno di "Bicentanaire", e oggi rieditato.
    UN ANTIDOTO IMPRESCINDIBILE
    Gaxotte, insomma, che dopo la guerra scrisse regolarmente per Le Figaro e che il 21 novembre 1982, a Parigi, è passato a miglior vita, resta imprescindibile per comprendere cosa davvero è avvenuto a partire dal 1789. Egli compose quella sua opera decisiva in un’epoca in cui imperava la "Rivoluzione alla Sorbona" - come l’ha definita François Furet (1927-1977) -, ovvero quando la versione ideologica della vicenda, alimentata dalla storiografia comunista eletta a storia ufficiale, si era intronizzata sullo scranno più alto e ufficiale dell’erudizione non solo francese. In quella temperie, Gaxotte ebbe il coraggio di raccontare che la "Presa della Bastiglia" fu un non-evento (lo ha dovuto riconoscere, anni dopo, pure uno storico del PC francese come Michel Vovelle); che la "cospirazione delle potenze reazionarie" alla quale si appellarono i rivoluzionari per gettare la Francia in una guerra rovinosa non vi fu mai; che il "complotto di preti & aristocratici" non venne mai ordito; e che invece l’odio strutturale contro la Chiesa, i molti massacri gratuiti, la distruzione di una plurisecolare tradizione socio-culturale intrisa di cattolicesimo e la devastazione socio-economica dell’ex "figlia primogenita" della Roma petrina furono l’obiettivo unico della Rivoluzione francese.
    Gaxotte revisionò la sua opera principale nel 1947 e ancora nel 1970. Evidente nelle sue pagine è l’impronta del sociologo cattolico e legittimista Augustin Cochin (1876-1914), a lungo snobbato ma finalmente rivalutato da Furet per quel suo talentuoso avere individuato che furono le cosiddette "società di pensiero" illuministiche prerivoluzionarie a stravolgere la mentalità e il pensiero dei francesi.
    Gaxotte è insomma un grande antidoto ai troppi veleni culturali diffusi sin dai banchi delle scuole su un argomento cruciale. Il suo La rivoluzione francese si legge come un romanzo - una volta tanto è vero -, privo di note e di bibliografia qual è. Non per ignoranza o per censura, ma per adesione a un genere letterario di "storiografia anche polemica" del resto assai praticato quando l’opera apparve per la prima volta a stampa. Ecco, il nostro palato odierno più sensibile al dubbio vorrebbe riferimenti, rimandi, pezze d’appoggio. Più che giusto. Per questo sarebbe stato bello che questo Gaxotte classico, oltre a essere ristampato, fosse stato pure riproposto in una edizione annotata, per esempio sul modello di quella stabilita dal grande accademico Jean Tulard e pubblicata dalle Éditions Complexe a Bruxelles nel 1988.


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Erik Larson, missione (diplomatica) all’inferno
    di Matteo Sacchi
    Ma che bella città Berlino. Viali alberati, giardini, Mercedes che rombano, spettacolari bandiere rosse e bianche, con una svastica nel mezzo. E come sono simpatici i berlinesi, nel 1933.
    La città è piena di feste, concerti... Certo, c'è un po' di preoccupazione per la recessione e per le difficoltà che il Paese potrebbe avere nel ripagare i debiti contratti con le grandi banche straniere. Soprattutto con quelle Usa. Ma il nuovo cancelliere Hitler, nonostante qualche pestaggio di cui si parla, è uno con cui si può ragionare... Uno capace di mettere in riga la Nazione e di fare in modo che i tedeschi rispettino le rate.
    È di queste faccende economiche che pensa di doversi occupare il nuovo ambasciatore Usa, William E. Dodd: un pacato professore di storia dell'Università di Chicago. I suoi trascorsi all'estero si riducono agli studi universitari in Germania. Finisce invece catapultato a Berlino. Eccolo con tutta la sua famiglia - la moglie Mattie, la spensierata e civettuola figlia Martha, il primogenito Bill - invischiato nel bel mezzo dell'ascesa del regime nazista.
    Questo è l'inizio del saggio-romanzo di Erik Larson Il giardino delle bestie (Neri Pozza, pagg. 560, euro 18). E non stupisce che in America sia subito arrivato al primo posto della classifica dei bestseller del New York Times. Larson trasforma la storia personale dei Dodd in una struggente discesa all'inferno. Perchè il principio del Male non è improvviso, nè dotato di evidenza. Al contrario, è lento e suadente, quasi impercettibile. Ed è così difficile per chi viene da fuori capire che le persone educate incontrate alle feste, in realtà hanno le mani lorde di sangue...
    Il professor Dodd cerca di ragionare, si presenta alle occasioni ufficiali con i gerarchi nazisti a bordo della sua piccola auto privata. E quelli ne deducono che non ha la forza per contrastarli. Può a stento cercare di proteggere i cittadini americani. La giovane Martha passa dalla vivace vita culturale e dalle sue giocose seduzioni (tra cui un alto gerarca nazista, Ernst Hanfstaengl, e l'asso dell'aviazione Ernst Udet) al vedere una ragazza che viene rasata e messa alla berlina dalle squadre d'assalto perchè fidanzata di un ebreo. E nel contrasto tra queste situazioni, lei giovane e umorale non riesce a distinguere tra bene e male. E scrivere a Washington per ottenere aiuto serve a poco: la questione ebraica negli States dà fastidio.
    Così, alla fine del libro non ci si pone più la domanda che piace alle anime candide: «Come è potuto accadere?». È accaduto mentre tutti erano distratti tra i finti sorrisi di Goebbels, le partite doppie dell'economia internazionale e i filmati olimpici di Leni Riefenstahl. Un po' come se il mondo avesse deciso di fare una passeggiata allo zoo. Che nella vecchia Berlino si chiamava Tiergarten, cioè «il giardino delle bestie», e, ammaliato dagli occhi della tigre, non si fosse accorto che la gabbia era aperta...
    Erik Larson, missione (diplomatica) all’inferno - Cultura - ilGiornale.it

    Così Milosz fece i conti col comunismo (e la poesia)
    di Luca Negri
    Il premio Nobel dato a Czeslaw Milosz fu uno dei più azzeccati. Non solo per la statura artistica del prescelto, figura di primo piano nella poesia del Novecento, ma anche per il momento storico. Era il 1980, gli operai di Solidarnosc trascrivevano i versi di Milosz per resistere al regime comunista polacco





    un connazionale sedeva sul trono di Pietro, anche lui, per combinazione, poeta.



    Un Nobel cattolico, disse qualcuno, sicuramente anticomunista e con cognizione di causa. Lituano di nascita, socialista e artista d'avanguardia in gioventù, aveva visto con i suoi occhi la complicità dei due totalitarismi. Era a Varsavia nel 1944, quando la città in rivolta venne rasa al suolo per rappresaglia dai nazisti; sull'altra sponda della Vistola, i russi annuivano soddisfatti. Quando Milosz ebbe la possibilità di uscire dalla madrepatria ormai stalinizzata, decise di non tornare indietro.
    Nel 1956, dopo un viaggio negli Usa ed esule in Francia, per comprendere la sua vita, quella del suo paese, scrisse il Trattato poetico (Adelphi, pagg. 115, euro 16). Titolo solo in parte ingannevole, dato che si tratta di un poema e non di un saggio, accompagnato però da lunghe note dell'autore stesso, ulteriore esempio di grande letteratura.
    L'effetto complessivo è quello di un romanzo storico a frammenti, dove si impastano esperienze personali e memoria collettiva, dettagli minimi e destini comuni, realtà brutale e luminosa trascendenza. Del trattato rimane lo scopo, il fine: in questo caso, mostrare che si può e si deve far poesia quando si è al centro delle tragedie della storia. Dunque Milosz racconta se stesso e la sua patria, partendo dalla Cracovia inizio secolo, belle epoque anche per i poeti simbolisti. Poi il primo conflitto mondiale piomba il paese nella paura, nella disperata consapevolezza di nuove invasioni da Est e da Ovest, da Russia e Germania. La scena e Milosz si spostano poi a Varsavia conquistata dai nazisti, sotto il governatorato di Hans Frank, futuro condannato a morte dal tribunale di Norimberga per genocidio.
    Grazie ad un incarico diplomatico, Milosz fugge il grigio panorama politico e culturale patrio, per approdare in un'America «compimento delle fiabe infantili». S'immerge nella natura selvaggia della Pennsylvania, cerca l'oblio di ogni memoria storica e ideologia. L'ode che chiude il poema la intitola Ottobre, per dimenticare il mese della rivoluzione bolscevica del 1917 e celebrare «un tappeto di aghi di pino su strade silenziose». Non rimarrà a lungo ospite di quell'idillio, tornerà in Europa, per denunciare l'imprigionamento della mente sotto il comunismo, scoprire la fede cattolica e vincere un Nobel.
    Così Milosz fece i conti col comunismo (e la poesia) - Cultura - ilGiornale.it





