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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    Quei cattolici abbagliati dal mito di Castro
    di Francesco Agnoli
    Per gentile concessione di Sugarco edizioni pubblichiamo uno stralcio dal libro "Novecento. Il secolo senza croce" (pp. 158, euro 16) di Francesco Agnoli.
    Per la verità il mito di Cuba è creato e mantenuto in vita, per anni, non solo da atei dichiarati, di fede comunista, ma anche da alcuni cattolici. E’ un caso unico, dal momento che tutti gli altri regimi comunisti sono sorti in un’epoca in cui la posizione della Chiesa verso il comunismo era chiaramente di condanna. Pochi anni dopo la rivoluzione cubana, invece, si ha nella Chiesa una grande rivoluzione, ben spiegata da autori come Roberto de Mattei, nel suo “Concilio Vaticano II, una storia mai scritta” (Lindau, 2011) e dal teologo cattolico Brunero Gherardini. Per dirla con Paolo VI, il “fumo di Satana” penetra nel tempio e si diffonde nella Chiesa un pensiero non più cristiano. E’ la famosa crisi dell’epoca conciliare e post conciliare. Ebbene, proprio questa crisi di fede provoca la nascita di una forte corrente “cristiana” a favore del comunismo, incapace di vedere l’intrinseca perversione e malvagità di tale dottrina.
    Nel 1974, per capirci, esce in Italia un libro, A Cuba, di Ernesto Cardenal, che può essere molto utile per capire l’infatuazione per la rivoluzione cubana, anche tra “cattolici”, che attraversa l’Europa di quegli anni. Il libro è pubblicato dall’editore cattolico “Cittadella”, di Assisi, la città che diverrà simbolo dell’ecumenismo indifferentista, e porta la prefazione di mons. Ernesto Balducci, alfiere del rinnovamento cattolico post conciliare. In tale prefazione Cuba è vista come un miraggio concreto, come una utopia realizzata, in cui è sorto un nuovo “cristianesimo precristiano”, che ha portato a “maturazione i caratteri nativi della gente cubana come la generosità gratuita, l’estro creativo, la giocosità corale”. A Cuba, spiega Balducci, si vive in una “società liberata e consegnata ormai alla crescita autentica”, sebbene la Chiesa cattolica, cui Balducci dice di appartenere, ma con sdegno, come un Mancuso o un Martini di oggi, non capisca e sconti “la sua lunga solidarietà con il capitalismo imperialistico”. Gli uomini di Chiesa cubana, continua Balducci, non hanno abbracciato la rivoluzione, e questo colpevolmente: che poi scontino qualche persecuzione è in fondo colpa loro, perché si ostinano a non vedere il carattere evangelico del regime di un uomo eccezionale come Castro, finendo così in “esilio volontario, sulla scia dei miliardari”. La rivoluzione cubana, conclude il monsignore, integrando cristianesimo e comunismo, e nonostante attacchi la Chiesa, rappresenta “una delle prospettive (forse la prospettiva maestra) che si sono aperte alla Chiesa dopo il concilio”.
    Alla prefazione di Balducci segue, appunto, il diario di Ernesto Cardenal, cioè di un celebre poeta latino-americano, divenuto sacerdote cattolico, che narra la sua permanenza a Cuba, 11 anni dopo la rivoluzione. Cardenal dichiara di voler di raccontare tutto ciò che ha visto e sentito, senza filtri, come farebbe un vero amico della rivoluzione: cioè narrando il negativo e il positivo. Ma le sue pagine appaiono quelle di un innamorato alle prime fasi, quando la violenza del sentimento offusca completamente lo sguardo. Così Cardenal riporta qua e là alcune critiche al regime, fattegli da persone cubane che ha conosciuto, ma minimizza sempre: a Cuba i cattolici non possono accedere alle università e ai “lavori buoni”; molti giovani credenti sono stati fucilati, al grido di “Viva Cristo Re”; il Natale, come in tutte le dittature, è stato spostato al 26 luglio, anniversario della rivoluzione; nell’isola non c’è alcuna libertà di stampa; ci sono state 800 o 1000 fucilazioni nei primi tre anni...
    Soprattutto, a Cuba vi sono alcuni campi di lavoro forzato. Cardenal, infatti, racconta di aver incontrato, tra gli altri, un tale Eugenio, ex cattolico, che gli ha parlato anch’egli dei campi di concentramento (Umap: unità militare di aiuto alla produzione). Eugenio gli racconta di esserci finito in quanto cattolico: insieme a lui testimoni di Geova ed omosessuali. Gli omosessuali, aggiunge, “erano felici di essere mandati in campo di concentramento, che per loro era un paradiso”. Infatti vi incontrano altri omosessuali…
    Poco importa che nei campi si lavori da 12 a 16 ore al giorno, e che qualcuno, per la disperazione, si suicidi. Io, ha concluso Eugenio, ero “controrivoluzionario”, “di famiglia piccolo borghese”, insieme ad altri 35000 prigionieri: ma nel campo ho capito la verità! Tanto che “in seguito ho avuto l’opportunità di andarmene ma non me ne sono andato. Nel campo di concentramento mi sono reso conto che non dovevo andarmene. Per lottare allo scopo di migliorare la rivoluzione bisogna essere rivoluzionario. Anche le cose negative e gli abusi nel campo di concentramento hanno contribuito a farmi rivoluzionario” . La colpa degli abusi, infatti, non è del regime, di Fidel Castro, ma di Raul e dei funzionari. Uscito dal campo, io come tanti, conclude Eugenio, siamo diventati “anticlericali”, ci siamo accorti che i campi di lavoro forzati sono necessari alla rivoluzione. Così abbiamo ripudiato il nostro vecchio mondo ottuso e controrivoluzionario: “trovavo la parrocchia sempre più incomprensibile. Liturgia, gesti, parole, pensieri, tutto sembrava vuoto e lontano dalla realtà”.
    A parte queste notazioni sconcertanti per la leggerezza con cui vengono esposte, e che pure aprono squarci su verità inquietanti, il libro di Cardenal è tutto un peana, un inno, un canto senza freni alla rivoluzione, in cui l’autore vede il paradiso terrestre realizzato, né più né meno. Spiega infatti che a Cuba “una casta di paria non esiste più, tutto il popolo è stato alfabetizzato”; che l’Avana “è la città più allegra che ho visto. L’unica allegra”. “Non ci sono tassisti in agguato degli stranieri, né prostitute, né mendicanti… Migliaia di persone sono andate via: ma quelli che sono rimasti sono felici e sono padroni di tutto… Non ci sono differenze nel modo di vestire: nessuna invidia”. I gelati, continua Cardenal, sono “certamente i migliori del mondo”; la gente legge tantissimo; le scuole sono sempre di più e organizzano anche incontri sportivi, gite, feste di ballo, uscite al mare; il pane è sempre in abbondanza (mentre, non è chiaro il perché, scarseggia la carta igienica….); lo Stato dà i soldi per festeggiare, alla grande, anche i compleanni dei bambini; il telefono è gratis; ognuno ha una casa e nessuno è più “costretto a dormire in un portone, sotto un ponte o sotto un albero”; gli annunci pubblicitari “incitano sempre al sacrificio, all’eroismo, al lavoro per il bene della comunità”, non come nel capitalismo, che spingono “all’egoismo, all’interesse personale, al piacere individualista”.
    E poi Cardenal butta giù cifre e dati, chiaramente di regime, senza affatto vagliarli, per dimostrare che un tempo si stava malissimo, oggi invece a Cuba si lavora, si gioisce, si vive nel benessere e fraternamente. Racconta di aver incontrato, in tutto, due mendicanti davanti ad una chiesa, non uno in più: erano “due vecchi coi capelli bianchi, pulitissimi”. “Ecco quello che si dà ai contadini, scrive, insieme alla casa, gratis: cucina elettrica o a cherosene; pentola a pressione, padelle stoviglie, lavello, frigorifero, televisore, radio, ferro da stiro…lozione per i capelli, profumo…”.
    Quanto alla Chiesa, cui dice di appartenere, Cardenal stigmatizza coloro che si oppongono alla rivoluzione, poi afferma: “Da quello che vedo, Cuba è l’unico luogo al mondo dove non vi sia crisi di vocazioni”, salvo raccontare, nella stessa pagina, che dopo la rivoluzione sono fuggite 2000 religiose su 2300 (“la maggior parte per decisione propria, non perché espulse”), mentre “i sacerdoti erano circa 1000, ora sono circa 250”. Le chiese sono vuote: “volti seri, intristiti. Quasi tutti vecchi, o bambini. Pochi giovani. Nessun negro”. Sì è vero, qua e là c’è ancora qualche problema, ammette Cardenal, ma la colpa è dei funzionari del partito, che talvolta spadroneggiano, approfittano del loro potere: ma sempre contro il volere di Castro, che è invece sempre dedito a riparare i torti, ad intervenire perché tutti vivano come lui, senza egoismi, senza invidie, senza prevaricazioni. Tanto che si può dire che Castro è al governo, ma anche “all’opposizione”!
    Ad un certo punto Cardenal scrive: “Un buon osservatorio per vedere la tenerezza della rivoluzione è l’ospedale psichiatrico dell’Avana. I ricoverati vivono in padiglioni luminosi ed eleganti come un albergo di lusso. Ogni camera decorata allegramente con il bagno privato (di marmo…)…nelle sale dove i ricoverati ricevono, divani e poltrone di lusso, quadri moderni d’autore, fiori freschi. Cinema, teatro, sale da ballo per i ricoverati, biblioteca, sala di musica, campi per tutti gli sport…Naturalmente l’ospedale è gratuito. In una stanza austera, che contrasta con il lusso dell’ospedale, l’ufficio del direttore”: il quale è un compagno di Castro, dall’ epoca della rivoluzione, e quindi lavora per il lusso del popolo, ma lui vive frugalmente!
    Alla fine del libro Cardenal confessa che Cuba è stata per lui “la mia esperienza più importante, dopo la conversione religiosa. Era stata un'altra conversione. Avevo scoperto che attualmente, in America latina, praticare la religione significa fare la rivoluzione”, sopprimere le classi, vivere il Vangelo come si vive a Cuba, all’ “Avana luminosa”. Come lui la pensano tanti altri intellettuali, in America latina e nel mondo, in particolare personalità della sinistra e dei vari partiti comunisti del mondo. Molti di questi dovranno col tempo pentirsi della loro “ingenuità” e ritratteranno.
    La Bussola Quotidiana quotidiano cattolico di opinione online: Quei cattolici abbagliati dal mito di Castro

    Giovanni Paolo II ha fornito uno splendido esempio di santa ira, aggredendo pubblicamente Ernesto Cardenal, lo sciagurato prete-poeta, poi giustamente sospeso a divinis, che aveva demenzialmente scelto di diventare ministro nel governo marxista e sandinista del Nicaragua.
    Il sacerdote indegno, in occasione della visita del papa in Nicaragua, decise di recarsi all'aeroporto per incontrarlo, e, furbescamente, credette di potere allisciare il Vicario di Cristo, inginocchiandosi esibizionisticamente di fronte a lui, e tentando di baciargli l'anello.
    Il Papa non si fece né abbindolare, né impietosire, e non solo rifiutò il falso e insincero omaggio, sottraendo l'anello al bacio del Giuda marxista, ma, puntato l'indice ammonitore sopra la vituperevole canizie del prete infedele, gli intimò, gridando, di regolarizzare la sua posizione, come documenta questo filmato.



    OSSERVATORE: STALIN HA EGUAGLIATO HITLER MA E' STATO RIMOSSO
    Salvatore Izzo
    (AGI) - CdV, 26 apr.
    Il dramma della Shoah e le esecuzioni capitali di massa ordinate da Stalin sono confrontabili? Di fatto sembra che "per la maggior parte degli studenti le due forme di terrore, quello nazista e quello comunista, non siano da considerare comparabili".
    Lo rileva oggi l'Osservatore Romano sottolineando che "il peggiore, naturalmente, e di gran lunga, e' considerato quello nazista, e non gia' per l'unicita' dell'Olocausto - che certamente il giornale della Santa Sede non intende mettere in discussione - ma per l'unicita' della documentazione visiva, fotografica, e qualche volta anche filmica".
    Infatti alle foto scattate nei lager nazisti dagli Alleati, che hanno "per sempre fermato nella nostra memoria questa tragedia, o dai carnefici stessi, fieri di testimoniare magari a Hitler le sevizie a cui sottoponevano i prigionieri", non corrisponde una equivalente documentazione dei lager sovietici, "dove non sono entrati liberatori, e quindi l'occhio esterno non ha registrato il dramma nel momento in cui stava per finire".
    Sui lager sovietici finora c'erano "in realta' importantissime testimonianze letterarie", ma la mancanza di immagini "in una cultura come la nostra cosi' centrata sull'immagine, ha contribuito a rendere la loro realta' meno presente nella memoria collettiva, e quindi a indebolirne la portata storica", continua il quotidiano vaticano che dopo aver denunciato questo fenomeno di "rimozione collettiva" plaude alla pubblicazione per Lindau del volume "La vita in uno sguardo. Le vittime del Grande Terrore staliniano", edito da Lindau, che riporta le foto segnaletiche dei condannati a morte negli anni della dittatura staliniana fatte poco prima della fucilazione, provenienti dagli archivi del presidente della Russia e da quelli della Lubjanka, il quartier generale del Kgb.
    In merito l'editorialista dell'Osservatore, Lucetta Scaraffia, che firma anche la prefazione del volume ricorda che "un evento diventa reale perche' viene fotografato", come scrisse Susan Sontag. "Guardare i volti effigiati nelle pagine di questo libro - conclude la professoressa Scaraffia - vuol dire anche prendere atto, concretamente, delle stragi perpetrate da Stalin, e accettare di essere coinvolti emotivamente in questo massacro, cosi' come lo siamo per i campi nazisti".


