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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Vince Esselunga Condannata Coop Estense
    Redazione
    Esselunga vince la battaglia con le coop. Il Consiglio di Stato ha condannato in via definitiva Coop Estense per abuso di posizione dominante. Palazzo Spada ha infatti confermato il provvedimento con cui l'indagine dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato condannava Coop Estense a pagare una sanzione di circa 4,6 milioni di euro, per «abuso di posizione dominante a fine escludente» ai danni di Esselunga, per le barriere all'ingresso in vario modo frapposte all'apertura di supermercati e ipermercati in provincia di Modena tra il 2001 e il 2009. In particolare, Coop Estense aveva acquistato, a un prezzo considerato quintuplo di quello di mercato, una porzione di un comparto interessato da una possibile pianificazione già iniziata da parte di Esselunga, al solo fine di bloccare l'iniziativa della concorrente.
    Una strategia legittima in termini amministrativi, ma illecita in termini concorrenziali, ha stabilito l'Antitrust e confermato il Consiglio di Stato. Esselunga «esprime soddisfazione per la sentenza e auspica che queste condotte poco lineari abbiano a cessare in futuro anche in altri ambiti territoriali».
    Vince Esselunga Condannata Coop Estense - IlGiornale.it



    Gli emiliani han voluto l’acqua pubblica. Ora la pagan cara
    di Matteo Borghi
    A volte ci sarebbe quasi da pensare, laicamente, a una giustizia divina. Quella che, facendoti scontrare con la dura realtà, ti fa capire quanto le tue idee preconcette fossero sbagliate.
    Torniamo con la memoria ai referendum sui beni di pubblica utilità del 2011, subito catalogati come un plebiscito pro o contro l’«acqua pubblica». In realtà quel referendum conteneva molto altro, ma la campagna fu subito settata su slogan banali e melodrammatici tipo «acqua, bene comune» o «ti voglio bene, pubblico». Le giaculatorie descrivevano fantomatici scenari in cui, con la privatizzazione, i capitalisti avrebbero preso il sopravvento alzando le tariffe a tal punto da rendere imbevibile l’acqua a chi non avesse un conto corrente da sei zeri. Meglio tenere tutto pubblico nonostante, a causa di un sistema idrico con falle dappertutto, ogni anno vada persa la bellezza di 2,61 miliardi di metri cubi d’acqua (che vuol dire oltre duemilaseicento miliardi di litri), il 30% del totale. Acqua che potrebbe essere usata per dar da bere agli assetati, allevare animali e coltivare campi.
    Fra i territori in prima fila per l’acqua pubblica c’era proprio l’Emilia Romagna, la seconda regione d’Italia per affluenza (64,15% degli aventi diritto) e per numero di «sì» (95% per il primo e 95,4% per il secondo quesito). Ebbene proprio ieri sulla Gazzetta di Reggio è uscita la notizia che, proprio nel cuore dell’Emilia, nella città rossa per eccellenza, le tariffe dell’acqua si sono alzate parecchio: 442 euro l’anno per una famiglia di tre persone, ovvero +36,6% in tre anni. Solo a Ravenna, altra terra “de sinistra”, è andata peggio: 460 euro a bolletta. Cifre molto superiori alla media regionale (406 euro), a sua volta molto più alta di quella nazionale (333 euro).
    Di fatto, se guardiamo a tutta l’Emilia Romagna, possiamo vedere come soltanto a Rimini nell’ultimo anno le tariffe siano leggermente diminuite (-1,1%) mentre a Piacenza l’aumento è stato addirittura del 13,2%. In generale fra il 2007 e il 2013 la bolletta dell’Emilia Romagna è aumentata del 43,3%, con punte del 64,2% a Parma e del 54,4% a Piacenza.
    Insomma, ad esser brutali e un po’ crudeli, si potrebbe dire che chi di servizio pubblico ferisce, di servizio pubblico perisce…
    Gli emiliani han voluto l?acqua pubblica. Ora la pagan cara | L'intraprendente

    Papa Francesco non scioglie lo IOR: fine del mito pauperista?
    di Francesco Mastromatteo
    Braccia listate a lutto, sguardi funebri, cuori infranti e fegati devastati dalla bile. Di che parliamo? Ovviamente, della notizia che ha gettato nello sconforto più nero milioni di papolatri neoconvertiti sulla via di Buenos Aires, gli atei devoti di sinistra, capitanati da Scalfari&co: Papa Francesco non scioglierà lo Ior. L'Istituto per le opere religiose, infatti, non sarà soppresso ed il Papa, riaffermandone "l'importanza della sua missione per il bene della Chiesa cattolica”, ha sostenuto che cui continuerà a fornire servizi finanziari specializzati in tutto il mondo, con l'impegno di realizzare un allineamento sostenibile alle norme internazionali.
    Chiesa povera per i poveri, certo, ma come si dice a Napoli, “accà nisciuno è fesso”: e nessuno, nemmeno il “rivoluzionario” Papa Bergoglio, acclamato da taluni ambienti politici, culturali e mediatici come una sorta di Che Guevara vestito di bianco, può seriamente pensare che la Chiesa cattolica, istituzione umana oltre che divina, con un miliardo di fedeli sparsi per la Terra, possa fare a meno di strumenti finanziari per portare avanti la propria missione. Una scelta, quella del Pontefice, dettata dal sano realismo cristiano che sa distinguere tra il pauperismo ideologico e una visione spirituale non disincarnata dalle esigenze pratiche della sfera temporale, pur sforzandosi di uniformarle allo spirito del Vangelo, che ci spinge a una netta scelta di campo tra Cristo e Mammona.
    Certo, la finanza in quanto tale non è né buona né cattiva, e senza sposare il più becero complottismo anticlericale, stile Kaos edizioni, di chi vorrebbe il “Vatikano” dietro ogni losca trama affaristico-criminale del mondo, non saremo noi a negare che ci siano stati episodi di poco commendevoli rapporti e intrecci fra Vaticano, banche e criminalità. Nessuno ha intenzione di santificare la figura di mons. Marcinkus, che in nome del machiavellico principio per cui “non si governa la Chiesa con le Ave Maria”, gestì lo Ior in modo discutibile, in una fase di torbidi avvenimenti tuttora avvolti dal mistero. In questo senso, ci auguriamo che il Papa porti avanti l’opera di riforma della finanza vaticana, già intrapresa, all’insegna della trasparenza, da Benedetto XVI, papa non meno “legalitario” del successore, come dimostrato sulla vicenda della lotta alla pedofilia nel clero, ma il cui impegno è stato meno riconosciuto ed apprezzato a livello mediatico. Magari con scelte più incisive a livello concreto e meno mediatiche quanto improvvide, come quella di inserire Francesca Immacolata Chaouqui nella commissione referente sui dicasteri economici della Santa Sede…
    Papa Francesco non scioglie lo IOR: fine del mito pauperista? ~ CampariedeMaistre




    Rovigo, azienda chiusa per aver evaso un centesimo
    Un'impresa edile si è vista negare il Documento di regolarità contributiva per un'evasione di un solo centesimo di euro
    Luca Romano
    L'azienda bloccata per un'evasione di un centesimo di euro. È un'altra storia di ordinaria follia, quella che arriva da Rovigo, dove a un'impresa edile l'Inps ha negato il Documento unico di regolarità contributiva (Durc), come racconta Il Gazzettino.
    Ora l'azienda finita nel mirino del fisco non può venire pagata per i lavori che svolge né prendere parte a gare di appalto. Inoltre, se la questione dovesse risolversi entro due settimane, avrà lo stop ad ogni tipo di agevolazione.
    Una storia dai tratti paradossali, ma che purtroppo non è senza precedenti. Basti pensare alla storia dell'agricoltore, raccontata da L'Intraprendente, che per aver evaso un centesimo ha dovuto pagare seimila volte di più, o quella del bar di Bresso, nel Milanese, chiuso per un'evasione di appena sette euro.
    Adesso l'azienda di Rovigo rischia una sanzione spropositata rispetto all'importo dell'evasione e se avesse eventuali crediti con lo Stato potrebbe correre il rischio di non riuscire ad incassarli.
    Rovigo, azienda chiusa per aver evaso un centesimo - IlGiornale.it

    «È la burocrazia il nemico numero uno dell’Italia». Disavventura Inps
    Due settimane di attesa e una spesa di 732 euro per ottenere dall’Inps i dati sulla cassa integrazione. Così la Stampa ha dovuto rinunciare a un’inchiesta sul lavoro
    Redazione
    «È la burocrazia il nemico numero uno dell’Italia». Lo scrive Luca Ricolfi in un articolo sulla Stampa, raccontando il caso dell’ufficio studi del quotidiano torinese che ha sperimentato sulla sua pelle il costo e le lunghe tempistiche di chi ha a che fare con gli enti pubblici italiani: nel caso in questione si tratta dell’Inps, l’Istituto nazionale della previdenza sociale. E l’assurdità della vicenda ha fatto sì che l’articolo di Ricolfi si tramutasse in una «lettera aperta al premier Renzi», un imprevisto appello perché si faccia qualcosa.
    GINEPRAIO DATI. L’ufficio studi della Stampa, che tra i suoi compiti ha quello di raccogliere e rielaborare dati statistici, voleva occuparsi del lavoro in Italia, per consentire ai giornalisti di scrivere un articolo. Per farlo, aveva bisogno delle serie storiche sull’andamento mensile delle ore di cassa integrazione (ordinaria, straordinaria e in deroga) dal 1980 ad oggi. I tecnici dell’ufficio studi, però, cercando sul sito dell’Inps, hanno scoperto che i soli dati disponibili erano quelli dal 2005 ad oggi. Così hanno scritto all’Istituto per richiedere il resto delle informazioni necessarie.
    La buona notizia, scrive Ricolfi, è che «la risposta arriva il giorno stesso», ma «contiene due sorprese. Prima sorpresa: l’Inps non è in grado di fornire le ore mensili di cassa integrazione nel periodo 1980-2000. Seconda sorpresa: l’Inps è disposta a fornire le ore mensili di cassa integrazione dal 2000 in poi, ma solo a pagamento».
    732 EURO. La Stampa acconsente alla proposta dell’Inps, che, però, comunica che «i dati verranno inviati entro una settimana» insieme al preventivo per il lavoro svolto dai dipendenti dell’ente pubblico. Saltata, pertanto, l’idea di scrivere subito il pezzo, il quotidiano torinese decide di accettare comunque e, «passato qualche giorno, anziché il preventivo, ci arriva la richiesta di comunicare il codice fiscale o la partita Iva. (…) Evidentemente l’Inps si prepara a incassare i nostri soldi prima ancora di averci detto quanti ne vuole», commenta stupito Ricolfi.
    «Passati 14 giorni dalla prima richiesta», il preventivo arriva, ma contiene un’ulteriore sorpresa: per l’«elaborazione statistica ad hoc», si legge stavolta sulla risposta dell’Inps, che si compone di una fase di «estrazione e controllo dei dati» più una di «produzione tavole statistiche», per un totale di 4 ore di lavoro, il costo è di 732 euro. Un’ora di lavoro all’Inps, infatti, fa sapere la Stampa, «costa 150 euro, 4 ore fanno 600 euro, ma bisogna aggiungere un 22 per cento di Iva. In tutto fa, appunto, 732 euro. Dunque il dipendente Inps non solo impiega un pomeriggio per fare quel che in una normale organizzazione richiede non più di 10 minuti, ma il pomeriggio del dipendente Inps costa circa come un mese di lavoro di un giovane occupato».
    ADDIO ARTICOLO. Morale della favola, conclude l’articolista: «Non pagheremo e rinunceremo ai dati sulla cassa integrazione. Non si possono pagare così cari dati che dovrebbero essere pubblici. Non si possono aspettare settimane per ottenere dati così elementari». E aggiunge: «Ecco, l’articolo è finito. L’ho rivolto al presidente del Consiglio perché la sua battaglia per la pubblicità dei dati è sacrosanta ma temo che, per vincerla, non gli basteranno buone leggi e buoni regolamenti. (…) La mia sensazione è che il sistema sia arrivato a un tale punto di sclerosi da aver completamente smarrito la capacità di auto-osservarsi, precondizione di qualsiasi cambiamento».
    Inps. Dati a pagamento | Tempi.it

    Bankitalia: debito pubblico record a febbraio
    La corsa non si arresta. Il debito delle amministrazioni pubbliche è aumentato in febbraio di 17,5 miliardi, raggiungendo un nuovo massimo storico a 2.107,2 miliardi. Lo rileva Bankitalia nel supplemento al bollettino statistico "Finanza pubblica, fabbisogno e debito". Rispetto ai 2.089.7 miliardi di gennaio c'è stato un aumento di 17,5 miliardi di euro.
    In una nota Bankitalia spiega che l'incremento riflette per 10,7 miliardi il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche e per 6,8 miliardi l'aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (pari a fine febbraio a 64,8 miliardi, 49,6 a febbraio del 2013); l'emissione di titoli sopra la pari ha operato in senso opposto per 0,1 miliardi. Con riferimento alla ripartizione per sottosettori - prosegue la nota - il debito delle amministrazioni centrali é aumentato di 19,0 miliardi, quello delle amministrazioni locali é diminuito di 1,5 miliardi e quello degli enti di previdenza é rimasto sostanzialmente invariato.
    Bankitalia: debito pubblico record a febbraio - Il Sole 24 ORE

    Invece tre euro su 4 sono rubati DAL Fisco
    Altro che i privati che sottraggono ricchezze allo Stato, è esattamente il contrario. Soprattutto in Italia dove la pressione fiscale è altissima e i servizi indecenti. Due cose liberali ai fan delle imposte
    di Matteo Borghi
    Cara Repubblica, altro che un euro su quattro rubato al fisco. È il fisco che ci ruba tre euro su quattro. Lo diciamo da persone che vivono, quotidianamente, l’inferno fiscale italico. Quello in cui produrre ricchezza legalmente è diventato impresa titanica visto che lo Stato, socio occulto di maggioranza indesiderato di ogni imprenditore, si “pappa” tre euro sui quattro prodotti col sudore della nostra fronte.
    Esagerazioni? I dati dicono di no. Basti vedere cosa certifica la Cgia di Mestre: 68,3% di tasse sulle Pmi. Certo, dirà qualcuno, son tutti artigiani evasori in conflitto di interessi. Peccato che la stessa percentuale sia confermata da un’elaborazione del colosso di consulenza britannico Pricewater Coopers che conferma come le imposte sulle nostre imprese siano proprio al 68,3%: le più alte d’Europa, il 2,6% in più della tassaiola Francia e il 15,3% in più della “socialista” Svezia, ferma al 53%. tutti gli altri Paesi son sotto la soglia del 50%: 46,8% in Germania, 40,6% in Finlandia (altro Paese socialdemocratico), 30,2% in Svizzera e appena il 21% in Lussemburgo giusto per fare alcuni esempi. Gli stessi dati sono confermati dal rapporto Doing Business 2013 della Banca Mondiale che precisa come in Italia le tasse sui profitti raggiungano ben il 68,4%. forse è per questo che l’Index of economic freedom dell’Heritage Foundation ci piazza al 35° posto in Europa (su 43!) per libertà economica.
    Certo, conosciamo bene la risposta statalista: se le tasse son così alte è perché si evade troppo. Lo hanno ribadito, ancora, gli autori dell’articolo su Rep – Federico Fubini e Roberto Mania – dicendo che le imprese «evadono l’Iva, dunque lo Stato tiene alte le imposte, soprattutto sul lavoro». Quindi se tutti pagassero le tasse, queste sarebbero più basse e ripagherebbero tutti. Ci dovrebbero spiegare come mai, visto che Befera ha recuperato una media di 12 miliardi l’anno dall’evasione (12,7 nel 2011, 12,5 nel 2012 e ancor di più nel 2013), le tasse sono aumentate e i servizi non sono certo migliorati. Innocenzo Cipolletta, ex presidente di Fs e – come riferisce Wikipedia – titolare di 14 incarichi in gran parte pubblici, dovrebbe spiegarci come mai ha intitolato il suo ultimo libro “In Italia paghiamo troppe tasse. FALSO”: davvero non capiamo perché una pressione fiscale così insostenibile gli piaccia tanto. O, forse, lo capiamo fin troppo bene.
    È un dato di fatto che – come diceva il presidente Luigi Einaudi – «in Italia nessuno crede nemmanco a scuoiarlo vivo, che le imposte possano in futuro diminuire. Aumentare sì, diminuire mai». E difatti non son mai diminuite: non per colpa dell’evasione, ma della spesa pubblica corrente e improduttiva. E aveva ragione anche Milton Friedman quando diceva che l’Italia, con la pressione fiscale insostenibile che abbiamo, «in certi casi l’evasore è un patriota». Alla faccia dei cinguettatori della correttezza fiscale.
    Ps: dalle nostre parti vige la legge evangelica che dice: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Nel maggio 2012 la Commissione tributaria regionale di Roma ha condannato il Gruppo editoriale L’Espresso – editore di Repubblica – a pagare una multa di 225 milioni di euro per plusvalenze, ad avviso della Commissione, realizzate e non dichiarate nel 1991. Il ricorso è passato in Cassazione, che a mesi dovrebbe dare il suo giudizio. Vedremo come andrà. Non vorremmo – giusto per restare in tema cristiano – che qualcuno guardi la pagliuzza più della trave.
    Invece tre euro su 4 sono rubati DAL Fisco | L'intraprendente

    Lettera di un imprenditore costretto a espatriare: «Fuggite o sarete uccisi da una burocrazia stupida e distante dalla realtà»
    Un imprenditore compra dal Comune un terreno per edificare un capannone, ma al momento di costruire il Comune gli dice che non può: «Decidere di andare all’estero è una strada obbligata»
    Redazione
    Quanto costa agli italiani la burocrazia? Tanto, troppo, soprattutto quando convince imprenditori che vorrebbero investire e creare lavoro a lasciare il paese. È il caso di Massimo Amadelli, che dopo essere stato «raggirato dal Comune di Copparo» (Ferrara) scrive sul quotidiano Libero: «Fuggite o sarete uccisi da una burocrazia stupida e incredibilmente distante dalla realtà».
    IL RAGGIRO. La storia è grottesca: Amadelli acquista un terreno dal Comune «in zona artigianale/produttiva». Gli servono per la sua produzione 1.500 metri quadrati ma l’amministrazione pone l’obbligo di comprare «una superficie minima di 3.000 mq: abbiamo accettato e comprato il terreno di mq 3.000, utilizzandone solo 1.500 e pensando in futuro di allargarci ed edificare nei rimanenti 1.500 metri quadrati».
    Dopo cinque anni arriva l’occasione di ingrandirsi, «siamo in procinto di edificare un capannone artigianale/commerciale e… udite udite… il Comune ci dice che in base al nuovo piano regolatore non è più possibile edificare».
    LA BEFFA. Oltre al danno, la beffa: «Se avessimo fatto richiesta entro novembre 2013 non vi sarebbero stati problemi, ma per l’appunto avendo poi redatto il nuovo piano regolatore, ecco, nello stesso l’area non risulta più edificabile. Sottolineo che stiamo parlando di un terreno in zona artigianale/commerciale, che lo stesso Comune ci ha venduto con quella destinazione d’uso».
    «OBBLIGATO AD ANDARE ALL’ESTERO». Ed ecco l’inevitabile amara conclusione dell’imprenditore: «Decidere di andare all’estero diventa non solo conveniente ma anche una strada obbligata: qui, in un momento di crisi dove chi investe e crea occupazione andrebbe visto con riguardo, viene trattato come una persona a dir poco indesiderata. Meglio allo trasferirsi in Carinzia (Austria, ndr), dove le imprese vengono viste come una risorsa e, se ti presenti sono loro i primi ad aprirti la strada per aiutarti nel miglior modo possibile. Con grande rammarico e non credendo più nella maniera più assoluta a questi deficienti, ho deciso proprio di trasferirmi all’estero e dire addio a ogni speranza di ragionevolezza».
    Imprenditore espatria per la «burocrazia stupida» | Tempi.it