    Eliminare Dante? Langone: «È il primo passo dell'Onu per abolire la Bibbia»
    Intervista a Camillo Langone, giornalista di Libero e del Foglio, sulla proposta dell'Onu di cancellare la Divina Commedia dai programmi scolastici: «Perché non abbattiamo anche il Colosseo e San Pietro? L'Onu vuole esportare il nichilismo e il cinismo a livello mondiale, ma io propongo che l'Italia esca dall'Onu e dal suo relativismo».
    Di Daniele Ciacci
    Per Valentina Sereni, presidentessa dell'associazione di consulenza speciale per l'Onu "Gherush92", bisognerebbe «espungere la Divina Commedia dai programmi scolastici ministeriali». Alcuni luoghi del testo sarebbero, infatti, islamofobi, omofobi, sessisti e antisemiti. Un concentrato di elementi diseducativi nel libro più studiato di tutta la letteratura italiana. Tempi.it ne discute con Camillo Langone, giornalista del Foglio e di Libero.
    Insomma, vogliono toglierci Dante.
    Mi aspettavo che si sarebbe arrivati a una mossa del genere. C'è una grande coerenza in questo modo di ragionare. Poco tempo fa, si voleva coprire l'affresco della Basilica di San Petronio a Bologna che raffigurava Maometto precipitato nel'Inferno. Un'immagine tratta chiaramente dal poema dantesco. Ci furono molte discussioni, e anche qualche minaccia. Ma la cosa non mi stupisce: nel momento in cui non si crede più in niente, nulla vale.

    La proposta è di Gherush92, un'associazione che è consulente speciale dell'Onu.
    L'Onu vuole esportare il nichilismo e il cinismo a livello mondiale. Oggi cercano di inquisire Dante, poi si scaglieranno contro la Bibbia. La Divina Commedia è un poema biblico, quindi è il primo passo per abolire Bibbia e Vangeli. Ma già adesso si vedono i primi sintomi. A Bologna è stata rimossa un'insegnante di religione perché insegnava l'Apocalisse, uno tra i più scomodi libri della Bibbia. È meglio non citare neanche il Genesi, che è difficile da trattare pubblicamente.

    Quindi, è l'Onu che ci sta educando al nichilismo.
    Sono per l'uscita dell'Italia dall'Onu, dall'Unione europea e da qualsiasi altra associazione che cerchi di distruggere culturalmente il nostro paese incentivando l'ideologia relativista. Se niente ha un valore assoluto, è giusto togliere tutti i libri scomodi. Noi viviamo in uno stato di censura, mille cose non si possono più dire. Ma perché? Perché ce lo impongono delle sovrastrutture nazionali che si fanno a carico di direttive mondiali. E che, tra l'altro, dipendono dai nostri fondi di povere provincie. Io sono per la sovranità nazionale, e che un'entità sovranazionale dica quello che si deve e non deve fare in ambito scolastico nei singoli paesi mi infastidisce. Adesso, poi, con il governo Monti ci siamo resi vassalli del governo europeo, che è capace di farci digerire qualsiasi follia. L'Italia ha sempre avuto una certa abitudine al servilismo. Quindi, è giusto che tolgano la Divina Commedia, che è la cosa più grande che ha prodotto l'Italia. Già che ci siamo, abbattiamo il Colosseo o San Pietro.

    Come si può reagire?
    Non con le parole. Bisogna togliere i fondi, affamare la bestia. Associazioni come Gherush92, dedite alla distruzione della nostra cultura, devono essere liquidate eliminando qualsiasi sostegno economico. Da dove vengono i soldi per le loro ricerche? Temo da noi contribuenti. Inizio a credere che l'evasore fiscale, se riesce ad affrontare e superare i meccanismi sovranazionali, sia un eroe…
    Eliminare Dante? Langone: «È il primo passo dell'Onu per abolire la Bibbia» | Tempi

    Preghiera
    di Camillo Langone
    Extra Ecclesiam nulla salus. C'è chi lo evince da San Cipriano, io da Marco Franzoso. “Il bambino indaco” (Einaudi) è il più convincente romanzo religioso italiano degli ultimi lustri, forse degli ultimi decenni, così convincente perché non sembra religioso mai. Né l'autore né l'editore suscitano il benché minimo sospetto di cattolicesimo quindi il messaggio antignostico del libro può passare indenne dal fuoco dei pregiudizi. “Ciò che mia moglie desiderava di più”, dice il protagonista, “era un lavaggio dell'anima oltre che del corpo. Un lavaggio radicale del mondo intero, vigoroso e violento, che avrebbe lasciato le cose scarnificate, quasi inesistenti, ma finalmente pure”.
    E' un thriller che terrorizza mostrando la mistica senza religione nella sua nudità di errore e orrore. Uno lo legge e gli viene voglia di ubbidire a ogni riga del catechismo di san Pio X.
    Preghiera del 21 marzo 2012 - [ Il Foglio.it › Preghiera ]