    ANNI DI PIOMBO E FACCE DI BRONZO - L’INFELICE USCITA DELLO SCRITTORE ERRI DE LUCA SUL TERRORISMO IN ITALIA: “GLI ANNI DI PIOMBO? SARANNO STATI DI PIOMBO PER GLI IDRAULICI, PERCHÉ ANCORA NON C’ERA IL PVC” - 34 INTERVENTI CHIRURGICI DOPO LA GAMBIZZAZIONE FIRMATA BR, L’EX DEMOCRISTIANO ANTONIO IOSA SPARA A ZERO SULL’INTELLETTUALE: “GLI ANNI DI PIOMBO UN’INVENZIONE? SOLO PERCHÉ NON LE HA PRESE LUI LE PALLOTTOLE”…
    Il "Fatto quotidiano"
    “Davvero Erri De Luca ha detto così? Gli anni di piombo un' invenzione? Certo, perché non le ha prese lui le pallottole". Antonio Iosa è nel suo lettino all'ospedale di Niguarda, a Milano. Non può alzarsi, immobilizzato com'è tra flebo e cannucce. "Mi sento un prigioniero politico", scherza amaro. Ernia, una nuova operazione d'ernia. Ha settantanove anni, Iosa, e ne aveva quarantasette quando i brigatisti della colonna Walter Alasia fecero irruzione nella sezione della Dc di Quarto Oggiaro. Era il 1 aprile del 1980. I capelli bianchi, radi tra le basette ancora folte, segnano il tempo passato. Il viso segna altro.
    Racconta il calvario che lo aspettava dopo quel giorno. Misero al muro lui e altri tre militanti democristiani, poi mirarono alle gambe. Così andavano colpiti, gli urlarono in faccia, "i servi di Cossiga". In realtà Iosa tutto era fuorché uomo della repressione. I terroristi erano bravissimi, per giustificare i delitti, a diffamare le loro vittime. Iosa era stato il fondatore del circolo "Perini", una delle più importanti realtà associative milanesi di periferia. Integrazione sociale, cultura, lotta alla marginalità. Luogo di incontro di amministratori e di contestatori. Molti i giovani che poterono sentire dal vivo intellettuali, sindacalisti, sindaci, magistrati o cardinali. Da allora Iosa non ha mai smesso la sua lotta in difesa delle vittime del terrorismo, della memoria di chi non c'è più, dei diritti dei familiari o dei sopravvissuti. Convegni, pubblicazioni, mostre, dibattiti, lettere ai giornali.
    Disposto a riconoscere agli ex terroristi il diritto al reinserimento, ma intransigente verso ogni rimozione; o verso ogni giustificazione o apologia mascherata della lotta armata.
    Per questo sgrana gli occhi incredulo quando gli raccontano dell' intervista di Erri De Luca di due settimane fa a "8 e mezzo": "Gli anni di piombo? Saranno stati di piombo per gli idraulici, perché ancora non c'era il Pvc", ha chiosato beffardo lo scrittore, quasi a confermare la legge sciagurata che vuole i grandi intellettuali italiani particolarmente inclini a dir castronerie quando siano in ballo i drammi del paese. Non ne ha parlato nessuno, di quel passaggio cinico, perché anche il paese dorme più che mai il sonno della ragione.
    "Si vergogni", riesce a dire Iosa a stento. Per poi distillare poche parole in più: "Certo, perché a lui non hanno sparato, e nemmeno hanno ammazzato suo fratello o suo figlio o un suo genitore. Queste persone non hanno rispetto. Lo vogliono per sé o per quei loro amici o compagni o conoscenti che fecero certe scelte. Ma lo negano a noi. Sento sempre dire che uccisero per nobili motivi, ma io non penso che ci siano motivi nobili per i quali si possono uccidere brave persone che non sono in guerra con nessuno".
    Per me, sembra dire, sono stati anni di piombo sul serio; e non facevo l'idraulico. Non si è arresa certo da allora la sua attività sociale, perché il Perini ha continuato a macinare dibattiti e iniziative, compresa quella - una vera sfida - del cinema in periferia. Non si è fermato il suo impegno per una società solidale. Ma nel frattempo ha tenuto un conto molto particolare, chiamiamolo il conto dell'idraulico.
    Si è segnato il numero degli interventi chirurgici che ha dovuto subire per aiutare la sua capacità di "deambulare" (ormai in queste cose parla come un medico...) dopo la gambizzazione. Sono trentaquattro, trentaquattro interventi, "alcuni più pesanti altri più leggeri". Spesso è stata colpa delle complicazioni, che fanno nascere patologie complesse.
    "Anche adesso, per esempio, mi hanno operato d'ernia. Non mi sento di dire che sia per la ferita alla gamba, però ogni volta il medico che interviene nota delle anomalie e io allora devo spiegare «mi hanno sparato alla gamba tanti anni fa»...". Non è riuscito, invece, a tenere il conto esatto delle visite specialistiche. Quelle sono oltre quota centoventi, "ma più preciso non posso essere".
    Ora, alla soglia degli ottanta, ha una preoccupazione quasi ossessiva: che la memoria di quegli anni non venga più difesa. Per questo da tempo ha quasi passato la staffetta a un giovane. A un trentenne. Si chiama Giorgio Bazzega. Suo padre venne ucciso proprio da Walter Alasia a Sesto San Giovanni nel 1976. Iosa se lo coltiva, lo presenta in pubblico come una specie di figlio-erede. E in questi giorni ha invitato, dal suo lettino di Niguarda, anche se "sono qui in croce", a partecipare all'intitolazione del parco Teramo a Milano alla memoria di Andrea Campagna. Poliziotto, ucciso il 19 aprile del ‘78 davanti al portone di casa della fidanzata. Tra gli assassini, secondo la legge italiana, Cesare Battisti. Perseguitato politico per la legge brasiliana.


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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    Il querelaio matto
    Roberto Saviano porta in tribunale il Corriere e Liberazione
    di Alessandra Cristofari
    L’avete visto difendere il ruolo della parola per tre sere di seguito: nel frattempo Roberto Saviano querelava tutti.
    Stamattina è arrivata la notizia della querela di Robertino in seguito alla polemica sul caso Croce. La storia è semplice: Martha Herling, nipote di Benedetto Croce, si è limitata a difendere la memoria dell’illustre parente ma Saviano non ha gradito e ha citato per danni il Corriere del Mezzogiorno:
    “Secondo l’autore di Gomorra, il quotidiano allegato al Corriere della Sera avrebbe intrapreso nei suoi confronti una «campagna diffamatoria» ospitando una lettera di Martha Herling, nipote di Benedetto Croce, che smentiva una storia raccontata da Saviano in tv: rimasto prigioniero delle macerie nella sua casa di vacanza durante il terremoto di Casamicciola del 1883, Croce avrebbe offerto 100 mila lire dell’epoca a chi lo avesse salvato. Storia già riferita da articoli e libri letti da Saviano, ma di cui nessuno ha mai riportato la fonte. Nella lettera al Corriere del Mezzogiorno, invece, la nipote del filosofo, come fa notare oggi il direttore Marco Demarco in un articolo, la sua fonte la citò: Benedetto Croce.
    Saviano si è offeso giusto un po’ e ha chiesto la modica cifra di quattro milioni di euro risarcimento per danni non patrimoniali e 700 mila per danni patrimoniali. Il Corriere del Mezzogiorno si sarebbe macchiato di un terribile atto per aver lasciato spazio a una lettera di Martha Herling, parente di Croce e segretario generale dell’Istituto italiano per gli studi storici. La missiva, secondo Saviano, avrebbe dato l’avvio a una campagna diffamatoria con conseguente “pregiudizio” per la reputazione dell’istante. Nella lettera della Herling si può leggere della preoccupazione di Croce per i parenti perduti, ma non c’è accenno della “famosa mazzetta”. Il Corriere del Mezzogiorno risponde citando lo stesso Saviano a proposito delle domande a cui Berlusconi evitava di dare risposta: “Nessun cittadino, sia esso conservatore, liberale, progressista, può considerare ingiuste le domande. (…) Spero che tutti abbiano il desiderio e la voglia di pretendere che nessuna domanda possa essere inevasa o peggio tacitata con un’azione giudiziaria. È proprio attraverso le domande che si può arrivare a costruire una società in grado di dare risposte”. Chissà cosa direbbe delle sue stesse parole oggi Saviano, tenendo conto non è nemmeno la prima volta che parte di querela.

    Preghiera
    di Camillo Langone
    Buttarlo o non buttarlo, questo è il dilemma. La libreria è piena come un uovo e i 2,5 centimetri di “Gomorra” mi farebbero gioco, al suo posto potrei metterci due libri piccoli o uno grosso però di autore che non va in giro a querelare il prossimo. Rimango sempre stupefatto quando scrittori ricchi e famosi querelano giornalisti sconosciuti e squattrinati, come quando Busi querelò me o adesso che Saviano ha querelato il Corriere del Mezzogiorno (chiedere 4,7 milioni di euri a un giornale significa, nel caso la richiesta venga accolta, buttare sulla strada un mucchio di gente). Quando uno scrittore, che vive di libertà di espressione, aggredisce la libertà di espressione altrui commette un'ingiustizia e insieme un'idiozia, perché così facendo si dimette da scrittore. Chiedendo alle carte degli avvocati di ottenergli ragione afferma l'incapacità di ottenerla con le proprie pagine: è una dichiarazione di sfiducia nella letteratura. E se non ci crede lui, nei suoi libri, dovrei crederci io? Sciolgo il dubbio amletico: butto.
    Preghiera del 19 maggio 2012 - [ Il Foglio.it › Preghiera ]

    Negli USA i sopravvissuti degli ateismi di stato ospiti in televisione
    Durante la sua trasmissione, Glenn Beck, un presentatore televisivo americano, ha ospitato un gruppo di sopravvissuti ai regimi comunisti di tutto il mondo, tra cui Cuba, Cambogia, Germania Est e diversi paesi dell’ex Unione Sovietica. Essi hanno descritto le terribili persecuzioni subite, come la privazione da cibo, la persecuzione religiosa, la confisca dei soldi, la prigionia, l’attacco alla libertà personale e familiare.
    Essendo la gran parte dei regimi comunisti guidato ufficialmente dall’ateismo di Stato (ancora oggi è presente in Cina e in Corea del Nord), coloro che hanno sofferto maggiormente sono stati i credenti. Molto infatti si è parlato dei tentativi dei vari gerarchi atei di eliminare Dio dalla sfera pubblica e privata, proponendo però come alternativa “l’onnipotenza” dello Stato.
    Uno dei sopravvissuti, viene divulgato su “The Blaze“ (dove è possibile visionare il video della trasmissione) ha raccontato che le autorità “insegnavano” ai bambini a riferire loro se sotto il letto dei genitori trovavano una Bibbia. Nessuno si poteva più fidare di nessuno, la popolazione viveva completamente in uno stato di paranoia.
    Una cosa simile è stata raccontata dalla poetessa russa Ol’ga Aleksandrovna Sedakova, la quale ha raccontato che nelle università dell’Unione Sovietica era obbligatorio frequentare il corso di ateismo scientifico, sottolineando che c’era proprio la volontà di diffondere tale ideologia esistenziale. E ancora: «in epoca sovietica andavo al cimitero, dove si aveva paura di far mettere le croci sulle tombe», tuttavia «nessuno dei progetti utopici del regime come l’ateismo di stato o l’arte e le scienze manipolate dall’ideologia riuscì a realizzarsi allo stato puro. Ma pur nella loro parziale attuazione hanno generato fiumi di sangue, degradazione e ignoranza in tutti i campi». Un’altra “martire” è la lituana Nijole Sadunaite, condannata nel 1975 a tre anni di lager a regime duro per aver difeso con decisione la libertà di religione.
    Dopo la ghigliottina del secolo dei Lumi e i crimini del XX secolo, nessuno potrà più osare progettare una società senza Dio.
    Negli USA i sopravvissuti degli ateismi di stato ospiti in televisione | UCCR

    Corea del Nord: ecco una delle centinaia di conversioni all’anno
    Antonio Tedesco
    E’ la storia di Jin Hye Jo, nordcoreana di 24 anni, cresciuta da atea in un paese dove, ancora oggi, vigge l’”ateismo di stato” tra i più repressivi al mondo e ultimo nella classifica del rispetto dei diritti umani. Ha visto morire davanti a sé quasi tutta la sua famiglia. Sopravvissuta, ha incontrato Gesù e si è messa in salvo scappando negli Stati Uniti. Viene raccontata su Asianews.
    Il periodo in questione è l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, quando la caduta dell’Unione Sovietica e la relativa apertura al mondo compiuta dalla Cina bloccano di fatto gli aiuti dell’asse comunista a Pyongyang. La popolazione viene decimata e le famiglie, come quella di Jin, costrette a mangiare di tutto: dalla corteccia degli alberi al grasso crudo. Dopo anni di sofferenze, nel 1997 i genitori di Jin – Jo e Han – decidono di rischiare e attraversano il confine con la Cina, venendo arrestati al terzo tentativo.
    Il padre sparisce nel nulla: “Più tardi verremo a sapere che è morto su un treno per detenuti, con le mani legate dietro alla testa, senza cibo o acqua per 10 giorni.” La madre di Jin viene invece picchiata selvaggiamente, ma graziata. Poco tempo più tardi è il turno della figlia maggiore “probabilmente finita nelle mani dei trafficanti di esseri umani”, del figlio minore e della nonna, morti a causa della carestia. “Ricordo ancora che, prima di morire, chiedeva di poter mangiare una patata” racconta Jin. Un anno dopo la polizia torna alla casa di Jin e caccia tutti gli abitanti: secondo la legge nordcoreana, infatti, i criminali vanno puniti “fino alla terza generazione”. Rimangono solo Han, la figlia Jin Hye (di 11 anni), Eun di 7 e BoKum di 5. Tutti insieme, partono per il viaggio di 100 miglia fino al confine.
    Dopo aver varcato il confine, riescono a nascondersi in Cina. Camminando per la campagna, la piccola Jin sente un inno che non aveva mai sentito, un inno cristiano. Come ipnotizzata dalla musica si avvicina al gruppo di cristiani clandestini, entra in contatto con dei missionari e partecipa a scuole bibliche sotterranee. Scopre la grandezza del Vangelo e l’amore degli altri cristiani, decide di convertirsi. La madre Han, tuttavia, non vuole: “Mi disse che, se mi fossi convertita, non sarei stata più sua figlia. Ma Cristo mi chiedeva di avere fede in lui, e non si sbagliava”. Qualche tempo dopo, conosciuti i missionari cristiani, anche Han e la piccola Eun si convertono. Dopo 10 anni di vita clandestina in Cina, la famiglia riesce a ottenere lo status di rifugiati politici negli Stati Uniti e ora vivono in America. Jin vuole divenire una missionaria: “Prima o poi la Corea si riunirà, e io voglio portare la buona novella di Cristo a tutti i miei fratelli”.
    In Corea del Sud ogni parrocchia ha dai 200 ai 400 battesimi di convertiti dal buddhismo all’anno, ogni anno ci sono 130-150 nuovi sacerdoti. La Pasqua di quest’anno è stata celebrata con 114 battesimi adulti.
    Corea del Nord: ecco una delle centinaia di conversioni all’anno | UCCR

    La lezione di Bissau
    di Piero Gheddo
    Il 12 aprile scorso la Guinea Bissau è stata teatro di un colpo di stato militare, il sesto avvenuto nell’Africa occidentale dal 2008 ad oggi: in Guinea Bissau (2009 e 2012), Mali (2012), Niger (2010), Guinea Conakry e Mauritania (2008). In Italia, non ce ne siamo nemmeno accorti. Per i nostri giornali, anche quelli che hanno 60-70 o più pagine al giorno, l'Africa è quasi scomparsa, ma quei pochi che hanno pubblicato qualcosa, per spiegare la molteplicità di questi nefasti accadimenti, e nel caso specifico della Guinea Bissau, oltre alla corruzione delle classi dirigenti, si sono subito impegnati ad attribuire la responsabilità alle ingerenze straniere.
    Siamo ancora al terzomondismo stile No Global. La colpa è sempre delle potenze straniere, delle multinazionali, del neocolonialismo occidentale. Secondo i soliti giornali questi ribaltoni avvengono sempre e comunque con complicità straniere, mai dichiarate e strettamente connesse a interessi di tipo commerciale. Non si tenta nemmeno di spiegare che in realtà la corruzione delle classi dirigenti, le dittature e i colpi di stato vengono soprattutto dal fatto che buona parte del popolo vive a livello di pura sopravvivenza; e poi dalla mancanza di scuola e di istruzione, che dia alla gente la coscienza della propria dignità e la capacità di unirsi per conquistare la libertà di parola e di voto.
    In Guinea Bissau, dove sono stato più volte, le statistiche dicono che i guineani sono per il 47,8% analfabeti, ai quali vanno aggiunti i molti analfabeti di ritorno, quelli che hanno imparato a leggere ed a scrivere nelle elementari, ma poi non hanno mai letto o scritto!
    La visione “terzomondista” del rapporto Occidente-sud del mondo suscita, soprattutto negli intellettuali e nei giovani di quei popoli, frustrazione, rabbia, impotenza, sensi di rivolta e di vendetta, sentimenti negativi per lo sviluppo dei loro popoli: se la colpa della nostra situazione di miseria è dell'Occidente, la soluzione è di odiare e combattere contro l'Occidente, di umiliare l'Occidente. Li educa a protestare, denunziare, odiare, proclamare la lotta di classe fra poveri e ricchi, ma non ad un impegno personale costante, onesto e sacrificato, rivolto anzitutto all'educazione dei loro popoli, come sarebbe necessario.
    La Guinea Bissau ha conosciuto una guerra civile devastante, durata pochi mesi nel 1998, che ha distrutto quel poco di industrie produttive ereditate dai coloni portoghesi. Ero stato da poco in Guinea e a Roma mi è capitato di pranzare con uno studente e un professionista guineani, che mi chiedevano notizie del loro paese e di che idea mi ero fatto di quella breve guerra civile. Dicevo che era scoppiata fra il presidente Nino e le sue forze speciali e il capo delle forze armate, Ansumane Mané e che la gente riteneva Nino il principale responsabile, che non tollerava opposizioni al suo trentennale potere a cui era arrivato con un altro colpo di stato. Ma ai miei due amici questo non interessava. Hanno cominciato a discutere se la colpa era della Francia o del Portogallo, che per i loro interessi avevano venduto armi all'una o all'altra parte. In Guinea la gente aveva tutt'altra visione e ricordava le colpe di Nino o del suo avversario. Ma per i due intellettuali, che leggevano i giornali italiani e francesi, la colpa era di Francia o Portogallo.
    Paesi come il Kenya, che quando sono nato io aveva un reddito pro capite maggiore di quello della Corea del Sud, sono rimasti drammaticamente indietro. Malattie e conflitti hanno devastato intere parti del continente africano. E' facile addossare ad altri la colpa di questi problemi. Ma l'Occidente non è responsabile della distruzione dell'economia dello Zimbabwe nell'ultimo decennio o delle guerre in cui vengono arruolati bambini tra i combattenti.
    Il confronto fra un paese asiatico e uno africano è significativo. La Corea del Sud era devastata dalla guerra civile fra Nord e Sud (1950-1953). Nel 1961 aveva un debito estero esorbitante (dodici miliardi di dollari) e viveva confidando negli aiuti e prestiti dell'alleato americano. Il paese, piccolo e senza risorse naturali, negli ultimi 50 anni ha avuto il suo boom economico, ha pagato i debiti pregressi, è passato da 27 a 50 milioni di abitanti ed è diventato una delle tigri asiatiche, con un reddito medio pro-capite di circa 20.000 dollari (la Corea del nord, 555 dollari!).
    Com'è possibile? La Corea del sud ha conquistato da circa trent'anni la libertà politica ed economica e i suoi governi hanno privilegiato la scuola e il libero mercato: nel 1960 aveva il 45% di analfabeti, oggi solo il 2 per cento! Libertà politica ed economica, e istruzione, sono le due priorità che permettono ad un paese povero di crescere nel cammino verso lo sviluppo. Nella Corea del Sud la scuola è obbligatoria per tutti dai 6 ai 14 anni, e ci vanno.
    Il Kenya, indipendente dal 1963, aveva il 40% di analfabeti e un reddito medio pro capite di 200 dollari. Oggi ha il 15% di analfabeti e un reddito di 481 dollari pro capite. Non si è sviluppato ulteriormente a causa di lotte e guerre intestine, per l'instabilità politica, la corruzione dilagante che assorbe gran parte degli aiuti dall’estero, la miseria delle sue scuole, le divisioni e le lotte tribali.