  2. #152
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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Confessioni di un finanziere
    "Incasso tangenti per lo Stato"
    Lo Stato estorce denaro: le storie di chi paga tangenti alle istituzioni
    Memorie di un finanziere della polizia tributaria. Si potrebbe intitolare così il sorprendente documento esclusivo che state per leggere. Si tratta della trascrizione, fedele alla lettera, del disarmante sfogo di un disincantato, onesto e preparato maresciallo della Guardia di Finanza, impegnato da diversi lustri nei temutissimi controlli alle imprese. L’uomo, di cui evitiamo di indicare dati anagrafici e curriculum per non renderlo riconoscibile, ha apparecchiato per Libero uno zibaldone di pensieri, suddiviso in capitoletti, sul suo lavoro di tutti i giorni. Che per lui è diventato un tran tran asfissiante, capace di condurlo quasi al rigetto. Il risultato è questa spietata radiografia che stupisce e, in un certo senso, preoccupa di un mestiere che tanto trambusto porta nelle vite degli italiani. Infatti in questo sfogo il militare dipinge le ispezioni delle Fiamme gialle come un ineluttabile meccanismo stritola-imprenditori il cui obiettivo non sarebbe una vera e sana lotta alle frodi fiscali, ma una fantasiosa e famelica caccia al tesoro indispensabile a lanciare le carriere di molti professionisti dell’Antievasione. «Nel nostro lavoro ci sono forzature evidenti, a volte imbarazzanti», ammette con Libero il maresciallo. Che qui di seguito svela retroscena e segreti dei controlli che intralciano ogni giorno il lavoro di centinaia di imprenditori. Una lettura che potrebbe agitare qualcuno e far alzare il sopracciglio ad altri. Ma a tutti deve essere chiaro che non di fiction si tratta e che domani il nostro maresciallo e la sua pattuglia potrebbero bussare alla vostra porta. Preparatevi a leggere il testo di questo finanziere raccolto in esclusiva da Libero.
    Ossessione numeri - Dietro alle verifiche ci sono enormi interessi economici: il dato del recupero dell’imposta serve a molti. Sia ai politici che ai finanzieri. Nella Guardia di Finanza il raggiungimento degli obiettivi legittima l’ottenimento dei premi incentivanti e gli stipendi stellari dei generali, che sono decine: uno per provincia, più uno per regione. Nel nostro Corpo esistono vere e proprie task-force che si occupano di fare previsioni di recupero d’imposta e a fine anno queste devono essere raggiunte, come se l’evasione fiscale si basasse su dei budget. Gli operatori sul territorio sono meno di chi elabora questa realtà virtuale, su 64 mila finanzieri siamo circa 4 mila a fare i controlli.
    Indietro non si torna - A fine anno i generali chiedono il dato dell’imposta evasa constatata e lo confrontano con quello dell’anno prima. Il risultato non può essere inferiore a quello di 12 mesi prima. Se il dato scende bisogna dar conto al reparto centrale di Roma del perché si siano recuperati meno soldi e il comandante del reparto periferico rischia di vedersi bloccare la carriera. Per questo le nostre verifiche proseguono anche di fronte a evidenti illogicità. I nostri ufficiali parlano solo di numeri e quando hanno sentore di un risultato, magari per una previsione affrettata di un ispettore, corrono dai loro superiori anticipando che da quella verifica potrà venir fuori un certo risultato: a quel punto non si può più tornare indietro. Il verbale diventa subito una statistica, una voce acquisita e ufficiale di reddito non dichiarato. Quando si prospetta un ventaglio di possibilità per risolvere una contestazione si concentrano le energie sempre su quella che porta il risultato più alto. Che sarebbe poco grave se fosse la strada giusta. Ma spesso non lo è. Per la Finanza quello che conta è il dio numero. Il nostro unico problema è come tirarlo fuori.
    Per riuscirci c’è un nuovo strumento infernale, la cosiddetta “mediana”, che va di gran moda tra gli ufficiali. La si pronuncia con rispetto e deferenza, anche perché da essa dipende la carriera di chi la evoca. Si tratta di uno studio fatto a tavolino, che stabilisce il valore medio della verifica necessario a raggiungere gli obiettivi, il tetto al di sotto del quale non si può andare. Se capiamo che in un’azienda il verbale sarà di entità inferiore alla mediana, derubrichiamo la verifica a controllo in modo che non entri nelle statistiche ufficiali.
    Alla Guardia di Finanza abbiamo uffici informatici che elaborano dati in continuazione. Ma si tratta di numeri “drogati”, come lo sono quelli dei sequestri. Nei magazzini dei cinesi ho visto colleghi registrare alla voce “giocattoli” ogni singolo pallino delle pistole per bambini. Spesso questi servizi si fanno in occasione delle feste natalizie, così passa l’informazione che sul territorio c’è sicurezza.
    Con questi numeri i generali si riempiono la bocca il 21 giugno, giorno della festa del Corpo. Lo speaker spara cifre in presenza di tutte le autorità, dei presidenti dei tribunali, dei politici, ecc. ecc. Quel giorno è un tripudio di dati pronunciato con voce stentorea: recuperata tot Iva, scovati tot milioni di redditi non dichiarati, arrestati x emittenti fatture false. Una festa!
    Normativa astrusa - La normativa tributaria italiana è talmente ingarbugliata che si presta alla nostra logica del risultato a ogni costo. Per noi è piuttosto semplice fare un rilievo visto che siamo aiutati da questa legislazione astrusa e abnorme, spesso contradditoria e conflittuale. Nel nostro Paese è quasi impossibile essere in regola e per chi lo sembra ci prendiamo più tempo per spulciare ogni carta. Infatti se una norma può apparire favorevole all'imprenditore, c’è sicuramente un’altra interpretabile in maniera opposta. E in questo ci aiuta l’oceanica produzione di sentenze, frutto di un eccessivo contenzioso. Un contratto, un’operazione possono essere interpretati in mille modi e alla fine trovi sempre una sentenza della Cassazione che ti permette di poter fondare un rilievo su basi giuridiche certe. Questo è il Paese delle sentenze.
    Analizzando un bilancio, un’imperfezione si trova sempre. Magari per colpa dello stesso controllore che prima dice all’imprenditore di comportarsi in un modo e poi in un altro, inducendolo in errore. Per esempio, su nostro suggerimento, un’azienda non contabilizza più certe spese come pubblicità (deducibili), ma come spese di rappresentanza (deducibili solo in parte). Quindi arriva l’Agenzia delle Entrate e spiega che quelle non sono né l'una né l’altra. A volte succede che qualcuno abbia già subito un controllo, abbia aderito a un condono e, zac, arriviamo noi e contestiamo lo stesso aspetto, ma in modo diverso. Dopo i primi anni nel Corpo non ho più sentito di controlli chiusi con un nulla di fatto e in cui si torna a casa senza aver contestato qualcosa. Alla fine chi lavora impazzisce.
    Chi sbaglia non paga - Come è possibile tutto questo? Semplice: perché chi sbaglia non paga, ma anche perché chi sbaglia non saprà mai di averlo fatto. Il motivo è semplice: noi non comunichiamo con l’Agenzia delle Entrate e non sappiamo mai che fine facciano i nostri verbali. Per questo se ho commesso un errore non lo verrò mai a sapere: il nostro è solo un verbale di constatazione, a renderlo esecutivo è l’Agenzia delle Entrate che lo trasforma in verbale di accertamento. Però raramente i nostri colleghi civili bocciano il nostro lavoro, anzi questo non succede nel 99,9 per cento delle situazioni. Si fidano di noi e, anche se sono molto più preparati, nella maggior parte dei casi prendono il nostro verbale e lo notificano, tale e quale, al contribuente. Quello che sappiamo per certo è che i nostri verbali, giusti o sbagliati che siano, diventano numeri e quindi non ci interessa che vengano annullati, tanto non ne verremo mai a conoscenza né saremo chiamati a risponderne. Per noi resta un grosso risultato. E visto che nessuno paga per i propri errori, il povero imprenditore continuerà a trovarsi ignaro in un castello kafkiano fatto di norme e risultati da ottenere.
    Imprese sacrificali - Gli imprenditori con noi sono sempre gentili, ci accolgono con il caffè, sopportano di averci tra i piedi per settimane, ma si capisce che vorrebbero dirci: scusateci, ma avremmo pure da lavorare. A noi però questo non interessa: dobbiamo contestargli un verbale a qualsiasi costo e quando bussiamo alla loro porta sappiamo che non hanno praticamente speranza di salvezza. Per contrastare e contestare questa trappola infernale l’imprenditore è costretto a pagare consulenti costosissimi, ma noi rimaniamo sempre sulle nostre posizioni. A volte capita che per provare a difendersi il presunto evasore chiami in soccorso come consulenti ex finanzieri, ma spesso questo non gli evita la sanzione. Anzi.
    Negli ultimi anni ho notato una certa arrendevolezza da parte degli imprenditori: dopo un po’ si stancano. Capiscono, e ce lo dicono, che tanto dovranno fare ricorso perché noi non cambieremo idea. Per tutti questi motivi molti di loro costituiscono a inizio anno un fondo in previsione della visita della Finanza. Sono coscienti che qualcosa dovranno comunque pagare.
    Chi fa veramente le grandi porcate, chi apre e chiude partite Iva, emette false fatture o costituisce società di comodo magari alle Cayman è molto più veloce di noi e per questo non lo incastriamo, mentre azzanniamo quelli che operano sul territorio e che sono regolarmente censiti nelle banche dati. Alla fine lo Stato colpisce sempre i soliti noti.
    Tangente di Stato - L’imprenditore, se accetta la proposta di adesione al verbale entro 60 giorni, paga solo un terzo di quanto gli viene contestato e spesso salda anche se non lo ritiene giusto, per togliersi il dente ed evitare ricorsi costosi (a volte più dei verbali) e sine die. In pratica accetta di pagare una tangente allo Stato. Agli imprenditori i ricorsi costano molto e se la commissione provinciale, il primo grado della giustizia tributaria, dà ragione allo Stato, l’imprenditore prima di ricorrere alla commissione regionale, il secondo grado, deve pagare metà del dovuto. Per questo chi lavora spesso preferisce chiudere la partita all’inizio, pagando un terzo.
    Giustizia da farsa - Il contradditorio tra Guardia di Finanza e imprenditori durante le verifiche è una farsa, perché ognuno rimane sulla propria posizione, ma va fatto per legge. Nel contradditorio gli imprenditori non hanno scampo: quel numero, quell’ipotesi di evasione, ormai è stato venduto e non può più essere ridimensionato. È entrato nel sistema e nelle nostre statistiche. A noi non interessa se magari dopo anni quel verbale verrà annullato e non avrà prodotto alcun introito per lo Stato.
    Le cose non vanno meglio con la giustizia tributaria, gestita da commissioni composte da avvocati, commercialisti, ufficiali della Finanza in pensione che fanno i giudici tributari gratuitamente giusto per fare qualcosa o per sentirsi importanti. È incredibile, ma in Italia il sistema economico-finanziario viene affidato a un servizio di “volontariato”.
    La verità è che un tale esercito di volontari senza gratificazioni economiche non se la sente di cassare completamente il lavoro di finanzieri e Agenzia delle Entrate e l’imprenditore qualcosa deve sempre pagare. Difficilmente questi giudici per hobby danno torto allo Stato.
    L’assurdità è che vengono pagati 30-40 euro per motivare sentenze complesse che hanno come oggetto verbali da milioni di euro, scritti da marescialli aizzati dal sistema....
    Confessioni di un finanziere "Incasso tangenti per lo Stato" - Libero Quotidiano



    PREGHIERA
    di Camillo Langone
    “Avanti come un treno”. Ma verso dove? Io lo so. Ieri è scattato lo spesometro che impone ai commercianti di denunciare, scusate, segnalare all'agenzia delle entrate ogni acquisto superiore ai 3.600 euri. “Chi compra automobili, gioielli, abbigliamento e accessori di lusso finirà sotto la lente d'ingrandimento del Fisco”, scrive il Corriere. A parte che, del lusso, una macchina da 3.700 euri non è nemmeno lontana parente (il compratore dovrebbe essere compatito, non segnalato), sono metodi che svelano la direzione del famoso treno: DDR.
    Siamo dentro un brutto film intitolato “Gli scontrini degli altri”, con centinaia di migliaia di impiegati pubblici occhiuti e origlianti, e milioni di sudditi la cui unica colpa è quella di non essere riusciti a fuggire nel mondo libero (Svizzera, Londra...), poveri uomini terrorizzati e depressi, costretti a sussurrare anche in casa propria e a guidare vecchie carrette inquinanti e pericolose. Avanti come un treno, certo, verso Berlin-Lichtenberg (la stazione che serviva la sede della Stasi).
    Preghiera del 23 aprile 2014 - [ Il Foglio.it › Preghiera ]





    Preghiera laica in difesa del contribuente
    Oggi, sotto i nomi di "redditometro" e "spesometro", è in atto una massiccia aggressione alla proprietà privata. Ci viene detto "chi non ha niente da nascondere non ha niente da temere", come dicevano la Gestapo e la polizia sovietica. E intanto...
    di Marco Bassani
    Quando abolirono il segreto bancario non dissi parola. Avevo un rosso di un paio di milioni di lire sul conto, la cosa riguardava come sempre i ricchi evasori.
    Quando il mio conto diventò trasparente per tutti i funzionari dello Stato, mi dissi che la cosa non mi poteva toccare, era un problema per le partite Iva, tutti ricchi evasori.
    Quando mi impedirono di ritirare o depositare contanti dal mio stesso conto mi venne da sorridere: chi li aveva mai visti cinquemila euri? La cosa rendeva la vita difficile ai ricchi evasori.
    Quando incominciarono a indagare tutti i flussi di danaro dall’estero mi dissi che era ora che andassero a scovare questi soldi nel Lichtenstein, sui conti dei ricchi evasori.
    Quando incominciarono a controllare le spese di tutti, stavo per allarmarmi, ma tirai subito un sospiro di sollievo: chi poteva spendere tremilaseicento euri in un colpo solo? Ovvio, solo i ricchi evasori.
    Quando mi recai in banca e non trovai più un euro sul conto, quando provai a usare la mia plastica e non l’accettava più nessuno capii al fine di essere anch’io un ricco evasore.
    Ed ebbi pietà del mio silenzio complice, da lavoratore dipendente, naturale alleato del sistema. Ma ormai non c’era più nessuno che avesse i soldi per poter parlare.
    Nessuno si senta offeso se traggo ispirazione da un pezzo famoso che parla del massimo assalto dello Stato alla vita, per dirvi del mio sdegno per la più grande aggressione oggi in corso alla proprietà (col linguaggio di chi la sta perpetrando: “spesometro” e “redditometro“). So bene che la vita conta di più. Il tutto però accade, proprio come allora, senza un lamento, senza un grido levato a vincere d’improvviso una legge. La via della schiavitù è veramente molto più in discesa di quanto avessimo mai creduto. O forse lo sapevamo, ma confidavamo nel buon cuore dei governanti … Peccato che poi mi sintonizzo su Radio Stato 24 e sento lo slogan dipietrista ripetuto cento volte: «Se ci comportiamo bene non abbiamo nulla da temere». «Tranquilli, tutto documentato, tracciato. Niente da temere». Il totalitarismo dolce e i suoi corifei non inventano proprio nulla. Quelli della Gestapo rassicuravano: «Se non avete cospirato contro il Volk non dovete temere nulla». Quando arrivavano i comunisti a massacrare i kulaki entravano nei villaggi rassicurando tutti: «Chi non ha nascosto derrate alimentari non ha nulla da temere».
    Unica consolazione odierna: non attentano direttamente alla nostra vita, finiranno solo per ridurci in povertà. Presto torneremo alla pastorizia e da un campo all’altro, fra un belato e un muggito sentiremo – attraverso una piccola radio a pile – i Barisoni prendersela con gli evasori, con Renzie in sottofondo a prometterci 4 euro al mese, pure agli incapienti (saranno quelli con meno di tre capre).
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  3. #153
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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Se per lo sciopero di un bidello chiude tutta la scuola
    di Mariella Baroli
    Quando sei uno studente sono le piccole cose a farti felice. Una nevicata intensa. La bidella che annuncia un’ora buca. L’assenza del professore alla prima ora che ti permette di restare a dormire un po’ di più ed entrare alle 9. Per lo studente medio qualsiasi opportunità per saltare un giorno di lezione – o talvolta anche solo cinque minuti – è cosa buona e giusta.
    Chissà allora cosa avranno pensato gli studenti della scuola media Manzoni di Udine, quando al ritorno delle vacanze pasquali si sono trovati dinnanzi ad un portone chiuso, insieme ai loro professori. Trecento ragazzi e quaranta insegnati pronti a fare ritorno a banchi e cattedre, se non fosse che il bidello aveva scelto di aderire allo sciopero indetto proprio quel giorno. Il dipendente è infatti «l’unico che può aprire la scuola» come ha spiegato il preside dell’istituto; e nonostante siano molteplici i casi in cui i dirigenti decidono di aprire le porte anche in assenza del dipendente autorizzato, nel caso della Manzoni «per non ledere il diritto di sciopero» si è deciso di rispedire tutti a casa. Comportarsi diversamente sarebbe stata «un’attività antisindacale» ha concluso il preside, all’annuncio che la scuola sarebbe rimasta chiusa fino all’indomani.
    Viene così da domandarsi se il diritto del singolo di scioperare abbia più valore del diritto di ragazzi allo studio e di quello degli insegnanti al lavoro. È giusto che un istituto con quaranta impiegati e trecento allievi si trovi ad essere sottomesso alla scelte di un impiegato statale che privo di scettro e corona impugna un mazzo di chiavi in segno di potere? Non si discute certo del diritto del bidello di aderire allo sciopero indetto dalla Unicobas contro le detrazioni decise dalla politica del governo Renzi (che interessano una parte ristretta dei dipendenti) ma del doppiopesismo usato per giustificare le azioni non tanto del dipendente quanto dei dirigenti, sottomessi alla decisione del dipendente statale. Ci si chiede inoltre se gli studenti – tutti minori – siano stati lasciati davanti al portone della scuola dai propri genitori per essere poi mandati a casa senza nemmeno un avviso a questi ultimi, generando senz’altro problemi a chi di loro si erano già recati al lavoro. Tutto nel nome del diritto allo sciopero.
    Alcuni sono più uguali di altri; ma nessun sindacalista avrebbe mai pensato che questa citazione orwelliana potesse essere a loro dedicata.
    Se per lo sciopero di un bidello chiude tutta la scuola | L'intraprendente


    «Per una buona scuola c’è bisogno di buoni insegnanti. Lasciamo le nostre scuole libere di scegliersi i migliori»
    «Con meno Stato e più autonomia scolastica i presidi assumono i docenti più bravi. Altrimenti devono tenersi quelli impreparati». Intervista a Stefano Blanco, direttore generale della Fondazione Collegio delle università milanesi
    Matteo Rigamonti
    «Abbiamo ancora troppi insegnanti impreparati nelle classi italiane a cui nessuno impone sviluppo professionale o uscita dal corpo docente e troppi con professionalità e desiderio di innovare che, al contrario, non sono adeguatamente incentivati a proseguire». Così Stefano Blanco, direttore generale della Fondazione Collegio delle università milanesi, in un suo editoriale del 30 aprile scorso. Tempi.it ha chiesto a Blanco di spiegare perché è così importante introdurre un sistema oggettivo di valutazione dei docenti e quale sia il modo migliore per farlo.
    Blanco, perché è conveniente adottare un sistema per valutare gli insegnanti?
    Perché ormai è sotto gli occhi di tutti che il concorso pubblico che dovrebbe garantire il loro reclutamento non funziona. Non è certo un caso, infatti, se il 99,9 per cento dei docenti che superano il concorso, al termine del primo anno di prova, entra in ruolo, senza che praticamente nessuno venga bocciato. Ciò significa che non c’è alcun tipo di selezione all’ingresso. Inoltre, chi diventa docente è destinato a rimanerlo a vita, senza mai poter ricevere alcun tipo di valutazione. Se veramente crediamo che l’educazione dei nostri figli sia una cosa importante, e lo è, dovremmo pensare anche alla valutazione dei docenti. Sono i buoni docenti, infatti, che contribuiscono a fare una buona scuola. Per questo motivo è importante valutarli, anche ricorrendo a forme di incentivazione di carattere retributivo o scatti di carriera per spingere a proseguire chi veramente è meritevole di farlo.
    Come si può fare?
    Al mondo ci sono diversi modelli che funzionano e che potrebbero essere di ispirazione anche per noi qui in Italia. Basti pensare, per esempio, a quello delle charter school statunitensi di cui hanno parlato nel loro libro Liberiamo la scuola Andrea Ichino e Guido Tabellini. Forse è un modello per certi versi ancora dibattuto, però ha un merito indiscutibile, che è quello di aver introdotto maggiore autonomia di gestione e finanziaria, consentendo alle scuole pubbliche sia di poter scegliere da sé i propri docenti sia come ripartire le spese rispetto ai finanziamenti ricevuti, che poi saranno valutati solo alla fine. Sarebbe già un bel passo in avanti se anche in Italia ci fosse un po’ meno centralismo da parte dello Stato e questo si limitasse a stabilire i criteri dell’abilitazione a livello nazionale, lasciando che un insegnante sia libero di inviare il suo curriculum alla scuola che più preferisce e questa sia a sua volta libera di scegliere da sé i docenti che vuole.
    Come si fa, nel corso degli anni, a valutare la qualità di un professore?
    Intendiamoci, la qualità di un docente non può essere valutata esclusivamente in base a dei numeri, è un fatto molto più complesso. A maggior ragione lo è oggi che gli insegnanti si trovano di fronte a classi eterogenee, talvolta addirittura problematiche da gestire. L’emergenza educativa di cui si sente ancora parlare è reale e per nulla superata. Detto questo, però, sarebbe bene se, per esempio, anche un professore, analogamente a quanto avviene con i medici, debba aggiornarsi ogni anno per poter insegnare, dovendo guadagnasi crediti attraverso adeguati percorsi di formazione. Il mondo dell’insegnamento non può più limitarsi ad essere un grande sistema assistenzialistico per collocare i docenti. Così non può più funzionare. In questo senso la figura del dirigente scolastico è fondamentale per valutare gli insegnanti e così condurre una scuola. Nessuno meglio di lui può farlo. I paesi del Nord Europa, in questo, sono all’avanguardia, mentre in Italia, troppo spesso, i dirigenti non hanno l’autorevolezza, o non vogliono prendersi la responsabilità, per farlo.
    Più libertà ai presidi nella scelta degli insegnanti | Tempi.it