    Ultima modifica di Melchisedec; 28-03-12 alle 00:50

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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    SE LA RIVOLUZIONE AMERICANA PASSA DA POGGIO, IL TEA PARTY RICORDA MAZZEI
    Riccardo Cavirani
    Quale occasione migliore, se non un Tea Party a Poggio a Caiano, per parlare di un personaggio sconosciuto ai più ma importante, sia per la Storia americana sia per il liberalismo europeo, che, come spesso avviene in Italia è più famoso all'estero che non nel nostro Paese.
    Filippo Mazzei, chi era costui?
    Filippo Mazzei nasce da una nobile famiglia di Poggio a Caiano il 25 dicembre del 1730. Studia Medicina a Firenze, dove entra in contatto con il fervore culturale dell'epoca. La natura poliedrica del personaggio lo porta dapprima a trasferirsi a Livorno e poi ad intraprendere un viaggio via terra per Smirne, in Turchia, al seguito di un medico di nome Salinas. Nel 1755 il Mazzei, in qualità di medico di bordo, si imbarca su un vascello inglese: destinazione, Londra. Nella città darà vita ad una attività commerciale importando prodotti tipici italiani, e soprattutto sarà questo il luogo dove Filippo stringerà i primi rapporti di amicizia con i futuri padri della Rivoluzione americana, nelle figure di Benjamin Franklin e Thomas Adams.
    Questo incontro segnerà la svolta: il 2 settembre 1773, dopo essere tornato brevemente in Toscana per organizzare il suo viaggio, Filippo Mazzei salpa da Livorno alla volta delle Colonie d'America. Ad accoglierlo, al suo arrivo nella Virginia, c'è anche Thomas Jefferson, con cui Mazzei legherà fin da subito: i due si troveranno ben presto fianco a fianco sia di casa che nelle vicende politiche americane. Thomas Jefferson cede infatti al Mazzei alcuni ettari di terreno vicini alla proprietà di Monticello, la famosa residenza del futuro presidente degli Stati Uniti, nella contea di Albermarle, dove il Toscano vuole intraprendere delle sperimentazioni con alcuni “cultivar” portati dall'Italia.
    Nel frattempo, il 13 dicembre 1773, a Boston, alcuni coloni americani gettano a mare le casse di tè di proprietà della Compagnia delle Indie, per protestare contro la politica fiscale attuata da re Giorgio d'Inghilterra. E' il celebre Boston Tea Party, il primo Tea Party della Storia. Le Colonie americane attraversavano in quel tempo un periodo di prosperità: lontane dalla madrepatria, avevano sviluppato una forte autonomia politica ed economica. L'autogoverno locale, basato sulle assemblee cittadine, esprimeva una classe politica che rispecchiava fedelmente la società americana, basata su una gerarchia economica e sociale molto dinamica. La forte alfabetizzazione permetteva la circolazione di idee, tramite giornali e periodici, mentre l'intreccio di culture e luoghi di origine diversa dei coloni favoriva il rispetto e la tolleranza religiosa.
    Filippo Mazzei fu subito attratto da questo nuovo mondo, così come gli era stato raccontato dagli amici Adams e Franklin durante i soggiorni londinesi. E cercò di realizzare all'estero quello che in patria non poteva realizzare: una società basata su un sistema politico nuovo. E per questo gli fu riconosciuta, dopo il suo arrivo, la cittadinanza della Colonia della Virginia. Ma la situazione politica americana stava precipitando e Mazzei non poté contribuire ad un altro grande sogno che aveva, oltre a quello politico: il sogno di impiantare coltivazioni mediterranee in nord America, tramite alcuni contadini lucchesi di Orbicciano, vicino a Camaiore, che si era portato al seguito.
    La Corona inglese, infatti, per uscire dal momento di crisi dovuto alle ingenti spese contratte durante la guerra dei Sette Anni, decide di rifarsi sulle Colonie aumentando la tassazione e i dazi doganali. La paura di un rafforzamento del potere centrale dello Stato, la negazione dell'autonomia politica delle Colonie ed il ritorno ad una logica burocratica ed imperialistica scatenano il panico nei Coloni. Dopo il Boston Tea Party l'Inghilterra inasprì le misure repressive nei confronti delle Colonie e di lì alla guerra il passo fu breve.
    Nel 1775, dopo gli scontri di Lexington e Concord, che segnano l'inizio della Guerra d'Indipendenza, Mazzei e Jefferson si arruolano come volontari per difendere il sogno di Libertà, a dimostrazione di quanto diceva Benjamin Franklin: “La democrazia è rappresentata da due lupi ed un agnello che dibattono e votano su cosa mangiare per cena. La libertà è un agnello bene armato che contesta il voto dei due lupi”.
    Mazzei partecipò alla vita politica della Virginia in prima persona, scrisse le “Instructions of the Freeholders of Albemarle County to their Delegates in Convention”, redatto come istruzioni per i delegati della contea di Albemarle alla convenzione autoconvocatasi dopo lo scioglimento forzato dell’assemblea della Virginia imposto dal governatore inglese. E soprattutto fu al fianco di Jefferson e suo ispiratore nella stesura della famosissima Dichiarazione d'Indipendenza del 4 luglio 1776.
    Lo stesso Congresso Americano, con una risoluzione del 1994, afferma che la frase tutti gli uomini sono creati uguali fu inserita nel testo da Thomas Jefferson su proposta di Filippo Mazzei. Ed anche John F. Kennedy ricorda la paternità mazzeiana della frase.
    Certo, è difficile dire quanto ci sia di Mazzei in Jefferson e di Jefferson in Mazzei vista la fitta corrispondenza e gli ancor più stretti rapporti di amicizia e stima che legavano i due uomini. Una cosa è certa: questi due uomini ci hanno lasciato uno dei testi più solenni ed evocativi della Storia umana; “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di Governo tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o abolirlo, e creare un nuovo Governo, che si fondi su quei principi e che abbia i propri poteri ordinati in quella guisa che gli sembri più idonea al raggiungimento della sua sicurezza e felicità”.
    Alcuni studiosi ritengono che anche la bandiera degli Stati Uniti sia nata su idea del Mazzei: egli propose che la nuova bandiera si ispirasse allo stendardo del marchese Ugo di Toscana, un personaggio del medioevo comunale toscano, apprezzato anche dall'Alighieri, che aveva favorito la nascita di molti liberi comuni a cavallo dell'anno Mille.





    Il suo stendardo raffigurava tre strisce bianche in campo rosso.



    Ma i nuovi stati americani erano tredici, quindi sei strisce bianche in campo rosso per un totale di tredici strisce in tutto.
    A raccontare la storia del Mazzei, in poche righe ci scorrono davanti il Medioevo, l'America, la Toscana, Dante, Kennedy, Jefferson, la guerra, la speranza di un nuovo mondo, il sogno di libertà.. insomma ci sono tutti gli ingredienti per passare dalla Storia alla Leggenda. E Mazzei, in tutto questo, che fine fa? Una storia del genere potrebbe avere un degno epilogo solo in un altro luogo ricco di fascino e mistero, come Parigi. E invece no.
    A Parigi Mazzei arriva nel 1780 come rappresentante dello Stato della Virgina per una missione diplomatica: perorare la causa americana. A Parigi rimarrà però deluso dagli esiti di una seconda rivoluzione di cui sarà spettatore in prima persona. La Rivoluzione francese del 1789, che con il periodo del Terrore porta a compimento quegli eccessi di statalismo che Mazzei aveva da sempre combattuto.



    Deluso da questa esperienza, dopo aver prestato servizio alla Corona polacca, Mazzei torna in Italia e, novello Cincinnato, prende casa a Pisa e si dedica alle sue passioni originare: lo studio della Storia e la coltivazione della terra. Da questo momento inizia a firmare tutta la corrispondenza con lo pseudonimo di Pippo l'Ortolano. E sarà vivendo fino alla vecchiaia una vita da homo faber mirandoliano che lo sorprenderà la morte, serena, il 19 marzo 1816 nella dimora pisana.
    Fino a quella data l'età non gli impedirà di continuare a viaggiare per l'Europa e di avere rapporti epistolari con Thomas Jefferson ed altre importanti personalità, soprattutto i suoi compagni di avventure nel nord America, che fino all'ultimo saranno riconoscenti del suo impegno per la causa delle Colonie, a testimonianza di quanto scrive lo stesso Mazzei nella prefazione di una delle sue opere: “Gli americani non fanno domande ad uno straniero riguardo a chi è e da dove viene, ma a cosa egli può fare”.
    E voi, per riprendervi la vostra parte di Libertà, cosa siete disposti a fare?
    Tea Party ITALIA - SE LA RIVOLUZIONE AMERICANA PASSA DA POGGIO, IL TEA PARTY RICORDA MAZZEI