  3. #23
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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    Formigoni nel mirino dei pm ma è Penati ad aver preso soldi per drogare le elezioni
    Le elezioni del 2009 e 2010 "drogate" dalle tangenti rosse, la sinistra non vede e chiede le dimissioni del governatore
    di Giannino della Frattina
    Due campagne elettorali, per la Provincia nel 2009 contro Guido Podestà e per la Regione del 2010 contro Roberto Formigoni, «drogate» dalle tangenti rosse.
    Lo dicono i pm della procura di Monza Walter Mapelli e Franca Macchia che hanno chiuso l’indagine sul«Sistema Sesto » rinviando a giudizio Filippo Penati e altri ventuno tra cui l’ex braccio destro Giordano Vimercati e l’ex segretario generale della Provincia Antonino Princiotta. Oltre alla Codelfa, società del gruppo Gavio. Tutti alla sbarra per i reati, a vario titolo, di corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti.
    Ce ne sarebbero tante di domande da fare a Penati, l’uomo forte del Pci, poi Pds, poi Ds e poi Pd in Lombardia salito alle cronache come sindaco di Sesto san Giovanni, eterna Stalingrado d’Italia e tramontato da braccio destro di Pierluigi Bersani giusto un attimo prima di finire nella mega indagine sulle mazzette «progressiste».Tanto che in molti si chiesero il perché di quell’improvviso e almeno apparentemente immotivato allontanamento dal piano nobile dei Palazzi romani. Ma a Penati, a parte i magistrati, quelle domande nessuno le fa. Nemmeno chi ogni giorno ripete la stessa, accompagnandola con la richiesta di dimissioni, al governatore Roberto Formigoni che a differenza di Penati non ha mai ricevuto nemmeno un avviso di garanzia. Mentre Penati è stato mandato a processo per un giro di tangenti che ruotavano intorno a quello che ormai è chiaro essere stato per decenni il «Sistema Sesto ». Falce e mazzetta, tangenti vermiglie, un guazzabuglio di corruzione che ha coinvolto imprenditori non solo locali ( c’è pure il banchiere Massimo Ponzellini) e politici di sinistra. Ma soprattutto il partito che evidentemente con quei finanziamenti illeciti metteva in piedi le campagne elettorali di Penati e non solo. Compresa quella in cui lo stesso Penati sfidò proprio Formigoni nel 2010 per diventare governatore della Lombardia. E oggi una bella domanda sarebbe chiedersi cosa sarebbe successo se anziché vincere Formigoni, avesse vinto il candidato delle sinistre (al plurale). Eppure, anche dopo la sconfitta, il Pd premiò Penati con un posto da vice presidente del consiglio regionale, con tanto di stipendio, indennità, staff personale e benefit. E poco importano le dimissioni dal Pd successive allo scoppio dello scandalo, perché a Penati nessuno ha chiesto di lasciare scranno e stipendio come, per molto meno e con maggiore dignità ha fatto perfino Renzo «Trota»Bossi.Perché nel caso di Penati si parla di almeno 368mila euro incamerati attraverso Fare Metropoli, l’associazione definita «mero schermo destinato ad occultare la diretta destinazione delle somme». Per non parlare degli affari d’oro sull’autostrada Serravalle e sui sospetti di tangenti per l’acquisto della nuova sede della società. Perché secondo i pm monzesi, Penati ha messo in piedi una gioiosa macchina da guerra per raccogliere soldi per sé e per il partito. E il partito, il Pd di Bersani che Penati lo conosce bene, tace. Silenzio. Accontentandosi di chiedere (inutilmente) le dimissioni di Formigoni.
    Formigoni nel mirino dei pm ma è Penati ad aver preso soldi per drogare le elezioni - Milano - ilGiornale.it

    Ecco la ricetta di Bersani: nozze per gli omosessuali e cittadinanza agli immigrati
    Bersani detta l'agenda delle riforme: oltre alle unioni civili proporrà il divorzio breve, la cittadinanza ai figli degli immigrati e il testamento biologico. Il Pd è d'accordo?
    di Sergio Rame
    Mentre il Partito democratico è al collasso per gli scontri interni tra le varie correnti che mirano alla leadership di via del Nazareno, il leader Pier Luigi Bersani spara la cartuccia delle unioni civili per spostare l'attenzione. Nel messaggio che il segretario del Pd ha inviato ai promotori del gay pride che quest’anno sfilerà a Bologna, Bersani ha assicurato il proprio impegno nella lotta per "rimettere al centro della discussione politica il tema dei diritti civili delle persone".
    Dopo aver lodato e ringraziato gli organizzatori del gay pride, Bersani ha lanciato un appello al parlamento perché torni a discutere sulle unioni civili. Il punto di arrivo è il matrimonio omosessuale. La boutade di Bersani potrebbe, però, rivelarsi un vero e proprio boomerang per il Pd. L'argomento rischia da una parte di incrinare ulteriormente i rapporti tra i partiti che al momento sostengono il governo Monti, dall'altra di creare un forte malcontento nell'area cattolica del Partito democratico. Ma Bersani non si ferma qui: "Nei mesi che verranno di qui alle prossime elezioni politiche, si giocherà la nostra capacità di parlare al Paese". E in cantiere il segretario democrat si prepara a mettere anche il divorzio breve, l’introduzione del diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia e il testamento biologico.
    La partita sulle coppie di fatto ha già mosso i primi passi proprio ieri. Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha fatto da testimonial della campagna "Una volta per tutti". L'obiettivo è quello di raccogliere cinquantamila firme per chiedere un riconoscimento delle coppie conviventi in Italia (etero e omosessuali). "Caro Pisapia - ha commentato il governatore della Lombardia Roberto Formigoni - la Costituzione italiana parla chiaro sulla famiglia. Ma tu la leggi secondo quanto ti conviene". In realtà, gli attacchi a Pisapia non arrivano solo dal centrodestra. Per quanto il sindaco di Milano continui a scommettere sull'unità della propria squadra, dal vicesindaco Maria Grazia Guida all'assessore alla Sicurezza Marco Granelli sono in molti a schierarsi contro. Tanto che Pisapia ha già iniziato a fare i conti col malcontento dei cattolici Pd. Lo stesso dovrà fare, quanto prima, anche Bersani.
    Ecco la ricetta di Bersani: nozze per gli omosessuali e cittadinanza agli immigrati - Interni - ilGiornale.it

    Una moneta slovena celebra l'eroe titino
    Lubiana raffigura sui due euro il volto del generale Rozman Stane. Fidanza (Pdl): "Era nel reparto comunista che eseguì la pulizia etnica ai danni degli italiani"
    di Alberto Giannoni -
    L'europa è una costruzione difficile. E non solo per l'economia. La memoria storica non è meno complessa da gestire dello spread. Ne è una prova il caso scoppiato con la Slovenia e oggi finito al centro di un'interrogazione che un gruppo di parlamentari italiani del Ppe ha presentato al presidente del Consiglio europeo.
    Il caso è quello della moneta definita nel documento «anti-italiana». Tutto inizia nel 2011, quando il Paese confinante con l'Italia emette una moneta commemorativa per celebrare la nascita di quello che a Lubiana è considerato un eroe nazionale: Franc Rozman-Stane. Il generale Rozman-Stane però è uno di quei personaggi controversi - la storia ne è piena - che per qualcuno è un eroe, per altri si può considerare un «criminale di guerra». Il documento dei parlamentari italiani, presentato da Carlo Fidanza del Pdl e firmato dai colleghi Marco Scurria, Roberta Angelilli e Sergio Paolo Francesco Silvestris, ricorda infatti che l'ufficiale sloveno «fu membro del IX Corpus, il reparto dell'esercito comunista jugoslavo di Tito che tra il 1943 e il 1945 eseguì la pulizia etnica ai danni della popolazione italiana nella zona del confine italo-slavo». Anche «Il Piccolo» ha ricostruito la figura di Rozman: nacque 101 anni fa (il 27 marzo del 1911) a Spodnje Pirnice vicino a Lubiana, in quella che allora era la monarchia austro-ungarica. Nel 1935, dopo l'invasione italiana dell'Etiopia, cercò senza successo di unire le forze etiopiche per combattere gli invasori italiani. Partecipò anche alla guerra civile spagnola nelle Brigate internazionali. E nel dicembre del 1941 entrò nella resistenza partigiana jugoslava. Nella primavera del 1942 Rozman divenne il comandante di una brigata partigiana slovena. Il 13 luglio 1943 fu nominato comandante del Comando superiore dell'esercito partigiano sloveno con il grado di tenente generale. E morì nel novembre del 1944 in Carniola per le conseguenze di una grave ferita subita durante la prova di nuovo mortaio inviato ai partigiani dall'esercito britannico (molti sostengono che fu ucciso da un sabotaggio operato da un gruppo di cetnici).
    La macchia che fa male agli italiani è quella delle foibe. E il corto circuito storico è tale per cui il figlio di qualche vittima dei titini, o di qualche esule, potrebbe presto trovarsi fra le mani proprio la moneta con l'effigie di quello che per lui è un «criminale di guerra». «Migliaia di italiani - ricordano i parlamentari - furono soppressi, molti di loro mediante fucilazione a seguito della quale i loro corpi vennero gettati nelle Foibe». «Per sfuggire alla pulizia etnica circa 350mila italiani furono costretti ad abbandonare le loro abitazioni e quelle terre e i loro beni vennero confiscati e nazionalizzati».
    I deputati europei ricordano che in Italia il 10 febbraio di ogni anno si celebra il Giorno del Ricordo per commemorare proprio le vittime delle Foibe e gli esuli da Istria, Fiume e Dalmazia. La contraddizione c'è. Oggi fra Italia e Slovenia le relazioni oggi sono amichevoli, dopo le fratture storiche del passato. Anche per questo Fidanza è convinto che non sia stata una provocazione: «Non credo che sia revanchismo, non avrebbe senso, e i rapporti bilaterali e in sede europea sono buoni. Certo la storia è controversa, difficile da maneggiare. C'è indubbiamente il principio di sovranità, ma ci sono anche delle regole». Fidanza ricorda la raccomandazione della commissione europea in materia: «È opportuno - si legge - che le emissioni di monete commemorative in Euro destinate alla circolazione commemorino unicamente eventi della massima rilevanza nazionale o europea, giacché tali monete circoleranno in tutta l'area dell'euro». Il parlamentare del Pdl (ex An) chiede al Consiglio europeo «come mai si è comunque approvato il tema succitato come soggetto di una moneta commemorativa» e «se non ritenga tale soggetto lesivo del principio "uniti nella diversità", tanto più necessario tra Paesi confinanti». Infine la richiesta al Consiglio: «Se intende dare mandato alla Slovenia di ritirare le suddette monete da due euro dalla circolazione».
    Una moneta slovena celebra l'eroe titino - Esteri - ilGiornale.it





    Un reportage dal Venezuela
    Vi racconto la mia terra distrutta da Chavez
    Marinellys Tremamunno
    Caracas - La gioia di tornare nella mia terra, il Venezuela, dopo un lungo soggiorno all'estero, è stata subito oscurata dall’immagine della povertà. La prima immagine che scorgo dall’aereo sono le favelas intorno all'aeroporto Maiquetia, che mi hanno ricordato che non c'è mai stata una rivoluzione sociale, anzi sono la prova che la favola del "Venezuela Bolivarista" si è infranta da tempo.
    Dopo qualche minuto dall’atterraggio sono sopraffatta da una sensazione d'ansia e d'insicurezza. Mi dà il benvenuto l’orrore delle storie di criminalità raccontate dall’autista del taxi: qualche giorno fa è stato ucciso un uomo, mentre aspettava la sua ragazza nel parcheggio dell'aeroporto. Se Chavez riuscisse a far rispettare la legge per una percentuale almeno pari al 10% di come si riesce a fare negli Usa, il Venezuela sarebbe una potenza mondiale, “abbiamo tutto”, mi dice l'autista mentre chiede di pagare una tariffa più cara di quella di Roma. Un’assurdità se si pensa che il Venezuela è un paese petrolifero dove è possibile fare il pieno di benzina con 1 euro.
    La criminalità e l'alta inflazione hanno distrutto la qualità della vita del popolo venezuelano. Fino a metà aprile a Caracas sono stati registrati circa 1.300 omicidi. Il risultato: mentre il boom petrolifero degli anni ’30 aveva reso il nostro un Paese di forte immigrazione, nell'ultimo decennio, con Chavez alla presidenza, ci siamo trasformati in un popolo di emigranti, perché i giovani talenti sono costretti a lasciare le loro terre d’origine alla ricerca di una vita migliore. Ecco spiegata la ragione del mio arrivo in Italia nel 2009, quando ho deciso di andare via dal Venezuela dopo la chiusura del mio giornale ,“Tras La Noticia”.
    Durante la mia ultima visita a Caracas, ho avvertito un’atmosfera densa di disordine, incertezza ed abbandono. Mancano circa cinque mesi alle elezioni presidenziali e la quotidianità venezuelana gira intorno ai misteri di Hugo Chavez, soprattutto quelli sulla malattia e la sua probabile incapacità fisica di continuare a governare. Da maggio 2011, il presidente venezuelano ha passato la maggior parte del suo tempo a Cuba, trattenuto dalle cure mediche per combattere il cancro. Sono già 10 viaggi per un totale di 107 giorni in territorio cubano, quindi il 30% del tempo fuori dal Venezuela, gestendo il Paese come se avesse un telecomando e interfacciandosi principalmente con Twitter.
    L'assenza del Capo dello Stato è facilmente intuibile. Inflazione, caos carcerario, scandali per i rapporti tra i funzionari del governo ed il narcotraffico, sequestri. Secondo Transparency International, il Venezuela si trova al 164mo posto nell’indice di percezione della corruzione sui circa 180 paesi studiati. La rivista The Economist afferma che il Venezuela occupa il secondo posto nella classifica mondiale dei Paesi più poveri, tra Macedonia e Iran.
    Hugo Chavez tenta di destreggiarsi tra la malattia e le elezioni presidenziali con movimenti strategici. Il 30 aprile ha creato un Consiglio di Stato (un organo consultivo del Governo previsto già dalla Costituzione del 1999, n.d.r.) a cui è stato chiamato a partecipare, tra gli altri, il vicepresidente e giornalista Jose Vicente Rangel, una vecchia volpe della politica venezuelana con un piede nella “rivoluzione bolivariana” e l'altro nella vecchia repubblica. Si potrebbe ipotizzare che il Consiglio di Stato sia stato concepito come strumento di transizione in un momento di grande incertezza per il Paese a causa anche delle precarie condizioni di salute di Chavez. Per il momento però nessuno si è espresso a riguardo e il mistero resta.
    Vi racconto la mia terra distrutta da Chavez | l'Occidentale