    Tassare il risparmio è una boiata pazzesca
    Sta passando sotto silenzio l'aumento, voluto da Renzi, delle tasse sulle rendite finanziarie, che coinvolge anche i dipendenti, ovvero i risparmi di un lavoro già tassato. E prosciugati quelli, addio ripresa
    di Natale D'Amico
    Continua a sorprendere la scarsa attenzione che il dibattito pubblico presta all’annunciato aumento della tassazione sulle rendite finanziarie. E proprio nell’anno in cui ricorre il 140 esimo anniversario della nascita di Luigi Einaudi, cioè dell’economista che più di ogni altro dedicò larga parte della propria attività scientifica e pubblicistica a combattere contro la doppia imposizione sul risparmio.
    Riguardo agli effetti disastrosi che il livello di tassazione annunciato produce in presenza di inflazione, si è già detto. Si vuole ora contrastare l’idea secondo la quale sarebbe bene aumentare la tassazione sulle rendite per ridurre le imposte sul lavoro. Si consideri un lavoratore dipendente, che vive del suo salario o stipendio. Una volta detratte le – troppe – tasse, il nostro lavoratore dipendente spenderà la gran parte di quanto guadagnato per vivere: pagare l’affitto, far la spesa, … Ma, come la gran parte delle persone, anche lui tenterà di risparmiare parte del reddito guadagnato: perché ha in mente di cambiare auto; perché vuole essere un po’ più sicuro quando sarà pensionato; perché non si sa mai, ci sono sempre imprevisti; perché vuole essere in grado di aiutare suo figlio o sua figlia quando metterà su casa.
    Tutte finalità non solo lecite, ma anche apprezzabili. Non v’è motivo, né economico né per così dire morale, in base al quale lo stato si debba occupare di ostacolare questa propensione alla prudenza. Immaginiamo che il nostro lavoratore sia riuscito a risparmiare 100 euro. Se il tasso d’interesse corrente è il 5%, ne ricaverà 5 euro all’anno di rendita. Capitale e rendita sono le due facce di una stessa medaglia: i 100 euro risparmiati producono una rendita di 5 che, scontata al tasso d’interesse di mercato (poiché il valore attuale di una rendita perpetua R con tasso d’interesse i è pari a R/i), produce un valore capitale di 100. Ma interviene ora una tassa, per semplificare i conti, del 20% su quella rendita. Il flusso di rendimenti futuri non è più 5 euro ma 4. Sennonché il tasso d’interesse corrente non è affatto cambiato: è rimasto al 5%. E un flusso annuo di 4 euro, scontato al 5%, non fa più 100, ma 80.
    Siamo tornati a Luigi Einaudi: una tassa del 20% sulla rendita finanziaria equivale a una tassa del 20% sul patrimonio. Bene, diranno i redistributori: abbiamo introdotto, magari senza grande consapevolezza, una tassa sull’odiato patrimonio: potremo usarne il ricavato per diminuire le tasse sul lavoro. Ma torniamo al nostro lavoratore dipendente. Ora egli paga una imposta esattamente eguale a quella di prima sull’intero reddito – da lavoro – guadagnato. IN PIÙ paga il 20% sulla parte del reddito che ha risparmiato. Il prelievo sul suo reddito – che è solo reddito da lavoro – è aumentato, tanto più quanto il nostro lavoratore risparmia.
    È bene ribadirlo: così si passa dall’eutanasia del rentier di keynesiana memoria, all’assassinio del lavoratore-risparmiatore che con fatica e sacrifici, tenta di mettere qualcosa da parte per garantire a sé e alla propria famiglia un futuro un po’ meno incerto.
    Tassare il risparmio è una boiata pazzesca | L'intraprendente





    Gran Bretagna calamita per le imprese grazie a tasse sempre più basse
    di Nicol Degli Innocenti
    LONDRA - La Gran Bretagna è una calamita per le imprese: centinaia di imprese stanno facendo la fila per stabilire qui la loro sede e sfruttare il regime fiscale favorevole, secondo due nuovi studi di Kpmg e PwC. Il Governo di coalizione ha abbassato le tasse societarie dal 28% al 21% e dal prossimo anno l'aliquota nominale scenderà ulteriormente al 20 per cento. Il carico fiscale complessivo sulle imprese è del 35,5%, il livello più basso del G7.
    Secondo Londra questa tendenza dimostra il successo del Governo nel creare un clima favorevole per il business e nell'attrarre società che creeranno migliaia di posti di lavoro in Gran Bretagna e pagheranno miliardi di sterline di tasse al Tesoro. «La Gran Bretagna ora è prima della lista per le societá straniere, mentre qualche anno fa non era neanche in classifica - ha dichiarato il sottosegretario al Tesoro David Gauke -. Ora viene considerata una destinazione competitiva e attraente da parte di multinazionali che prima avrebbero guardato all'Irlanda, l'Olanda o la Svizzera».
    Almeno cento multinazionali hanno chiesto consulenza a Kpmg per rafforzare la loro presenza in Gran Bretagna o stabilire qui la loro sede, mentre PwC ha detto di essere in contatto con «oltre cento» multinazionali. Ernst & Young calcolano che 60 imprese stiano trasferendo il loro quartier generale in Gran Bretagna, con un aumento previsto delle entrate fiscali di 1 miliardo di sterline e la creazione di 5mila posti di lavoro. «Quello che è interessante è che si tratta di imprese in settori diversi, gli istituti finanziari sono una minoranza - ha sottolineato Jane McCormick, head of UK tax di Kpmg -. La sensazione quindi è che questo trend contribuisca a riequilibrare l'economia britannica rendendo sostenibile la ripresa».
    La settimana scorsa il colosso farmaceutico Pfizer si é impegnato a trasferire la sede in Gran Bretagna se riuscirá ad acquisire per oltre 100 milioni di dollari il gruppo rivale AstraZeneca in quello che sarebbe il maggiore takeover mai realizzato di una società britannica da parte di una società straniera. Secondo gli analisti tra il 70 e il 90% degli asset in contanti di Pfizer sono all'estero e verrebbero tassati al 35% se rimpatriati negli Usa, quindi la societá ha un forte incentivo a fare acquisizioni in regimi fiscali favorevoli. La Gran Bretagna invece non tassa gli utili generati all'estero.
    Gran Bretagna calamita per le imprese grazie a tasse sempre più basse - Il Sole 24 ORE


    L'economista Piketty gioca a fare Robin Hood. E resuscita "Il Capitale"
    Un saggio cerca di attualizzare la dottrina di Marx. Ma le ricette proposte sono sempre e solo a base di tasse
    Antonio Salvi
    A volte ritornano. Sono passati 150 anni dalla pubblicazione de Il Capitale di Marx e di nuovo oggi ci troviamo a parlare di un libro (Il capitale nel XXI secolo, sarà pubblicato nel 2015 per i tipi di Bompiani) che ne riprende il pensiero, avvalorandone le conclusioni con una copiosa (e noiosa) messe di dati.
    La tesi sostenuta nel nuovo volume è semplice: il capitalismo è un sistema economico che concentra progressivamente la ricchezza in poche mani ed esaspera le disuguaglianze sociali.
    Il Marx del terzo millennio si chiama Thomas Piketty ed è già celebrato in tutti i salotti radical-chic che contano. A sostegno della sua tesi, le argomentazioni portate dall'autore sono funzionali a sostenere la tesi che quando il tasso di rendimento sul capitale è superiore al tasso di crescita dell'economia il rapporto tra stock di capitale e reddito (misura del grado di concentrazione della ricchezza) aumenta e con esso l'incremento della ricchezza nella mani di pochi privilegiati. Sarà. Il nostro autore nel suo volume trascura però di osservare due importanti fattori che sviliscono fortemente le sue conclusioni.
    In primo luogo, gli aumenti in disuguaglianza non implicano che i poveri stiano oggi peggio che nel passato. Una corposa letteratura ha dimostrato come gli aumenti in disuguaglianza siano in larga parte dovuti al fatto che, anche se il famigerato 1% è divenuto molto più agiato nel corso del tempo, il restante 99% ha anch'esso registrato una crescita reale nel potere d'acquisto nei decenni passati. Cioè a dire che se vi sono stati miglioramenti in cima alla piramide, ciò non è avvenuto a spese del 99%. La logica di Piketty è invece fondata su un ragionamento a somma zero: i ricchi diventano più ricchi perché sottraggono ricchezza ai più poveri. La tesi di Marx, in sostanza. In realtà, quasi tutti gli economisti, a partire da Adam Smith, hanno dimostrato che il sistema capitalista fa crescere la dimensione complessiva della torta, così che tutti vedono progressivamente aumentare la propria fetta in termini reali.
    Il sistema capitalistico è più forte del sistema redistribuzionista ed egualitario perché sostiene che il problema della disuguaglianza non si risolve facendo scendere chi sta in vetta, ma facendo salire chi sta alla base. E non attraverso una redistribuzione forzata e robinhoodesca quanto invece con l'apertura della competizione a tutti i livelli, lasciando aperta a chi ne abbia voglia e talento la possibilità di poter scalare i gradini sociali.
    La controprova sono i sistemi comunisti, dove l'uguaglianza è sì realizzata ma al ribasso. Provate a chiedere a un «povero» se preferisce vivere in un sistema in cui alcuni gli sono molto avanti ma in cui è comunque in grado di vivere bene (e dove gli è inoltre lasciata la possibilità di aumentare la velocità per cercare di raggiungerli), piuttosto che in un sistema in cui chi è avanti è solo un po' avanti, ma dove entrambi sono a un passo dal baratro della sopravvivenza.
    Il sistema capitalistico attuale è quello che nelle varie Silicon Valleys del mondo sta consentendo a migliaia di ragazzi di realizzare il proprio sogno di successo e di benessere partendo dal nulla. Creando intorno a sé un mondo economico che dà da vivere (e bene) a centinaia di migliaia di persone.
    Il sistema capitalistico genera rendite? E allora? Vogliamo dimenticare che le rendite sono l'altra faccia del risparmio e che dietro il risparmio c'è quasi sempre il sacrificio? Se questi ragazzi di successo un giorno lasceranno il passo ad altri più bravi di loro e si godranno il frutto delle loro intuizioni e del loro sudore, saranno da considerare dannati rentier da penalizzare?
    In secondo luogo, l'analisi di Piketty trascura di considerare che il sistema capitalista produce continui cambiamenti nella composizione della ricchezza dovuti a mutamenti strutturali nelle dinamiche sociali, nella tecnologia e nel prezzo relativo dei beni. A tal fine, consiglio una lettura molto più interessante e attuale di Piketty: The second machine age di Brynjolfsson e McAfee, pubblicato nel 2014 in cui si sostiene che la rivoluzione informatica ha prodotto un'economia che favorisce: il fattore investimento rispetto al fattore lavoro; il lavoro specializzato rispetto a quello generico; le grandi aziende globali rispetto alle aziende locali. L'avanzare impetuoso delle computer technologies ha progressivamente ridotto la necessità di lavoro poco specialistico. E i Paesi che patiscono maggiormente un aumento della disparità di reddito sono quelli in cui il talento individuale è poco coltivato, gli investimenti in tecnologie informatiche contenuti, la propensione particolaristica prevalente. Sembra la fotografia del nostro Paese in cui quindi, non a caso, le disparità sembrano così elevate.
    Ma quello che fa maggiormente paura in Piketty è la cura proposta per ridurre le disparità. Aumento della progressività della tassazione (con aliquota massima all'80%!) e introduzione (o inasprimento) dell'imposta sulle successioni. La solita storia che chi produce ricchezza, per sè, ma anche per gli altri, deve essere penalizzato e mortificato.
    Attenzione, le conclusioni di Piketty costituiranno un cavallo di battaglia dei nuovi mâitre-à-penser del pensiero corretto, delle “pinepicierne” che ammorbano l'etere da diversi giorni riempiendo la testa degli italiani di impressionanti banalità. Un'avvisaglia inquietante si è già avuta nei giorni scorsi con l'analisi della ricchezza dei primi 10 paperoni d'Italia, la quale equivarrebbe a quella di 500 mila famiglie di operai. Peccato che facendo qualche rapido conto le cose siano leggibili anche così: nel 2012 questi signori hanno dato lavoro diretto a circa 330 mila persone. Se poi si considerano anche le imposte di periodo e si ipotizza di utilizzarle per semplicità tutte per il pagamento di pensioni (dividendo l'ammontare per 15 mila euro) si ottengono circa 150 mila pensioni. Il tutto senza considerare il lavoro dato ai fornitori di beni e servizi e il contributo al made in Italy nel mondo. Grazie paperoni, per tutto quello che fate per la nostra economia.
    http://www.ilgiornale.it/news/cultur...a-1017105.html

  4. #154
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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

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    Ultima modifica di Melchisedec; 09-05-14 alle 23:25

  5. #155
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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    La Grande Carestia. Il Discorso dedicato a tutti gli statalisti
    di Matteo Borghi
    «Un libro necessario». Alberto Mingardi ha definito così Tombstone, il saggio di Yang Jisheng sulla Grande carestia cinese causata dal “Grande balzo in avanti” di Mao Tse-Tung, presentato ieri in occasione del Discorso 2014 dell’Ibl, nella bellissima cornice dell’Accademia delle Scienze di Torino. Un libro sulle conseguenze dello statalismo più acceso che racconta, da un punto di vista privilegiato – Jisheng ha vissuto sulla sua pelle quegli anni che ha poi approfondito come giornalista – uno dei drammi più rilevanti del Novecento. Per capirlo basta dare un’occhiata ai dati delle vittime. «Le cifre ufficiali – ha detto Jisheng- parlano di circa 11 milioni di scomparsi nel solo 1960 e molti meno negli altri anni, ma basandomi su diverse fonti credo che siano molti di più, ovvero almeno 36 milioni fra il ’58 e il ’62. Più dei morti sia della Prima che della Seconda Guerra mondiale, e ben quaranta volte quelli della bomba di Hiroshima». Una tragedia immane che ha dato vita agli abomini più assurdi. «Ci sono stati casi di cannibalismo, anche fra parenti: almeno 337 quelli accertati ufficialmente. Per non parlare delle punizioni dai parte degli squadroni del governo sui contadini “devianti”, che ad esempio nascondendo il grano per sé: si andava dal taglio dei capelli, a quello dell’orecchio, ai lavori forzati, fino alle sevizie più orrende e all’omicidio».
    Il governo cinese oggi ammette che i morti ci sono stati, ma rinnega ancora la responsabilità politica addebitando tutto alla natura maligna. «Ogni anno in Cina c’è una carestia – ha detto Jisheng -. Eppure come mai negli anni del Grande balzo la piovosità è stata pari alla media degli altri anni, ma i morti sono stati infinitamente superiori?». In effetti basta guardare il censimento del 1982 che dimostra come i ragazzi di età compresa fra i 21 e i 23 anni (nati fra il 1959 e il 1961) fossero quasi la metà di quelli sotto i 20 anni e un terzo in meno di quelli con oltre 24 anni. «La colpa in realtà fu di Mao che, dal 1958, si mise in testa che il cibo era sufficiente e che la Cina doveva piuttosto dedicarsi all’acciaio: così si abbandonarono i terreni, lasciandoli incolti, e ci si dedicò all’industria, con scarsissimi risultati. Non solo perché mancavano le competenze tecniche ma anche perché, essendo tutto statale, nessuna azienda aveva interesse a produrre in modo efficiente».
    Eppure «si raccontarono bugie su bugie per far credere che la produzione stesse andando bene, quando in realtà fu tutto un disastro. Gli enti governativi territoriali aumentarono l’esproprio degli alimenti, riducendo i cittadini alla fame». «Cibo – ha continuato – tenuto per alimentare i burocrati di Stato – in Cina c’è un detto: “i dirigenti mangiano carne, i contadini solo le ossa” – o rivenduto all’estero. Avete capito bene: mentre milioni di cinesi morivano di fame, fra il ’58 e il ’59 l’export di scorte alimentari passò da 2,88 milioni a ben 4,15 milioni di tonnellate».
    Una follia che – come ha commentato Mingardi nell’introduzione – risponde perfettamente a quanto diceva Lord Acton: «Il potere assoluto corrompe in modo assoluto». E pretende di influire sulla realtà, facendo “diventare vere le menzogne” come invece diceva Orwell. A conti fatti, in Cina, il “centralismo democratico” non è significato altro che miseria, fame, corruzione e ingiustizia. Un esperimento da non ripetere, neppure nelle sue versioni più moderate.
    La Grande Carestia. Il Discorso Ibl dedicato a tutti gli statalisti | L'intraprendente



    Cento controlli sono troppi. Così la burocrazia azzoppa le Pmi: «Una patologia endemica»
    I numeri di uno studio della Cgia di Mestre che illustra una per una tutte le procedure di certificazione cui si devono sottoporre le aziende italiane. «Troppi regolamenti creano solo confusione»
    Redazione
    La burocrazia non concede tregua alle imprese. Sono quasi 100 i controlli che gravano sulle pmi italiane, operati da ben 16 enti ed istituti differenti. A certificarlo è uno studio della Cgia di Mestre. «Una patologia endemica che caratterizza negativamente» il Paese, sentenzia il segretario Giuseppe Bortolussi.
    INUTILI RIPETIZIONI. Dei 97 principali controlli individuati dalla Cgia di Mestre, 50 riguardano il rispetto dell’ambiente e la sicurezza nei luoghi di lavoro, 23 il fisco, 18 i contratti e 6 altre procedure amministrative. Sedici sono gli enti e gli istituti preposti ad effettuare i controlli. Inps, Inail e Agenzia delle Entrate, solo per citare i più noti. Ma anche le Aziende sanitarie locali, le Direzioni territoriali del lavoro, quelle regionali per la protezione dell’ambiente, i Vigili del Fuoco, la Polizia, la Guardia di Finanza e le Camere di commercio. Spesso, inoltre, gli stessi controlli sono effettuati da più enti, appesantendo ulteriormente gli aggravi per le imprese e i costi. Come avviene, per esempio, nel caso delle verifiche di conformità sugli impianti, per le quali gli imprenditori devono rispondere all’Asl locale, all’Inail, all’Agenzia regionale per la protezione dell’Ambiente, ai Vigili del Fuoco, ai Carabinieri, alle Fiamme Gialle e al Comune o alla Polizia municipale. O come nel caso delle verifiche sulla presenza e il rispetto delle condizioni sulla corretta gestione dei rifiuti di competenza di 6 enti diversi. Come se il già di suo complicato Sistri, il Sistema per la tracciabilità elettronica dei rifiuti, non bastasse.
    TROPPE LEGGI. «Con una legislazione spesso caotica e in molte circostanze addirittura indecifrabile – dichiara Bortolussi – per molte aziende, soprattutto quelle di piccola dimensione, è difficile essere sempre a norma. Ricordo che il 95 per cento delle imprese italiane ha meno di 10 addetti e non dispone, a differenza delle medie e grandi aziende, di nessuna struttura tecnica/amministrativa in grado di affrontare professionalmente queste problematiche. Detto ciò, non è nostra intenzione accusare nessuno, tanto meno gli enti di controllo che, spesso, sono anch’essi vittime di questa situazione. Troppe direttive, troppe leggi, troppi regolamenti creano solo confusione, mettendo in seria difficoltà non solo chi è obbligato ad applicare la legge, ma anche chi è deputato a farla rispettare».
    INVESTIMENTI A RISCHIO. Il tema della burocrazia, fa notare la Cgia, è uno dei principali ostacoli che rallenta la crescita del nostro Paese, scacciando sempre più in là, all’orizzonte, i primi, pur deboli, segnali di una possibile ripresa economica. Quando non, addirittura, spinge direttamente gli imprenditori a espatriare. «I tempi e i costi della burocrazia – conclude Bortolussi – sono diventati una patologia endemica che ci caratterizza negativamente. Non è un caso che molti investitori stranieri non vengano qui da noi proprio per la farraginosità del nostro sistema burocratico. Incomunicabilità, mancanza di trasparenza, incertezza dei tempi ed adempimenti onerosi hanno generato un velo di sfiducia tra imprese private e Pubblica amministrazione che non sarà facile eliminare».
    Burocrazia inutile, cento controlli sono troppi | Tempi.it



    Lo Stato estorsore: quando la realtà supera la fantasia....