    L'autore del "Trattato del Ribelle"
    Per Junger l'uomo trionfa quando prende coscienza della propria libertà
    Luciano Capone
    Pochi giorni fa il Garante della Privacy ammetteva senza troppi giri di parole che "il rischio di trasparenza amministrativa senza limiti" sta trasformando i cittadini in "potenziali mariuoli”. Il prof. Pizzetti ricordava che “in uno stato democratico, il cittadino ha il diritto di essere rispettato fino a che non violi le leggi e non può essere sospettato a priori". Ma l’ammonimento del Garante non sembra aver fermato la marcia trionfale della “lotta all’evasore” che propone la pubblicazione di black-list di delinquenti e l’assegnazione del “bollino blu” per gli onesti. In televisione magistrati come Davigo dicono che la privacy è un falso problema: “Se una persona viene processata per pedofilia si deve sapere: il vicino di casa deve sapere se può lasciare il suo bambino libero di giocare al parco” e ancora “nel rapporto tra reddito e beni posseduti bisogna invertire l’onere della prova, come si fa per i mafiosi. Devi spiegare come fai ad avere quei beni, altrimenti vengono confiscati”.
    L’evasore come il pedofilo o il mafioso. La ricchezza come proprietà dello Stato che devi dimostrare di aver guadagnato. L’Italia è in crisi e rischia di fallire a causa dell’enorme debito pubblico fatto dallo Stato nonostante l’enorme pressione fiscale. Sul banco degli imputati dovrebbe esserci lo statalismo, il centralismo, la politica, la burocrazia e l’enorme spesa pubblica dissennata e improduttiva. Lo Stato è alle strette e deve trovare un nemico assoluto, una giustificazione al suo fallimento: l’Evasore. Se c’è il debito pubblico è perché gli evasori non hanno pagato le tasse, se pagate troppe tasse è perché ci sono gli evasori, se i servizi non funzionano è colpa degli evasori. Segnalateli, denunciateli, ispezionateli, intercettateli. Stato di polizia.
    “Le domande incalzano sempre più da vicino, si fanno sempre più assillanti, e sempre più importante diventa il modo in cui noi rispondiamo. Non dobbiamo dimenticare che anche il silenzio è una risposta. È sorprendente come tutto diventi risposta e quindi materia di responsabilità” scriveva Ernst Junger nel Trattato del Ribelle.
    I cittadini devono lavorare per pagare le tasse, consegnare la metà di quanto guadagnato allo Stato che provvederà al “bene comune”. Chi si sottrae è quindi un nemico della collettività. Il punto è proprio questo, lo Stato e la burocrazia hanno bisogno del nemico, dell’evasore per esercitare il loro immenso potere. “La propaganda – scriveva Junger – ha bisogno di una situazione nella quale il nemico dello Stato sia già stato messo fuori combattimento e quasi ridicolizzato, e però non sia ancora scomparso del tutto. Il semplice consenso non basta alle dittature: per vivere esse hanno bisogno altresì di incutere odio e seminare il terrore”. Il filosofo tedesco aveva illustrato bene il meccanismo per cui, sparito il nemico, “il terrore non ha più ragione d’esistere, non si incontrerebbero altri che giusti”. Senza il nemico lo Stato italiano e la politica dovrebbero ammettere il loro colossale fallimento: lo inefficienze pubbliche si reggono sull’Evasore.
    Nei momenti di crisi lo Stato agisce in nome della necessità e ha bisogno di un nemico che appaia sempre più pericoloso, un nemico pubblico. “In questa situazione è comprensibile che l’uomo preferisca caricarsi di fardelli più gravosi” come ad esempio l’aumento delle tasse “piuttosto che essere annoverato tra i diversi. L’automatismo sembra sbriciolare quel che rimane della libera volontà”. Naturalmente Junger non pensava all’Italia, ma alle “teorie che tendono ad una spiegazione logica e razionale del mondo” e alla sua incarnazione, lo stato totalitario che sottomette l’uomo. Attualmente gli apparati politico-burocratici degli stati moderni hanno ambizioni inferiori: mantenere il potere e il controllo su una macchina che vive sottraendo ai cittadini la metà delle risorse prodotte.
    Lo scrittore tedesco era comunque ben consapevole del fatto che il controllo dei mezzi comporta anche il controllo dei fini: “La concorrenza è simile a una gara di corsa in cui il premio spetta ai più abili. Quando essa viene a mancare, c’è il rischio di vivere di rendita a carico dello Stato. E così ora sarà la paura a imprimere la spinta che prima nasceva dalla corsa”. La pervasività dello Stato riduce la libertà economica fino a minacciare la libertà individuale: “L’uomo tende a rimettersi agli apparati e a far loro posto. Il grande rischio è che l’uomo confidi troppo in questi aiuti e si senta perduto se essi vengono a mancare. Ogni comodità ha il suo prezzo. La condizione dell’animale domestico si porta dietro quella della bestia da macello”.
    L’individuo sembra destinato a soccombere perché ha un’innegabile capacità di sopportare necessità sempre più restrittive, imposte da un potere sempre più opprimente. Ma il singolo ha dentro di sé enormi risorse e maggiore forza di volontà di quanta non ne possiedano gli apparati. La presa di coscienza della propria libertà è un atto di coraggio, una sfida alla paura della vertigine e un atto di ribellione. L’individuo si sottrae alle categorie imposte dalla propaganda e diventa consapevole che la libertà è l’unica necessità: “La sovranità non si riscontra più nelle grandi risoluzioni, ma esclusivamente nell’uomo singolo che ha vinto in sé la paura. Le incredibili procedure contro di lui sono destinate, in ultima istanza, al suo stesso trionfo. Quando l’uomo capisce questo, è libero”.
    Per Junger l'uomo trionfa quando prende coscienza della propria libertà | l'Occidentale




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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Volkoff come i Blues Brothers, in missione per conto di Dio
    Luca Negri
    È un peccato che in troppi nel nostro paese non abbiano idea di chi fosse Vladimir Volkoff (da non confondere col quasi omonimo calciatore serbo, difensore del Partizan Belgrado). Wikipedia-Italia, tanto per dire, nemmeno gli dedica una paginetta. Lode al merito dell’editore Guida di Napoli, che nel corso degli anni ha pubblicato alcune sue opere; abbastanza recente la riedizione della più giustamente famosa: Il Montaggio. È un’ottima opportunità per immergersi nel mondo di Volkoff, scrittore straordinario che visse una vita quasi da romanzo.
    Nacque a Parigi nel 1936, figlio della prima emigrazione russa, quella in fuga dal bolscevismo, e ancora in Francia rese l’anima a Dio a settantatre anni. Fu romanziere per grandi e piccini (sotto lo pseudonimo di “Tenente X”), e le sue storie erano soprattutto di spionaggio. Infatti, conosceva bene il mondo dei servizi segreti, troppo bene per non esserne coinvolto in un modo o nell’altro (come il suo amico Graham Greene, genio letterario e agente segreto al servizio di Sua Maestà). Volkoff fu forse utile agli Stati Uniti, dato che visse oltreoceano per tanti anni; in fondo era anche un ottimo spadaccino. E conosceva bene la sua terra d’origine, la sua cultura, la sua mentalità, nonostante non avesse ancora messo piede sul suolo della terra madre. Fatto sta che era anche esperto di tecniche di disinformazione e scrisse saggi sull’argomento, smascherando i tranelli dell’Urss, Dopo la caduta del Muro, da lui salutata con tutte le buone speranze di un antibolscevico storico, quasi cromosomico, si dedicò allo svelare gli altarini dei servizi e della stampa d’occidente. Diremmo che c’è solo da imparare, sono questioni di indubbia attualità.
    A coronamento e fondamento di tutto il resto, Volkoff era un fedele seguace della chiesa ortodossa russa e scrisse parecchio anche riguardo al mondo del sacro, alle verità cristiane. Certamente uno dei suoi capolavori è “Il Re”, provocatoriamente uscito nel 1989, nel pieno dei festeggiamenti per il bicentenario della Rivoluzione Francese. Invece di lodare il demos in rivolta o le élite illuminate e fulminate, si dedicava al concetto di sovranità, da distinguere con cura da quello di mera monarchia. Anche un partito può governare da solo, fare il monarca, anche un tiranno; non era il caso di confondere il sovrano assoluto dell’era moderna con il sacro e fiabesco sovrano tradizionale e medioevale.
    “Il Montaggio” è invece una spy-story datata primi anni ‘80; senza deludere gli appassionati del genere per l’intrigo e la suspense, si collega alla tradizione del romanzo russo (aleggia lo spirito familiare di Dostoevskij), ed è un’opera profondamente cristiana, anche e sopratutto nella mancanza di lieto fine. Racconta cinquant’anni di vita di Aleksandr Psar, personaggio che ha in comune con Volkoff la generazione anagrafica, l’origine geografica, e la condizione di esule. Per esaudire l’ultima speranza del padre defunto, un militare controrivoluzionario, Psar deve tornare nella madre patria. E’ ora di far pace con l’Urss, in fondo la guerra contro il nazismo è stata vinta dai russi più che dai sovietici. Così il giovane si avvicina ai comunisti, ricevuta la promessa di poter prima o poi vedere la terra degli avi, accette l’arruolamento nel Kgb. Non si deve occupare si semplice spionaggio, nemmeno di controspionaggio.
    Sarà un “agente d’influenza”, ovvero dovrà entrare nel mondo dell’editoria, diventare un grande agente letterario e mettere sul mercato libri utili. Non si tratta di pubblicare apologie del marxismo-leninismo, non serve predicare ai convertiti. Piuttosto occorre incentivare il nichilismo nella società intera, infiacchire la tempra morale dei francesi per poi sottometterli facilmente. Dunque, dagli anni ’50 Psar riesce a mandare in libreria autori d’avanguardia che demoliscono la sintassi e l’ortografia: a Mosca sono convinti che la lingua forgi il popolo, votarla al caos sarà fruttuoso. Ma il vero successo di vendite e grazie del Kgb saranno i “libri bianchi”, snelli pamphlet incisivi sui settori strategici: quello sulla donna ha contribuito ad aumentare gli aborti, a denatalizzare il nemico; quello sull’istruzione ha ispirato il ’68, e non è poco; quello sulla Chiesa ha fatto pressione per l’appiattimento del cattolicesimo sul piano sociale; quello sulle dittature ha concesso lo stesso numero di pagine all’impero concentrazionario oltrecortina e all’effimera esperienza dei colonnelli greci.
    Anche questi non sono dettagli. L’ultima missione, quella da premiare con l’agognato ritorno in Russia, coinvolge Psar in qualcosa di ancor più grosso. Si tratta di gestire un finto scrittore dissidente, usato dai sovietici per screditare Solzenicyn ed altri intellettuali esuli. Un’operazione che mette in questione la verità come mai prima, che in un modo o nell’altro darà la svolta definitiva alla vita del protagonista.
    Al lettore rimarrà il dubbio: esistevano veramente gli “agenti di influenza”? Esistono ancora? Pagati da chi? Ai fini della narrazione basta la verosimiglianza. Il complottista potrebbe concludere che lo stesso Volkoff scriveva probabilmente per conto di qualcuno. E il mistero, a questo punto, si infittisce. Noi crediamo che fosse, come i Blues Brothers, in missione per conto di Dio.