    La mostra di Fo? Un flop: ogni visitatore costa 7 euro
    Il Comune stanzia 200mila euro per la rassegna a Palazzo Reale ma vengono venduti solo 15mila biglietti. Altra stecca per l'assessore Boeri
    di Chiara Campo -
    L’assessore Stefano Boeri piange miseria. Milano «è fanalino di coda» nelle spese dei Comuni per la Cultura. Prende ad esempio il bilancio di previsione 2010, dove Roma ha destinato al settore il 2,7% del budget, Firenze il 2,3, Venezia, Genova e Torino tra l’1,8 e 1,5%.
    Sotto la Madonnina lo 0,71%. E Boeri, che nei giorni scorsi ha fatto infuriare il sindaco Pisapia per il pasticcio dei concerti all’Arena, ieri in Commissione Bilancio batteva cassa. Preoccupato - a poche ore dall’accesa riunione di maggioranza sui tagli agli assessorati che si è prolungata fino a notte - che le sue spese venissero ulteriormente intaccate. Boeri in commissione ha ricordato che «il Comune è tornato ad investire nella produzione di mostre in proprio». Un bell’impegno, anche oneroso. Peccato che la prima esposizione sia stata «Dario Fo a Milano. Lazzi, sberleffi e dipinti» dedicata appunto al Premio Nobel, amico e supporter in campagna elettorale di Pisapia. Mentre la crisi e i tagli del governo costringono gli enti a grossi sacrifici e a scegliere con oculatezza i servizi, la mostra di Fo si è chiusa domenica con un bilancio di 15mila visitatori in due mesi e mezzo. É costata al Comune quasi 200mila euro. La spesa dell’amministrazione divisa per gli ingressi fa quasi 14 euro a visitatore. Si può anche dimezzare, ad essere generosi, restituendo al Comune l’incasso intero dei biglietti e tralasciando le spese vive del museo. Ma forse non sbaglia il Pdl Pietro Tatarella a sottolineare che «i privati hanno interesse a realizzare mostre che attirino e dunque siano di interesse dei visitatori, forse è meglio che il Comune eviti di produrle se si danno fondi ad artisti “amici“ ma che ai milanesi, così dicono i numeri, non interessano».
    La mostra di Fo? Un flop: ogni visitatore costa 7 euro - Milano - ilGiornale.it


  4. #24
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    "Mio figlio bocciato? Colpa dello Stato". La civiltà dei bambinoni viziati
    Marco Mancini
    Cinque bambini (tra i quali tre stranieri e un disabile) bocciati in prima elementare. Succede a Pontremoli, nella civile Toscana. In un mondo normale, nessuno se ne stupirebbe più di tanto. Nel mondo alla rovescia in cui viviamo da qualche decennio, è subito scandalo. I genitori dei bambini, riuniti nel solito Comitato, e l’inutile Codacons preannunciano una class action, il ricorso al Tar per ottenere la riammissione a tavolino dei cinque pargoli (manco fossero interisti…) e chi più ne ha più ne metta.
    I genitori, dunque, non si interrogano sulle proprie responsabilità. Forse non abbiamo seguito a dovere i nostri figli? Forse abbiamo sbagliato qualcosa nell’educarli? Forse (questo vale per gli stranieri) avremmo dovuto sforzarci un po’ di più per inserire noi stessi e i nostri figli nella nostra nuova terra? Nessun interrogativo neanche sui bambini: forse non si sono impegnati abbastanza, oppure hanno faticato a raggiungere gli obiettivi, magari questa bocciatura potrà aiutarli a recuperare il gap e a mettersi in pari.
    Nulla di tutto questo. Non c’è nessuna responsabilità individuale con la quale fare i conti. La colpa, ovviamente, è sempre della società sporca e cattiva. In particolare, delle "classi pollaio": ospitano 29 alunni, che sono veramente troppi. In un ambiente del genere, è ovvio che i poveri cuccioli non riescano a imparare a leggere, scrivere e far di conto. Viene da chiedersi come abbiano fatto gli altri 24.
    Nessuno nega l’esistenza di seri problemi nella scuola italiana: continuiamo a sfornare analfabeti, gente che si presenta all’Università senza conoscere la differenza tra un accento e un apostrofo. Fingiamo che esista una materia chiamata “lingua inglese”, ma chi non segue un corso privato (magari perché non se lo può permettere, alla faccia del tanto decantato “merito”) l’inglese non lo imparerà mai (non a caso, il livello più basso e inutile di conoscenza linguistica viene definito “scolastico”).
    Il punto è che la retorica di sinistra e sindacati aggrava il problema, anziché risolverlo. Mancano le risorse – si dice –, non si riesce neanche più ad acquistare la carta igienica. Sarà anche vero, ma qualcuno si ricorda com’era la scuola italiana non dico un secolo, ma appena qualche decennio fa? Le aule ospitavano fino a 50, 60 alunni (altro che “classi pollaio”), erano riscaldate con le stufe a legna, mancavano persino i banchi, le lavagne, gli accessori basilari. Nei comuni montani le maestre e gli alunni erano costretti a camminare per chilometri, in mezzo alle intemperie, per raggiungere la scuola. Però si compensava tutto questo con il sacrificio, il senso del dovere: i maestri si sentivano davvero maestri, non impiegati sindacalizzati.
    Quarant’anni di mafia politico-sindacale hanno distrutto la scuola italiana, snaturando la sua funzione: essa non ha più lo scopo di formare, ma di assorbire i “precari”. Non è più un’agenzia di socializzazione, ma un ammortizzatore sociale e un ufficio di collocamento. E ogni occasione è buona per ribadirlo. La responsabile scuola del PD, tale Francesca Puglisi, ha presentato un’interrogazione urgente sul caso di Pontremoli. Ma non si dica che lo abbia fatto per tutelare il proprio blocco elettorale: è seriamente preoccupata per la sorte dei bambini bocciati. La soluzione è, ovviamente, sempre la stessa: promuovere loro, assumere nuovi maestri e buttare altri soldi nella fornace della pubblica istruzione, che sarà ancora più pletorica ma continuerà a sfornare analfabeti. In compenso, la Puglisi sarà forse rieletta.
    Tutta la vicenda, comunque, ci espone con chiarezza la ragione della crisi profonda della civiltà occidentale, il motivo che rende “collettivismo” e “individualismo” moderni due facce della stessa medaglia: la cancellazione dal nostro dizionario della parola “responsabilità”. Senza responsabilità non c’è libertà, ma arbitrio. E la cosa più grave è la pretesa che lo Stato, i pubblici poteri, non solo riconoscano tale arbitrio, ma gli forniscano anche tutela, attraverso la creazione di finti diritti. “Stato, come ti permetti di bocciare il mio figlio ciuccio! Ricorrerò al Tar, ha diritto a essere promosso!”. “Stato, io e il mio compagno ci amiamo tanto, ma non vogliamo avere rotture di scatole e impegni duraturi. Orsù, riconosci pubblicamente la nostra unione e dacci la pensione di reversibilità!”. “Stato, noi dobbiamo essere liberi di fare le nostre speculazioni finanziarie e tu non intrometterti! Tanto poi ti chiameremo per farci salvare con i soldi dei contribuenti!”. "Stato, il mio fidanzatino ha preso male le misure del coitus interruptus e mi ha messo incinta! Presto, fa' che io possa uccidere la creatura che mi cresce in grembo!".
    L’atteggiamento tipico del bambino viziato, che combina guai ma poi corre a piangere da mamma, noi lo abbiamo trasformato in modello di civiltà. Una civiltà di bambinoni, per l’appunto. La famosa emergenza educativa è tutta qui. A ben vedere, anzi, non vi è alcuna emergenza: tutto procede secondo i programmi, verso le “magnifiche sorti e progressive” del libertarismo progressista.
    "Mio figlio bocciato? Colpa dello Stato". La civiltà dei bambinoni viziati

    I cattolici perseguitati sotto il regime ateo cinese
    In Italia, i sedicenti alfieri dei cosiddetti “diritti civili” o “diritti delle minoranze”, come Giuseppe Cruciani e Pierluigi Battista, stranamente parlano soltanto di gay e della loro presunta discriminazione (come si può sentirsi discriminati avendo la totalità del potere mediatico dalla propria parte pronto a tacciare di omofobia chiunque osi esprimere un punto di vista differente? Come si può ritenere attendibili indagini sulla discriminazione basate su auto-dichiarazioni degli stessi omosessuali? Come si può sentirsi discriminati contando su schiere di riviste, giornali, social network e siti web con cui far sentire la propria voce? Come si può sentirsi discriminati sapendo che in Parlamento siedono politici con l’unico compito di occuparsi dei “diritti dei gay”?).
    Se questi paladini dei diritti umani fossero davvero tali, si occuperebbero anche di altre discriminazioni (quelle vere, e non politicamente corrette), come ad esempio dei cristiani perseguitati, incarcerati e messi a morte dai regimi islamici e induisti. O dei cattolici perseguitati sotto l’ateo-comunismo di stato cinese.
    Nessuno lo fa, per questo è importante segnalare l’uscita del libro di Francesca Romana Poleggi, “La persecuzione dei cattolici in Cina” (ed. Sugarco 2012), scritto per la fondazione Laogai Italia (www.lagoai.it). L’autrice ha presentato a “Tempi.it” il suo libro, spiegando la pericolosità di essere cattolici sotto il regime comunista cinese: «Sì e non c’è da stupirsi perché il Partito cinese (Pcc) è comunista e in quanto tale si rifà al pensiero ateo e materialista di Mao, che l’ha ripreso da Marx. Quando uno Stato è totalitario, pretende di essere lui il Dio da adorare. Chi non mette al primo posto della scala di valori la fede nel Partito comunista è considerato un criminale e finisce in prigione o nei laogai o agli arresti domiciliari. Era così negli anni 50, ai tempi di Mao, ed è così oggi nella Cina dell’apertura e del rilancio economico».
    Questa lettura è confermata proprio dalle parole di Zhu Weiqun, Vice ministro esecutivo del Dipartimento del Fronte Unito di lavoro: «ai membri del Partito è vietato credere nella religione, questa è sempre stata una regola costante nel Partito Comunista», chiedendo il rafforzamento dell‘identità marxista e atea all’interno del Partito. Il dittatore ateo Mao odiava la religione ma sapeva che non è possibile estirpare gli uomini da Dio, così «nel 1957 ha fondato l’Associazione patriottica (Ap), ente legato al Pcc esistente tutt’oggi che offre un surrogato della religione cattolica. La cosiddetta “Chiesa ufficiale”, che si potrebbe chiamare “Chiesa di Stato” organizza messe, catechismo, ordinazioni vescovili come se fosse la Santa Sede», ha continuato la Poleggi. Una chiesa comandata dal Partito, come spiega bene Marco Respinti su “Libero”.
    Ma la Chiesa cattolica esiste, è sotterranea e molto viva e per questo subisce fortissime repressioni. Nonostante tutto, «è in atto una rinascita religiosa senza precedenti che il governo comunista non si spiega e non riesce a fermare. Sono impossibili stime ufficiali, ma si calcola che il numero dei cattolici vada dai 20 agli 80 milioni. E il rapporto tra fedeli della Chiesa di Stato o aperta e quelli della Chiesa sotterranea è di uno a quattro». Viene incarcerato chi prega e chi possiede una Bibbia, 15 vescovi sono in prigione. La violenza colpisce anche le donne, pochi giorni fa ad esempio è stata multata una coppia per 1,3 milioni di yuan dopo il parto della secondo figlia, in linea con la politica abortista del figlio unico.
    Inutile ricordare che, dell’uscita di questo libro, nessun sedicente attivista dei diritti umani ha parlato.

    Libro e moschetto, comunista perfetto
    Nel ferreo regime comunista della Corea del Nord l'irrigimentazione inizia alle elementari, dove i bambini colpiscono con pietre e bastoni fantocci rappresentanti soldati americani e manifesti li dipingono biecamente con il naso adunco e i capelli giallo paglierino
    di Enrico Silvestri -
    A sentire la descrizione dei giornalisti della Associated Press, verrebbe da parodiare il vecchio detto mussoliniano «Libro e moschetto comunista perfetto». Nel più chiuso dei Paesi comunisti il lavaggio del cervello inizia direttamente all'asilo, dove i bimbi coreani vedono gli americani come mostri malefici e giocano a colpire sagome di soldati Usa con pietre e bastoni.
    La Repubblica Democratica Popolare di Corea è retta dal dopoguerra da una dittatura totalitaria di stampo Stalinista costituita prendendo esempio dalle istituzioni della Cina di Mao Zedong. Le modifiche costituzionali apportate alla morte del suo capo storico, Kim Il-sung, avvenuta nel 1994 a 82 anni, hanno creato per lui la carica speciale di «Presidente Eterno». Kim Il-sung, un glorioso passato di guerrigliero contro la feroce invasione giapponese della Cina e del sub continente asiatico, nel 1948 fu messo dall'Unione Sovietica capo del Paese, governato da allora con un pugno di ferro per quasi cinquant'anni. Alla sua morte gli successo il figlio Kim Jong-il con il titolo ufficiale di «Caro Leader», morto il 17 Dicembre 2011. La carica è quindi passata al figlio terzogenito Kim Jong-un che ha proseguito la politica del padre e del nonno di assoluta chiusura del Paese a qualsiasi tipo di penetrazione straniera.
    Nel 1950 Kim Il-sung invase la Corea del Sud, scatenando uno dei più feroci conflitti dopo la Seconda Guerra Mondiale, coinvolgendo una vasta coalizione di 17 Nazioni, capeggiata dall'America, per difendere il governo di Seul. Dopo tre anni di furiosi combattimenti e circa due milioni di morti, lo scontro si concluse nel 1953. Venne creato un confine tra le due Coree lungo il 38° parallelo scatenando da allora un odio implacabile dei dirigenti nordcoreani verso gli Stati Uniti.
    Rare le visite concesse ai giornalisti occidentali e solo recentemente tre inviati dell'Associated Press hanno potuto girare il Paese, tuttora sottoposto a un ferreo controllo poliziesco. Tra i vari luoghi visitati, anche una scuola materna dove hanno potuto scoprire come il regime inizi a formare i suoi cittadini. Già all'esterno hanno potuto notare enormi manifesti sui muri di cinta, come quello che rappresenta giovani dagli occhi ardenti mentre attaccano alla baionetta uno sfortunato soldato americano con gli occhi bendati e la bocca piena di sangue. Sopra, a caratteri cubitali: «Ci piace fare i giochi di guerra in cui battiamo i bastardi americani». Mentre altro rappresenta un americano con cappio al collo e la scritta «Cancelliamo l'imperialismo americano». All'interno della scuola, lungo le pareti lunghe teorie di ordinatissimi scaffali traboccanti di pistole, fucili e carri armati giocattolo. Poi ci sono le «lezioni» durante le quali la preside dell'asilo tira fuori un manichino di un soldato americano con un naso a becco e i capelli color giallo paglierino e invita i piccoli a colpirlo con pietre e bastoni.
    Certo non è novità assoluta, lungo tutto il Novecento tutti i regimi totalitari hanno sempre cominciato a forgiare le menti dei cittadini fin dalla più tenera età. L'Italia in particolare ha già vissuto qualcosa di simile durante il periodo fascista, quando appunto i «nemici» erano rappresentanti sempre biechi e con i lineamenti stravolti. Anzi quel soldato americano con naso adunco, ricorda molto l'ebreo rappresentato nella pubblicistica nazionale dopo le leggi razziali del 1938. Mussolini del resto comprese subito l'importanza di «educare» gli italiani già da piccoli e quindi lanciò lo slogan «libro e moschetto fascista perfetto» perchè l'indottrinamento doveva innanzitutto passare per le scuole. E così a sei anni, con l'ingresso alle elementari, il bambino diventava «Figlio della lupa» per poi passare «Balilla» a 8 anni, «Balilla moschettiere» a 11, «Avanguardista» a 14 ed entrare infine nei «Fasci giovanili di combattimento» dopo i 18.


















