Vince Esselunga Condannata Coop Estense
Redazione
Esselunga vince la battaglia con le coop. Il Consiglio di Stato ha condannato in via definitiva Coop Estense per abuso di posizione dominante. Palazzo Spada ha infatti confermato il provvedimento con cui l'indagine dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato condannava Coop Estense a pagare una sanzione di circa 4,6 milioni di euro, per «abuso di posizione dominante a fine escludente» ai danni di Esselunga, per le barriere all'ingresso in vario modo frapposte all'apertura di supermercati e ipermercati in provincia di Modena tra il 2001 e il 2009. In particolare, Coop Estense aveva acquistato, a un prezzo considerato quintuplo di quello di mercato, una porzione di un comparto interessato da una possibile pianificazione già iniziata da parte di Esselunga, al solo fine di bloccare l'iniziativa della concorrente.
Una strategia legittima in termini amministrativi, ma illecita in termini concorrenziali, ha stabilito l'Antitrust e confermato il Consiglio di Stato. Esselunga «esprime soddisfazione per la sentenza e auspica che queste condotte poco lineari abbiano a cessare in futuro anche in altri ambiti territoriali».
Vince Esselunga Condannata Coop Estense - IlGiornale.it
Gli emiliani han voluto l’acqua pubblica. Ora la pagan cara
di Matteo Borghi
A volte ci sarebbe quasi da pensare, laicamente, a una giustizia divina. Quella che, facendoti scontrare con la dura realtà, ti fa capire quanto le tue idee preconcette fossero sbagliate.
Torniamo con la memoria ai referendum sui beni di pubblica utilità del 2011, subito catalogati come un plebiscito pro o contro l’«acqua pubblica». In realtà quel referendum conteneva molto altro, ma la campagna fu subito settata su slogan banali e melodrammatici tipo «acqua, bene comune» o «ti voglio bene, pubblico». Le giaculatorie descrivevano fantomatici scenari in cui, con la privatizzazione, i capitalisti avrebbero preso il sopravvento alzando le tariffe a tal punto da rendere imbevibile l’acqua a chi non avesse un conto corrente da sei zeri. Meglio tenere tutto pubblico nonostante, a causa di un sistema idrico con falle dappertutto, ogni anno vada persa la bellezza di 2,61 miliardi di metri cubi d’acqua (che vuol dire oltre duemilaseicento miliardi di litri), il 30% del totale. Acqua che potrebbe essere usata per dar da bere agli assetati, allevare animali e coltivare campi.
Fra i territori in prima fila per l’acqua pubblica c’era proprio l’Emilia Romagna, la seconda regione d’Italia per affluenza (64,15% degli aventi diritto) e per numero di «sì» (95% per il primo e 95,4% per il secondo quesito). Ebbene proprio ieri sulla Gazzetta di Reggio è uscita la notizia che, proprio nel cuore dell’Emilia, nella città rossa per eccellenza, le tariffe dell’acqua si sono alzate parecchio: 442 euro l’anno per una famiglia di tre persone, ovvero +36,6% in tre anni. Solo a Ravenna, altra terra “de sinistra”, è andata peggio: 460 euro a bolletta. Cifre molto superiori alla media regionale (406 euro), a sua volta molto più alta di quella nazionale (333 euro).
Di fatto, se guardiamo a tutta l’Emilia Romagna, possiamo vedere come soltanto a Rimini nell’ultimo anno le tariffe siano leggermente diminuite (-1,1%) mentre a Piacenza l’aumento è stato addirittura del 13,2%. In generale fra il 2007 e il 2013 la bolletta dell’Emilia Romagna è aumentata del 43,3%, con punte del 64,2% a Parma e del 54,4% a Piacenza.