    L’«Osservatore» promuove i vampiri di Twilight
    di Redazione
    L'Osservatore romano decide di assegnare il marchio di qualità alla saga cinematografica di Twilight e all'amore innocente e puro dei due vampiri Bella e Edward; nella storia, si spiega, si esalta il valore del matrimonio è c'è il rifiuto dell'aborto. In un articolo dedicato all'etica nel mondo dei media, si ricorda fra l'altro la recente scomparsa di Lucio Dalla e la sua capacità di affascinare i giovani raccontando le storie di persone marginali. «Certe produzioni cinematografiche -spiega l'Osservatore - mostrano un ritratto dell'amore di cui difficilmente sentiamo parlare tanti esperti; tra queste, la più recente è la saga di Twilight». «È la storia di Bella Swan che s'innamora perdutamente di un vampiro, e in cui troviamo, raccontato con le parole di oggi, la bellezza di un amore che potrebbe distruggere l'altro, che ne avrebbe la forza, e che invece si strugge e languisce per cogliere l'amore dall'altro con rispetto». Dunque «non è il vampiro o il sangue che attrae i ragazzi in questa serie di libri-film, ma l'amore giovane e fedele di Edward e Bella, un amore che non “usa e getta” l'altro, come invece invita a fare la cultura postmoderna».
    L’«Osservatore» promuove i vampiri di Twilight - Spettacoli - ilGiornale.it

    Flavio Insinna: «La mia rinascita dopo la depressione»
    Angela Calvini
    «Quando mio padre è morto sono rimasto settimane sdraiato per terra a guardare il soffitto, ero scarmigliato e ingrassato. Il dolore resta, ma la fede mi ha aiutato». Flavio Insinna, nel maggio scorso, dopo la perdita del padre Salvatore, aveva detto stop alla tv e al cinema. «Ora non mi interessa, voglio solo dedicarmi alla mia famiglia» aveva dichiarato. Nel frattempo, però, ha scritto un libro, Neanche con un morso all’orecchio, appena pubblicato da Mondadori, un omaggio al genitore scomparso. E, a breve, tornerà su Canale 5 con un nuovo game show preserale. «Il libro non è stato una terapia, avevo un impegno precedente per un’autobiografia – spiega l’attore – . Nei giorni in cui ho scritto stavo peggio. Ma ora che la gente comincia a leggerlo, mi accorgo che sono in tanti a provare le stesse cose».

    Lei crede nell’aldilà?
    Di recente mi hanno proposto un nuovo gioco su Canale 5, il primo pensiero è stato: «Devo chiedere il parere a papà». Ho una sua bellissima foto in bianco e nero sempre con me, e mezza chiacchieratina al giorno con lui me la faccio. Sono certo che mi ascolti. Davanti a una prova come la morte, la fede può vacillare. Ho un rosario sempre in tasca, regalatomi da un amico sacerdote. E sono riuscito a resistere. Ho cercato disperatamente di non sentirmi tradito, se no avrei avuto la sensazione di avere perso una partita due volte. Se pensassi di essere tradito dalla mia luce più forte che è la mia fede cattolica, sarei nel deserto. Nel Padre Nostro diciamo «sia fatta la tua volontà»: e io mi piego, sbando, però mi sforzo di restare appigliato con testardaggine.

    Lei racconta anche del suo «male di vivere».
    Il male di vivere lo provo sin da ragazzino, sono diviso tra due anime. Da mia madre ho preso la parte giocosa e divertente, la fede, la voglia di darsi. Da mio padre ho ereditato i silenzi e i momenti di isolamento. Il rapporto con lui è stato molto conflittuale da ragazzo, per fortuna da adulto ho saldato tutti conti, l’ho stritolato in abbracci quotidiani. È vera la frase: «Goditi i genitori finché ce li hai».

    Difficile affrontare il dolore da personaggio pubblico.
    Mentre mio padre moriva, in ospedale in molti mi hanno chiesto autografi e foto. Al momento mi arrabbiavo, poi ho capito che anche loro erano lì perché avevano qualcuno che soffriva: un sorriso non si nega a nessuno. A volte, poi, il Padreterno ti fa venire incontro una bambina, che ti mette le manine fra le tue come per chiedere aiuto, mentre la madre in una stanza sta morendo di cancro. Momenti che non scorderò più.

    Suo padre era un medico. Che cosa le ha insegnato sulla malattia?
    Lui si è occupato di tossicodipendenti, disabili e malati di mente. A 10 anni come regalo mi portò in Canada, perché era medico alle Paralimpiadi. Quando arrivammo mi disse: «Ecco, ora spingi quel signore sulla sedia a rotelle. Così quando ti lamenti, ti ricordi di questo ragazzo che nuota senza gambe». Spinsi quella carrozzella per un mese, una grande lezione. E poi lui diceva che funziona la tachipirina, ma serve anche l’Ave Maria.

    Il matrimonio dei suoi genitori è stato un esempio.
    Sono stati insieme 51 anni. Non si può dire che erano altri tempi, sono le persone che fanno i tempi. Loro si sono spesi per noi, consumati. Ricordo la tonaca di don Bosco a Torino, quando giravo la fiction: era lisa, sfondata, usata tutta per amore degli altri. I miei, erano come quella tonaca.

    E lei, che genitore sarebbe?
    A mio figlio passerei quegli insegnamenti. E cercherei tutti i giorni di fargli capire che ci sono, che c’è una famiglia che lo aiuterà.
    Flavio Insinna: «La mia rinascita dopo la depressione» | Spettacoli | www.avvenire.it


    Il conservatorismo contemporaneo di Scruton
    di Giulio Meotti
    Si conclude con un elenco di consigli di letture il “Manifesto della destra divina” (Vallecchi) di Camillo Langone. Accanto alla Bibbia e a Dante, compaiono Josemaría Escriva de Balaguer, Luigi Giussani, Nicolás Gómez Dávila, C.S. Lewis, Orazio, Fernando Pessoa e Nikos Salingaros. C’è anche il filosofo inglese Roger Scruton, il letterato-predicatore, uno dei massimi esponenti del conservatorismo contemporaneo, “l’anima culturale della Thatcher Revolution”. Proprio a Scruton, autore del saggio “Il manifesto dei conservatori” e giudicato dal New Yorker “uno dei più influenti filosofi al mondo”, abbiamo chiesto un parere su questa biblioteca.
    “Sono d’accordo con l’elenco di libri”, ci dice Scruton. “E con piacere vedo che c’è anche il mio amico Nikos Salingaros, per il quale la vita nell’architettura è il fondamento della comunità umana, il presupposto per il nostro abitare. Per lui il problema sta nello spirito di decostruzione, che si è diffuso nel mondo intellettuale al pari di un virus impedendo le normali forme di pensiero. Nella lista di libri che c’è anche Jean Clair, uno degli ultimi autentici critici d’arte. Ha fatto bene l’autore a inserire Luigi Giussani, un protagonista della causa italiana che si è opposto alla cultura che sta dietro al ’68, al suo nichilismo, favorendo la ricerca di Dio”.
    Scruton parla anche di T.S. Eliot. “Eliot ha colto la distinzione tra una nostalgia volta al passato, che non è altro che un’altra forma di sentimentalità moderna, e una tradizione genuina che ci dà il coraggio e l’ottica giusta con i quali vivere nel mondo moderno. Eliot ha ereditato quel grande bene dello spirito pubblico che è il dono della democrazia americana al mondo moderno. Ma non era democratico in arte, poiché credeva che la cultura non potesse essere affidata al processo democratico, proprio per questa incuranza nei confronti delle parole, questa abitudine ai clichè ottusi, che sempre si presentano quando si reputa che chiunque abbia uguale diritto di esprimersi. La risposta deve trovarsi nella religione e, in particolare, nel linguaggio comune che la religione tradizionale dona sia alla grande cultura dell’arte sia alla cultura di base della gente. La religione è la linfa di una cultura”.
    Ma il conservatorismo non ha bisogno soltanto di libri, conclude Scruton. “Per dieci anni prima del 1989 ho visitato i paesi dell’Europa orientale per sostenere l’educazione clandestina attraverso reti di dissidenti. Venivo caricato in auto agli angoli delle strade e portato in appartamenti pieni di fumo, dove mi aspettavano studenti venuti lì soltanto per incontrarmi. Ogni colpo alla porta era accolto da un silenzio glaciale. C’erano libri in molte lingue sugli scaffali e un crocifisso alla parete. Nel 1985 venni arrestato dalla polizia cecoslovacca, ma ci siamo fermati soltanto quando quelle catacombe sono state aperte. Oggi però, oltre ai libri, c’è bisogno anche di una leadership che affronti la macchina europea determinata a brutalizzare lo spirito della cristianità e a favorire un nuovo tipo di nichilismo materialista. Forse è dall’Italia che inizierà la battaglia per l’anima europea. Il primo passo è ignorare il recente pronunciamento contro il crocifisso nelle aule scolastiche da parte della Corte europea dei ‘diritti inventati’. Il passo successivo è disobbedire a tutte le leggi imposte nel paese dai suoi nemici”.