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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    Il piano di Pisapia: "Pronti 5 milioni di euro per dare casa ai rom"
    Mentre 30mila famiglie sono in lista d’attesa per un alloggio, Pisapia lancia il piano rom
    di Chiara Campo –
    Milano
    Dopo l’incendio di vai Sacile i rom abusivi sono stati accolti nella sede della protezione civile in via Barzaghi, poi sono partiti i percorsi di accoglienza attraverso il privato sociale. Il Comune non assegna direttamente gli alloggi, ma stanzia fondi alle onlus che sistemano concretamente i nomadi in alloggi, quattro le famiglie di via Sacile già sistemate in case, stessa offerta verrà fatta in via Gatto, per chiudere via Novara stanno per essere firmati 15 progetti di accoglienza, dall’alloggio al sostegno per il mutuo, in qualche caso rimpatri in Romania.
    «Basta con gli sgomberi senza soluzione di accoglienza, ora il registro cambia» spiega Granelli. 5 milioni di euro serviranno a trovare casa ai nomadi dei campi regolari e irregolari, il Comune conta di accedere anche a fondi Ue dedicati all’integrazione. Il tutto «alla faccia dei 30mila milanesi in graduatoria per ottenere la casa popolare - accusa il Pdl Riccardo De Corato che avverte -: aspettiamo il Piano per consegnarlo direttamente alla Corte dei conti perchè non si usino fondi dello Stato o comunali per finanziare alloggi a rom provenienti da campi abusivi». Idem l’assessore alla Sicurezza Stefano Bolognini (Lega): «Il Comune ha deciso di diventare un’agenzia immobiliare e vuole offrire le case dei milanesi solo ai rom. Prepariamoci, d’ora in avanti saremo sempre più invasi».
    Il piano di Pisapia: "Pronti 5 milioni di euro per dare casa ai rom" - ilGiornale.it



    Guttuso e i premi “Stalin per la pace”
    Vedevo su rai-storia il servizio su quel propagandista di partito che fu il sopravvalutatissimo Renato Guttuso.
    Sopravvalutatissimo perché all’epoca i giudizi su tutte le arti erano lasciati al gotha comunista, per dire proprio agli organici al PCI, essendo che i democristiani se ne strafottevano della cultura: i quali comunisti giudicavano l’opera in base all’ortodossia (dichiarata o presunta) sovietica dell’autore. Ed essendo lo stesso Guttuso sedicente “intellettuale” marxista e funzionario dell’arte organico al PCI, i giudizi sulle sue retoriche e stucchevoli opere non potevano che avere magnifiche sorti e progressive.
    Ma è un’altra la cosa che mi ha colpito. Siamo in quel decennio che vede Stalin basare il suo sistema politico sull’omicidio, l’Urss manda i suoi carri a schiacciare i proletari che protestano in Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, ovunque. Ma nonostante ciò, contraddizione tremenda ma solo apparente, proprio in quegli stessi anni il comunismo sovietico si fa sponsorizzatore di “pace” (a parole e secondo il mondo, chiaramente). Tutte le prebende, i premi “alla cultura”, i riconoscimenti sovietici hanno appiccicate sopra etichette edificanti made in URSS che portano sempre lo stesso nome: “PACE”: premio Lenin per la pace, premio Stalin per la pace… Persino le invasioni sovietiche di paesi inermi, erano definite “per la pace” – cosa della quale più tardi gli occidentali faranno tesoro, per mettere a fuoco il Medio Oriente –; ogni “rivoluzione” la esaltavano come lotta “per la pace” anche se altro non era che una invasione.
    Anche ogni banale dipinto commemorativo di qualche data trionfale sovietica ha sovente per sostantivo “pace”; per la “pace” predicano Guttuso e Picasso mentre al contempo sostengono i soviet invasori dei paesi satelliti e ritirano premi Stalin per la pace; ragazzi della “pace” saranno anche i rivoluzionari del ’68 finchè questi non si rivolteranno contro Mosca (e allora saranno definiti dai comunisti “degenerati borghesi”)… Fino al colpo scuro finale del “pacifismo”, dove quell’ismo rivela l’incantesimo stegonesco, la melassa soporifera che addolcisce la pillola di cianuro. Fatta ingoiare con le buone o le cattive a milioni di persone in pochi anni. I “pacifisti” di oggi, ossia i paci-finti di sempre, se vai a vedere bene le loro carte di identità, fedine penali e curriculum vitae, sono pari pari quelli che ieri, ancora il giorno del crollo del Muro, sventolavano la bandiera rossa e inneggiavano all’Urss o almanco alla Cina, all’Albania persino.
    Se Lucifero ha un nome e cognome sulla terra, è questo: PACE. PACE… SECONDO IL MONDO.
    Lucifero sembra non fare altro che impossessarsi di parole divine, decontestualizzarle, svuotarle, piantarle nella terra torbida e impastata di sangue, e farle crescere e spuntare fuori rovesciate e trasfigurate, belle ed effimere: fiori velenosi.
    Guttuso e i premi “Stalin per la pace” | La cuccia del Mastino

    Colpo al mito del regime: adesso nella rossa Cuba è scoppiato il colera
    La propaganda nasconde una profonda miseria. Tre morti e oltre 50 contagiati per l’inquinamento di pozzi d’acqua. Tante bugie su un sistema sociale che si definisce "all’avanguardia"
    di Roberto Fabbri
    Fidel, ormai in vista dell’ottantaseiesimo compleanno, è ormai il fantasma di se stesso; di «fratellanza socialista» con Mosca e altri è rimasto solo il ricordo, avendo nel frattempo gli ex alleati archiviato la falce e il martello: ora ci si accontenta del chiassoso venezuelano Chavez e si simpatizza in chiave anti-Usa con raccomandabili tipetti come l’iraniano Ahmadinejad e il bielorusso Lukashenko.
    A Cuba restava - oltre al precitato «Che», perito sul campo nel 1967 ma sempre vivo, almeno sulle magliette di tanti adolescenti occidentali, grazie alla sua avvenenza ribelle e forever young - un ultimo feticcio: la famosa sanità, il totem duro a morire e anche un bel po’ menzognero dello Stato socialista che cura todos compañeros senza badare a spese. Ma arriva una brutta sorpresa a incrinare anche l’estremo bastione della propaganda: a Cuba c’è il colera.
    Il quotidiano comunista Granma riferisce della morte di tre persone (anziani tra i 66 e i 95 anni, «e con precedenti di malattie croniche») nella provincia di Granma (nella Cuba castrista questo nome, che è quello della nave che trasportò Fidel e altri 81 guerriglieri sulle spiagge dell’isola nel 1956, lanciando la revoluciòn, è una vera ossessione). Altre 53 persone sono risultate positive al test per il colera, e la causa di questa preoccupante situazione sanitaria viene attribuita all’inquinamento di vari pozzi d’acqua.
    Nella regione - sempre secondo informazioni ufficiali riportate da Granma - «sono state prestate cure ad almeno un migliaio di pazienti». Questa, a giudicare da quell’«almeno», sembra essere una rivendicazione del regime della valida qualità della sua risposta all’emergenza. Ma, da un altro punto di vista, è anche l’ammissione dell’ampia diffusione dell’infezione nella provincia orientale dell’isola.
    Il giornale del partito (altri a Cuba non ce ne sono, e non perché manchi la voglia di pubblicarli: semplicemente è vietato) assicura che «la situazione è sotto controllo»: i pozzi infetti sono stati chiusi e si sta bonificando il sistema idrico. Granma ricorda anche che a Cuba «i casi di colera sono inusuali»: secondo le statistiche mediche, la malattia sarebbe stata sradicata fin dal lontanissimo 1882. Rimane il fatto che è tornata, e non è davvero un bel biglietto da visita.
    Tornando alla sanità pubblica, fiore all’occhiello molto propagandato del regime cubano, è il caso di fornire qualche utile consiglio. Nonostante l’insistenza sulla pretesa alta qualità del sistema, cui ancora di recente hanno irresponsabilmente contribuito cineasti della sinistra chic americana come Michael Moore, è sufficiente guardare qualche video girato clandestinamente disponibile su internet per rendersi conto dello stato reale degli ospedali cubani, dove la buona volontà di tanti medici deve scontrarsi con la nera miseria figlia del «socialismo» e con la colpevole tolleranza per la ciabattoneria di quanti in quegli ospedali dovrebbero assicurare decoro e pulizia.
    Basta guardare per rendersi conto con sgomento di come l’igiene, la cura e il rispetto del paziente siano un’ipotesi: c’è di tutto, dagli impianti elettrici improponibili alle mosche nelle corsie, e non c’è nulla, dai farmaci agli adeguati strumenti di lavoro. Per non dire del livello agghiacciante della chirurgia, dalle sale operatorie ai risultati sulla carne viva dei pazienti.
    Le immagini cantano una triste canzone. Altra cosa sono i dati ufficiali. Per chi vuole crederci: a Cuba l’esercizio della libera critica è un reato.



    Vince Esselunga, Coop condannata a 4,6 milioni di multa. «Svolta storica»
    Leone Grotti
    L’Antitrust condanna Coop estense. Dovrà anche permettere a Esselunga di costruire un supermercato a Modena. Intervista a Carlo Giovanardi: «Violazione troppo palese per non sanzionarla».
    Avevano ragione Esselunga e il suo patron Bernardo Caprotti, che aveva denunciato tutto nel libro Falce e carrello, quindi Coop estense dovrà pagare una multa pari a 4,6 milioni di euro. Lo ha deciso l’Antitrust, che ha condannato la coop modenese per abuso di posizione dominante. «La decisione di un organo indipendente come l’Antitrust rappresenta davvero una svolta» afferma a tempi.it Carlo Giovanardi, deputato del Pdl, modenese di origine, che si batte «da 30 anni per smascherare il monopolio di cui la Lega delle Coop gode a Modena grazie a bandi e piani urbanistici fatti dalle amministrazioni rosse ad hoc per loro». Ma il garante della concorrenza ha anche deciso che Esselunga, Coop e Comune dovranno raggiungere un accordo entro sei mesi perché la catena di Caprotti possa aprire un supermercato a Modena.
    Coop estense, secondo dati aggiornati al 2011, domina il 66% del mercato degli ipermercati e il 47% dei supermercati nella provincia di Modena. Una fetta enorme, anche se a far scattare la condanna dell’Antitrust è stato un caso particolare. Nel marzo del 2000 Esselunga ha acquistato per 24 miliardi di lire un terreno in via Canaletto, area molto vicina al centro storico di Modena, per costruirci un supermercato, come previsto dal piano regolatore del Comune. Nel febbraio 2001 il Comune ha messo all’asta un pezzettino di terreno adiacente ad esso, cinque volte più piccolo di quello acquistato da Esselunga l’anno prima, dal valore base di 5 miliardi. La Coop estense ha alzato il prezzo a Esselunga fino ad una cifra incredibile di 23 miliardi di lire per un terreno inutilizzabile. L’ha spuntata Coop estense, che grazie a quel piccolo terreno ha impedito a Esselunga di costruire il supermercato, visto che il piano regolatore del Comune prevedeva la presentazione di un unico piano di intervento sul quale ci deve essere l’accordo dei proprietari. Il Comune di Modena, che aveva il 10% del terreno, ha invitato le due parti a mettersi d’accordo prima, ha poi chiesto a Esselunga, che deteneva il 72% del terreno, di venderlo a Coop estense (e non viceversa), che aveva appena il 18%, infine ha deciso di convertire il terreno da commerciale a residenziale, lasciando Esselunga con un palmo di naso.
    «In questo caso l’illegalità era così macroscopica e pacchiana che l’Antitrust non ha potuto voltarsi dall’altra parte» dichiara Giovanardi, «ma a Modena la lista delle agevolazioni che il Comune ha dato alla Lega delle Coop è sterminata. C’è una vischiosità di potere, che poi i cittadini pagano con i loro soldi. Un monopolio, infatti, non permette la concorrenza e non lascia che i prezzi si abbassino. Non a caso i prodotti a Modena sono carissimi».
    Giovanardi continua: «Purtroppo a Modena i funzionari di partito, gli amministratori locali e quelli della Lega delle Coop sono sempre le stesse persone, come se fossero interscambiabili. Turci è stato presidente della giunta e delle Coop, senza contare la sua militanza in un certo partito. Poi lui era quello che faceva i piani commerciali. Non so se mi spiego». Eccome, ma non esagera? «No, ho scritto un libro anni fa su questo e nessuno mi ha mai querelato, chissà perché. In Emilia, specie a Modena, politica, economia e amministrazioni sono saldate insieme in un enorme potere economico-finanziario. È un potere ferreo, che fa sì che, nonostante in Italia tutto cambi, in Emilia, Toscana e Umbria comandino sempre gli stessi».
    Ora Esselunga potrà finalmente costruire il suo supermercato? «Non ne sarei così sicuro. La Lega delle Coop ovviamente sostiene che la sentenza sia un abbaglio, negano l’evidenza, e faranno ricorso. Quindi non so se potranno costruire, però intanto la sentenza rappresenta una grande novità».



    Cittadinanza. Bersani: “La riforma sarà la prima mossa del nostro governo”
    Il leader del Pd al sit in del Forum immigrazione: "Chi nasce e cresce qui è italiano. Chi non lo capisce è fuori dal mondo".
    Roma – 4 luglio 2012 - "La prima norma che il nostro governo farà sarà sulla cittadinanza: chi nasce e cresce qui e' italiano".
    Lo ha detto Pier Luigi Bersani, parlando al sit in che il forum Immigrazione del Pd ha organizzato a piazza Montecitorio. Una manifestazione nata per sollecitare la riforma della cittadinanza, alla quale partecipano figli di immigrati provenienti da diverse città italiane, insieme ai parlamentari del Partito Democratico e alla presidente del Forum Livia Turco.
    "Tutto questo – ha aggiunto Bersani - lo facciamo per i vostri diritti negati e perche' se tutti noi accettiamo l'idea che chi e' nato e cresciuto qui non è nè emigrato e nè italiano siamo fuori dal mondo".
    La "promessa" di Bersani guarda già alla prossima legislatura. Anche perché le tante proposte presentate in quella ancora in corso si sono arenate per i veti di Lega Nord e Popolo delle Libertà.
    Gasparri (Pdl): "I temi urgenti sono altri"
    Nel pomeriggio è arrivato il commento di Maurizio Gasparri, capogruppo del Pdl al Senato, secondo il quale "giorno dopo giorno si svela il programma del Pd. Prima una legge per il riconoscimento delle coppie gay e adesso cittadinanza facile per tutti. Chissa' cosa ne penseranno i possibili alleati moderati di questo programma di governo".
    "Il Partito democratico - ha detto Gasparri - annuncia di volere subito mettere mano ad una legge che conceda a tutti i nati in Italia la cittadinanza, passando cosi' dallo Ius sanguinis allo Ius soli. Si tratterebbe di una decisione grave e soprattutto in controtendenza con quanto avviene in Europa. Infatti lo Ius sanguinis rappresenta il principio piu' diffuso tra i Paesi europei per l'acquisto della cittadinanza e la scelta del Pd rischierebbe, veramente, di isolarci dal resto d'Europa".