Insomma, ad esser brutali e un po’ crudeli, si potrebbe dire che chi di servizio pubblico ferisce, di servizio pubblico perisce…
Gli emiliani han voluto l?acqua pubblica. Ora la pagan cara | L'intraprendente
Papa Francesco non scioglie lo IOR: fine del mito pauperista?
di Francesco Mastromatteo
Braccia listate a lutto, sguardi funebri, cuori infranti e fegati devastati dalla bile. Di che parliamo? Ovviamente, della notizia che ha gettato nello sconforto più nero milioni di papolatri neoconvertiti sulla via di Buenos Aires, gli atei devoti di sinistra, capitanati da Scalfari&co: Papa Francesco non scioglierà lo Ior. L'Istituto per le opere religiose, infatti, non sarà soppresso ed il Papa, riaffermandone "l'importanza della sua missione per il bene della Chiesa cattolica”, ha sostenuto che cui continuerà a fornire servizi finanziari specializzati in tutto il mondo, con l'impegno di realizzare un allineamento sostenibile alle norme internazionali.
Chiesa povera per i poveri, certo, ma come si dice a Napoli, “accà nisciuno è fesso”: e nessuno, nemmeno il “rivoluzionario” Papa Bergoglio, acclamato da taluni ambienti politici, culturali e mediatici come una sorta di Che Guevara vestito di bianco, può seriamente pensare che la Chiesa cattolica, istituzione umana oltre che divina, con un miliardo di fedeli sparsi per la Terra, possa fare a meno di strumenti finanziari per portare avanti la propria missione. Una scelta, quella del Pontefice, dettata dal sano realismo cristiano che sa distinguere tra il pauperismo ideologico e una visione spirituale non disincarnata dalle esigenze pratiche della sfera temporale, pur sforzandosi di uniformarle allo spirito del Vangelo, che ci spinge a una netta scelta di campo tra Cristo e Mammona.
Certo, la finanza in quanto tale non è né buona né cattiva, e senza sposare il più becero complottismo anticlericale, stile Kaos edizioni, di chi vorrebbe il “Vatikano” dietro ogni losca trama affaristico-criminale del mondo, non saremo noi a negare che ci siano stati episodi di poco commendevoli rapporti e intrecci fra Vaticano, banche e criminalità. Nessuno ha intenzione di santificare la figura di mons. Marcinkus, che in nome del machiavellico principio per cui “non si governa la Chiesa con le Ave Maria”, gestì lo Ior in modo discutibile, in una fase di torbidi avvenimenti tuttora avvolti dal mistero. In questo senso, ci auguriamo che il Papa porti avanti l’opera di riforma della finanza vaticana, già intrapresa, all’insegna della trasparenza, da Benedetto XVI, papa non meno “legalitario” del successore, come dimostrato sulla vicenda della lotta alla pedofilia nel clero, ma il cui impegno è stato meno riconosciuto ed apprezzato a livello mediatico. Magari con scelte più incisive a livello concreto e meno mediatiche quanto improvvide, come quella di inserire Francesca Immacolata Chaouqui nella commissione referente sui dicasteri economici della Santa Sede…
Papa Francesco non scioglie lo IOR: fine del mito pauperista? ~ CampariedeMaistre
Rovigo, azienda chiusa per aver evaso un centesimo
Un'impresa edile si è vista negare il Documento di regolarità contributiva per un'evasione di un solo centesimo di euro
Luca Romano
L'azienda bloccata per un'evasione di un centesimo di euro. È un'altra storia di ordinaria follia, quella che arriva da Rovigo, dove a un'impresa edile l'Inps ha negato il Documento unico di regolarità contributiva (Durc), come racconta Il Gazzettino.
Ora l'azienda finita nel mirino del fisco non può venire pagata per i lavori che svolge né prendere parte a gare di appalto. Inoltre, se la questione dovesse risolversi entro due settimane, avrà lo stop ad ogni tipo di agevolazione.
Una storia dai tratti paradossali, ma che purtroppo non è senza precedenti. Basti pensare alla storia dell'agricoltore, raccontata da L'Intraprendente, che per aver evaso un centesimo ha dovuto pagare seimila volte di più, o quella del bar di Bresso, nel Milanese, chiuso per un'evasione di appena sette euro.
Adesso l'azienda di Rovigo rischia una sanzione spropositata rispetto all'importo dell'evasione e se avesse eventuali crediti con lo Stato potrebbe correre il rischio di non riuscire ad incassarli.