    "L'Agenzia delle entrate manda in rovina l'Italia"
    Il funzionario pentito: "Spara accertamenti a caso, perde il 50% delle cause e uccide l'economia per ingrassare i tributaristi"
    Stefano Lorenzetto
    Attilio Befera, direttore dell'Agenzia delle entrate, 304.000 euro di stipendio annuo, ha annunciato che entro fine mese andrà in pensione. Avrei qui pronto il sostituto (non d'imposta, bensì umano): Luciano Dissegna. Costo per i contribuenti: zero euro. Sì, lo farebbe gratis. Il curriculum è ragguardevole. Per 30 anni leale servitore dello Stato, che lo assunse per concorso nel 1977, Dissegna ha lavorato negli uffici del registro di Montebelluna e Borgo Valsugana, nell'ufficio Iva di Trento, nell'ufficio imposte dirette di Bassano del Grappa, all'ispettorato compartimentale imposte dirette di Venezia, all'ispettorato dell'Agenzia delle entrate di Trieste. Infine è stato dirigente in Friuli Venezia Giulia e direttore a Thiene, Montebelluna e Schio della medesima agenzia.
    C'è un solo problema: Dissegna si è dimesso nel 2009 per protesta, accettando il prepensionamento con otto anni di anticipo, perché ritiene d'aver constatato di persona come l'Agenzia delle entrate sia un carrozzone pachidermico e inefficiente, in una parola inutile. «Procura più danni che vantaggi alla nazione. Peggio: arriva a comportamenti che rasentano il falso, la minaccia, la violenza, la ritorsione e persino l'estorsione, come documentato in un esposto indirizzato da un mio assistito alle autorità preposte e rimasto lettera morta. Più che quella delle entrate, se fossi Matteo Renzi io istituirei l'Agenzia delle uscite per mettere sotto controllo la spesa pubblica, il vero cancro di questo Paese».
    Dissegna, 64 anni, vicentino, è un tributarista, una via di mezzo fra l'avvocato e il commercialista. «Ma non posso dire d'essere passato dall'altra parte della barricata. Semplicemente resto sempre dalla stessa: quella dei più deboli, i contribuenti. Contro le vessazioni dell'erario e contro gli esperti a gettone che lucrano sulle disgrazie di chi non sa come difendersi dallo Stato sanguisuga». Con il primo dei suoi quattro figli, penalista a Milano, assiste aziende e privati nei contenziosi con l'Agenzia delle entrate. Lo fa da novello Robin Hood, cioè gratis nel 95 per cento dei casi. Per esempio con un rimborso di 700 euro per una consulenza che uno studio professionale voleva farsi pagare 130 volte tanto.
    Se gli chiedi ragione di questo comportamento, Dissegna ti spiega che i 3.200 euro netti di pensione e l'attività della moglie bastano e avanzano e ti mette con noncuranza sotto gli occhi la foto a colori, stinta dal tempo, di un ragazzo vestito da chierico: «Dagli 11 ai 18 anni sono stato in seminario dai Fatebenefratelli. Volevo diventare prete e lavorare negli ospedali. Poi mi sono accorto che esistevano le donne e ho avuto una crisi religiosa. L'inclinazione ad aiutare il prossimo ce l'ho nel sangue. Di quattro fratelli, sono l'unico che ha potuto studiare e laurearsi. Di giorno costruivo blocchi di cemento con mio padre, un ex contadino; di sera rimanevo curvo sui libri fino a quando non crollavo dal sonno. Ciò non toglie che mi senta un privilegiato. Qualcosa devo restituire».
    Dissegna è arbitro della Consob, uno dei 600 in Italia ammessi per titoli ed esami a dirimere le controversie in materia societaria e borsistica. Di concorsi pubblici ne ha vinti ben 10 nella sua vita. È stato advisor societario e fiscale della Bastogi. Dal 1995 al 1999, dopo la bufera di Tangentopoli, i concittadini gli hanno messo in mano la scopa, eleggendolo sindaco di Romano d'Ezzelino, il paese della provincia di Vicenza dove abita.
    Che cosa non funziona nella lotta all'evasione fiscale?
    «Dati alla mano, è una delle principali cause del crollo dell'economia nazionale. Tutto parte dal fatto che l'Agenzia delle entrate accerta ogni anno 30 miliardi di maggiori imposte, che con l'aggiunta di sanzioni, interessi e aggi esattoriali salgono a 70. Circa due terzi di essi, diventano oggetto di contenzioso. Per difendersi, i ricorrenti devono farsi assistere da tributaristi, avvocati e commercialisti, tutta gente che costa un occhio della testa. Nei primi due gradi di giudizio, quindi senza tenere conto del terzo in Cassazione, imprese e cittadini sopportano costi pari al 10 per cento dell'accertato: miliardi di euro. Se invece “definiscono”, come si dice in gergo, cioè pagano subito per evitare sanzioni e rischi del contenzioso, devono comunque rassegnarsi a grosse parcelle calcolate sul “risparmiato”. In pratica i professionisti si fanno dare almeno un 10 per cento».
    Vediamo se ho capito bene. L'erario pretende da me 100.000 euro senza motivo. Il mio tributarista lo convince ad accontentarsi di 10.000 e poi mi chiede 9.000 euro di parcella per avermene fatti risparmiare 90.000?
    «Esatto. È come se lo Stato pagasse una pletora di dipendenti che vanno in giro con una mazza a fracassare le gambe della gente per dare lavoro agli ortopedici. L'Agenzia delle entrate conta più di 33.000 dipendenti, il 7-8 per cento sono addetti al contenzioso. Uno spreco inaudito. Aggiunga gli incalcolabili costi in termini di giornate lavorative perse, malattie, stress. Un'azienda su tre chiude a seguito di una verifica. Quando non si arriva al suicidio del titolare. E non basta».
    Il suicidio non basta? Che altro c'è?
    «I contribuenti sospettati di evasione vincono il ricorso nel 50 per cento dei casi. Risultato: dei 70 miliardi accertati, l'Agenzia ne incassa appena 7 l'anno. Quindi i costi sostenuti da cittadini e imprese per tutelarsi superano di gran lunga gli introiti della lotta all'evasione. Una follia. Così va a picco il Paese. È in corso un mastodontico trasferimento di risorse dall'economia reale, rappresentata dalle aziende, a quella virtuale, rappresentata dai professionisti che assistono la gente trascinata in giudizio».
    Un momento, mi perdoni, ma studi legali e commercialisti non danno forse da mangiare a tante famiglie?
    «Ah, perché lei pensa che questo fiume di denaro venga utilizzato nell'acquisto di beni strumentali o nell'assunzione di nuovi dipendenti? Andiamo! Non crederà che i vari Giulio Tremonti, Victor Uckmar, Vittorio Emanuele Falsitta - per citare alcuni tributaristi di grido - comprino un computer al giorno o arruolino un'impiegata a settimana? È già tanto se lo fanno ogni 10 anni. Ergo, i soldi finiscono soprattutto nei loro conti correnti. Ma, dico io, siete tutti bravissimi, perché non vi date all'imprenditoria? Diventereste di botto altrettanti Armani, Ferrero, Barilla, Caprotti, Squinzi».
    Come fa l'erario a perdere il 50 per cento delle cause? È assurdo.
    «Per forza: spara accertamenti iperbolici a casaccio. L'aggravante è che martella le piccole imprese, andando in cerca di quattrini dove non ci sono. Perfino Befera è stato costretto ad ammettere che “esiste l'evasione di sopravvivenza”. Quindi, anche quando l'accertamento va a buon fine, i soldi che cerca di riscuotere non li trova: l'evasore li ha già spesi per campare. Insomma, l'Agenzia tartassa i contribuenti sbagliati e così porta a casa solo 1 euro su 10. E questo nonostante disponga di strumenti da regime poliziesco. Ti blocca tutti i beni al sole: casa, terreni, conti correnti, auto, barche, quadri, tappeti, mobili. Può persino, grazie a recenti sentenze della Cassazione, spremere i soci di una Srl, obbligandoli a rispondere in solido di un'evasione compiuta dalla società. Non se n'è accorto nessuno, ma di fatto la responsabilità limitata è stata abolita».
    Lei ha denunciato pratiche estorsive da parte dell'Agenzia delle entrate. Mi pare un'accusa gravissima.
    «Stia a sentire che cos'è accaduto. Un mio assistito di Treviso ha un'azienda che produce insaccati. Gli intimano, a capoccia, di pagare 2,3 milioni. Presento ricorso alla commissione tributaria provinciale: vinto. Il mio cliente non ha evaso alcunché, quindi al fisco non deve niente. A quel punto, se non fosse mio amico, potrei chiedergli il 10 per cento su quanto ha risparmiato: quindi 230.000 euro. Invece se la cava con 3.000, le spese vive. Ebbene: lei non crede che, pur di sottrarsi all'incubo di dover sborsare 2,3 milioni di euro, egli non sarebbe stato disposto a versarne senza motivo almeno 800.000, come l'Agenzia era arrivata a proporgli dopo una spossante trattativa? E questa che cosa sarebbe stata se non un'estorsione? Nell'esposto il mio assistito ha documentato una quarantina tra falsi, abusi, violenze, minacce».
    Documentati come?
    «Registrando di nascosto tutti i suoi colloqui con i funzionari del fisco. I quali hanno riconosciuto che il loro accertamento era “spannometrico”. In un dialogo, il capo dell'ispezione, avendo fallito nel suo intento vessatorio, ha ringhiato che sarebbe scoppiato “un casino della madonna”. E infatti due giorni dopo è stato aperto un secondo accertamento su un'attività marginale, di tipo filantropico, che il mio assistito ha in corso».
    Una ritorsione.
    «Già. Non bastava che gli avessero contestato 1,19 milioni di ricavi in più. Al che il malcapitato ha obiettato: scusate, stiamo parlando di prodotti a base di carne, estremamente delicati, perché non avete allertato i Nas, denunciando che la mia azienda starebbe smerciando in nero il 95 per cento degli insaccati? E i veterinari che vengono due volte a settimana a controllare e che hanno libero accesso alle celle frigorifere che cosa sono, miei complici? Risposta, testuale, del funzionario dell'Agenzia delle entrate: “Io mi ricordo di aver visto certi filmati di Striscia la notizia dove se ne vedevano di cotte e di crude sui bovini”».
    Ma non c'è un direttore provinciale che sorvegli questo funzionario?
    «Certo che c'è. E sa che cos'ha risposto per iscritto costui quando gli abbiamo contestato i comportamenti del suo sottoposto? “Normale rapporto fisco-contribuente”. Come dire che minacce e abusi rientrano fra i metodi usuali dell'Agenzia delle entrate. Non basta: il professor Aldo Rossi, ordinario di tecnica e gestione dei sistemi industriali dell'Università di Padova, ha riscontrato “grossolani errori, logici e di calcolo, finalizzati a gonfiare, in modo approssimativo, maldestro, arbitrario e perfino assurdo i ricavi della società verificata”».
    Lei che rimedi consiglierebbe?
    «L'Agenzia dovrebbe “accertare” solo se è sicura al 100 per cento, applicando il principio “In dubio pro reo”. Quando fui nominato direttore, dissi ai miei impiegati: guai a voi se mi presentate un accertamento che non sia sostenibile in giudizio al 101 per cento. Sa quanti ne stracciai per manifesta infondatezza?».
    Perché lo faceva?
    «Per impedire che le imprese foraggiassero i professionisti del nulla. E per non dare troppo potere a me stesso e agli accertatori. In ogni contenzioso privo di fondamento la corruzione è in agguato: ti chiedo tanto, trattiamo, ti faccio pagare poco, adesso sgancia qualcosa per averti aiutato. Mi sono spiegato?».
    Perfettamente.
    «Da quel momento crollò il contenzioso. Eppure, si tenga forte, fra il 2003 e il 2008 gli uffici diretti da me furono quelli che incassarono di più in tutto il Veneto in proporzione al numero di contribuenti. Semplice: chiedevamo 10 anziché 100 e tutti preferivano versare le tasse anziché stipendiare i tributaristi».
    Invece altrove che accade?
    «Lo Stato bussa alla porta dei poveracci. Tartassa l'idraulico con tre figli da crescere anziché il ginecologo con un Rolex d'oro per polso. La pesca a strascico costa meno fatica e qualcosa consente sempre di tirar su. Mentre quella selettiva richiede pescatori professionisti».
    L'Agenzia delle entrate non ne ha?
    «Ne ha. Ma le nomine nella pubblica amministrazione sono quasi sempre connotate da metodi clientelari, mafiosi. E l'erario non mi pare un'isola felice».
    Gli accertatori riscuotono provvigioni in busta paga?
    «Altroché. I dirigenti sono premiati con soldi e promozioni in ragione del gettito conseguito. E gli accertatori si mettono sulla loro scia per progredire nella carriera pure loro. L'80 per cento degli incarichi interni all'Agenzia delle entrate non sono conferiti per concorso, bensì assegnati in forma totalmente discrezionale».
    Come se ne esce?
    «Bisognerebbe tassare i redditi in misura inversamente proporzionale al rischio di perderli. Basta schiacciare un bottone: vediamo subito quanti perdono l'impiego nel pubblico e quanti nel privato. Dopodiché il primo lo tassiamo il doppio del secondo. Sarebbe una riforma epocale: frotte di nullafacenti aprirebbero all'istante una partita Iva, si dedicherebbero a lavori umili, andrebbero a sgobbare nei campi per pagare meno tasse, e addio pubblica amministrazione faraonica. Ma lei crede che Matteo Renzi possa metter mano a una roba del genere? Campa cavallo».
    "L'Agenzia delle entrate manda in rovina l'Italia" - IlGiornale.it

    Elogio del dio denaro
    Contro Grillo e i seguaci di Tsipras che lo considerano "sterco del Diavolo", diciamo a gran voce che solo il profitto permette benessere e sviluppo. Altro che decrescita felice e pauperismo sinistrorso, la crescita avvantaggia tutti
    di Matteo Borghi
    Circola molto un’idea che rischia di sfociare in idiote banalizzazioni, e in un’indiscriminata rampogna contro la ricchezza, vista non come valore aggiunto ma come furto ai danni dei "poveri". A propagandare questa visione sono arrivati, a breve distanza, il Movimento 5 Stelle e la lista Tsipras. Il primo col video #pugnisultavolo, postato dal militante – pardon, attivista – Luigi Marra, che di lavoro fa il musicista. Mentre le immagini mostrano normali cittadini (altrimenti detti la ggente) intenti a battere pugni sul tavolo, il testo di Marra recita testualmente: «E lotterò con le mie forze contro il diavolo/ del dio denaro che ha corrotto le anime». Qual è, Marra, questo dio che ci ha così tanto traviati? Forse quello che da cinquant’anni a questa parte ha reso la classe media e la piccola borghesia italiana una delle più forti d’Europa e di cui ora soffriamo, per la sua mancanza. E non perché l’Europa cattiva ha deciso di non stamparlo, ma perché lo Stato italiano ce lo preleva in quantità sempre maggiori. Forse è appunto il contrario: il denaro non crea problemi quando c’è ma quando manca.
    Cioè quando i privati e le imprese non fanno profitto: senza il guadagno non ci sono investimenti né consumi. Il benessere si riduce per tutti, anche per la casalinga di Avezzano e il tennista di Cagliari del video grillino. Quando c’è la recessione – o chiamala se vuoi “decrescita felice” – a rimetterci di più non è il ricco banchiere che di soldi ne ha ma il povero cristo che perde il lavoro perché senza profitto non c’è lavoro. Quindi non si capisce perché pure la lista Tsipras sta mettendo in giro manifesti con la sedicente scritta «liberiamoci dal PROFITTO». Quel malvagio concetto capitalista che ha avuto il merito di affrancare il cittadino medio dalla mera sussistenza, garantendogli il divertimento, l’ozio e il risparmio. La risposta migliore l’ha data Carlo Stagnaro che su Facebook ha scritto: «Per agevolare il meritevole impegno di liberarvi del profitto, vi può essere utile il mio Iban? Potete sversare tutto lo sterco del demonio che volete, mi occuperò io della bonifica».
    Noi, al contrario degli statalisti di ieri e di oggi, vorremmo fare una bella ode al profitto e al dio denaro. Quello che – ci racconta Alberto Mingardi nel suo saggio L’Intelligenza del denaro (Marsilio, 2013, euro 21) – non è altro che «l’esito, ovviamente sempre imperfetto, della libera interazione di milioni di individui, la sorgente ultima di ogni innovazione, la palestra possibile per la libertà degli esseri umani». E poi se proprio vogliamo paragonarlo allo sterco ricordiamo che in Via del campo De André ricorda che «dal letame nascono i fiori». Pure il denaro sarà sporco, ma fa nascere tante belle cose.
    Elogio del dio denaro | L'intraprendente



    Tasse, un problema di libertà
    Un sistema fiscale oppressivo non si limita a ridurre il benessere, ma distrugge anche le libertà civili e individuali
    Giampaolo Rossi
    Le tasse non riguardano solo l’economia di una nazione, ma anche la libertà dei suoi cittadini. Un sistema fiscale oppressivo non si limita a ridurre il benessere, la produzione e i consumi, ma distrugge le libertà civili e individuali poiché lo Stato, per sostenerlo, deve mettere in piedi una macchina di controllo e spionaggio simile a quella dei regimi totalitari; è ciò che sta accadendo a noi.
    Charles Adams, tributarista americano e autore di un libro straordinario sulla storia della tassazione, ha spiegato come la parola esattore richiami direttamente il termine “estorsore”, poiché esazione significa proprio “torcere fuori”, cioè “estorcere”. Di fatto le tasse sono una forma di furto accettato socialmente poiché compiuto dallo Stato in nome di un presunto bene comune; ma quando questo bene comune cessa di esistere o non è più percepito come tale, ciò che rimane è solo il furto. Non a caso, nell’800, l’economista francese Frédéric Bastiat definì le tasse una “rapina legalizzata”; e d’altro canto, se esse sono chiamate anche “imposte”, è perché non sono frutto di un atto volontario dei cittadini ma di un atto arbitrario dello Stato.
    Ancora prima di Bastiat il pensiero cristiano di San Tommaso ammoniva sull’uso sconsiderato e oppressivo della tassazione arrivando ad affermare che quando essa è troppo alta lo Stato si comporta come un ladro ed “è tenuto alla restituzione proprio come lo sono i ladri”.
    Questo squilibrio tra le troppe tasse e la percezione della loro utilità trasforma il problema da economico a politico. Ogni eccesso di pressione fiscale rompe il rapporto fiduciario tra lo Stato e i cittadini, trasformando il primo in predatore e i secondi in prede. Lo Stato cessa di essere un principio ordinatore per diventare un invadente soppressore di libertà.
    Le moderne democrazie (e di conseguenza i moderni parlamenti) nacquero proprio per limitare l’abuso dello Stato sui beni privati e sui patrimoni e per rendere credibile il rapporto fiduciario tra lo Stato e il cittadino, rappresentato dal principio del “no tax without representation”.
    Oggi assistiamo al paradosso che, nelle attuali democrazie, i sistemi fiscali riproducono l’autoritarismo ed il criterio espropriante dei modelli assolutistici.
    Quando nel 1797 il Primo Ministro britannico William Pitt introdusse per la prima volta nella storia l’imposta sul reddito, molti si opposero al fatto che lo Stato avesse il diritto di indagare la vita privata dei cittadini, controllandone patrimoni, proprietà e attività lavorative; per questo l’imposta sul reddito doveva essere temporanea (come tutte le cose che poi diventano definitive). Per un suddito britannico di due secoli fa, un sistema di spionaggio fiscale come quello attuale in Italia e in altre democrazie occidentali sarebbe stato impensabile; quando, durante la guerra contro Napoleone, fu introdotta una piccola tassa sui focolari, ci fu una rivolta popolare perché la gente non accettava che agenti del fisco entrassero nelle case a controllare quanti caminetti vi erano.
    Nell’America dei coloni, una follia come lo “spesometro” probabilmente avrebbe comportato rivoluzioni armate e ribellioni; e del resto, quando uno Stato arriva a controllare i consumi, a presumere le spese, ad immmaginare le attitudini e ad imporre per sé più della metà di quanto un cittadino produce, la democrazia scivola verso la sua negazione.
    Noi crediamo, perché così ci fanno credere, che le tasse sono un debito dei cittadini verso lo Stato; ma non è così. Piuttosto è vero che il livello di libertà di una nazione si misura dal livello di pressione fiscale: più le tasse sono alte, più sarà alta l’oppressione dello Stato nei confronti dei cittadini.
    Tasse, un problema di libertà - IlGiornale.it