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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    «Io, nato in un gulag in Corea del Nord, non sarò mai felice»
    Leone Grotti
    Storia di Shin Dong-hyuk, evaso per fame dal lager comunista dopo aver fatto giustiziare la madre e il fratello. Così si campa in una civiltà finalmente depurata dai legami umani.
    «Quando mio fratello e mia mamma sono stati giustiziati, io avevo 14 anni ed ero in prima fila a guardare: lui è stato fucilato, lei impiccata. Le autorità del campo li hanno uccisi quando hanno scoperto che avevano cercato di scappare. E l’hanno scoperto perché li ho denunciati io».
    Shin Dong-hyuk non si è neanche sentito in colpa. Del resto stava solo seguendo il sesto comandamento del decalogo del campo 14, il gulag per prigionieri politici più duro di tutta la Corea del Nord. «Controlla i compagni e denuncia comportamenti inappropriati senza tardare. Uno deve criticare gli altri per comportamenti inappropriati e anche autocriticarsi secondo l’ideologia di classe rivoluzionaria», recita la legge. Vale per i compagni di lavori forzati e vale per la propria famiglia. Se non avesse denunciato sua madre e suo fratello Shin sarebbe stato ucciso, secondo il dettame della regola numero dieci: «La punizione per chi viola le regole del campo è la morte».
    Ma Shin non l’ha fatto per paura di morire, quel gesto disumano è normale per uno che nel gulag di Kaechon, 40 chilometri a nord della capitale Pyongyang, ci è nato e vissuto fino a 23 anni. Di umanità nella vita ne ha vista ben poca Shin. «Credevo fosse giusto denunciare mia mamma. Quando vedevo la gente che veniva picchiata o uccisa, pensavo che lo meritassero perché avevano violato le regole».
    Nei gulag nordcoreani, racconta Shin in Escape from Camp 14, scritto da Blaine Harden, non si vive, si sopravvive. Per sopravvivere bisogna mangiare e per ricevere una razione misera di cibo bisogna lavorare. E lavorare giorno e notte, altrimenti gli altri prigionieri ti criticano, le guardie ti picchiano e non ti danno da mangiare. «Non ho mai pensato perché dovessi lavorare, non ho mai avuto il tempo per coltivare pensieri di questo genere. Noi eravamo criminali, io vivevo perché le guardie mi concedevano di vivere».
    Nei gulag la famiglia non viene abolita, è svuotata del suo significato: il sesso è ridotto ad accoppiamento, la generazione a riproduzione, l’educazione ad allevamento. Il rapporto tra genitori e figli semplicemente non esiste. Shin è nato il 19 novembre 1982 perché i suoi genitori erano prigionieri modello. Come forma di premio, «mio padre e mia madre sono stati scelti dalle guardie e chiusi in una stanza per cinque giorni». Shin può dire di avere avuto una famiglia, anche se non conserva ricordi positivi: «Non mi sono mai sentito voluto bene, neanche una volta. Chiamavo i miei genitori madre e padre perché si faceva così ma non c’era rapporto tra noi. Non sono mai stato abbracciato, mio padre non mi ha mai portato in spalla. Le madri possono solo allattare i bambini. Se i bambini piangono, li picchiano. È così che sono cresciuto: picchiato da mia madre». Ma non è colpa loro, insiste l’unica persona al mondo ad essere nata in un gulag e poi scappata: «Non possono fare altrimenti perché le madri al lavoro vengono ingiuriate e pestate, così quando tornano a casa dai figli li picchiano per lo stress accumulato».
    «Ognuno per sé, tutti possono essere delatori»
    Le guardie nei gulag impediscono i rapporti umani. A Shin fin da piccolo viene ordinato di controllare la madre e viceversa. Ma non c’è neanche bisogno di tanti insegnamenti teorici: «La società è costruita perché tutti siano uguali e ognuno viva per sé. Tutti gli altri infatti possono essere dei delatori». Come lui ha fatto con i suoi familiari. Le guardie del campo, per “premiarlo”, l’hanno torturato per sette mesi, appendendolo mani e gambe sopra un braciere di fiamme vive, infilandogli un uncino nel corpo, pestandolo ripetutamente e mozzandogli il dito medio della mano destra.
    In una società dove l’unico scopo è sopravvivere la cosa più importante è il cibo. «Non pensavo ad altro, la cosa più difficile era sfamarsi e questo è il motivo per cui sono scappato: avevo fame».
    Una condizione con cui aveva convissuto tutta la vita ma che gli diventa insopportabile quando nel 2004 viene affiancato a un signore di nome Park, un novizio. Park lo tratta bene, spesso gli dà qualcosa da mangiare e nonostante sia proibito parlare della propria vita al di fuori del campo gli racconta di come viveva prima di essere internato. Shin apprende così, a 22 anni, dell’esistenza di Pyongyang, la capitale del suo paese, e di tante altre cose. «Ma quello che mi importava di più era il cibo e lui mi parlava della carne che mangiava. Io gli chiedevo ogni giorno di raccontarmelo e dopo sei mesi la vita era diventata insopportabile». Per questo, il 2 gennaio del 2005, approfittando della distrazione delle guardie, insieme a Park striscia in mezzo al filo spinato attraversato dall’alta tensione. I segni della pelle bruciata e scorticata a distanza di otto anni sono ancora sulle sue gambe. Shin passa per primo e scappa senza voltarsi. Park non ci riesce. Quello che lo sconvolge di più del «mondo libero» non sono le auto, la tecnologia o gli spazi aperti: «La cosa più scioccante era la gente che si muoveva come voleva, che vestiva abiti di mille colori diversi e mangiava liberamente».
    Shin oggi ha 30 anni e da quando è riuscito a raggiungere la Corea del Sud attraverso la Cina testimonia l’orrore di uno dei pochi regimi comunisti rimasti al mondo. Ha scritto un libro per far conoscere la sua storia ma non ne parla volentieri. Anche se può mangiare e muoversi come vuole, è triste: «Onestamente, non sono felice. Sono scappato perché ero affamato ma adesso che non ho più fame, soffro ancora. Finché avrò memoria penso che non potrò essere felice».
    Dopo aver visto come vivevano le famiglie a Seul, «mi sono sentito in colpa per aver denunciato mia madre e mio fratello. Non ho mai dato importanza ai rapporti, ma se c’è una cosa che mi manca oggi è mio padre. Se potessi rivederlo, gli chiederei scusa, lo prenderei per mano e camminerei insieme a lui per il quartiere di Myeong-dong».
    Shin dong-hyuk: «Scappato dal gulag, non sarò mai felice» | Tempi.it

    «Svolta» filo-Usa in Corea del Nord: sì agli hamburger
    di Redazione
    Pyongyang
    Qualcuno parla già di rivoluzione, e in parte lo è davvero. E pazienza se si tratta di una scelta che ha la chiara ambizione di conquistare i suoi sudditi. Di certo c'è che il nuovo leader nordcoreano Kim Jong-Un ha deciso di imprimere una svolta alla vita quotidiana dei suoi concittadini. Come? Autorizzando il consumo di hamburger e patatine fritte, permettendo alle donne del suo Paese, noto per essere il più chiuso del mondo alle mode occidentali e intossicato da una propaganda ossessiva contro tutto ciò che arriva dall'America e dintorni, di indossare pantaloni e scarpe con zeppe.
    Si tratta, riferisce il quotidiano americano New York Daily News, di un cambiamento epocale, visto che finora i pantaloni erano consentiti alle donne solo nei campi o in fabbrica. «È certamente una campagna di avvicinamento ai giovani», ha notato Marcus Noland, del Peterson Institute for International Economics. Un'inattesa dimostrazione di elasticità da parte di un leader che è il prodotto di un sistema «dinastico» unico al mondo, in cui i dittatori di stampo stalinista si trasmettono il potere di padre in figlio (con Jong-Un si è giunti alla terza generazione).
    «Svolta» filo-Usa in Corea del Nord: sì agli hamburger - IlGiornale.it

    DA “REPUBBLICA” AL ‘’CORRIERE’’, DAL “MESSAGGERO” ALL’”UNITÀ”, TUTTE LE GAZZETTE SBAVANO L’INNO “GIÙ LE MANACCE DA BELLA NAPOLI”. FUORI LINEA SOLO “IL FATTO” - 2- MENTRE ‘’IL GIORNALE’’ DI SALLUSTONI, GIUSTAMENTE, SI DEDICA ALLO SFOTTÒ: “LE CONVERSAZIONI PRIVATE DI BERLUSCONI FINIRONO SCENEGGIATE IN PRIMA SERATA SULLA RAI, PERCHÉ MAI QUELLE DI NAPOLITANO DOVREBBERO ESSERE CANCELLATE PER SEMPRE? PERCHÉ QUANDO BERLUSCONI DENUNCIAVA L'USO POLITICO DELLE INTERCETTAZIONI VENIVA DERISO E ORA NAPOLITANO DOVREBBE ESSERE PRESO SUL SERIO? E COME LA METTONO BERSANI, CASINI E SOCI A SOSTENERE CHE CI SONO PM MASCALZONI?” -
    RE GIORGIO E LA FORMA DEI TARTUFI...
    Ma che si saranno mai detti al telefono il presidente della Repubblica e Nicola Mancino, indagato a Palermo per falsa testimonianza nell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia? Il povero Mancino, uno dei tanti napoletani che per legge ha regnato al Viminale e sulla polizia, ieri sera è andato in tv da Mentana a raccontare che "non lo ricorda". Si vede che si sentono spesso, con l'amico Giorgio.
    Non trattandosi di Silvio Bananoni ma di Re Giorgio Banalitano, non si può sapere il contenuto degli augusti conversari e oggi penne e giuristi di corte si affannano a spiegarci il perché, ricorrendo ai soliti nobili cavilli. Il Quirinale ha investito della faccenda un giudice scomodo come la Corte Costituzionale, dove un attempato manipolo di fini giuristi per nulla legati a Bella Napoli vaglierà il caso con somma dottrina. Insomma, notizione pazzesco e storia avvincente. Capace di produrre titoloni a tutta prima davvero sorprendenti, come quello che campeggia oggi sull'Unità: "Napolitano difende il Quirinale".
    Sul Regio Corriere della Sera, padre Massimo Franco si traveste da Tg1 e parla di "Scelta inevitabile che salda le perplessità verso alcune toghe" (p. 2). A sostegno dell'ira di Re Giorgio, anche le interviste a Valerio Onida ("Un'iniziativa corretta. Si può ascoltare il Quirinale solo per alto tradimento", p. 2 e non P", fare attenzione) e il regio ventriloquo Emanuele Mancuso ("Quel giusto richiamo a Einaudi", p. 5).
    "Ristabilire il rispetto della legge", tuona in prima pagina sul Messaggero il presidente emerito Piero Alberto Capotosti. E un certo Cacace Paolo, sempre dalla prima pagina del Calta-quotidiano, nobilita la faccenda con il ricorso al latinorum: "L'inevitabile passo del Colle: scongiurare un vulnus pericoloso". Poi passa l'ex avvocato dell'Editore e sancisce: "Severino: Quirinale corretto" (Messaggero, p. 3).
    Commovente anche il sedicente "retroscena" della Repubblica degli Illuminati: "La scelta tormentata del Colle: ‘Serve lealtà tra poteri dello Stato'. A vuoto la moral suasion dell'Avvocatura dello Stato su Palermo" (p. 3 e non P3, fare attenzione). Si apprezzi l'elegante riformulazione della velina quirinalizia: "Venti giorni di ‘guerra giuridica' tra il Quirinale e Palermo si chiudono con due avverbi. Pesanti entrambi. Li scrive il Colle. ‘Assolutamente'. ‘Immediatamente'. E' chiuso tutto lì il conflitto che adesso toccherà alla Consulta dirimere. Si radica lì quello che le fonti del palazzo definiscono "un passo di garanzia obbligato", meditato di ora in ora, preso non a cuor leggero, ma preso perché andava preso".
    Fuori linea solo il Cetriolo Quotidiano. Per Marco Travaglio, "Se il Presidente della Repubblica interpella addirittura la Consulta, alla vigilia del ventennale della strage di via D'Amelio, vuol dire che il caso esiste ed e' enorme. Naturalmente per noi lo scandalo e' il contenuto delle telefonate, almeno quelle ormai note del suo consigliere D'Ambrosio (che fanno sospettare il peggio anche su quelle ancora segrete di Napolitano): un florilegio di abusi di potere e interferenze in un'indagine in corso su richiesta di un potente ma privato cittadino" (p. 1).
    Mentre il Giornale di Feltrusconi, giustamente, si dedica allo sfottò: "Solo ora Napolitano capisce. Scontro Quirinale-magistrati. Denunciati i pm per le sue intercettazioni illegali. Ma su Berlusconi lasciò fare" (p. 1). Sallusti: "Le conversazioni private di Berlusconi finirono sceneggiate in prima serata sulla Rai, perché mai quelle di Napolitano dovrebbero essere cancellate per sempre? Perché quando Berlusconi denunciava l'uso politico delle intercettazioni veniva deriso e ora Napolitano dovrebbe essere preso sul serio?
    E come la mettono Bersani, Casini e soci che ora non è il Cavaliere ma il capo dello Stato a sostenere che ci sono pm mascalzoni?"


  7. #27
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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    Con Weir in fuga dal Gulag
    Il cinema scopre gli altri lager
    Il regista de "L’attimo fuggente" racconta la storia (vera) dei profughi che attraversavano la Siberia per scappare dalla repressione sovietica
    di Luca Gallesi
    Nei film di guerra, si sa, i cattivi per antonomasia sono i tedeschi: loro fanno i rastrellamenti più feroci, loro torturano, loro rinchiudono ogni nemico nei Lager, dove chi cerca di adattarsi muore di stenti e chi tenta di scappare viene trucidato senza pietà, come raccontano centinaia di blockbuster, tra Grandi fughe e Liste di Schindler; solo i giapponesi, a volte, riescono a superare in crudeltà l’alleato germanico, come si vede nel Ponte sul Fiume Kway o in Furyo.
    A immortalare su pellicola gli «altri lager», o le altre, meno innocenti, evasioni, sono stati davvero in pochi: abbiamo la storia autobiografica di un atleta SS tedesco che sfugge ai britannici raccontata in Sette anni in Tibet, poi ci sono i prigionieri italiani non-cooperatori descritti in Texas ’46, e infine qualche riferimento al trattamento spietato verso i vinti della Seconda guerra mondiale fatto da Lars Von Trier in Europa , e poco altro.
    La sorte degli internati nei Gulag sovietici non ha, finora, attirato particolari attenzioni di registi o sceneggiatori, forse timorosi di urtare la suscettibilità dell’URSS, come successe nel 1970 a un film tratto dal libro Una giornata di Ivan Denisovic di Solzenycin, che venne addirittura bandito dalle sale finlandesi per non compromettere le relazioni diplomatiche con l’Urss.
    Le cose, però, stanno lentamente cambiando, e, a controbilanciare il quadro, dopo il film di Wayda su Katyn ecco un’altra pellicola che parte dalle sofferenze inflitte dai sovietici alla Polonia: si tratta dell’ultimo film di Peter Weir, The Way Back, programmato nelle nostre sale con il titolo originale a partire dal prossimo 29 luglio. Il celebre regista australiano, classe 1944, noto per una serie di capolavori, da Picnic ad Hanging Rock a Witness (1985), da L’attimo fuggente (1989), a Truman Show (1988) torna, molti anni dopo Gli anni spezzati (Gallipoli, 1981), al film di guerra.
    The Way Back, del 2010, è dedicato a un’impresa leggendaria: la fuga da un campo di concentramento sovietico in Siberia e la successiva marcia di 4000 chilometri attraverso Mongolia, Cina e Tibet per raggiungere, sempre a piedi, l’India. Il protagonista dell’impresa è un polacco, (Jim Sturgess) accusato nel 1939 di spionaggio, sulla base di una dichiarazione estorta alla moglie dalla Ceka staliniana, e deportato in Siberia. Nel Gulag incontra un’umanità varia e violenta, impersonata da un cast d’eccezione, comprendente, tra gli altri, un inetto Mark Strong, un vecchio Ed Harris e un rozzissimo Colin Farrell, che sembra uscire dalle pagine di Educazione siberiana.
    Il pugno di uomini che decide di sfidare i 5 milioni di Km quadrati di Siberia che, come ammonisce il capo degli aguzzini sovietici «è la vera prigione», è esistito realmente, e il film è dedicato alla loro memoria. Ma la storia è qualcosa di più del semplice resoconto di una grande fuga, anche se il regista descrive molto bene la spietata naturalezza della tundra e della taiga siberiana, l’arida magnificenza dei deserti mongoli e l’aspra durezza delle cime tibetane, ostacoli che per alcuni prigionieri diventano insormontabili. Nella seconda parte del film, che scorre con lenta solennità, il regista si sofferma su alcune immagini di chiara ispirazione religiosa, a partire da una ripetuta danza macabra che segna in qualche modo il cambiamento di registro verso una dimensione spirituale che ricorda le atmosfere di Picnic a Hanging Rock, qui rese esplicitamente cristiane.
    La cinepresa indugia su riti e simboli come il serpente e la croce, la lavanda dei piedi e la corona di spine, che sorprendono lo spettatore, ma che verranno compiutamente svelate nelle scene finali, quando Peter Weir lascia i protagonisti e conduce il pubblico in una veloce ma efficace carrellata storica di date che, dal 1945 al 1989, ricordano le tappe verso la libertà dell’Europa dell’Est, e indicano nel perdono la vera soluzione al mistero della sofferenza umana.
    Con Weir in fuga dal GulagIl cinema scopre gli altri lager - IlGiornale.it