    Messainlatino.it: Echi Tridentini in Tolkien
    Tolkien al figlio: "Prego molto. In latino".
    “Se già non lo fai, prendi l’abitudine di pregare. Io prego molto (in latino): il Gloria Patri, il Gloria in Excelsis, il Laudate Dominum; il Laudate Pueri Dominum (a cui sono particolarmente affezionato), uno dei salmi domenicali; e il Magnificat; anche la Litania di Loreto (con la preghiera Sub tuum praesidium).
    Se nel cuore hai queste preghiere non avrai mai bisogno di altre parole di conforto. E’ anche bene, una cosa ammirevole, sapere a memoria il Canone della Messa, perché la puoi recitare sottovoce se qualche circostanza avversa ti impedisse di assistervi. Così endeth Faeder lar his suna.
    Con tutto il mio amore.”
    J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey
    Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.77.
    MiL - Messainlatino.it: Echi Tridentini in Tolkien - II parte. "Prego molto. in latino".


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    SCRUTON
    Aboliamo la rivoluzione
    È un modo di pensare marxista senza senso quello che dice che o si va con la storia oppure se ne viene travolti. Ci sono solo le nostre libere scelte
    di Angelo Ascoli
    Quelli che lo odiano, tutti politicamente corretti, lo definiscono uno dei maggiori reazionari europei. Quelli che lo amano lo considerano uno dei pochi maestri coraggiosi del pensiero occidentale.
    Professor Scruton, lei denuncia il conflitto del tradizionale Stato-nazione contro l'Unione Europea, l'Onu e le altre organizzazioni sovrannazionali. In un mondo sempre più globale, non è una battaglia antistorica?
    «Non c'è bisogno, per uno Stato-nazione di essere contro l'Ue o l'Onu. Ma l'Ue deve riformarsi, così come deve accettare che l'opinione pubblica privilegi le nazioni e non gli altri organismi internazionali. Io non penso che la globalizzazione abbia cambiato qualcosa a questo riguardo: ha soltanto reso più urgenti certe esigenze. L'Unione Europea è popolare presso le elite, perchè ha diffuso la loro libertà e il loro potere; non è popolare presso il popolo, perchè ha sottratto forme preziose di supporto e ha ostacolato la vita quotidiana con assurdi regolamenti».
    Il suo conservatorismo va contro il movimento della storia: lei pensa che sia soltanto una provocazione intellettuale oppure potrebbe realmente deviare il corso della storia?
    «La storia non è una forza indipendente dalle decisioni umane che la creano. È un modo di pensare marxista vecchio e senza senso supporre che o si va con la storia oppure se ne è travolti. Non accadono simili cose nella storia, ci sono solo le nostre libere scelte. Immaginiamo cosa sarebbe successo se qualcuno avesse detto a Cristo sulla croce: tu stai andando contro il corso della storia!».
    Il conservatorismo è il contrario della rivoluzione. Ma che cosa sarebbe stata la storia senza rivoluzioni, senza strappi, anche violenti? Cosa sarebbe stata la storia senza la rivoluzione francese?
    «La storia senza la rivoluzione francese sarebbe stata una storia senza il primo genocidio europeo, quello della Vandea, senza Napoleone e senza l'invasione dell'Europa. Sarebbe stata un'Europa senza le tensioni che hanno provocato la prima guerra mondiale, e senza le due rivoluzioni, quella sovietica e quella nazista, che hanno provocato la distruzione del nostro continente. Per tutto questo io sono attratto dall'idea di una storia senza rivoluzioni».
    Lei parla di buonsenso come antidoto contro tanti mali moderni. Che cos'è il buonsenso?
    «Il buonsenso vuol dire preferire una soluzione ragionevole, significa sospettare degli intellettuali con le loro utopie e le loro ideologie».
    Il suo conservatorismo va al di là di destra e sinistra?
    «Sinistra e destra sono parole ereditate dalla rivoluzione francese, quando il Terzo Stato sedeva alla sinistra del re, la nobiltà e il clero alla sua destra. Sarebbe potuto essere al contrario e sarebbe stato un ribaltone per il re. Ma se sono costretto a definirmi, preferirei dire che io sono di destra da quando credo nell'autorità, nell'ordine, nella legge, nella proprietà e nella tradizione».
    Ottimista o pessimista sul destino della nostra epoca?
    «La nostra epoca ha aspetti che fanno sperare. Ma certamente io cerco di essere pessimista in modo che possa essere piacevolmente sorpreso dagli eventi».
    I giovani sono, per antonomasia, ribelli. Possono le nuove generazioni essere ribelli?
    «Da giovane sono stato ribelle. Mi sono ribellato al socialismo; mi sono ribellato allo Stato e al suo disprezzo per la libertà individuale. E mi sono ribellato ai giovani, alla loro stupidità e mancanza di cultura. Io penso che possano esserci altri giovani che sentano ciò che ho sentito io».
    Cosa pensa dell'educazione delle nuove generazioni?
    «È un problema difficile. Il futuro della civiltà non dipende più dalla cultura universale, ma da un'elite colta. Bisogna creare le condizioni per incoraggiare un'elite simile a emergere».
    Con Eliot, lei denuncia il pericolo dell'umanesimo liberale e scientifico. Perchè proprio Eliot e non altri poeti o pensatori antimoderni, come Nietzsche?
    «Amo Eliot perchè è sereno, moderato e non è apocalittico. Nietzsche fu un egocentrista e un pazzo, che ebbe pensieri di distruzione e fu incapace di accettare che la gente possa accettare il proprio destino con saggezza e consapevolezza, invece che vivere tra guerre e sofferenze».
    Quali sono i tre libri necessari per un perfetto conservatore?
    «Le riflessioni sulla rivoluzione francese di Edmund Burke; i Quattro quartetti di T.S. Eliot e i Promessi sposi di Manzoni».
    E i tre libri che un vero conservatore non deve leggere?
    «I conservatori non hanno bisogno di difendersi da libri da cui sono in disaccordo. Comunque, ci sono libri che riescono a farli arrabbiare più del necessario: includo in questa lista tutte le opere di Foucault, Deleuze, Guattari, Lacan, Derrida, ecc.».



    Spente tre stelle del firmamento conservatore
    di Marco Respinti
    La natura non può che fare il proprio corso, e così il firmamento del conservatorismo statunitense ha visto nelle ultime settimane spegnersi quattro stelle di prima grandezza.
    Il 2 marzo è scomparso all’età di 80 anni James Quinn Wilson; il 25 marzo è morta, raggiunti i 90 anni, Priscilla Langford Buckley; il 27 marzo è deceduto l’84enne Hilton Kramer; Esistenze lunghe e piene, soprattutto di senso.