Rovigo, azienda chiusa per aver evaso un centesimo - IlGiornale.it
«È la burocrazia il nemico numero uno dell’Italia». Disavventura Inps
Due settimane di attesa e una spesa di 732 euro per ottenere dall’Inps i dati sulla cassa integrazione. Così la Stampa ha dovuto rinunciare a un’inchiesta sul lavoro
Redazione
«È la burocrazia il nemico numero uno dell’Italia». Lo scrive Luca Ricolfi in un articolo sulla Stampa, raccontando il caso dell’ufficio studi del quotidiano torinese che ha sperimentato sulla sua pelle il costo e le lunghe tempistiche di chi ha a che fare con gli enti pubblici italiani: nel caso in questione si tratta dell’Inps, l’Istituto nazionale della previdenza sociale. E l’assurdità della vicenda ha fatto sì che l’articolo di Ricolfi si tramutasse in una «lettera aperta al premier Renzi», un imprevisto appello perché si faccia qualcosa.
GINEPRAIO DATI. L’ufficio studi della Stampa, che tra i suoi compiti ha quello di raccogliere e rielaborare dati statistici, voleva occuparsi del lavoro in Italia, per consentire ai giornalisti di scrivere un articolo. Per farlo, aveva bisogno delle serie storiche sull’andamento mensile delle ore di cassa integrazione (ordinaria, straordinaria e in deroga) dal 1980 ad oggi. I tecnici dell’ufficio studi, però, cercando sul sito dell’Inps, hanno scoperto che i soli dati disponibili erano quelli dal 2005 ad oggi. Così hanno scritto all’Istituto per richiedere il resto delle informazioni necessarie.
La buona notizia, scrive Ricolfi, è che «la risposta arriva il giorno stesso», ma «contiene due sorprese. Prima sorpresa: l’Inps non è in grado di fornire le ore mensili di cassa integrazione nel periodo 1980-2000. Seconda sorpresa: l’Inps è disposta a fornire le ore mensili di cassa integrazione dal 2000 in poi, ma solo a pagamento».
732 EURO. La Stampa acconsente alla proposta dell’Inps, che, però, comunica che «i dati verranno inviati entro una settimana» insieme al preventivo per il lavoro svolto dai dipendenti dell’ente pubblico. Saltata, pertanto, l’idea di scrivere subito il pezzo, il quotidiano torinese decide di accettare comunque e, «passato qualche giorno, anziché il preventivo, ci arriva la richiesta di comunicare il codice fiscale o la partita Iva. (…) Evidentemente l’Inps si prepara a incassare i nostri soldi prima ancora di averci detto quanti ne vuole», commenta stupito Ricolfi.
«Passati 14 giorni dalla prima richiesta», il preventivo arriva, ma contiene un’ulteriore sorpresa: per l’«elaborazione statistica ad hoc», si legge stavolta sulla risposta dell’Inps, che si compone di una fase di «estrazione e controllo dei dati» più una di «produzione tavole statistiche», per un totale di 4 ore di lavoro, il costo è di 732 euro. Un’ora di lavoro all’Inps, infatti, fa sapere la Stampa, «costa 150 euro, 4 ore fanno 600 euro, ma bisogna aggiungere un 22 per cento di Iva. In tutto fa, appunto, 732 euro. Dunque il dipendente Inps non solo impiega un pomeriggio per fare quel che in una normale organizzazione richiede non più di 10 minuti, ma il pomeriggio del dipendente Inps costa circa come un mese di lavoro di un giovane occupato».
ADDIO ARTICOLO. Morale della favola, conclude l’articolista: «Non pagheremo e rinunceremo ai dati sulla cassa integrazione. Non si possono pagare così cari dati che dovrebbero essere pubblici. Non si possono aspettare settimane per ottenere dati così elementari». E aggiunge: «Ecco, l’articolo è finito. L’ho rivolto al presidente del Consiglio perché la sua battaglia per la pubblicità dei dati è sacrosanta ma temo che, per vincerla, non gli basteranno buone leggi e buoni regolamenti. (…) La mia sensazione è che il sistema sia arrivato a un tale punto di sclerosi da aver completamente smarrito la capacità di auto-osservarsi, precondizione di qualsiasi cambiamento».