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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    VOLEVO SOLO VENDERE LA GRATTACHECCA—DI DANIELE MANDRIOLI
    Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Daniele Mandrioli.
    Siamo tre studenti universitari di Milano; dei ragazzi normali a cui, durante una vacanza romana viene un’idea apparentemente brillante: esportare la grattachecca a Milano e renderla alcoolica, girando la città con un carretto. La nostra intenzione è realizzare una piccola attività di impresa dai costi di start-up pressoché irrilevanti e con un basso margine di rischio. A settembre decidiamo di mettere in pratica questo progetto e iniziamo la nostra Odissea.
    Per cominciare a orientarci, approfittiamo della gentilezza di un impiegato della sede Confesercenti di Milano, il quale ci spiega che, per poter vendere liberamente il nostro prodotto, è necessario svolgere un corso gestito dal CAPAC per conseguire la licenza di vendita e somministrazione di alimentari (durata 132 ore e costo pari a 552 euro di iscrizione escluso acquisto del libro di testo) e ottenere successivamente una licenza per vendita itinerante-ambulante da richiedere al Comune. Fin qui, la procedura ci sembra abbastanza semplice.
    Le cose iniziano a complicarsi quando si tratta di costituire la società. Dopo aver chiesto pareri a parenti avvocati e amici commercialisti, decidiamo di costituire una società in nome collettivo. Lo scoglio si chiama INPS. Ci rechiamo di persona nell’ufficio dell’INPS e veniamo a scoprire di essere obbligati a versare 3361,64 euro per ogni socio-amministratore più una percentuale sui guadagni che va ad alzarsi proporzionalmente al netto delle vendite. Iniziamo a vacillare: i costi stanno aumentando, ma forse siamo stati ingenui noi a non preventivarli. Continuiamo quindi il nostro giro informativo.
    Consultando i disordinati siti internet di Comune e Provincia, veniamo a scoprire il divieto di somministrare alimentari in modalità itinerante-ambulante vigente in numerosissime zone della città (per intenderci, tutto il centro di Milano fino alle mura spagnole, oltre alla zona dell’Arco della Pace, etc…). Queste limitazioni, difficilmente giustificabili, ridimensionano il nostro progetto, ma teniamo duro: vogliamo informarci chiaramente sulle normative e trovare soluzioni, o per lo meno risposte, parlando direttamente con gli impiegati competenti. Oltre al problema delle limitazioni di vendita nelle zone più appetibili della città, un’altra questione rilevante è quali siano i requisiti e i vincoli in merito alla somministrazione, trasporto e possesso di materiale alcoolico. Decidiamo quindi di fare tappa all’ufficio dell’agenzia delle dogane. Qui, però, le nostre domande generano nuovi quesiti e nuove incertezze che sembrano poter trovare risposte esclusivamente in altri uffici. Gli impiegati ci avvertono della necessità di informare la Asl, di chiedere chiarimenti al Comune e addirittura di informarci dai vigili del fuoco per conoscere i requisiti necessari per la detenzione di materiale infiammabile. Storditi, visitiamo un ufficio Asl. Qui l’impiegata ci invita ad andare in un’altra sede (la sfortuna vuole che si trovi dall’altra parte di Milano) competente in materia. Peccato che questo ufficio si aperto esclusivamente la mattina, il che ci obbliga a rimandare l’incontro. Oramai convinti dell’impossibilità di rendere effettivo il nostro ambiziosissimo progetto di vendere grattachecche, ma testardi come muli, decidiamo di fare visita alla sede del Comune. Qui avviene di tutto: veniamo rimbalzati in almeno sei uffici diversi, nei quali entriamo in contatto con impiegati dalla disponibilità e competenza dubbia. Le nostre richieste di chiarimento non sono mai soddisfatte, anzi. Ogni nostro dubbio appare irrisolvibile per gli impiegati, i quali, come soluzione ad ogni problema, ci rimandano ad altri uffici confidando nelle competenze dei loro stimati colleghi.
    Insomma, nel corso di questa frustrante visita, realizziamo, non senza amarezza, l’impossibilità di agire nel pieno rispetto della legalità e delle regole, perché prima di tutto non è possibile sapere quali siano queste regole e inoltre perché le poche conosciute limitano a tal punto la libertà di agire da far perdere tutto l’interesse per l’affare in questione. Le alternative possibili ci appaiono dunque solo due: intraprendere l’attività in nero e disinteressarsi delle conseguenze, oppure lasciar perdere. Noi scegliamo la seconda. L’idea non si realizza, il progetto rimane sulla carta e nelle ore di tempo buttate. Questa conclusione ha il sapore della beffa: tre giovani che agiscono attivamente per realizzare un progetto così poco rischioso e così facilmente attuabile, devono desistere e arrendersi dinnanzi a un sistema che deprime l’investimento e incoraggia la fuga. Una sconfitta amara per dei ragazzi, che si traduce in una piccola sconfitta anche per l’Italia. Piccola sicuramente, ma forse il dramma è proprio questo.
    Volevo solo vendere la grattachecca?di Daniele Mandrioli

    I nuovi proletari? Le partite Iva
    Altro che i dipendenti, sono loro i rappresentanti del nuovo popolo dei tartassati, da cui lo Stato pretende tutto senza dare alcune garanzia. Se solo la vecchia sinistra sindacalizzata lo capisse...
    di Matteo Borghi
    Cinque a zero. È questo il risultato impietoso con cui i dipendenti del settore privato battono il popolo delle partite Iva in quanto a welfare.
    A dircelo è la Cgia di Mestre che, in un recente studio, ha messo a confronto le possibilità consentite a queste due categorie di lavoratori di accedere alla platea degli ammortizzatori sociali previsti attualmente dal nostro Stato sociale. «Ebbene – scrivono dal centro studi – se nella stragrande maggioranza dei casi ai dipendenti è consentito di accedere alternativamente a tutte e cinque le principali misure di sostegno al reddito messe a disposizione dal nostro welfare (cassa integrazione in deroga, cassa integrazione ordinaria, cassa integrazione straordinaria, mobilità e Aspi), agli autonomi, invece, questa possibilità è sempre preclusa».
    Una bella differenza su cui bisognerebbe mettere una pezza. «È chiaro che con questa comparazione/provocazione – ha detto il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – abbiamo voluto mettere in evidenza una cosa: la precarietà nel mondo del lavoro si annida soprattutto tra il popolo delle partite Iva. Detto ciò, la questione non va affrontata mettendo gli uni contro gli altri, ipotizzando di togliere alcune garanzie ai lavoratori dipendenti per darle agli autonomi, ma allargando l’impiego di alcuni ammortizzatori sociali anche a questi ultimi». Quello che Bortolussi chiede non è, come potrebbe sembrare di primo acchito, assistenzialismo: già perché secondo lui le partite Iva i benefici in caso di disoccupazione «dovranno pagarseli».
    La proposta della Cgia, di fatto, è fondamentale per capire una cosa: oggi come oggi i veri poveri, i “proletari” del terzo millennio sono i lavoratori autonomi, specie se a basso reddito. Quelli che se guadagnano mille euro al mese (lordi) ne devono dare 500 allo Stato fra Irpef (al 23%, una delle più alte per i redditi minimi), Inps (quasi tremila euro all’anno di versamenti minimi) e altri balzelli d’ogni sorta. Altro che imprenditore ricco ed evasore, la moderna partita Iva è ormai il corrispondente dell’operaio dell’Ottocento, sfruttato e tartassato (dallo Stato, non dal padrone) con zero diritti.
    Il lavoro autonomo è tendenzialmente quello dove si organizza tutto il lavoro del futuro, ma siccome non ha rappresentanza politica e sindacale viene massacrato, ancora di più del lavoro dipendente. Il lavoratore autonomo di seconda generazione è il nuovo operaio, ecco la verità. I dati lo dimostrano: chi guadagna 50mila euro all’anno rimane con 20mila euro in tasca; chi arriva a 90mila se ne vede portare via più del 66%; chi apre la partita Iva e a fatica arriva a 10mila euro, paga il 32% sul netto del guadagno.
    Se ciò accade è in gran parte colpa di una sinistra che non ha saputo cogliere la portata del cambiamento avvenuto negli ultimi anni. Ha preferito rimanere ancorata ai vecchi schemi sindacali, senza accorgersi che – nella crisi attuale – i nuovi privilegiati sono quelli che lavorano con la tutela dell’articolo 18, specie nel settore pubblico.
    I nuovi proletari? Le partite Iva | L'intraprendente



    L'Italia resta un inferno per chi vuol darsi da fare
    D'accordo che il comunismo ha fallito e gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni
    Vittorio Feltri
    Il Giornale ha già dato la notizia ieri per la penna di Nicola Porro, ma vale la pena di tornarci su. Mi riferisco alla retrocessione dell'Italia, nella classifica mondiale dei Paesi industriali, all'ottavo posto, superata anche dal Brasile.
    Segnalo che in questa graduatoria speciale fino a sei anni orsono eravamo quinti. Nei salti all'indietro, come si vede, facciamo faville. Ma è da ingenui stupirsi, come lo è - da parte dei politici - sperare in una prossima inversione di tendenza. Diciamo piuttosto che la marcia del gambero in cui siamo impegnati da anni ci porterà ancora più in basso in futuro. E non perché i nostri imprenditori siano diventati e continuino a diventare stupidi. Tutt'altro. Soffrono semmai delle conseguenze di una campagna anticapitalistica iniziata all'incirca quaranta anni fa e portata avanti con tenacia fino ad oggi da coloro i quali considerano il denaro lo sterco del diavolo oppure, peggio ancora, uno strumento per opprimere il proletariato.
    D'accordo che il comunismo ha fallito e gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Il risultato è che l'Italia è inospitale per chiunque intenda intraprendere una qualsiasi attività finalizzata a creare profitto. L'industriale, piccolo o grande che sia, l'artigiano e financo i lavoratori autonomi (le cosiddette partite Iva) sono considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri.
    Lo stesso Stato, attraverso l'azione politica di alcuni partiti di ispirazione marxista, si è strutturato in modo tale da frenare lo slancio produttivo, imponendo vincoli, lacci e lacciuoli, adempienze burocratiche che scoraggiano ogni persona intenzionata ad aprire un negozio, una fabbrichetta, un laboratorio.
    I sindacati poi hanno completato l'opera di dissuasione nei confronti di chi amava (e ama) mettersi in proprio, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti. Le fabbriche si sono spesso trasformate in luoghi di tensioni, di lotta perfino violenta, di odio. I tribuni del popolo hanno preteso per un lungo periodo di legittimare i picchetti (davanti alle cancellate degli stabilimenti) deputati a respingere quei lavoratori desiderosi di recarsi al lavoro, esercitando il diritto di non scioperare, equivalente al diritto di scioperare.
    Questo per dire a che punto si è riusciti ad arrivare pur di umiliare gli imprenditori(e il personale non ideologizzato) e costringerli a sottostare ai voleri dei poteri rossi e, in molti casi, a chiudere bottega. Lo Statuto dei lavoratori di brodoliniana memoria è un documento della mentalità collettivistica cui accennavamo sopra che ha determinato l'insuccesso del nostro apparato produttivo.
    Bisogna aggiungere che il sistema industriale ha resistito per parecchio tempo agli attacchi feroci degli anticapitalisti, a dimostrazione che gli imprenditori avevano e hanno temperamento da vendere. Ma nel momento in cui agli effetti negativi della guerra dei quarant'anni contro di loro si sono aggiunti quelli di una storica crisi mondiale, numerosi imprenditori - per di più vessati dal fisco e dalla burocrazia mostruosa - hanno ceduto, portando i libri in tribunale.
    Ora i politici - qualunque politico - parlano e straparlano di ripresa e di emergenza occupazione. Non si rendono conto di avere favorito le condizioni migliori per uccidere la produzione, quindi di avere soppresso posti di lavoro e azzerato la voglia di avviare un'impresa. Come diceva Bartali, gli è tutto da rifare. Serve una rivoluzione culturale di segno opposto a quella di Mao, cioè orientata a rieducare gli italiani, persuadendoli che il primo obiettivo è il recupero delle risorse, altrimenti - se non ce ne sono - non si possono spartire.
    Già. Per avere un impiego è indispensabile avere delle fabbriche, farne di nuove che siano efficienti e competitive. Finora siamo stati bravi soltanto a distruggerle ed è assurdo avere la velleità che dal cimitero industriale si ricavino stipendi, benessere e stabilità sociale.
    L'Italia resta un inferno per chi vuol darsi da fare - IlGiornale.it

    Ode al ricco fiero d’esser tale
    Il mio eroe oggi si chiama Tal Fortgang. È studente a Princeton. È maschio, bianco, indisponibile al politicamente corretto.
    Al culmine di una discussione con un compagno del campus è stato bollato con la frase, luogo comune del senso di colpa occidentale molto diffuso nelle Università americane: Check your privilege. Vuol dire, per esteso: “Non me ne frega niente delle tue idee, tu sei socialmente un privilegiato, ed è per questo che ti esprimi così e ti permetti di dissentire da me”. Tal si è arrabbiato, e ha scritto un saggio per un giornale conservatore del campus, The Tory, che sta facendo molto rumore e ha messo sulla difensiva i Pol. Corr. di mezzo establishment americano.
    Del brocardo che doveva tappargli la bocca («ma guarda al tuo status di privilegiato») ha scritto: «La frase, scagliata dai miei superiori morali, colpisce senza scrupoli, come un drone autorizzato da Obama, e si abbatte guidata da un laser sulla mia complessione di pelle bianco rosa-pesca, sulla mia mascolinità, e sul carattere con cui ho proposto un’opinione fondata sul mio modo di vedere le cose».
    Il riferimento al drone laser-like del presidentissimo dei piacioni black (soprattutto se bianchi dalla tinta progressista), alla complessione della pella con la sua sfumatura primaverile, al gender non ideologicamente ottimale, troppo netto per l’universo Lgbt, e la pretesa di proporre le sue idee senza complessi e rigettando censure moralistiche dei suoi “superiori”, tutto questo fa in una sola frase, di quel saggio, un piccolo capolavoro. Una ribellione eroica, solitaria ma comunicativa, giustamente imbarazzante per la certezza progressista, per la banalità del progressismo andante e corrente.
    Check your privilege Tal l’ha considerato un modo offensivo di interpellarlo perché sottende l’idea che il merito non esista e che, Piketty insegna, le diseguaglianze si riproducono non solo per la rendita del capitale superiore al reddito da lavoro, ma anche e soprattutto per la trasmissibilità ereditaria dello status. E questa trasmissione guasterebbe l’ordine egualitario, lo schema moralistico e pauperista che si radica nell’odio verso il diritto di essere socialmente ciò che si è, e di essere giudicato in base ad altri parametri che non siano il privilegio sociale.
    Nel suo saggio Fortgang si dichiara orgoglioso della sua tradizione familiare, si distingue per la serietà e sobrietà dell’argomentazione da qualsiasi tracotanza o arroganza classista, e alla fine il suo eroismo coincide con il common sense e con un’idea tollerante e complessa della solidarietà sociale e della mobilità tra le persone attraverso la selezione per merito, insomma una manna per un mondo affetto dalla peste del correttismo intollerante, il mondo dei Piketty e di certi eccessi predicatori sulla scia di papa Francesco.
    «Per quanto io non abbia certo fatto ogni cosa con le mie sole forze fino al punto in cui sono giunto ora nella mia vita, qualcuno prima di me si è sacrificato perché io potessi godere di una vita migliore, ma questo è un legato di cui sono fiero. Ho verificato dunque il mio privilegio (I checked my privilege) e non ho niente di cui scusarmi».
    Ode al ricco fiero d?esser tale | L'intraprendente

    Farage, non farlo. L’alleanza con Grillo è da rifiutare
    di Matteo Borghi
    Egregio Nigel Paul Farage, segretario dello United Kingdom Independence Party
    Le scriviamo dopo aver appreso che ha incontrato Giuseppe Piero Grillo, per tutti Beppe, e che avete pensato ad una possibile alleanza in Europarlamento. Noi la sconsigliamo vivamente, e Le diciamo subito il perché.
    Chi le scrive lavora in una modesta redazione del Nord Italia. Lei certamente non ci conoscerà, ma L’Intraprendente è sempre stato, come Lei, un grande ammiratore di Margaret Thatcher. Quella grande leader di cui Lei vuole riprendere l’esempio contro quei Tory che, a suo giudizio, l’hanno rinnegata da tempo. In particolare sull’Europa di cui Lei, spesso, ha ricordato i tre celebri «no» pronunciati alla Camera dei Comuni nel 1990.
    Ebbene come saprà meglio di noi con quei tre no Margaret chiedeva di riprendersi, prima ancora della sovranità, i propri soldi. «I want my money back», disse senza mezzi termini ad una Ue che chiedeva alla Gran Bretagna più soldi di quelli che le dava indietro. Il suo era un antieuropeismo liberista: credeva che tutte le nazioni avessero il diritto di gestire le proprie finanze in autonomia, senza essere legate a imposizioni come quella del 3%, e di stampare la propria moneta in autonomia. Per questo, nei suoi undici meravigliosi anni di governo, pose al centro della propria politica i temi della riduzione delle tasse, della spesa e il contenimento dell’inflazione.
    Proprio l’opposto di quel che si legge nel programma elettorale del Movimento 5 Stelle che annoverava punti come l’«abolizione del pareggio di bilancio», l’«adozione degli Eurobond» e l’«abolizione del Fiscal compact» per fare nuova spesa pubblica.
    Già perché fra l’Ukip e il partito di Beppe c’è una voragine culturale ed ideologica incolmabile. Ricordiamo bene di come Lei, Farage, commentò la grande rapina fiscale di Cipro: «L’Unione europea è il nuovo comunismo». Sappia che a Grillo il comunismo piace parecchio.
    Abbiamo anche apprezzato la Sua frase contro il presidente francese: «Ha introdotto una tassa del 75% su ogni imprenditore di successo, come a dir loro “per favore andatevene subito”. Credo che il signor Hollande, nel moderno panheon degli idioti che governano gli Stati europei, sia in assoluto il numero uno». Beppe invece ha sempre invocato tasse sui ricchi e criticato gli imprenditori di successo per cui ha addirittura invocato un «processo pubblico».
    Potete davvero andare d’accordo? Essere antieuropeisti non è abbastanza, quando non si ha nulla in comune. Non lasci che sia la base grillina a rifiutarla, piuttosto rifiuti Lei.
    Farage, non farlo. L?alleanza con Grillo è da rifiutare | L'intraprendente

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    Predefinito Re: Bisogna affamare la bestia!