    L'ACCADEMICO WILSON
    Scienziato della politica ed esperto di amministrazione pubblica, James Q. Wilson è diventato famoso per avere interpretato al meglio la famosa dottrina della "tolleranza zero" contro la criminalità (micro e macro, organizzata e non) con cui negli anni 1990 il sindaco di New York Rudolph Giuliani ha fatto fortuna politica (all’epoca in cui ancora Giuliani faceva fortuna politica). Non ne fu il creatore (l’idea risale agli anni 1970 e al Partito Democratico), ma quella dottrina Wilson seppe perfezionarla e farla funzionare al meglio. L’idea sua era semplice e tale resta: se si fa finta di nulla di fronte a un torto piccolo, a un’infrazione lieve o a un danno doloso ma limitato, si creano immediatamente, anche magari senza volerlo, le condizioni per una escalation mostruosa. Tutto sta nel titolo di quel loro saggio: se non punisci subito la ragazzata di che rompe una finestra con un sasso, presto avrai una città invasa da bande di delinquenti strategicamente disposte, e a quel punto sarà ovviamente troppo tardi per invertire la rotta.
    Wilson, che è stato il cuore più puro di questa idea semplice ed efficace, era però lontano le mille miglia dalla sua versione imbarbarita, tipicamente ideologica, quella del "colpirne uno, per educarne cento". Chi non ne ha compreso il pensiero, o chi quel pensiero non ha ostinatamente voluto comprenderlo, ha spesso usato nei suoi confronti toni sopra le righe, gridando persino allo “stato di polizia”, o al moralismo, o al puritanesimo. Niente affatto.
    Il ragionamento di Wilson derivava infatti da una meticolosa analisi antropologica, affondando le radici nel più sano pensiero tradizionale. Giudeo-cristiano. L’idea da cui infatti Wilson muove è di fatto tomista, ed è quella che dice relazione all’habitus. Il bene e il male, cioè, sono concetti evidenti alla ragione, di diritto naturale. Nessuno può scambiare l’uno con l’altro, nemmeno l’ideologo più infingardo (tant’è che anche chi per esempio teorizza l’equivalenza tra furto e proprietà privata chiama prontamente i vigili se per strada un manigoldo gli sfila il portafoglio dalla tasca).
    Epperò la ragione non basta a guidare la volontà. La parte del leone la fa infatti la morale, cioè il comportamento: addestrato a seguire ciò che la ragione vede inequivocabilmente. Fondamentali sono dunque l’educazione e l’esempio, così come gli educatori e i modelli. Per compiere costantemente quel bene che la ragione vede senza inganni occorre cioè vivere costantemente e intimamente di quello stesso bene, farne pratica, abituarsi. Lo stesso accade, in modo speculare, per il comportamento malvagio: un’abitudine a non fare il bene. Il cosiddetto "criminale incallito", insomma, altro non è se non colui che è così abituato a operare il male da non avvertire più il problema. Non è che sia mutata la natura di quella persona, creata nel bene e al bene di per sé chiamata; si è smarrita, per abitudine, la sua volontà di operare il bene.
    Da ciò, il progetto wilsoniano di educare la volontà correggendo soprattutto i particolari primi, perseguendo appropriatamente anche le scintille di male (la microcriminalità) prima che esse divampino in un incendio non più domabile (la macrocriminalità). Il diavolo, sapeva bene Wilson, sta davvero nei dettagli, persino in sociologia; dunque è lì che occorre anzitutto snidarlo.
    Pur con tutti gli errori che la pratica umana sempre commette, questa criminologia esperta di umanità poiché radicata in una conoscenza amorosa della natura autentica della persona creata e ferita dal peccato originale ha dato frutti che sono lì tutti da contemplare. Ed è per questo che il suo "eroe" Wilson è divenuto un beniamino di quel mondo conservatore per definizione nutrito di philosophia perennis.

    SORELLA BUCKLEY
    Suo fratello, William F. Buckley jr. (1925-2008), è stato certamente più famoso. Ma Priscilla Buckley ha lo stesso legato il proprio nome a quello della fama meritata e virtuosa, essendo stata per decenni, dal 1959, la managing editor del periodico fondato nel 1955 e poi diretto dal fratello, National Review. Da direttrice editoriale - e/o amministrativa: l’espressione inglese tollera il concetto -, Priscilla ha con sagacia tenuto la bestia alla catena, controllando rigorosamente e accuratamente tutto, conti, distribuzione, abbonati, produzione. National Review è stata la "casa comune" giornalistica del conservatorismo statunitense: ovvio che fosse un "affare di famiglia". E se ha saputo essere un pilastro inamovibile di mezzo secolo di pensiero forte nordamericano, certamente lo deve non uno ma a due Buckley, i fratelli Frank e Priscilla, cattolici.
    Come William, negli anni 1950 dello scontro feroce tra comunismo e anticomunismo anche Priscilla collaborò con la CIA; e nemmeno a Priscilla è mai mancato il talento della scrittura che brillava in William. Sue gemme autentiche si trovano disseminate nelle pagine di National Review, ma un saggio di grande bellezza è il suo libro di memorie giornalistiche String of Pearls: On the News Beat of New York and Paris (postfazione di WF. Buckley jr., Thomas Dunne Books, New York 2001). Né è da meno Living It Up with National Review: A Memoir (premessa di W.F. Buckley jr., Spence, Dallas 2005), un vero e proprio pezzo di storiografia per partecipazione che illustra adeguatamente uno dei fulcri di tutta la storia del conservatorismo statunitense.
    Con la sua di sorella Priscilla si è chiusa l’era Buckley, là dove la cronaca si fa subito storia. Quando un giorno si scriverà finalmente per intero e nei dettagli il racconto dei decenni ruggenti di quell’universo, i cammei costituiti da persone come Priscilla Buckley riluceranno preziosi.

    KRAMER, L'ESTETA
    Un po’ come James Q. Wilson, anche Hilton Kramer è stato ripetutamente confuso con i neocon. A parte il fatto che non vi sarebbe alcunché di male a essere di quel novero, oggettivamente la cosa non è vera.
    Il campo specifico in cui egli ha per una vita intera indagato la verità delle cose è stata l’arte. Fattosi le ossa come critico per diverse influenti pubblicazioni, alla fine degli anni 1970 Kramer raggiunse una maturità di pensiero tale da convincersi che il mondo liberal, in tutte le sue sfaccettature, comprese quelle che lo trasformano in ideologia feroce a puntello delle ideocrazie totalitarie più turpi, è il contrario stesso del buon senso e del buon gusto. Per Kramer, la cifra più distintiva di tutto ciò è il nichilismo che palesemente ne deriva, e che nell’arte si rende particolarmente evidente. In quei gironi, però, Kramer combatteva ancora la propria buona battaglia dalle pagine di The New York Times, che è un po’ come fare l’abolizionista dentro una distilleria di liquori.
    Nel 1982 decise allora di rassegnare le dimissioni e subito creò il periodico mensile The New Criterion assieme all’amico e collega Samuel Lipman (1934-1994), pianista e critico musicale. È da stato da subito una vera e propria bandiera. Sin dal nome, che ricalca volutamente, anzi rilancia il peridoco fondato e diretto fra 1922 e 1939 dal poeta e drammaturgo angloamericano T.S. Eliot (1888-1965).



    A suo tempo, The Criterion di Eliot fu il sublime tentativo, profuso tra le due guerre mondali, di raccogliere gli spiriti magni che ancora non aveva ceduto del tutto al nichilismo. Non furono tutte rose e fiori, ma con quel periodico Eliot fece comunque grandi cose; soprattutto testimoniò la possibilità concreta di una reazione culturale e spirituale vera al disfacimento dell’Occidente. Eliot chiuse il periodico, "per esaurimento" della spinta ispiratrice, nella prima metà del 1939, ma non era disperazione; fu subito rilancio. Infatti la prima cosa che egli fece subito dopo fu svolgere una serie breve di conferenze alla BBC, i cui testi furono poi raccolti e pubblicati in forma di libro con il titolo L’idea di una società cristiana. La chiusura di The Criterion produsse cioè il progetto di una nuova evangelizzazione, persino economica, sociale, politica. Quel libro uscì il 1° settembre 1939, il giorno in cui le truppe nazionalsocialiste invadevano la Polonia cattolica.