    Quegli americani ingannati e uccisi dal "vapore" di Stalin
    Angelo Bonaguro
    Chi ha visto il film The Way Back di Peter Weir potrebbe chiedersi cosa ci facesse un ingegnere americano fra i detenuti che popolavano il campo di lavoro sovietico situato sopra il lago Bajkal: d’accordo per l’«internazionale del dissenso» composta da polacchi, croati e baltici, ma la presenza dell’enigmatico e carismatico mister Smith potrebbe far pensare a un tributo culturale che vuole per forza un eroe yankee. In realtà, come ha spiegato il regista, «è l’unico nome che ho mantenuto dal libro di Rawicz [il testo controverso che lo ha ispirato]: ho conservato il suo nome e la sua nazionalità, e il fatto che avesse lavorato per la metro di Mosca come ingegnere. Poi ho costruito il personaggio utilizzando notizie sugli americani scomparsi in Urss: furono migliaia, la maggior parte di essi non fece mai più ritorno. Non tutti erano simpatizzanti comunisti, molti scappavano a causa della crisi economica innescata dalla Grande Depressione».
    Basterebbero queste poche righe per riassumere le drammatiche vicende di questi americani salpati negli anni 30 verso l’Urss per trovare... l’America, e raccontate più ampiamente nel libro di Tim Tzouliadis, I dimenticati, tradotto e uscito per Longanesi nel 2011.
    La causa scatenante di questo flusso migratorio sui generis è quanto mai attuale: con un alto tasso di disoccupazione, molti americani facevano la fila presso le mense pubbliche e vivevano nelle baraccopoli. A molti sembrò che fosse possibile costruire una società più a misura d’uomo proprio nella Russia staliniana, dove le fabbriche assumevano operai specializzati, tecnici ed ingegneri. E queste fabbriche – si leggeva sulla stampa – mettevano a disposizione anche scuole materne, ambulatori, biblioteche, luoghi per la ricreazione.
    Quando l’ufficio sovietico del commercio con l’estero pubblicizzò l’offerta di posti di lavoro, in migliaia si mossero. Gli operai qualificati – ricorda Tzouliadis – avevano persino diritto al viaggio pagato verso il Paese del comunismo realizzato in cui la disoccupazione era stata ufficialmente dichiarata scomparsa. C’era persino chi, non avendo una qualifica particolare, partiva ugualmente come turista per poi fermarsi in Urss non appena trovata un’opportunità di lavoro. A spingere gli emigranti fu anche la cecità o la malafede di molti intellettuali occidentali per i quali la rivoluzione sovietica era carica di speranza, che vedevano nella crisi economica il segnale della fine della civiltà tradizionale, e che teorizzavano di «prendere il comunismo ai comunisti» per trapiantarlo in America.
    Erano gli anni in cui Stalin voleva che si producesse «a tutto vapore», quando dopo aver «spezzato la colonna vertebrale della vecchia ingegneria russa», l’Urss aveva bisogno di tecnici e tecnologia occidentali per stare nei ritmi fantasiosi dei piani quinquennali statalisti.
    Nei primi anni 30 gli americani presenti a Mosca e in altre grandi città erano in numero tale da giustificare la pubblicazione di un giornale in inglese, e il baseball ebbe un successo popolare al punto da indurre le autorità sovietiche ad introdurlo come sport nazionale. I figli degli immigrati frequentavano scuole in lingua inglese dove però venivano debitamente indottrinati, chiamavano i loro insegnanti «compagni» e indossavano i fazzolettini dell’Organizzazione giovanile comunista. Come disse il poeta Mandel’stam, «credono che tutto sia normale perché funzionano i tram».
    Poi, improvvisamente, nel ’37 iniziarono le Grandi purghe che colpirono anche gli stranieri e chiunque avesse legami con loro.
    Ciò che lascia ulteriormente allibiti è che le richieste di aiuto dei detenuti americani, giunte spesso dopo rischiose peripezie all’ambasciata, furono insabbiate dagli stessi diplomatici a Mosca e da certi funzionari a Washington, che ignorarono i loro sventurati compatrioti.
    Avrebbero potuto salvarli? Stalin era sufficientemente furbo per accontentare le richieste di reimpatrio di un partner commerciale come gli Usa; tuttavia in quegli anni a Mosca era ambasciatore J.E. Davies, un ammiratore del dittatore sovietico che amava assistere ai processi contro i «nemici del popolo» e autore del best-seller filosovietico Mission to Moscow.
    Una seconda ondata di americani, circa 3mila, finì nei lager sovietici al termine della seconda guerra mondiale, quando l’Armata rossa entrò nei campi di prigionia nazisti e l’Urss si rifiutò di restituire questi uomini o addirittura di riconoscerne l’esistenza. Con l’inizio della guerra fredda, di costoro si persero le tracce. Pochi furono i superstiti che hanno lasciato memorie, fra i quali Victor Herman e Thomas Sgovio.
    STORIA/ Quegli americani ingannati e uccisi dal "vapore" di Stalin | pagina 2

    NAPOLITANO ‘O LENINISTA: DAL PASSATO DI RE GIORGIO EMERGONO CHICCHE DI SANA DEMOCRAZIA – LENIN? “ESPRESSIONE E GUIDA GENIALE DEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO” – PER IL MIGLIORISTA AL RAGU’ L’ESPULSIONE E L’ESILIO DI ALEKSANDR SOLŽENICYN FURONO “LA SOLUZIONE MIGLIORE” – LA NOTA PIU’ DOLENTE RESTA IL SUO SOSTEGNO ALL’INVASIONE DI BUDAPEST DEI CARRARMATI URSS DEL 1956: PER BELLA NAPOLI SERVI’ “A SALVARE LA PACE NEL MONDO” (DECENNI DOPO ARRIVERA’ L’AUTOCRITICA…)
    Giovanni Florio per Lettera 43
    Ha definito Lenin «espressione e guida geniale del movimento rivoluzionario». A farlo è stato il capo dello Stato Giorgio Napolitano, 40 anni fa esatti. Il documento è citato nel libro Scacco allo zar (edizioni Mondadori) di Gennaro Sangiuliano ed è contenuto in una miscellanea di scritti comunisti pubblicata da Editori Riuniti nel 1972.
    Tra gli autori c'è l'attuale presidente della Repubblica, allora fervente comunista e ammiratore del dittatore Lenin, di cui - raccomandava - è importante seguire sempre le indicazioni. Nel 2007 il settimanale comunista Rinascita ha ripubblicato un vecchio scritto di Napolitano uscito nel 1970 tra i Quaderni di critica marxista col titolo "Lenin teorico e dirigente rivoluzionario".
    PASSATO FILO SOVIETICO.
    In quel testo, l'attuale presidente e garante della democrazia sottolineava l'importanza della «prima, decisiva scelta che venne compiuta dall'ala più avanzata del movimento operaio italiano sotto la guida di Lenin e dell'Internazionale comunista: la scelta della rottura con l'opportunismo, con i riformisti e la fondazione del Partito comunista d'Italia». Ricordare il passato filo sovietico di Napolitano oggi è vietato, come lesa maestà, poiché per l'ex dirigente del Partito comunista (Pci), molto più che per Mario Monti, è previsto e accettato solo il registro giornalistico della riverenza.
    Ma le cose scritte restano e non fa male rileggerle. Riprendere per esempio quanto scrisse Napolitano sull'Unità nel febbraio del 1964, subito dopo l'espulsione dall'Urss dello scrittore dissidente Aleksandr Solženicyn: «Che la sua 'incompatibilità' sia stata sciolta dalle autorità sovietiche non con un'incriminazione ma con la sua espulsione può essere considerato più o meno 'positivo'; qualcuno può giudicarla obiettivamente, come l'ha giudicata, la 'soluzione migliore'; ma solo commentatori faziosi e sciocchi possono prescindere dal punto di rottura cui Solženicyn aveva portato la situazione e possono evocare lo spettro dello stalinismo». Ecco, l'esilio forzato dell'autore di Arcipelago Gulag era la 'soluzione migliore' per il migliorista Napolitano, e guai a parlare di stalinismo: avevano fatto bene i compagni sovietici.
    L'APPOGGIO ALL'INTERVENTO.
    Anche nel 1956, quando i carri armati russi avevano invaso Budapest in rivolta, Napolitano prese le parti di madre Urss: «L'intervento sovietico in Ungheria, evitando che nel cuore d'Europa si creasse un focolaio di provocazioni e permettendo all'Urss di intervenire con decisione e con forza per fermare la aggressione imperialista nel Medio Oriente ha contribuito in misura decisiva, oltre che a impedire che l'Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell'Urss ma a salvare la pace nel mondo».
    Più tardi, molto più tardi (troppo più tardi) Napolitano scriverà nella sua autobiografia del suo «grave tormento autocritico» riguardo alla posizione assunta nel 1956. Dirà: «La mia storia non è rimasta eguale al punto di partenza, ma è passata attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni». Sempre con qualche decennio di ritardo, però.


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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    Se il regime comunista della Corea del Nord ha paura perfino dei noodles
    Leone Grotti
    La Corea del Nord è in ginocchio dopo alluvioni e uragano ma rifiuta gli aiuti della Corea del Sud, che offre medicine e noodles. Dissidente: «Il regime non vuole che la gente scopra che ciò che viene dalla Corea del Sud è buono».
    Perché un paese come la Corea del Nord, che da giugno è stato colpito da una serie di alluvioni che hanno ucciso più di 170 persone, sommergendo tantissime campagne e distruggendo migliaia di case, che di recente è stato colpito da un uragano (foto a destra) che ha ucciso 48 persone lasciandone altre 21 mila senza tetto e che per tutto l’anno ha subito una tremenda siccità che, secondo gli Stati Uniti, ha lasciato in ridotto “alla fame” i due terzi della popolazione; perché un paese ridotto in queste condizioni dovrebbe rifiutare gli aiuti alimentari offerti gratuitamente dalla Corea del Sud? Per colpa dei noodles.
    AIUTI ALIMENTARI. Proprio così, i noodles, i famosi spaghetti asiatici. Spieghiamo. Diceva così a tempi.it in un’intervista Andrei Lankov, grande esperto di Corea del Nord: «Se il popolo nordcoreano sapesse davvero che la Corea del Sud, descritta dal regime comunista come una terra dove regnano povertà e terrore, ha un reddito pro capite 40 volte superiore al loro, il regime avrebbe i giorni contati». Ora, la Corea del Nord ha chiesto al Sud aiuti alimentari, in special modo cemento, riso e macchinari per l’industria pesante. Il Sud ha risposto picche, temendo che queste richieste abbiano scopi bellici, e ha offerto 10 tonnellate di farina e 3 milioni di confezioni di noodles che si cuociono in modo istantaneo e medicine.
    NOODLES RIVOLUZIONARI. Al di là del motivo ufficiale per cui il regime comunista guidato dal giovanissimo Kim Jong-un ha rifiutato l’aiuto sudcoreano, affermando che la quantità degli aiuti era «irrilevante», secondo il dissidente Choi Song Min la causa è di tutt’altra natura. «I noodles istantanei sono stati donati dalla Corea del Sud anche durante le terribili alluvioni del 2010, diventando molto popolari tra la popolazione. E anche se le autorità avevano tolto i noodles e il sugo dalle confezioni originali, noi eravamo riusciti a riconoscere che provenivano dalla Corea del Sud grazie alla scritte che c’erano sui sacchetti».
    UN ERRORE DA NON RIPETERE. I noodles sono sempre stati in vendita in Corea del Nord ma nessuno ha abbastanza soldi per comprarli. Nel 2010, perciò, per la prima volta tantissima gente ha sperimentato quanto fosse buono un prodotto della Corea del Sud. «E questo è inaccettabile per il regime, che non vuole ripetere quell’esperienza e fare pubblicità alle “marionette comandate dagli Stati Uniti del Sud”».
    Corea del Nord, il regime comunista ha paura dei noodles | Tempi.it



    I disastri della sinistra che governa
    Danilo Quinto
    Dal novembre scorso il Presidente della Regione Lombardia, Formigoni, conosce la gogna pubblica, un’opera di demolizione politica che obiettivamente non ha precedenti in Italia. Dall’altra parte, nel profondo sud, c’è un altro Presidente di Regione, Nichi Vendola – già rinviato a giudizio per concorso in abuso di ufficio in relazione al concorso da primario di chirurgia toracica all’ospedale San Paolo di Bari, (il processo si aprirà il prossimo 27 settembre) – che si erge a moralizzatore della vita pubblica del paese e consolida giorno dopo giorno la sua immagine nazionale di leader.
    Il paradosso di questa situazione che riguarda Vendola non è costituito da parole, da «racconti» – espressione a lui tanto cara – ma da una serie impressionante e circostanziata di fatti, di numeri. É sempre “la Repubblica” a fornirli, nella cronaca locale di Bari, che qualche giorno fa riportava questi dati: all’Istituto Oncologico Giovanni Paolo II di Bari, una donna che vuole fare una mammografia, deve attendere dicembre 2013. Il secondo screening richiede tre anni e quattro mesi. Per un’ecografia all’ex Ospedale Cotugno bisogna aspettare aprile del 2013.
    Per una tac o una risonanza, è necessario attendere febbraio 2013. Una visita cardiologica per pazienti oncologici richiede sette mesi di tempo e quindici per pazienti non oncologici. Novembre 2012 è il primo mese disponibile per fare una seduta di radioterapia con l’acceleratore lineare per un malato di tumore che deve effettuare in tempi rapidi la radioterapia. Al Policlinico di Bari, la prima data utile per una mammografia è fra quattro mesi, a gennaio del 2013. Servono 180 giorni per un holter cardiaco, 220 giorni per una tac all’addome.
    Per un elettrocardiogramma e un ecocardiogramma, se ne parla nella prossima estate. A febbraio del prossimo anno c’è spazio per una risonanza al cervello. Per una mappatura dei nei bisogna aspettare maggio del 2013. Stessi tempi per una visita oculistica. Servono 530 giorni per una visita neuropsichiatrica infantile, 370 giorni per una visita cardiologica e 240 per una reumatologica. Se c’è un settore nel quale si misura la capacità di Governo di una Regione, è quello della sanità. In Puglia, non solo la sanità “mangia” quasi il 90% del bilancio regionale e provoca voragini di debiti, ma rende un servizio che in molti casi non esiste e nega il diritto costituzionale alla salute.
    Tutto questo, mentre il Presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola – che governa ininterrottamente da oltre sette anni – propaganda l’eccellenza pugliese, richiede diritti interi e non dimezzati per il suo proposito di unirsi in matrimonio con l’uomo che ama e si candida a leader del centrosinistra. Se si deve guardare ai risultati del suo Governo regionale, una prospettiva inquietante per il paese.