    Il cancro della burocrazia che strangola i cittadini
    Esce "La Repubblica dei mandarini", scritto dall'inviato del Giornale Paolo Bracalini. Viaggio fra le imprese che affogano tra leggi e cavilli
    Vittorio Macioce
    La lettera è arrivata lunedì. L'uomo che l'ha scritta ha 40 anni. È un commerciante. Si chiama Giuseppe. Non chiede favori. Non si sente protagonista. Pensa, soltanto, che quelli come lui non hanno nessuno che li rappresenti davvero. Non ci sono romanzi su quelli come lui. Non ci sono film. Non ci sono fiction. Non ci sono canzoni. Qualcuno di loro va in tv, ma le loro storie vengono dimenticate in fretta. Giuseppe è semplicemente uno che fatica dalla mattina alla sera. E la notte pensa ai conti che non tornano. È uno troppo solo davanti alle leggi bizantine, alla burocrazia, a tutti quelli che ogni giorno vanno a bussare davanti al suo negozio con un controllo, una richiesta, con la faccia di chi ti considera un presunto colpevole. Tanto una qualche legge che ti incastra ci sarà sempre. Ogni giorno ne passa uno con un vestito diverso, una sigla, una divisa, un'arroganza diversa. La faccia è sempre quella dello Stato. La vita vista da un bancone o da una bottega può assomigliare a uno spettacolo tragicomico. Con tutti questi omini che entrano e escono di scena come replicanti, come l'esercito di cloni dell'impero burocratico. Giuseppe scrive questo: «Ho pensato molte volte di scrivere qualcosa della nostra vita ma non ho le basi culturali necessarie per farlo, e credo che tantissimi come me avrebbero tante cose da raccontare ai nostri “governanti” che ci vedono solo come evasori, vorrei che qualcuno ci desse voce in qualche modo».
    Si, va fatto. E per la verità ci proviamo spesso. Intanto c'è qualcuno che ha raccontato, scavato, messo a nudo i vostri aguzzini. È Paolo Bracalini. È un collega e ha scritto La repubblica dei mandarini (Marsilio). È un viaggio nell'Italia delle burocrazia, delle tasse e delle leggi inutile. Le prime dieci parole svelano la più grande bugia di questi anni. «Lo Stato italiano siamo noi? No, lo Stato sono loro».
    Paolo guarda il mostro e si mette dalla parte di chi se lo trova davanti tutti i giorni. È il pescivendolo multato perché mancava l'indicazione della specie in latino vicino al nome in italiano. È chi viene rovinato perché sua moglie lo aiuta in pizzeria e sceglie di farla finita. È Giuseppe Aloisi che in Sardegna vuole aprire un'azienda di frigobar. Sceglie il terreno, compra le macchine, assume 40 persone. Ma su quell'area industriale c'è un palo dell'energia elettrica, piantato lì chissà quando. Chiede all'Enel di spostarlo. Ma ci vogliono trenta lunghi mesi. «Due anni e mezzo di interminabile attesa. Nel frattempo, Aloisi è fallito e gli hanno pignorato la casa».
    È la storia di uno che si è messo in testa di aprire una lavanderia. «Ci mette 86mila euro, 22mila per l'avviamento e il resto per le macchine. Un giorno gli arriva la lettera dell'Agenzia delle Entrate: lei ci deve circa 90mila euro, che fa, concilia? Il ragionamento del Fisco è questo: siccome per l'affitto della lavanderia paga 18mila euro all'anno, i soldi spesi per avviare il negozio devono essere - non si capisce bene in base a cosa - 18 mila euro moltiplicati per sei. Cioè 108mila. Quindi, avendo dichiarato un costo di avviamento di 22mila euro, il negoziante ha certamente evaso la differenza». Come finisce? Con cinquemila euro di multa. L'uomo si reca all'ufficio del fisco, parla con l'agente che ha in mano la sua pratica. Spiega che lavora 14 ore al giorno e ha dei figli da mantenere. Ma soprattutto dice che lui non ha dichiarato il falso, che non è un furbo né un evasore. «Alla fine, l'ispettore prende la calcolatrice, batte i tasti, fa un'operazione e la sanzione da 5mila euro passa a 2mila». Voi direste grazie?
    Qualcuno dirà che lo Stato serve. Lo Stato utile. Lo Stato ci protegge e ci rassicura. Forse un altro Stato. Non questo. Non uno Stato che ha trasformato il welfare in una fabbrica di clientele. Non lo Stato dalle cento tasse. Non uno Stato che parla la lingua maledetta del burocratese. Non lo Stato che considera artigiani, commercianti e imprenditori un corpo indegno da scarnificare. Non uno Stato di oligarchi e servi. Non lo Stato parassita. Ed è quello che pensa anche Giuseppe.
    Il cancro della burocrazia che strangola i cittadini - IlGiornale.it

    Il parco era sporco e abbandonato. Marcello ha preso rastrello e l’ha ripulito. «E che ha fatto il Comune? Mi ha mandato una diffida»
    Intervista a Marcello La Scala che, stanco dell’incuria del Comune di Agrigento per una giardino pubblico, ha provveduto a metterlo in ordine: «Mi hanno intimato di smettere»
    Chiara Rizzo
    Marcello La Scala, 56 anni, è un commerciante di Agrigento. Stanco di vedere l’incuria in uno dei giardinetti pubblici della sua città, un pomeriggio si è rimboccato le maniche ed è andato a potare le piante del giardino, svolgendo gratuitamente un lavoro per la sua comunità. «Sono maestro carradore – racconta a tempi.it -, e porto avanti la tradizione di mio padre Raffaele. Produciamo carretti siciliani e da anni lavoro anche per portare avanti un museo permanente, con annessa bottega dove si possano restaurare tutti i carretti antichi del mondo». Da qualche tempo, Marcello ha iniziato ad occuparsi di una delle ville comunali della città: «Da tre mesi villa Lizzi, che si trova in centro città, è stata abbandonata. I rovi crescevano. Ma i bambini continuavano a giocare tra le siepi e i passanti si dovevano fare largo tra le erbacce. I residenti della zona avevano denunciato più volte la situazione al Comune, ma nessuno ha risposto. Così, un giorno che eravamo a casa, io e mio figlio Raffaele abbiamo pulito la villa».
    «Ho preso il decespugliatore, un rastrello, una forbice e una macchina fotografica. Un pomeriggio di fine di febbraio siamo andati a villa Lizzi e fino a sera abbiamo lavorato per ripulire tutto, facendo cinque cumuli di piante ed erbacce. Un fatto che mi ha impressionato: mentre lavoravamo ha fatto capolino una signora, con il nipote sul passeggino: “Che bello, finalmente pulite. Ma è strano che l’amministrazione mandi i lavoratori al pomeriggio” mi ha detto. “Signora ma io sono un privato cittadino e lo faccio volontariamente, mi adopero a spese mie”. A questo punto lei mi ha abbracciato dicendomi grazie. Mi sono commosso, in fondo tutti noi vorremmo che le cose cambiassero».
    La Scala prosegue: «Ho documentato tutto. Ho fatto le foto durante e dopo i miei lavori, e le ho inviate al Tg locale, TeleAkras, che le ha trasmesse annunciando che tornerò di nuovo con una motozappa se il Comune non completerà la pulizia del parco. Forse li ho offesi nell’orgoglio: così una decina di giorni fa mi hanno inviato una diffida».
    Nei documenti il Comune ammonisce La Scala perché «un cittadino non può sostituire la Pubblica amministrazione se non nei termini previsti dai normativi disposti». Il che, tradotto dal burocratese, significa che i sindaci, a norma di legge, non possono lasciare che i cittadini se ne vadano in giro a svolgere lavori pubblici senza autorizzazione. Anche nei casi in cui l’amministrazione i lavori poi non li eseguisse. Si legge nella diffida che «non è possibile intimare un termine perentorio entro il quale provvedere ad effettuare lavori manutentivi su proprietà comunale». Dunque, «accertato che il comune di Agrigento intende promuovere tutte le forme di partecipazione del cittadino avente come fine la tutela e la valorizzazione del verde», per il momento La Scala dovrà rinunciare alla gita a villa Lizza con la motosega e dovrà rinunciare al «porre in essere qualsiasi atto commissivo all’interno degli spazi di verde pubblico e/o qualsiasi atto posto in essere senza le dovute autorizzazioni», altrimenti «verrà segnalato all’autorità giudiziaria» per atti «contra legem». La Scala, però, non intende mollare: «Do ancora al Comune qualche settimana di tempo. Poi la motosega la prendo davvero e vado a finire il lavoro».
    Agrigento. Pulisce parco abbandonato, il comune lo diffida | Tempi.it

    Lo statale è il lavoratore in assoluto meno produttivo e più fastidioso per chi fa impresa rischiando del suo. E’ la zavorra per antonomasia. La sua esistenza ci obbliga a ricorrere al paradosso “che meno fa meglio è”, preso atto che il suo “girar carte” incarna quella macchina burocratica e parassitaria che rende le nostre vite impossibili: “Come ha dimostrato la ricerca storica più avanzata, parassitismo moderno e contemporaneo e sottomissione alla dominazione burocratica sono più strettamente collegate nello Stato moderno che nelle differenti e/o precedenti forme di aggregazione politica”.
    Chiunque è dipendente dell’apparatnik – anche se medico o insegnante – si trasforma in un burocrate, una persona che ha perso il buon senso. Eppure, anziché diminuire questi signori crescono a dismisura (vuoi per assunzioni dirette, vuoi per partenogenesi degli enti inutili creati dalla casta per piazzare amici e trombati), diventando – obtorto collo – intollerabili per chi vuol essere lasciato libero di fare.
    Ufficialmente, sono un esercito 3.400.000 persone, dislocate in maniera del tutto disomogenea lungo lo stivale. Quando si cerca di capire quanti siano coloro che vivono di Stato, però, ci si imbatte in una sequela infinita di numeri, perché non è mai dato sapere con certezza chi “magna la pagnotta” a spese dei “productivos”. Le cronache ci raccontano quotidianamente di qualche finto ente privato, cooperativa, associazione di volontariato, centro studi o fondazione che stanno in piedi grazie alle “contribuzioni pubbliche”. Quando va bene, evitano di farci anche la cresta! Considerato, però, che quasi il 60% del Pil è spesa corrente potremmo sintetizzare il quadro italico in questo modo: 6 persone su dieci – di riffa o di raffa – insaccocciano denari di provenienza governativa. Da qui, la progressione infinita della corruzione.
    Gli statali sono spesso organizzati in dinastie: il figlio di, il cugino di, il nipote di ottengono un posto di lavoro per cooptazione familiare, alla faccia dei ridicoli concorsi con valore legale. Già perché nonostante lo Stato sia inefficiente in ogni settore (tutto quello che il governo tocca si trasforma in merda, diceva Ringo Starr), è in grado di sistematizzare il parassitismo, inventando in continuazione pubbliche funzioni e servizi inutili. Con l’aumentare dei suoi sottoposti, necessariamente, lo Stato si sente legittimato ad occupare ogni spazio della società civile, corrompendone la mentalità. La conseguenza è che solo i clienti, i privilegiati ed i protetti riescono a salvarsi ed a prosperare. Come ha ben scritto il professor Alessandro Vitale “il parlamentarismo (identificato con la “democrazia”) genera un pletorico strato di professionisti privi di altra occupazione, uno sterminato ceto parassitario di gente che vive solo di paghe pubbliche e di rendite politiche dirette o indirette”. Ecco a voi la burocrazia, che costa un botto e diventa il principale nemico delle libertà individuali e d’intrapresa.
    Il dipendente pubblico, inoltre, rappresenta un “simbolo dello Stato”. Più sono più lo Stato irrompe nelle nostre vite, controllandoci, costringendoci a trasformarci in sudditi da spennare, perché è il controllo, il monopolio della forza, che giustifica l’esistenza stessa dello statale. Sosteneva Max Nordau che “l’orgia di regolamentazione e il protocollismo non danno alla vita dell’individuo una garanzia maggiore di quella che dà la barbarie con tutta la sua assenza di regolamentazione”. In Italia, siamo al “mandarinismo”, altro che civiltà!
    Alessandro De Nicola, su costoro, ha scritto: “La burocrazia non muore mai. Creata una burocrazia e assegnatole dei poteri, non te la toglierai mai di torno: si inventerà ogni più futile motivo per giustificare la sua esistenza e il denaro versatogli dai contribuenti”. La scrittrice Ayn Rand affermava che “il bisogno fondamentale del parassita è quello di assicurarsi i legami con gli uomini per venir nutrito. In primo luogo egli considera le relazioni. Dichiara che l’uomo esiste per servire gli altri. Però, predica l’altruismo”.
    Scriveva Bruno Leoni, un genio praticamente ignorato da noi: “Ma com’è possibile che un cittadino voglia delegare le sue scelte a un politico che dei mestieri degli altri conosce poco o nulla”? Politico e burocrate sono sinonimi. Ho visto con i miei occhi imprenditori umiliati da un patetico, ed arrogante, funzionario dell’Asl – che minacciava di non dargli il permesso – per il tipo di rubinetto da mettere nel bagno della sua azienda. E questi avrebbero diritto al posto fisso a vita?
    http://www.lindipendenza.com/dipendente-statale/

    Sanguisughe d’Italia, un lungo elenco di enti statali inutili da tagliare
    di FRANCO CAGLIANI
    Non passa giorno – da anni ormai – che non si legga sui giornali di tagli, di spending review (inglesismi che nascondono il nulla) di coperture per coprire omaggini vari del governo, di tagli che tagli non sono.
    Da anni, invece, si sa cosa e chi tagliare. Gli enti pubblici inutili sono un must – ad esempio – ma una volta citati, tutto rimane nel dimenticatoio della politica, perchè dietro agli enti inutili si nascondono migliaia e migliaia di parassiti utili… al clientelismo nostrano.
    Di seguito, per conoscenza generale, pubblichiamo un lungo elenco di soggetti inutili che succhiano soldi ai contribuenti. Buona lettura.
    - Presidenza del Consiglio dei Ministri;
    - Ministeri;
    - Organi costituzionali e di rilievo costituzionale;
    - Agenzia del demanio;
    - Agenzia del territorio;
    - Agenzia delle dogane;
    - Agenzia delle entrate;
    - Agenzia italiana del farmaco – AIFA;
    - Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali – AGE.NA.S;
    - Agenzia nazionale per la sicurezza del volo – ANSV;
    - Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie;
    - Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione;
    - Agenzia per la rappresentanza negoziale delle P.A. – ARAN;
    - Agenzia per le erogazioni in agricoltura – AGEA;
    - Cassa conguaglio per il settore elettrico;
    - Cassa conguaglio trasporti di gas petroli liquefatti;
    - Comitato nazionale permanente per il microcredito;
    - DigitPA;
    - Agenzia nazionale del turismo;
    - Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata;
    - Amministrazione degli archivi notarili;
    - Anas S.p.a;
    - Centro per la formazione permanente e l’aggiornamento del personale del servizio sanitario – CEFPAS;
    - Ente nazionale per l’aviazione civile – ENAC;
    - Ente nazionale risi;
    - Fondo innovazione tecnologica;
    - Formez PA – Centro servizi, assistenza, studi e formazione per l’ammodernamento delle PA;
    - Gruppo Equitalia;
    - Istituto nazionale per il commercio estero – ICE;
    - Italia Lavoro S.p.a;
    - Patrimonio dello Stato S.p.a.;
    - Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca – ANVUR;
    - Agenzia per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale;
    - Autorità garante della concorrenza e del mercato;
    - Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture;
    - Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni;
    - Autorità per l’energia elettrica e il gas;
    - Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali;
    - Commissione indipendente valutazione, trasparenza PA – CIVIT;
    - Garante per la protezione dei dati personali;
    - Associazione nazionale autorità e enti di ambito – ANEA;
    - Associazione nazionale comuni italiani – ANCI;
    - Associazione nazionale consorzi universitari – ANCUN;
    - Conferenza dei rettori delle università italiane – CRUI
    - Federazione dei Consorzi di Bacino Imbrifero Montano – FederBIM;
    - Fondazione Istituto per la finanza e l’economia locale – IFEL;
    - Unione delle province d’Italia – UPI;
    - Unione italiana delle camere di commercio industria artigianato e agricoltura – UNIONCAMERE;
    - Unione nazionale comuni comunità enti montani – UNCEM;
    - Accademia della Crusca;
    - Accademia internazionale di scienze ambientali;
    - Accademia nazionale dei Lincei;
    - Agenzia nazionale per i giovani;
    - Agenzia per la promozione e l’educazione alla salute, la documentazione, l’informatica e la promozione culturale in ambito socio sanitario;
    - Agenzia per lo sviluppo del settore ippico – ASSI;
    - ARCUS S.p.a. Società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo;
    - Comitato italiano paraolimpico;
    - Comitato olimpico nazionale italiano;
    - Coni Servizi S.p.a.;
    - Federazione italiana giuoco squash – FIGS;
    - Federazione medici sportivi italiani – FMSI;
    - Fondazione biblioteca europea di informazione e cultura – BEIC;
    - Fondazione centro internazionale radio medico – CIRM;
    - Fondazione centro sperimentale di cinematografia;
    - Fondazione Festival dei due mondi di Spoleto;
    - Fondazione Istituto nazionale del dramma antico;
    - Fondazione La Quadriennale d’arte di Roma;
    - Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente;
    - Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti ed il contrasto delle malattie della povertà;
    - Lega italiana per la lotta contro i tumori;
    - Museo storico della liberazione;
    - Scuola Archeologica italiana in Atene;
    - Segretariato europeo per le pubblicazioni scientifiche;
    - Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica;
    - Agenzia spaziale italiana – ASI;
    - Automobil Club Italiano – ACI;
    - Consiglio nazionale delle ricerche – CNR;
    - Consiglio per la ricerca e sperimentazione in agricoltura – CRA;
    - Consorzio per l’area di ricerca scientifica e tecnologica di Trieste;
    - Ente per le nuove tecnologie l’energia e l’ambiente – ENEA;
    - Fondazione Bruno Kessler;
    - Fondazione Centro Ricerche Marine di Cesenatico;
    - Fondazione Edmund Mach;
    - Fondazione istituto italiano di tecnologia;
    - Istituto agronomico per l’oltremare;
    - Istituto nazionale di alta matematica “Francesco Severi” – INDAM;
    - Istituto nazionale di astrofisica – INAF;
    - Istituto nazionale di economia agraria – INEA;
    - Istituto nazionale di fisica nucleare – INFN;
    - Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia – INGV;
    - Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale – OGS;
    - Istituto nazionale di ricerca metrologica – INRIM;
    - Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione;
    - Istituto nazionale di statistica – ISTAT;
    - Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione – INVALSI;
    - Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori – ISFOL;
    - Istituto superiore di sanità – ISS;
    - Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale – ISPRA;
    - Museo storico della fisica e centro studi e ricerche Enrico Fermi;
    - Stazione Zoologica Anton Dhorn;
    - Istituti zooprofilattici sperimentali;
    - Stazioni sperimentali per l’industria.
    - Agenzie ed Enti per il turismo;
    - Agenzie ed Enti regionali del lavoro;
    - Agenzie ed Enti regionali per la ricerca e per l’ambiente;
    - Agenzie regionali per la rappresentanza negoziale;
    - Agenzie regionali per le erogazioni in agricoltura;
    - Agenzie regionali sanitarie;
    - Autorità di Ambito Territoriale Ottimale;
    - Autorità portuali;
    - Aziende ospedaliere;
    - Aziende ospedaliere universitarie;
    - Policlinici e Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici;
    - Aziende sanitarie locali;
    - Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura;
    - Consorzi di Bacino Imbrifero Montano – BIM;
    - Consorzi di polizia municipale costituiti tra Enti locali;
    - Consorzi di vigilanza boschiva costituiti tra Enti locali;
    - Consorzi e Enti gestori di Parchi e Aree Naturali Protette;
    - Consorzi intercomunali dei servizi socio assistenziali;
    - Consorzi interuniversitari di ricerca,
    - Consorzi universitari costituiti tra Amministrazioni pubbliche;
    - Enti regionali di sviluppo agricolo;
    - Fondazioni lirico – sinfoniche;
    - Parchi nazionali;
    - Teatri stabili ad iniziativa pubblica;
    - Università e istituti di istruzione universitaria pubblici;
    - Unioni delle Camere di Commercio regionali;
    - Agenzia per i servizi nel settore agro alimentare delle Marche;
    - Agenzia per la ricerca in agricoltura della regione Sardegna – AGRIS;
    - Agenzia provinciale per la mobilità / LMA Landesmoblitätagentur;
    - Agenzia regionale per i parchi – ARP;
    - Agenzia regionale per la difesa del suolo del Lazio – ARDIS;
    - Agenzia regionale per la tecnologia e l’innovazione della Puglia – ARTI;
    - Agenzia regionale rifiuti e acque della Sicilia – ARRA;
    - Agenzia Umbria Ricerche;
    - Associazione Arena Sferisterio-Teatro di tradizione;
    - Associazione teatrale pistoiese;
    - Authority – Società di trasformazione urbana S.p.a;
    - Azienda bergamasca formazione;
    - Azienda forestale della regione Calabria;
    - Azienda provinciale foreste e demanio – Landesbetrieb für Först-und Domänenverwaltung;
    - Azienda speciale protezione civile e servizio antincendio – Sonderbetrieb für die Feuerwehr – und Zivilschutzdienste;
    - Azienda speciale villa Manin;
    - Azienda strade Lazio S.p.a – ASTRAL;
    - Biblioteca Tessmann – Landsbibliothek Dr. Friedrich Tessmann;
    - Business Location Alto Adige S.p.A./ Business Location Südtirol AG;
    Centro di ricerca, sviluppo e studi superiori in Sardegna – CRS4 surl;
    - Centro mondiale della poesia e della cultura G. Leopardi;
    - Centro sperimentazione agrario e forestale Laimburg – Land und Forstwirtschaftliches Versuchszentrum Laimburg;
    - Consorzio Alta Gallura di Olbia Tempio;
    - Consorzio casalese rifiuti;
    - Consorzio Crescere Insieme di Vibo Valentia;
    - Consorzio cultura e legalità di Sassari;
    - Consorzio di bonifica 10 Siracusa;
    - Consorzio di bonifica 2 Palermo;
    - Consorzio di bonifica 7 Caltagirone;
    - Consorzio di bonifica del Musone, Potenza, Chienti, Asola e Alto Nera;
    - Consorzio di bonifica della Piana Reatina;
    - Consorzio di bonifica integrale dei fiumi Foglia, Metauro e Cesano;
    - Consorzio di gestione del parco regionale fluviale del trebbia;
    - Consorzio di ricerca del Gran Sasso;
    - Consorzio di ricerca filiero carni di Messina;
    - Consorzio di ripopolamento ittico Golfo di Patti;
    - Consorzio di solidarietà di Nuoro;
    - Consorzio Due Giare;
    - Consorzio gestione associata dei laghi Ceresio, Piano e Ghirba;
    - Consorzio gestione associata dei laghi Maggiore, Comabbio, Monate e Varese;
    - Consorzio intercomunale del Montefeltro di Pesaro e Urbino;
    - Consorzio intercomunale Mappano;
    - Consorzio intercomunale Vallesina – Misa di Ancona;
    - Consorzio lago di Bracciano;
    - Consorzio Li Stazzi di Olbia-Tempio;
    - Consorzio per il sistema bibliotecario Castelli Romani;
    - Consorzio per il sistema informativo regionale SIR Umbria;
    - Consorzio per l’area di sviluppo industriale del Calatino di Caltagirone;
    - Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Agrigento;
    - Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Caltanissetta;
    - Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Catania;
    - Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Enna;
    - Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Gela;
    - Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Messina;
    - Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Palermo;
    - Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Ragusa;
    - Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Siracusa;
    - Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Trapani;
    - Consorzio per la gestione associata dei laghi d’Iseo, Endine e Moro;
    - Consorzio per la gestione della biblioteca astense;
    - Consorzio per la pubblica lettura S. Satta di Nuoro;
    - Consorzio progetto locale percorsi di ambiente nella terra di mezzo di Nuoro;
    - Consorzio Sardegna ricerche per l’assistenza alle piccole e medie imprese;
    - Consorzio Sviluppo Civile Bono di Sassari;
    - Consorzio sviluppo e legalità dell’Ogliastra;
    - Consorzio Tirreno Eco Sviluppo 2000 – Spadafora;
    - Consorzio valorizzazione rifiuti 14;
    - Ente autonomo regionale Teatro di Messina:
    - Ente foreste della Sardegna;
    - Ente irriguo umbro – toscano;
    - Ente Olivieri – Museo archeologico oliveriano;
    - Ente siciliano per la promozione industriale;
    - Istituto di ricerche economico – sociali – IRES;
    - Istituto F. S. Nitti – Agenzia regionale per lo sviluppo delle risorse amministrative ed organizzative;
    - Istituto incremento ippico per la Sicilia;
    - Istituto pugliese di ricerche economiche e sociali – IPRES;
    - Istituto regionale della vite e del vino;
    - Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana – IRPET Istituto regionale ville tuscolane;
    - Istituto superiore regionale etnografico;
    - Italia Lavoro – Sicilia S.p.A.;
    - Laore Sardegna;
    - Osservatorio Permanente per l’Economia, il Lavoro e per la Valutazione della Domanda Sociale – OPES;
    - Piceno Sviluppo S.c.r.l.;
    - Porto Conte ricerche S.r.l;
    - Quadrilatero Marche – Umbria S.p.a.;
    - Resais S.p.a.;
    - Riscossione Sicilia S.p.a;
    - Serit Sicilia S.p.a;
    - Sicilia Patrimonio Immobiliare S.p.a;
    - Sviluppo e patrimonio S.r.l;
    Sanguisughe d?Italia, un lungo elenco di enti inutili da tagliare | L'Indipendenza