Inps. Dati a pagamento | Tempi.it
Bankitalia: debito pubblico record a febbraio
La corsa non si arresta. Il debito delle amministrazioni pubbliche è aumentato in febbraio di 17,5 miliardi, raggiungendo un nuovo massimo storico a 2.107,2 miliardi. Lo rileva Bankitalia nel supplemento al bollettino statistico "Finanza pubblica, fabbisogno e debito". Rispetto ai 2.089.7 miliardi di gennaio c'è stato un aumento di 17,5 miliardi di euro.
In una nota Bankitalia spiega che l'incremento riflette per 10,7 miliardi il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche e per 6,8 miliardi l'aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (pari a fine febbraio a 64,8 miliardi, 49,6 a febbraio del 2013); l'emissione di titoli sopra la pari ha operato in senso opposto per 0,1 miliardi. Con riferimento alla ripartizione per sottosettori - prosegue la nota - il debito delle amministrazioni centrali é aumentato di 19,0 miliardi, quello delle amministrazioni locali é diminuito di 1,5 miliardi e quello degli enti di previdenza é rimasto sostanzialmente invariato.
Bankitalia: debito pubblico record a febbraio - Il Sole 24 ORE
Invece tre euro su 4 sono rubati DAL Fisco
Altro che i privati che sottraggono ricchezze allo Stato, è esattamente il contrario. Soprattutto in Italia dove la pressione fiscale è altissima e i servizi indecenti. Due cose liberali ai fan delle imposte
di Matteo Borghi
Cara Repubblica, altro che un euro su quattro rubato al fisco. È il fisco che ci ruba tre euro su quattro. Lo diciamo da persone che vivono, quotidianamente, l’inferno fiscale italico. Quello in cui produrre ricchezza legalmente è diventato impresa titanica visto che lo Stato, socio occulto di maggioranza indesiderato di ogni imprenditore, si “pappa” tre euro sui quattro prodotti col sudore della nostra fronte.
Esagerazioni? I dati dicono di no. Basti vedere cosa certifica la Cgia di Mestre: 68,3% di tasse sulle Pmi. Certo, dirà qualcuno, son tutti artigiani evasori in conflitto di interessi. Peccato che la stessa percentuale sia confermata da un’elaborazione del colosso di consulenza britannico Pricewater Coopers che conferma come le imposte sulle nostre imprese siano proprio al 68,3%: le più alte d’Europa, il 2,6% in più della tassaiola Francia e il 15,3% in più della “socialista” Svezia, ferma al 53%. tutti gli altri Paesi son sotto la soglia del 50%: 46,8% in Germania, 40,6% in Finlandia (altro Paese socialdemocratico), 30,2% in Svizzera e appena il 21% in Lussemburgo giusto per fare alcuni esempi. Gli stessi dati sono confermati dal rapporto Doing Business 2013 della Banca Mondiale che precisa come in Italia le tasse sui profitti raggiungano ben il 68,4%. forse è per questo che l’Index of economic freedom dell’Heritage Foundation ci piazza al 35° posto in Europa (su 43!) per libertà economica.
Certo, conosciamo bene la risposta statalista: se le tasse son così alte è perché si evade troppo. Lo hanno ribadito, ancora, gli autori dell’articolo su Rep – Federico Fubini e Roberto Mania – dicendo che le imprese «evadono l’Iva, dunque lo Stato tiene alte le imposte, soprattutto sul lavoro». Quindi se tutti pagassero le tasse, queste sarebbero più basse e ripagherebbero tutti. Ci dovrebbero spiegare come mai, visto che Befera ha recuperato una media di 12 miliardi l’anno dall’evasione (12,7 nel 2011, 12,5 nel 2012 e ancor di più nel 2013), le tasse sono aumentate e i servizi non sono certo migliorati. Innocenzo Cipolletta, ex presidente di Fs e – come riferisce Wikipedia – titolare di 14 incarichi in gran parte pubblici, dovrebbe spiegarci come mai ha intitolato il suo ultimo libro “In Italia paghiamo troppe tasse. FALSO”: davvero non capiamo perché una pressione fiscale così insostenibile gli piaccia tanto. O, forse, lo capiamo fin troppo bene.