    La "nuova evangelizzazione" di Eliot dovette sospendersi con una drammaticità che evidentemente Kramer conosceva bene, e che però con "il nuovo Criterion" egli nel 1982 riprogrammava.
    Con quel periodico Kramer ha combattuto battaglie culturali epiche, raccogliendo a sé nuovi spiriti magni: uno per tutti è il filosofo inglese Roger Scruton



    che in campo artistico sta tra i migliori alfieri del tempo presente.
    Ricordo distintamente la seconda metà degli anni 1990 quando, ospitandomi a pranzo in uno dei club più esclusivi e old-fashioned di New York, il suo preferito, di cui era socio da decenni, Kramer mi comunicò tutto il proprio scandalo per certe nefandezze pseudoartistiche, puntando il dito in specie contro una cosa che lo aveva particolarmente colpito in negativo, il famigerato Piss Christ del fotografo statunitense Andres Serrano. Kramer, che mai abbandonava l’aplomb, se la prese con la stampa liberal che lodava ritualmente schifezze simili e mi volle appassionatamente spiegare che il brutto non può mai essere arte, che l’orrido non va glorificato, che la scelleratezza è sempre è solo un’offesa. E più ne parlava più si appassionava giacché - mi disse - sapeva benissimo che il sottoscritto poteva reggere: «Lei che è cattolico», respirò profondamente Kramer, «capisce bene cosa intendo…». È stato un testimone eccezionale della via pulchritudinis che porta a Dio.


    RINO CAMILLERI: EGEMONIA CULTURALE GRAMSCIANA
    Rino Cammilleri
    L’architetto perugino Luigi Fressoia, comunista in gioventù, entrato nell'età della ragione è divenuto liberal-conservatore ed ha ricoperto incarichi in Forza Italia. Lodevolmente fa la cassandra in un notiziario di riflessioni che spedisce via internet a chi le voglia leggere. Il vostro Kattolico è tra i suoi destinatari e oggi rilancia qui alcune acute sue considerazioni sul primato gramsciano della cultura in politica. Manca nel centrodestra (ma anche nella Chiesa) un piano sistematico di riappropriazione della cultura; meglio, di liberazione da un'egemonia mediatica che occupa tutto, anche i rotocalchi, anche le riviste di divulgazione scientifica (Fressoia fa l'esempio di un numero della rivista «Focus» dedicato alla tortura che spazia dall'Inquisizione al nazismo passando per la prigione americana di Abu Graib, ma tace sull'islam e sul comunismo sovietico).
    Senza tale egemonia sui media, nota, ben diversi sarebbero gli equilibri politici in Italia (e non solo).
    Ecco un elenco dei luoghi comuni diventati ormai mentalità corrente anche di molti cattolici e di non pochi conservatori, luoghi comuni che si sono impossessati dei cervelli grazie alla strategia gramsciana di conquista della cultura e, soprattutto, del significato delle parole:

    1) le sinistre sono per il popolo e le destre per i padroni (in verità le sinistre, di cui fanno parte i cattolici "adulti", sono solo stataliste);
    2) ciò che è di interesse pubblico deve essere per sua natura statale;
    3) il "progresso" sta a sinistra;
    4) la sinistra è contro il Potere (invece, è la sinistra ad avere creato i poteri più assoluti e oppressivi della storia);
    5) in Italia lo scopo del terrorismo brigatista negli "anni di piombo" era di fermare l'ascesa del Partito comunista italiano;
    6) le sinistre sono l'antidoto naturale alla mafia;
    7) se il nazismo era il male, il comunismo era a fin di bene (invece, erano cugini);
    8) la lotta per la libertà è antifascista, ma non anticomunista;
    9) la Resistenza l'hanno fatta i comunisti;
    10) il comunismo è di sua natura pacifista;
    11) senza Usa e Israele ci sarebbe la pace nel mondo;
    12) il terrorismo islamico è causato dalle ingiustizie presenti nel mondo;
    13) esso è solo contro gli Usa ma non contro l'Europa;
    14) il capitalismo è una mostruosità (e non la normale propensione di tutti gli uomini a risparmiare, investire ed intraprendere);
    15) il profitto è intrinsecamente perverso;
    16) la povertà è causata dalla ricchezza;
    17) l'Occidente è colpevole della povertà nel mondo;
    18) le risorse per la solidarietà sociale sono una variabile indipendente dall'economia;
    19) la causa dei problemi ambientali è lo sviluppo;
    20) l'uomo è il cancro del pianeta;
    21) la meritocrazia è classismo (invece, è l'unica chance per i poveri e i privi di raccomandazione);
    22) la delinquenza è colpa della società;
    23) i criminali devono essere recuperati, non puniti;
    24) la scienza esclude la fede (invece, la religione arriva là dove la scienza non arriva);
    25) la laicità esclude la religione (come se laicità fosse sinonimo di ateismo);
    26) la famiglia tradizionale è un concetto religioso, non di ordine naturale;
    27) la famiglia è per sua natura oppressiva;
    28) animali e piante hanno la stessa dignità dell'uomo.

    Questo necessariamente sommario elenco (cui ho personalmente aggiunto qualcosina) discende dal plagio scolastico ed è ormai presente nei media a prescindere dall'orientamento ideologico. La scuola «pubblica» (cioè, di Stato), infatti, è frutto dell'appropriazione giacobina durante la Rivoluzione francese, poi esportata da Napoleone. I liberalmassoni ottocenteschi ne fecero il loro fiore all'occhiello, facendoselo poi scippare dai fascisti. Ma sempre scuola di regime era.
    È stata infine, con l'università, l'oggetto principale della strategia gramsciana, e quegli ex sessantottini che non riuscirono a entrare nel giornalismo andarono a fare gli insegnanti. Oggi l'attuale ministro della Pubblica Istruzione ordina che i programmi di storia della terza media si concentrino sul Novecento: conoscendo l'orientamento ideologico della gran parte degli insegnanti, ci sarà da ridere.
    Ma non divaghiamo. Dice Fressoia, e concordiamo: «Questo quadro cultural-psicologico è il brodo di coltura di ogni Tg o grande quotidiano nazionale, dell'intrattenimento, dell'approfondimento e di moltissime omelie». Esso «conferisce alla sinistra una forza enorme senza sforzo alcuno, sic et simpliciter, facendone il vero partito televisivo e di plastica». Per giunta, è proteiforme e capace di adattarsi a chiunque: passa disinvoltamente dal pacifismo alle mitologie rivoluzionarie, dal socialismo reale al progressismo liberal, dal cattolicesimo fascinato dal marxismo al neo-post-comunismo, al noglobal, al terzomondismo, al libertarismo, perfino dal materialismo al moralismo. E ciò perché la strategia gramsciana ha vinto, come anticipato, la battaglia delle parole.
    Termini come profitto, ricchezza, Occidente, persona, impresa, educazione, libertà, ecologia, responsabilità, risorse, famiglia, immigrazione, tasse, Stato sono ormai parole totemiche che hanno perso il loro vero significato e sono diventate cavalli di Troia per scardinare il buonsenso. Di esse si serve ogni giorno quella che Fressoia chiama «l'egemonia filo-postmarxista» e che impera ormai in tutti gli ambiti: cultura, istruzione, enti pubblici, giustizia, media, case editrici, ecologia, economia, volontariato, chiese, sanità, urbanistica.
    Dubitiamo che l'architetto perugino venga ascoltato da quelli a cui principalmente cerca di rivolgersi, perché ogni loro realtà, anche minima, anche insignificante, tende a farsi il suo organetto di stampa, il suo bollettino, la sua rivistuzza, l'ennesima, senza che ci sia un progetto complessivo, coordinato e strategico. Se abbiamo qui riportato il lamento dell'architetto è perché esso si adatta perfettamente anche all'universo cattolico, che di complessivo e strategico ha ormai solo i discorsi del Papa. L'incidenza culturale di gran parte delle valanghe di carta e delle parole prodotte da congressi, convegni, piani pastorali, tavole rotonde dialogiche, periodici, agenzie, radio, tivu e internet è gravemente insufficiente.
    Ed è già tanto quando non vi compaiono i luoghi comuni che abbiamo elencato.

 

 
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