  8. #158
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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Le Pmi italiane “perdono” 269 ore l’anno per parlare col Fisco. Sessanta in più di quelle tedesche
    Matteo Rigamonti
    L’Italia è tra i grandi Paesi europei quello che «pone sulle proprie imprese il carico maggiore in termini di adempimenti fiscali, che da noi sono 15 contro i 9 della Germania». Le imprese italiane impiegano ogni anno «269 ore per assolvere gli obblighi fiscali contro le 207 della Germania e 15 adempimenti l’anno contro 9» di Berlino.
    Ad ammetterlo è stata Fabrizia Lapecorella, direttore generale del dipartimento Finanze del Tesoro, ieri in audizione alla Commissione finanze del Senato per discutere del rapporto tra contribuenti e fisco. Un grave squilibrio competitivo che significa più ore spese dagli imprenditori sulle scrivanie, tra scartoffie e cartelle, ma meno da dedicare alle produzione e all’innovazione in azienda o alla ricerca di nuovi mercati nel mondo. Per capirci: 269 ore sono 33 giornate lavorative di 8 ore l’una ogni anno, cioè quasi due mesi di tempo.
    I PIÙ GRAVATI DAL FISCO SIAMO NOI. Fa un certo effetto sentire un alto dirigente dell’amministrazione pubblica ammettere che, sì, l’Italia è tra i grandi paesi europei quello che «pone sulle proprie imprese il carico maggiore in termini di compliance», termine tecnico con cui il complesso sistema fiscale italiano indica l’adempimento spontaneo dell’obbligazione tributaria da parte delle imprese. Senza contare che, al netto della “spontaneità” e dei buoni propositi dei nostri imprenditori verso l’Agenzia delle entrate, i controlli dello Stato attraverso la miriade dei suoi enti pubblici, dall’Inps ai Vigili del Fuoco, sono quasi cento: 97 controlli l’anno come ricordato di recente dalla Cgia di Mestre. Un mole di carta tale da scoraggiare anche il più avventuroso tra i capitani d’impresa.
    Le Pmi italiane perdono 269 ore a parlare col Fisco | Tempi.it

    Contante, ultimo bastione di libertà
    Forse ti sarai accorto che da alcuni giorni è ricominciato con maggior virulenza il battage pubblicitario a favore della smaterializzazione del denaro, ovvero il divieto di utilizzo dei contanti a favore di bancomat, carte di credito, bonifiici ecc.
    Renzi in Italia ha obbligato professionisti ed esercenti a ricevere pagamenti con POS da tutti i clienti che ne facciano richiesta per importi superiore ai 30 euro; ma “tutto il mondo è paese”, infatti negli USA, come in Germania, alcuni Stati hanno riconosciuto Bitcoin (moneta virtuale creata dalla CIA) come valuta affiancola al dollaro americano.
    Praticamente, accendendo la TV non c’è telegiornale, talk show o i cosiddetti programmi di approfondimento che non lanci lodi a favore del denaro digitale, sotolineando empaticamente come nei Paesi moderni già da tempo vieni guardato storto se tiri fuori i contanti per pagare in qualsiasi esercizio commerciale, perfino in taxi.
    Questa manovra è l’ennesimo esempio di come, con una velocità mai vista prima, giorno dopo giorno, stiano restringendo la tua libertà, mentre dall’altra parte parlano di libertà sessuali (non naturali), religiose (riferito ai movimenti spiritisti), di cura e altre fregature varie.
    Ormai quello di cui parlano i complottisti, cioè dell’installazione del microchip sottocutaneo, come mezzo di controllo è roba superata o che potrebbe avvenire nei tempi ultimi, poichè richiede investimenti per la produzione dei chip, installazioni di massa, rastrellamenti di individui che non si sottopongono volontariamente all’intervento col pericolo che l’azione stessa sia troppo ridondante e quindi che alcuni individui inizino a porsi delle domande e magari a ribellarsi, anche solo per istinto.
    Invece quale cosa migliore di metterti catene invisibili facendoti fare una cosa che già abitualmente fai? Cioè, depositare denaro in banca.
    Essendo ormai arrivati a limiti così stringenti (30 euro), il risultato è che per spendere denaro siamo costretti per forza di cose a depositarlo in banca. L’euro in forma di banconota, loro stessa creazione, non avrà più alcun valore e quindi non sarà spendibile, poichè è la banca, al momento in cui lo depositi sul tuo conto corrente, che lo convalida digitalizzandolo. Così facendo sei obbligato a partecipare coattamente al sistema in tutto e per tutto, cosa che fino ad oggi coi contanti in mano lasciava ancora alcuni margini di libertà.
    Dichiarato fuorilegge il contante sarai completamente sotto il controllo del Sistema senza alcuna possibilità di fuga. Per qualche motivo non paghi le tasse, oppure devono ristrutturare il debito pubblico? Il risultato sarà il prelievo coatto dal tuo conto corrente bancario.
    E soprattutto l’aspetto che ci riguarda più da vicino. Se per qualche motivo il Sistema abbia la percezione che tu rappresenti un pericolo per esso, non avrà più bisogno di mandarti le guardie a casa, gli basterà inventarsi qualsiasi capo d’accusa e, tramite un click su un pulsante di BankItalia (e in futuro della Banca Mondiale) ti bloccherà l’accesso al tuo conto e di conseguenza ti dichiarerà socialmente morto.
    Sarai uno zombie, organicamente vivo ma impossibilitato anche ad acquistare il cibo per la sopravvivenza quotidiana. Perchè? Perchè rappresenti un pericolo e ti hanno precluso l’accesso ai tuoi soldi che però, per tua connivenza col Sistema, sono sotto il suo possesso, e al contempo non potrai usare contanti perchè vietati dalla legge.
    Potevano costruire gabbia migliore?
    Contante, ultimo bastione di libertà | Azione Tradizionale

    Ci mancava il Codacons che vuol boicottare chi non ha il Pos
    di Enrico Reardo
    Invitiamo «a rifiutare il pagamento con denaro contante per spese superiori ai 30 euro, e farsi mandare il conto a casa daPos esercenti, artigiani e professionisti che in barba alla legge non si sono muniti di apposito Pos, in modo da scegliere in un secondo momento la modalità migliore per saldare il conto».
    A dirlo non è la Guardia di Finanza o l’Agenzia delle Entrate bensì il Codacons. L’associazione di difesa dei consumatori che ha dichiarato guerra senza quartiere alle piccole attività commerciali che non daranno la possibilità di pagare con bancomat o carta di credito per importi superiori ai 30 euro. Una vera e propria macchinetta mangiasoldi concepita per fare un favore alle banche (che si intascano le commissioni) e allo Stato, che punta a impedire alla nascita qualsiasi ipotesi di evasione fiscale. Come ci informa il Corriere il Pos ad ogni commerciante può arrivare a costare fino a 550 euro al mese. Per l’utente, certo, pagare con carta di credito è una comodità ma la norma non è certo pensata per lui.
    Eppure il Codacons, da decenni a difesa del consumatore, pare equivocare. Attacca frontalmente «quei commercianti, professionisti e artigiani che, in barba alla norma che entra in vigore oggi, non si sono dotati di Pos» confondendo forse le vittime, consumatori e piccoli imprenditori allo stesso modo che si cerca di mettere le une contro le altre, col carnefice (lo Stato). Una confusione che crea mostri: «Da oggi – scrive sempre il Codacons nella nota – tutti gli esercenti dovranno accettare senza riserve il pagamento con moneta codaconselettronica per importi superiori ai 30 euro. Dal momento che, nei confronti dei trasgressori, non c’è alcuna possibilità di agire, perché il decreto che introduce il provvedimento ha “dimenticato” di introdurre sanzioni per chi non si adegua, si rischia l’empasse: commercianti, professionisti e artigiani non possono infatti obbligare i clienti a pagare in contanti, ma senza Pos non sarà possibile per gli utenti effettuare i pagamenti con carta di credito o bancomat».
    Notare il dimenticato fra virgolette alte che nasconde il solito retro-pensiero statalista secondo cui non si farebbe abbastanza per combattere l’evasione fiscale. Una visione a dir poco ridicola se consideriamo tutti i vari redditometri, spesometri, e strumenti di vessazione che lo Stato s’inventa ogni giorno. Un vero e proprio inferno di cui Paolo Bracalini e Monia Benini ci hanno fornito parecchi terrificanti esempi nei loro ultimi libri. Forse, dalle parti del Codacons, son troppo impegnati a festeggiare i quarant’anni dell’associazione per accorgersene. Ma se davvero voglion difendere gli italiani più deboli dovrebbero capirlo in fretta.
    Ci mancava il Codacons che vuol boicottare chi non ha il Pos | L'intraprendente

    Raddoppian le code negli uffici, o come la burocrazia ci divora
    di Matteo Borghi
    Nel suo omaggio a Reagan Marco Bassani faceva notare come la macchina burocratica dello Stato vive di vita propria. Una cosa che se era vera perfino sotto la presidenza di Ronnie, autentico ferro liberista, lo è a maggior ragione nell’Italia di oggi dove “liberismo” è un termine buono a riempire trattati teorici o i discorsi di “economisti” e “filosofi” del calibro di Paolo Barnard e Diego Fusaro, che col 70% di tasse vedono neoliberismo dappertutto.
    Qualunque cosa gli si faccia lo Stato si ingrandisce sempre, a prescindere dalle azioni (peraltro inesistenti) di quei politici ci hanno promesso “meno tasse e burocrazia”. Per intuirlo basta vedere l’ultimo rapporto della Cgia di Mestre. «Negli ultimi 10 anni, il numero di persone che attendono più di 20 minuti agli sportelli dell’ufficio anagrafe è cresciuto del 43,7 per cento. Infatti, nel 2003 12,6 persone su 100 lamentavano tempi di attesa superiori ai 20 minuti: 10 anni dopo, la coda all’anagrafe è arrivata a durare più di 20 minuti per ben 18,1 persone su 100. Tale tendenza è riscontrabile dalle varie Indagini multiscopo sulle famiglie realizzate annualmente dall’Istat». Stesso discorso per gli sportelli Asl dove invece, sempre nell’ultimo decennio, l’incremento delle “vittime” dell’inefficienza della sanità pubblica è stato del 21,2 per cento.
    Capito bene? Nonostante ci abbiano sempre detto che la Pa si sarebbe rinnovata, grazie anche a informatizzazione e digitalizzazione, la nostra condizione di cittadini-sudditi non è cambiata se non in peggio. Una schiavitù che ha un costo anche economico fatto di giornate di lavoro perso, costretti in coda agli sportelli. Negli Usa o in Svizzera le tasse municipali si pagano con un assegno precompilato che si riceva a casa e che bisogna solo rispedire firmato; da noi, per il solo calcolo dell’Imu (con Tasi e Tari ci confronteremo a breve), c’è da impazzire.
    Una consuetudine che crea non pochi danni alle imprese: per districarsi tra timbri, certificati, formulari, bolli, moduli e pratiche varie, nel 2013 le piccole aziende hanno dedicato 30 giorni lavorativi, con una crescita del 26,4% rispetto al 2007. in tutto il costo annuo è di 31 miliardi di euro, 7mila per Pmi da aggiungere ad una tassazione che si aggira sul 68% (ma che può arrivare all’84% nel caso di imprese artigiane).
    E poi qualcuno ha anche avuto il coraggio di dire che la burocrazia non è un problema…
    Raddoppian le code negli uffici, o come la burocrazia ci divora | L'intraprendente

    Solo vendere
    di Matteo Borghi
    In Italia l’idea di tagliare la spesa pubblica si abbatte, inevitabilmente, su una serie di pregiudizi e luoghi comuni. “Vorrai mica ridurre i fondi per la sanità e far morire i vecchietti in corsia?”, dice qualcuno. “Non taglierai forse l’istruzione, rendendo i tuoi figli dei poveri ignoranti?”, sostiene qualcun altro.
    Potremmo discutere a lungo di entrambe le affermazioni, facendo notare come, se in Italia questi due servizi funzionano maluccio, non è certo colpa degli scarsi finanziamenti quanto di una gestione pubblica inefficiente. Ma non è tutto. Già perché le vere anomalie della spesa pubblica italiana vanno cercate altrove: in una spesa pensionistica folle (oltre 300 miliardi di euro, il 30% in più della media europea), in una serie di privilegi per i dipendenti pubblici che fanno lievitare il costo a 170 miliardi e nel mantenimento delle cosiddetteVendita patrimonio pubblico partecipate.
    Società pubbliche inefficienti e sprecone che – grazie alla gestione a dir poco clientelare – ci sono costate la bellezza di 26 miliardi di euro nel solo 2013. Una cifra astronomica che, come ha denunciato la Corte dei conti, deriva dal passivo di 7.500 aziende, partecipate in gran parte dagli enti locali (5.258 contro le 50 dello Stato centrale e le 2.214 che fan capo a fondazioni e consorzi pubblici).Soldi che permetterebbero, ad esempio,m di abolire l’Irap in un sol colpo, migliorando in maniera netta la performance delle imprese.
    Una vera e propria costellazione usata da amministratori di ogni livello per promuovere i propri interessi, collocare e ricollocare parenti e amici trombati alle recenti elezioni. Le vicende di Expo e del Mose, che trionfano ogni giorno sulle pagine dei giornali, non sono altro che la punta dell’iceberg di un sistema di sprechi e inefficienze (spesso dolosi) ben radicato a livello territoriale. Di soluzione ce n’è una sola: vendere. Alcune, le più indebitate, potrebbero essere anche cedute alla cifra simbolica di un euro a patto che il privato si impegni a risanarle.
    Peccato che qualsiasi progetto pensato finora si sia sempre infranto sugli scogli dei quella burocrazia che cerca di propagare se stessa all’infinito, al grido di “cambiare tutto perché tutto resti com’è”. Ed è così che ci terremo le partecipate all’infinito.
    Solo vendere | L'intraprendente

  9. #159
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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    MAGARI FOSSERO SOLO LE TASSE... - GIUSTIZIA PAZZA E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE COME ‘’POSTIFICIO’’ SPAVENTANO LE AZIENDE PIÙ DEL FISCO ASSURDO - CHI PUÒ SCAPPA, RIDUCENDO IL PAESE A SEMPLICE MERCATO. E LA DISOCCUPAZIONE DILAGA
    L’ultimo caso è Gtech, un tempo Lottomatica, che ha appena concluso l’offerta sull’americana Igt: andrà a Londra, come ha fatto Marchionne con la Fca. Certo, l’Irap è incomprensibile alla totalità dei manager internazionali. Ma il problema vero è quanto sia concretamente difficile fare business qui. Il sistema bancario certo non aiuta...
    Edoardo Narduzzi per “Il Foglio”
    E se l’Italia fosse già diventata un semplice mercato, una country, una semplice linea di affari nel bilancio consolidato di una multinazionale di successo nel mercato globale? Mentre proseguono le inutili polemiche post acquisizione della Indesit da parte della Whirlpool con le solite grida di “Al lupo! Al lupo!” per segnalare il pericolo di un made in Italy sotto attacco da parte dei predatori internazionali, si registrano altre fughe dal Belpaese di multinazionali macina utili.
    L’italianissima Gtech, un tempo Lottomatica, ha appena concluso l’offerta sull’americana Igt, leader mondiale dei casinò e nel social gaming, per 4,6 miliardi. Ne nasce il gruppo più importante del pianeta nel settore del gioco, anche di quello digitale. Contestualmente all’acquisto Gtech ha annunciato che sposterà la sede fiscale del gruppo dall’Italia a Londra e che procederà al delisting del titolo da Piazza Affari.
    Qualche mese prima era stata la Fiat di Sergio Marchionne a muovere la sede fiscale del nuovo gruppo nato dalla fusione con Chrysler, Fca, a Londra e quella legale in Olanda. I commentatori banali si fermerebbero a evidenziare il solo shopping fiscale come ragione prevalente, se non unica, della fuga dall’Italia. La realtà, purtroppo, è ben più negativa per l’Italia, e il motivo fiscale è solo uno dei tanti.
    Certo, l’Irap che esiste e si paga solo in Italia e che è incomprensibile alla totalità dei manager internazionali nelle sue logiche di calcolo e nella sua peculiare base imponibile, che ne fa una patrimoniale sulle imprese, non aiuta a trattenere le multinazionali. Certo, il tax rate fino a 10 punti più alto di quello che offre il Regno Unito di David Cameron, che ha per ben due volte ha ridotto l’aliquota sugli utili societari, è una sirena alla quale è difficile resistere. Certo, il cuneo fiscale più alto perfino di quello tedesco non può non fare da acceleratore della fuga.
    Ma, se l’Italia avesse una Pubblica amministrazione degna nella sua qualità media e nei suoi meccanismi di funzionamento dell’Eurozona, gran parte dei problemi fiscali potrebbe essere gestiti.
    Le multinazionali di successo scappano da un paese con una giustizia civile da quinto mondo e con un macchina burocratica pensata per essere un postificio, un atipico strumento di politica occupazionale keynesiana capace solo di scavare buche laddove strade e ponti non saranno mai costruiti.
    La Pa italiana non garantisce i servizi essenziali per le multinazionali contemporanee in termini di qualità media e tempi di lavorazione e le nostre multinazionali fanno shopping burocratico all’interno della Ue.
    Gli azionisti, in primis quelli istituzionali operativi nei vari continenti, non amano avere in portafoglio titoli o azioni made in Italy. Su questi titoli, stante la comprovata atipicità italica, chiedono un premio per il rischio aggiuntivo per investire. Premio che non ha senso pagare e che nessuna multinazionale che vuole essere davvero competitiva si può permettere di pagare.