È un dato di fatto che – come diceva il presidente Luigi Einaudi – «in Italia nessuno crede nemmanco a scuoiarlo vivo, che le imposte possano in futuro diminuire. Aumentare sì, diminuire mai». E difatti non son mai diminuite: non per colpa dell’evasione, ma della spesa pubblica corrente e improduttiva. E aveva ragione anche Milton Friedman quando diceva che l’Italia, con la pressione fiscale insostenibile che abbiamo, «in certi casi l’evasore è un patriota». Alla faccia dei cinguettatori della correttezza fiscale.
Ps: dalle nostre parti vige la legge evangelica che dice: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Nel maggio 2012 la Commissione tributaria regionale di Roma ha condannato il Gruppo editoriale L’Espresso – editore di Repubblica – a pagare una multa di 225 milioni di euro per plusvalenze, ad avviso della Commissione, realizzate e non dichiarate nel 1991. Il ricorso è passato in Cassazione, che a mesi dovrebbe dare il suo giudizio. Vedremo come andrà. Non vorremmo – giusto per restare in tema cristiano – che qualcuno guardi la pagliuzza più della trave.
Invece tre euro su 4 sono rubati DAL Fisco | L'intraprendente
Lettera di un imprenditore costretto a espatriare: «Fuggite o sarete uccisi da una burocrazia stupida e distante dalla realtà»
Un imprenditore compra dal Comune un terreno per edificare un capannone, ma al momento di costruire il Comune gli dice che non può: «Decidere di andare all’estero è una strada obbligata»
Redazione
Quanto costa agli italiani la burocrazia? Tanto, troppo, soprattutto quando convince imprenditori che vorrebbero investire e creare lavoro a lasciare il paese. È il caso di Massimo Amadelli, che dopo essere stato «raggirato dal Comune di Copparo» (Ferrara) scrive sul quotidiano Libero: «Fuggite o sarete uccisi da una burocrazia stupida e incredibilmente distante dalla realtà».
IL RAGGIRO. La storia è grottesca: Amadelli acquista un terreno dal Comune «in zona artigianale/produttiva». Gli servono per la sua produzione 1.500 metri quadrati ma l’amministrazione pone l’obbligo di comprare «una superficie minima di 3.000 mq: abbiamo accettato e comprato il terreno di mq 3.000, utilizzandone solo 1.500 e pensando in futuro di allargarci ed edificare nei rimanenti 1.500 metri quadrati».
Dopo cinque anni arriva l’occasione di ingrandirsi, «siamo in procinto di edificare un capannone artigianale/commerciale e… udite udite… il Comune ci dice che in base al nuovo piano regolatore non è più possibile edificare».
LA BEFFA. Oltre al danno, la beffa: «Se avessimo fatto richiesta entro novembre 2013 non vi sarebbero stati problemi, ma per l’appunto avendo poi redatto il nuovo piano regolatore, ecco, nello stesso l’area non risulta più edificabile. Sottolineo che stiamo parlando di un terreno in zona artigianale/commerciale, che lo stesso Comune ci ha venduto con quella destinazione d’uso».
«OBBLIGATO AD ANDARE ALL’ESTERO». Ed ecco l’inevitabile amara conclusione dell’imprenditore: «Decidere di andare all’estero diventa non solo conveniente ma anche una strada obbligata: qui, in un momento di crisi dove chi investe e crea occupazione andrebbe visto con riguardo, viene trattato come una persona a dir poco indesiderata. Meglio allo trasferirsi in Carinzia (Austria, ndr), dove le imprese vengono viste come una risorsa e, se ti presenti sono loro i primi ad aprirti la strada per aiutarti nel miglior modo possibile. Con grande rammarico e non credendo più nella maniera più assoluta a questi deficienti, ho deciso proprio di trasferirmi all’estero e dire addio a ogni speranza di ragionevolezza».
Imprenditore espatria per la «burocrazia stupida» | Tempi.it