    Musei, un tesoro che vale 100 miliardi. Mangiato da burocrazia e pochi soldi
    Tutti quelli italiani incassano meno del solo Louvre
    di Matteo Palo
    POTREBBE essere un’industria da 100 miliardi di euro l’anno, portare in Italia turisti da tutto il mondo, produrre ritorni giganteschi grazie ristorazione e merchandising. Invece, i nostri beni culturali sembrano condannati. Pochi investimenti (siamo oltre un punto sotto la media Ue) e una burocrazia elefantiaca dominata da sindacati vecchia maniera, ci costringono a guardare con invidia crescente i modelli stranieri. E così, mentre regioni intere raccolgono poche decine di migliaia di euro con i loro musei, il Louvre vale qualcosa come 100 milioni l’anno.
    Partiamo dal numero dei visitatori. Nel 2013, secondo i dati ufficiali, sono stati 38,2 milioni, considerando sia musei che aree archeologiche. I siti più visitati sono, nell’ordine, il circuito di Colosseo, Foro romano e Palatino (5,6 milioni), gli Scavi di Pompei (2,4 milioni), gli Uffizi (1,8 milioni).
    PER CAPIRE la dimensione di queste cifre, apparentemente positive, bisogna guardare all’estero: il Louvre, da solo, viaggia intorno ai 9,2 milioni. Ma è sul rientro economico che i conti non tornano. Il solo museo parigino totalizza 58 milioni di incassi, 15 di servizi ausiliari, 16 di donazioni di privati, più una decina di altre voci, che portano il totale a circa 100 milioni. Tutti i musei italiani nel 2013 non hanno superato i 90 milioni. Con picchi negativi che hanno quasi dell’incredibile. In Calabria gli introiti lordi 2013 di 14 strutture non hanno superato i 46mila euro: il Museo archeologico di Reggio Calabria, dove sono custoditi i Bronzi di Riace, si è fermato a 17mila euro con meno di 4mila ingressi in un anno.
    C’È IL PROBLEMA della mancanza di mentalità imprenditoriale. I modelli che cercano di integrare l’offerta culturale in senso stretto con altri elementi, come la ristorazione o il merchandising, sono ancora rari. L’associazione FareAmbiente ha descritto le sovrintendenze come strutture con «una mentalità ottocentesca che mira alla sola conservazione e non alla valorizzazione». L’apparato della pubblica amministrazione, poi, tende a soffocare molte iniziative. Il caso più eclatante è quello della recente polemica per l’apertura notturna del Colosseo: per consentire l’accesso ai turisti dopo le venti è stata necessaria una faticosa trattativa con Cgil, Cisl e Uil.
    DOSSIER / Musei, 100 miliardi di tesori sprecati: burocrazia, "capolavoro" di inefficienza - QuotidianoNet

    Lezione di un bambino alla Cgil sul valore della proprietà privata
    di Marco Respinti
    Ieri a mio figlio maggiore, 12 anni tra due mesi, hanno rubato il monopattino assicurato a un lucchetto fuori da un grande magazzino di Milano. Da qualche settimana aveva riscoperto il gusto del monopattino e se lo portava praticamente ovunque, anche per accompagnare, come ieri, la mamma a fare compere. La delusione nel vedere lì striminzito, sconfitto, esausto per terra il lucchetto senza più quel suo bene prezioso agganciato è stata per lui somma, tanto da provocare un breve, maschio pianto di rabbia e di stizza. Poi si è calmato, è tornato a casa e mi ha raccontato tranquillo l’accaduto.
    Io ci sono rimasto male almeno quanto lui. E lui mi ha spiegato la cosa per filo e per segno. «Vedi papà, quello era il mio monopattino. Nessuno doveva toccarlo, prenderlo, figuriamoci rubarlo. Anche perché è una cosa per ragazzi: chi ha il coraggio di rubare una cosa a un ragazzo, una cosa sua a un ragazzo come me? Se uno non ha i soldi per comperare un monopattino a suo figlio, come fa a rubare quello di un altro ragazzo per darlo al proprio? Ma che faccia ha, papà, uno così? Tu, papà, lo sai che la cosa che più m’intristisce è vedere la gente che non ha niente, i poveri che non hanno le cose. Se me l’avessero chiesto, un giro a un ragazzo che non ha nessuno che gli regala il monopattino glielo avrei fatto fare, il mio monopattino lo avrei prestato un po’… Invece me l’hanno rubato!». E io, colpito: «Hai ragione da vendere. Guarda, usciamo subito e andiamo a ricomperarlo il monopattino». «Papà», riprende lui, «io già lo sapevo che tu mi avresti risposto così. Sapevo che me lo avresti ricomperato subito. Grazie, grazie davvero. Però, papà, quello che mi hanno rubato era il mio monopattino: quello che mi aveva regalato la nonna per la mia Prima Comunione; aveva anche dei segnetti che gli avevo fatto subito il primo giorno andando a sbattere contro un muretto… Il mio monopattino era prezioso perché era quel monopattino…».
    Grande lezione, meglio di un corso intero di Scuola austriaca dell’economia. Il valore di un bene è quello che esso ha per me che ne sono il proprietario. Sono la storia, le vicende, i ricordi, le impressioni, le sfumature di cui quel bene si è fatto carico nel corso del tempo attraverso l’azione e le interazioni umane. Non è solo la misura fisica del lavoro che è servito a produrlo. I monopattini sembrano tutti uguali finché non diventano proprietà di qualcuno quando qualcuno li compera. Da quel momento la merce monopattino diventa il bene monopattino, e il suo valore è dato da un costo economico base più un enorme delta fatto di mille e una cosa. Il sale era prezioso in un determinato tempo della storia umana. Il ghiaccio è manna in Kenya d’estate, ma inutile in Groenlandia d’inverno. Un certo salario è da benestante dove la vita costa poco, ma da pezzenti dove la medesima vita costa diverse volte tanto. Una perlina è banale nella scatola che l’ha prodotta in serie, però può diventare un tesoro quando viene donata con amore alla fanciulla amata.
    Esattamente come il monopattino di mio figlio. È il valore che diamo alle cose per ragioni nostre che trasforma una merce in un bene, e quel delta è sempre e solo unicamente umano, tanto che è storico. Non è matematico, stechiometrico, ragionieristico. Micragnoso e calcolatore, usuraio e usurato. La Cgil non capirà mai quel che mio figlio ha già capito a 12 anni, serbi Iddio il suo istinto free-market. Non lo capirà mai nemmeno quel ladro che ha osato levare la sua empia mano contro la proprietà privata di mio figlio, che è sacra proprio perché, a differenza di quel che accade in un falansterio socialista di formiche, è benedetta dall’individualità unica e irripetibile dell’umano e della sua esperienza storica e spirituale.
    Comunque il monopattino lo abbiamo ricomperato subito. E quello che lo ha trasformato da merce sterile in bene per mio figlio è stato quando lui, ringraziandomi con trasporto enorme, mi ha detto che, sì, non era più il monopattino regalatogli a suo tempo dalla nonna, però adesso è quello del papà. Una cosa che non scorderà mai. Mica solo lui.
    Lezione di un bambino alla Cgil sul valore della proprietà privata | L'intraprendente

    Privatizzare fa bene. È provato
    di Matteo Borghi
    Quante volte abbiamo sentito frasi del tipo: “Solo lo Stato è in grado di garantire servizi pubblici efficienti a prezzo contenuto”; “se non ci fosse il trasporto pubblico viaggerebbero solo i ricchi” oppure “senza lo stato, chi costruirebbe le strade”.
    Peccato che poi, all’atto pratico, non solo la qualità del servizio pubblico medio è parecchio deludente, con un prezzo è superiore a quello privato. Per capirlo basti guardare lo studio sui rincari di beni e servizi essenziali che la Cgia di Mestre ha pubblicato di recente sul proprio sito. Ebbene dandoci un’occhiata vediamo che l’acqua, quella che secondo una certa retorica doveva restare rigorosamente pubblica per non far morire di sete i più poveri, negli ultimi dieci anni è aumentata della bellezza dell’85,2% (con pesanti aumenti solo l’ultimo anno). Rincaro simile anche per i servizi di smaltimento rifiuti (+81,8%). Rincari pesanti anche per i pedaggi autostradali (+50,1%) e per i trasporti urbani (+49,6%).
    Ora, come fa notare giustamente la Cgia, questi aumenti sono avvenuti in epoca di liberalizzazioni. Son forse colpa del privato, allora? Si direbbe proprio di no. Dopo le finte privatizzazioni, infatti, la maggior parte dei servizi è rimasto in gestione a inefficienti municipalizzate che, oltre a mantenere alte le tariffe per coprire buchi di bilancio da ogni parte, riescono a perdere 26 miliardi di euro ogni anno. Non solo: anche nel caso delle autostrade, gestite da una società privata, l’Atlantia Spa che fa capo alla famiglia Benetton, quel che manca è vera concorrenza. Il monopolio, pubblico o privato che sia, non dovendo competere tende a tenere i prezzi alti e a innovarsi poco. La concorrenza, viceversa, spinge in senso opposto.
    Non è un caso che, fra le voci prese in analisi dalla Cgia, a calare siano solo le utenze telefoniche – l’unico settore realmente liberalizzato dopo la messa sul mercato di Telecom nel 1997 – che in dieci anni son scese del 15,9%.
    Ciò vuol forse dire che il privato è sempre conveniente ed efficiente? Certo che no, ma in un mercato sano e competitivo deve puntare ad esserlo per stare sul mercato. Al contrario di chi, grazie alla politica, riesce a operare in condizioni di monopolio.
    Privatizzare fa bene. È provato | L'intraprendente

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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Nostro il record mondiale delle tasse
    Il grido d'allarme del presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli: 53,2% di pressione fiscale
    Raffaello Binelli
    L'Italia fa registrare un nuovo record mondiale, ma è un primato di cui c'è poco da vantarsi. Si tratta, infatti, del record delle tasse. Nel 2013 al netto del sommerso (pari al 17,3% del Pil) il nostro Paese ha toccato quota 53,2% come imposizione fiscale.
    Il calcolo è stato fatto dall’Ufficio studi della Confcommercio. La pressione fiscale apparente è invece a quota 44,1%. Alla luce di questi dati Confcommercio lancia un grido d'allarme: le tasse uccidono la crescita. La pressione fiscale è cresciuta del 5% dal 2000 al 2013, con un Pil procapite che, invece, è sceso del 7%. Interessante fare un veloce confronto con le altre economie europee: in Germania nello stesso periodo la pressione fiscale è diminuita del 6% mentre il Pil reale procapite è aumentato del 15%. In Svezia, paese fuori dall’Ue ad esempio, la pressione fiscale nello stesso periodo è scesa del 14% e il Pil reale procapite è aumentato del 21%.
    "Per favore - ha detto il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli - abbandoniamo l’idea di nuove tasse e di ulteriori eventuali prelievi: le tasse sono oggi la mortificazione della crescita. Le performance del 2014 sono compromesse, non distruggiamo le basi per la ripresa del 2015. L’Italia - ha evidenziato Sangalli - è ferma".
    Un altro dato evidenzia quanto sia grave la crisi della nostra economia: dal 2008 al 2013 l’Italia ha perso in termini di Pil reale pro capite l’11,6%. Peggio di noi ha fatto solo la Grecia con un -23,2%. La Germania nello stesso periodo ha visto crescere il Pil reale procapite di 4,4 punti percentuali. La Francia ha perso 2,3 punti.
    Nostro il record mondiale delle tasse - IlGiornale.it

    Stipendi assicurati e maxi tutele, i bonus nascosti del posto statale
    Protesta lecita, ma chi lavora per Pantalone non conosce mobilità né cassa integrazione. E in tanti hanno preso il bonus di 80 euro
    Stefano Filippi
    Il governo non aumenterà gli stipendi degli statali perché non ci sono soldi. Gli statali protestano, e sarebbe stato strano il contrario.
    Addirittura le forze dell'ordine minacciano scioperi, e questo è molto meno scontato e anche un tantino esagerato.
    Tutto vero, tutto giusto. Ma i dipendenti pubblici italiani dovrebbero anche guardare che cosa succede fuori dai loro uffici. Nel mercato del lavoro privato, non protetto dallo stato-mamma, succedono cose a loro sconosciute: cassa integrazione, licenziamenti, mobilità, contratti di solidarietà, accordi integrativi ridiscussi o cancellati. Fabbriche che chiudono, professionisti che non incassano, imprenditori che attendono di essere pagati proprio da quello stesso stato tiranno. Il quale ogni mese versa lo stipendio ai dipendenti ma non ne vuol sapere di saldare i debiti con i fornitori.
    Se poi gli statali vorranno guardare fuori dai confini dello Stivale, scopriranno che per i loro colleghi le cose vanno perfino peggio. Negli altri Paesi del Sud Europa il blocco delle buste paga è prassi: succede nella Francia della grandeur dimenticata, in Spagna, in Portogallo. La cancelliera Angela Merkel sta seriamente meditando di fare lo stesso con gli statali tedeschi. In Grecia sono stati costretti a fare ben di peggio. Hanno licenziato, sotto il diktat della Troika. E adesso da quelle parti si sente aria di ripresa, quella che da noi non arriva.
    In Gran Bretagna ci sono andati giù pesante. Il governo di Londra negli ultimi quattro anni ha lasciato a casa 500mila dipendenti pubblici e ridotto le tasse che servivano a pagare i loro stipendi: ora viaggia a ritmi di crescita che l'Italia si sogna mentre la disoccupazione è al 6,4 per cento, cioè ai minimi dagli ultimi sei anni, e la Banca d'Inghilterra prevede che il tasso di disoccupazione scenda sotto il 6 per cento entro dicembre. Significa che la gran parte degli statali licenziati ha già trovato un altro impiego.
    Da noi non funziona così. Impiegati pubblici, insegnanti, ministeriali, militari, medici e personale sanitario e via elencando hanno un posto di lavoro che, per loro fortuna, è ancora garantito. Hanno uno stipendio sicuro che, per esempio, permette loro di ottenere un mutuo senza essere torturati dalle banche. Hanno la tranquillità psicologica di poter pianificare qualche investimento. E la maggioranza degli statali ha beneficiato del bonus mensile di 80 euro che alla fine dell'anno fanno quasi 1.000 euro negati ad artigiani, piccoli imprenditori, professionisti, partite Iva: tutta gente alle prese con la stessa crisi che colpisce gli statali, ma evidentemente sono meno tutelati. E per quanti lo incassano, il bonus è enormemente meglio di un rinnovo contrattuale che, (fonte Sole24Ore ), varrebbe poco più di 200 euro netti all'anno. E' lecito quindi interrogarsi se una categoria di lavoratori finora soltanto sfiorata dalla crisi che ha travolto milioni di altri salariati non debba ora farsi carico di qualche sacrificio.
    Stipendi assicurati e maxi tutele, i bonus nascosti del posto statale - IlGiornale.it



    ZURIGO, L’AEROPORTO MIGLIORE DEL MONDO E’ PRIVATO. QUELLI DI PUGLIA? PUBBLICI E FALLITI
    L’aeroporto di Zurigo Kloten è stato giudicato il migliore d’Europa e ha ottenuto il World Travel Award per l’attenzione che presta alla sua clientela e per il livello generale degli standard di qualità.
    Giustamente orgogliosa, la società Flughafen Zürich AG ha sottolineato che lo scalo l’ha spuntata su sette concorrenti aggueriti del calibro di: Amsterdam, Barcellona, Amburgo, Londra-Heathrow, Lisbona, Monaco di Baviera e Parigi-Charles de Gaulle.
    Il World Travel Award è assegnato dal 1993 per le migliori prestazioni nel settore viaggi e turismo e la classifica è stilata in base ai voti dati via internet da esperti di viaggi e da un vasto numero di passeggeri.
    In compenso, oggi c’è una notizia in Italia che titola così: “Aeroporti di Puglia, la fiera dei fallimenti e degli sprechi continua“. Aeroporti pubblici, bene comune!!!!
    ZURIGO, L?AEROPORTO MIGLIORE DEL MONDO E? PRIVATO. QUELLI DI PUGLIA? PUBBLICI E FALLITI | Movimento Libertario

    BOSCHI
    Rino Cammilleri
    In un dettagliato articolo su La Nuova Bussola Quotidiana del 7 agosto 2014, Fabio Spina ha scritto, tra l’altro: «L’Italia attuale è sempre più verde, più di un terzo di Paese è coperto dai boschi, rispetto a 50 anni fa l’estensione dei boschi è più che raddoppiata avvicinandosi alla quota record di undici milioni di ettari. Se hanno ragione gli ecologisti allora, essendo aumentati i boschi, le frane ed alluvioni sono diminuite sensibilmente? La sensazione è che invece ciò non sta accadendo (…). I boschi che fanno bene al territorio, che limitano il dissesto, sono quelli curati dall’uomo (…). Già la cultura contadina sapeva che: un bosco abbandonato si ammala prima e s’incendia con maggiore facilità, (…) i canali di scolo non puliti con il tempo creano la palude e la malaria, i torrenti si riempiono di detriti creando problemi alle prime precipitazioni consistenti».
    Infine: «La Liguria, almeno in un caso ha cercato di seguire una “green economy” che creasse lavoro, benessere, curando i boschi e foreste, private e demaniali. Faggete, castagneti, abetaie e alberi da fusto che coprono 375 mila ettari, il 70% del territorio regionale. Sapete chi si è opposto? Il Wwf, secondo cui la legge sullo sfruttamento dei boschi demaniali “va contro la Costituzione”». Perché? Perché la Regione si è affidata agli odiati privati.
    Antidoti » Blog Archive BOSCHI - Antidoti

    Come convincere i vostri amici che la tassazione è un furto
    Cosa c’è di meglio di un simpatico fumetto per spiegare i principi libertari ?
    Classica scena tra libertario e “normale” (non mi piace chiamarli statalisti né socialisti) nel momento in cui quest’ultimo tenta di giustificare la tassazione definendola “pagamento dei servizi”. Il libertario allora si inventa un trucco geniale: rasa l’erba del giardino del suo amico e gli lascia un biglietto dove scrive: “Probabilmente non lo hai richiesto, ma ti ho rasato il prato e lavato le finestre. Per piacere portami 100 dollari appena puoi. Se scegli di non pagarmi sarò costretto a chiamare i poliziotti. Tony.”
    Forse è inutile stare lì a spiegare le motivazioni logiche per cui la tassazione è uguale al furto e citare passi di Mises e Rothbard. A volte la pratica è molto più efficace. Pensate a qualcuno che vi ha fatto quel discorso per giustificare la tassazione, fategli un lavoro non richiesto e poi chiedete di essere pagati. Ovviamente non consiglio di utilizzare la violenza se non vi paga come fa lo Stato! Vi farete una risata guardando la sua faccia ma soprattutto lo farete pensare. E alla fine è proprio questo quello che ci serve: far pensare le persone.
    Come convincere i vostri amici che la tassazione è un furto | libertariaNation


 

 
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