    La chiamano educazione civica, ma è l’educazione secondo il partito comunista (cinese)
    Nazionalismo, lettura parziale della storia come il massacro di piazza Tiananmen e il maoismo culturale. Ecco le nuove materie con cui Pechino tenta di indottrinare i bambini di Hong Kong e conquistare le scuole cattoliche
    Dal nostro corrispondente da Hong Kong – Stefano Vecchia
    Cresce l’opposizione di Hong Kong alle pressioni cinesi per alterare un altro – forse l’ultimo – dei capisaldi della sua autonomia e della sua democrazia, quello dell’educazione. Le manifestazioni che il primo fine settimana di settembre hanno portato in piazza almeno 8.000 cittadini e in ospedale un’insegnante prostrata da 40 ore di sciopero della fame, sono state un messaggio eloquente per l’amministrazione locale sempre più legata a Pechino, dopo l’elezione a marzo del nuovo capo del governo, Leung Chun-ying, scelto dalla maggioranza di parlamentari non eletta direttamente dai cittadini.
    Al centro della protesta, Il modello cinese, un opuscolo che è stato diffuso tra i reponsabili scolastici per illustrare la modifica delle materie di studio in vigore del primo settembre, seppure in modo facoltativo, ma che diventerà gradualmente obbligatoria entro il 2015. Corsi di “educazione civica” e di “migliore conoscenza della madre patria cinese” che per i critici rappresentano il tentativo di condizionare i giovani da parte del governo comunista cinese.
    Il nazionalismo e la lettura parziale di eventi della storia moderna del paese – inclusi la Rivoluzione culturale e la repressione di Piazza Tiananmen – vengono rifiutati da molti nell’ex colonia britannica, che solo il primo luglio scorso ha ricordato i 15 anni del ritorno alla madrepatria cinese ma guarda con timore ai prossimi 35 anni. Anni che secondo gli accordi tra l’antico potere coloniale e Pechino non avrebbero dovuto portare sostanziali cambiamenti nella vita del sovraffollato territorio affacciato sul Mare cinese meridionale. Invece… «Hong Kong è per Pechino una Regione speciale in termini economici, ma finge di ignorare che lo è anche sul piano politico e civile. Finisce così che le richieste democratiche sono ignorate da Pechino e le libertà residue vengono costantemente erose, a partire da quella di manifestazione, stampa ed espressione», conferma Cheuk Yan Lee, politico dell’opposizione.
    La battaglia della Chiesa locale
    Minacciata è anche l’educazione indipendente da sistemi e ideologie. Un fronte su cui da anni si batte anche la Chiesa locale, attiva e forte nell’ex colonia ma cosciente delle sofferenze della Chiesa sorella nella Repubblica popolare cinese e che qui si ritrova in prima fila nel contrastare l’offensiva di Pechino sul piano educativo. In un contesto che, come sottolinea Anthony Lam, studioso della Chiesa cinese e attivo nella difesa dei diritti civili, «va peggiorando, perché le autorità attuano misure per cercare di limitare i diritti della popolazione, a partire dalla libertà d’informazione e d’istruzione. Le istituzioni e la polizia locali vanno adeguandosi a un governo locale la cui mentalità si fa sempre più repressiva sotto la pressione di Pechino». Scontrandosi però con una società civile forte e attiva, con un benessere acquisito ma anche con istituzioni e metodi che ancora oggi garantiscono alla Regione amministrativa speciale di Hong Kong il primo posto al mondo per libertà d’impresa e un concreto benessere.
    Recenti sondaggi hanno mostrato una sfiducia sempre maggiore degli abitanti di Hong Kong verso la Repubblica popolare cinese, da qui la crescita del movimento di protesta. La marcia del primo luglio di quasi 100 mila cittadini lo ha dimostrato, come pure lo stillicidio di manifestazioni, sit-in, petizioni, richieste degli ultimi mesi. Le nuove regole che si vorrebbero imporre sull’istruzione sono un elemento catalizzatore, in quanto non vengono solo a minacciare quanto acquisito, ma ancor più educazione e libertà dei futuri cittadini, incentivando quindi un movimento di opinione e di piazza che si inserisce in quello che da anni cerca di opporsi a drastici cambiamenti nella gestione degli istituti scolastici pubblici (circa 850), la cui operatività è tradizionalmente affidata a istituzioni (tra queste anche la Chiesa cattolica) che ne garantiscono – in cambio di un’ampia autonomia gestionale – continuità di indirizzo e valore in accordo con le direttive ufficiali.
    L’erosione dei diritti
    I valori cristiani coincidono con quelli dell’opposizione politica e di buona parte della società civile, che cerca di opporsi alla regolamentazione dall’alto del mercato del lavoro, come all’erosione dei diritti umani e delle libertà civili. Ancora nell’ottobre dello scorso anno, l’ottantenne cardinale Zen Ze-kiung, fino al 2009 arcivescovo locale, ha attuato uno sciopero della fame di tre giorni per rafforzare la sua opposizione alla pressione governativa (e cinese) sulla scuola. Lo stesso papa Benedetto XVI, ricevendo nel 2008 i vescovi di Hong Kong e di Macau nella loro visita ad limina, aveva ricordato, a proposito delle scuole cattoliche, «il loro importante contributo alla formazione intellettuale, spirituale e morale delle nuove generazioni» ed espresso il suo sostegno a quanti sono impegnati nel compito educativo alle prese con “nuove difficoltà”. Fondata nel 1841, la Chiesa cattolica locale ha avuto fin dall’inizio l’istruzione tra le sue priorità. Oggi sono 276 gli istituti ad essa affidati, frequentati da oltre 200 mila studenti. In stragrande maggioranza non-cattolici.
    La chiamano educazione civica, ma è l

    La miracolosa ciocca di capelli di Rolando Rivi, il seminarista ucciso dai partigiani comunisti
    Daniele Ciacci
    A breve la ripubblicazione de “Il sangue e l’amore”, la storia del giovane martire Rolando Rivi alla luce di nuovi importanti documenti. Tempi.it intervista l’autore, Emilio Bonicelli.
    Il 13 aprile 1945, in un bosco dell’Emilia, fu trovato il corpo freddo e tumefatto di Rolando Rivi, giovane seminarista freddato da mano partigiana per odio alla fede. E mentre si discute sulla sua beatificazione, a breve, in libreria, sarà ripubblicato Il sangue e l’amore (Jaca Book), un romanzo di Emilio Bonicelli, giornalista e scrittore, che ha ricercato documenti storici per risalire ai particolari della tragica morte di Rolando. Tempi.it ne discute proprio con l’autore.
    Perché una riedizione de Il sangue e l’amore?
    L’edizione precedente era completamente esaurita – e la cosa non può che farmi piacere –. Continua a esserci una richiesta crescente di conoscere questo seminarista martire, ucciso a soli 14 anni. Avevo scritto di Rolando non appena conosciuta la sua figura, in circostanze apparentemente casuali. Sono rimasto folgorato dalla storia di questo piccolo ragazzo, profondamente innamorato di Gesù e trasformato da questo amore, su cui aveva progettato la sua intera esistenza. E per tale amore è stato sequestrato, torturato e ucciso da uomini accecati dall’ideologia. Quando ho “incontrato” Rolando vivevo una vicenda personale molto difficile. Ero da poco tornato al lavoro dopo una lunga convalescenza seguita a un trapianto di midollo osseo per curare una leucemia. Allo stesso modo, un bambino inglese era guarito dal questo cancro ma attraverso una Grazia. Sotto il suo cuscino, un amico aveva posto una ciocca di capelli di Rolando, intriso del sangue del martirio.
    Come ha fatto una ciocca di capelli di Rolando Rivi a finire in Inghilterra?
    Un giovane di origine indiana, che aveva studiato a Roma e completato i suoi studi in Inghilterra, dove guidava un gruppo di preghiera, era stato accolto da una famiglia di amici protestanti. Rimase colpito da un articolo dell’Osservatore romano, che parlava proprio di Rolando. Il giovane si mise in contatto con padre Colusso, parroco di San Valentino dove Rolando è sepolto e venerato. Il figlio più piccolo di quegli amici protestanti si era ammalato di leucemia e il giovane chiese al prete una reliquia per poter chiedere l’intercessione di Rolando. Padre Colusso gli spedì la ciocca di capelli. Al termine di una novena di preghiera, il bambino stava bene.
    Come ha conosciuta questa vicenda?
    Ho letto casualmente un lancio di agenzia che, per la vicenda che avevo vissuto, non poteva non colpirmi. Ma le notizie su Rolando erano scarne perché attorno alla sua figura vigeva un sorta di tabù da quasi sessant’anni.
    Quale tabù?
    Il nostro piccolo martire è un grandissimo tesoro della fede, ma era scomodo parlare di lui. In una realtà come la nostra, il potere costituito è stato in gran parte legato al partito comunista e a una certa lettura a senso unico dei fatti storici. Oggi molte cose sono cambiate, ma fino a poco tempo fa era quasi impossibile citare certi eventi che scardinavano una lettura “politicamente corretta” della Resistenza.
    Ma lei voleva farlo conoscere…
    Già. Sono partito dai pochi elementi reali conosciuti allora, e da lì ho raccontato due storie. Quella di Rolando, a mo’ di romanzo storico, e una storia, quella di Marta, ispirata alla Grazia prima descrittala. Sono storie parallele a capitoli alterni, apparentemente lontane tra loro, ma che si intrecciano alla fine, svelando la contemporaneità di Cristo nei testimoni della fede.
    E il risultato?
    Quando presentammo la prima edizione del libro la sala degli specchi del teatro della mia città, Reggio Emilia, si riempì di popolo. Capimmo che nel cuore della gente era rimasto il ricordo di Rolando, la fama della sua santità, anche se ancora non si poteva proclamare sulle piazze. Era un segno. Con gli amici che avevano organizzato quel convegno decidemmo di andare avanti. Così ha avuto inizio il cammino della causa di beatificazione, che è iniziata nel 2006. La fase diocesana si è chiusa nello stesso anno e ora siamo in attesa del giudizio ultimo e definitivo che dovrà essere espresso dalla Congregazione per le cause dei Santi di Roma. Prego e spero che presto Rolando possa salire all’onore degli altari per la straordinaria bellezza della sua testimonianza di fede e di amore a Gesù, sino al dono della vita.
    Il libro, quindi, è a tutti gli effetti un romanzo storico, non di invenzione?
    La nuova edizione del libro è stata in gran parte riscritta per essere sempre più aderente ai fatti accaduti, così come ho potuto ricostruirli in questi anni grazie a un lavoro di ricerca storica e al dialogo con i protagonisti dell’epoca. Anche la copertina è cambiata. Ora c’è il volto di Rolando, dolcissimo e forte, perché abbiamo ritrovato l’originale della foto che gli era stata scattata poche settimane prima del martirio. Il racconto, poi, ricostruisce con più aderenza il clima della guerra partigiana nella nostra terra emiliana, nel triangolo della morte. Non c’è stata alcuna volontà di revisionismo ma solo il desiderio di illuminare la verità dei fatti.
    E cosa ha scoperto?
    Spesso, ancora oggi, si sente dire che la resistenza partigiana aveva un solo colore politico e un’unica voce. Non è così. La resistenza ha avuto più volti nel nostro paese, e nella sua grandezza ha vissuto tutti i problemi legati all’irrompere, al suo interno, dell’ideologia comunista. Il movimento di resistenza a Reggio Emilia, ad esempio, nacque dentro una parrocchia, il primo comandante era un sacerdote: don Domenico Orlandini



    e il movimento aveva un carattere unitario. In molte formazioni, però, a un certo punto, iniziò un’opera di indottrinamento politico per mano del Partito Comunista, che cercava l’egemonia e organizzava nelle formazioni vere cellule di partito. Questo fatto portò a una inevitabile divisione: le brigate garibaldine, comuniste, da una parte, e le fiamme verdi, cattoliche, dall’altra, e ben diverso era il modo con cui le une e le altre concepivano e vivevano la guerra di liberazione. Chi sparò a Rolando fu il commissario politico di una formazione garibaldina. Il commissario politico, cioè la persona incaricata di indottrinare gli altri all’ideologia comunista. La motivazione data fu “domani un prete di meno”. La lotta partigiana, per alcuni, era diventata cioè l’inizio della rivoluzione proletaria per affermare nel nostro Paese la dittatura del proletariato in cui non ci sarebbe stato posto per la testimonianza pubblica della fede cristiana. Le epurazioni, come sappiamo, continuarono ben oltre la fine della guerra fino all’assassinio di don Pessina, nel giugno del 1946.
    La resistenza partigiana non aveva delle regole a riguardo?
    L’assassinio era proibito: esistevano dei tribunali che giudicavano le colpe e dichiaravano le condanne. Vicino al luogo del martirio di Rolando, c’era il tribunale partigiano di Farneta. Ma Rolando non ci fu mai portato. Tutto quello che fu fatto contro Rolando, il sequestro, le brutali torture, l’uccisione, fu fatto in violazione delle regole della guerra partigiana e fu motivato dall’odio contro la sua testimonianza di fede. Un odio provocato dall’ideologia comunista.
    Lei parla di un diverso modo di vivere la guerra partigiana. Ci può fare un esempio?
    Nel libro parlo del comandante Valerio, figura ispirata a Pasquale Marconi, medico cattolico, comandante delle Fiamme Verdi.



    Marconi si opponeva alle epurazioni e alle uccisioni sommarie. Per questo il comandante dei garibaldini gli diceva di stare attento perché: “Quando vinceremo, faremo piazza pulita dei figuri come te”, ma Marconi rispondeva: «Le assicuro che, quando vinceremo noi, e affermeremo la democrazia, non faremo piazza pulita dei figuri come lei, ma consentiremo loro di continuare a calunniarci e ingiuriarci in libertà».
    «Piazza pulita». Come Rolando.
    Rolando era un seminarista dalla vocazione sincera. Entrò undicenne in seminario, affascinato dall’umanità di don Olimpo Mazzucchi, parroco di San Valentino, grande educatore, appassionato al destino della gente, attento alle cose che contano. Nel 1944 il seminario fu occupato dai tedeschi in ritirata. Rolando, tornato a casa, proseguì la sua vita da seminarista, vestendo sempre l’abito talare, come segno della sua appartenenza a Gesù. Sapeva che correva un pericolo, ma non si tirò indietro. Pochi mesi prima anche Don Olinto era stato brutalmente picchiato.
    Perché Rolando fu preso di mira?
    Per la sua irriducibile identità cristiana e per la sua instancabile testimonianza che attirava gli altri ragazzi all’esperienza della fede. Era Rolando che organizzava i giochi e poi invitava tutti in chiesa. Era un fatto inammissibile per chi voleva cancellare Cristo dall’orizzonte dell’uomo.
    "Il sangue e l'amore". La storia di Rolando Rivi | Tempi.it


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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    Se lo spietato dittatore coreano resta «sarzanese ad honorem»
    Il consiglio comunale di Sarzana conferma la cittadinanza a Kim Il Sung, defunto despota comunista della Corea del Nord
    Ferruccio Repetti -
    Va be’ che,come diceva il buon Giovanni Giolitti, «un sigaro e una croce di cavaliere non si negano a nessuno».
    Ma Sarzana, la rossa - rimasta, nella stragrande maggioranza, comunista dura, pura e incrollabile anche dopo il crollo del Muro di Berlino e dell’ideologia ridotta alla berlina - , Sarzana, dunque, è andata ancora più in là. Arrivando al punto di conferire e poi di confermare, la settimana scorsa, la cittadinanza onoraria all’ex dittatore coreano Kim Il Sung. Come dire: l’uomo politico-un po’ azzardato definirlo statista - che, al vertice del partito comunista e della Corea del Nord fra la metà degli anni ’40 e il 1994, data della morte, si è guadagnato l’8˚posto nella classifica dei despoti piùsanguinari della Storia. Un 8˚ posto meritatissimo, dal punto di vista dell’eliminazione fisica, con strategia scientifica, di almeno 1 milione e 600mila persone colpevoli di non pensarla come lui. Tutte persone finite nelle putride galere coreane e infine uccise o lasciate morire di stenti, per aver chiesto di non essere sfruttate, umiliate, affamate dal potere assoluto del «Grande Leader » che vantava pure capacità soprannaturali. Si tratta di quello stesso Kim Il Sung che, nel frattempo, viveva, lui, i familiari e la stretta cerchia di dignitari ruffiani e genuflessi, nel lusso più sfrenato, e pretendeva di rivaleggiare con le grandi potenze, tenendo i confratelli della Corea del Sud e il resto del mondo sotto la minaccia di una guerra.
    È a questo bel personaggio che, la sera del 12 novembre 1981, una ventina di consiglieri comunali di Sarzana, di vari gruppi politici, Pci,Psi,Dc e indipendenti, decisero di attribuire la cittadinanza onoraria, «in segno di fratellanza e amicizia tra la nostra città e il popolo coreano». Carta canta, nel senso del verbale della seduta in cui si leggono i nomi del sindaco Francesco Baudone e degli altri membri dell’assemblea favorevoli (fra cui gli allora giovani e rampanti Renzo Guccinelli e Lorenzo Forcieri, destinati a brillanti carriere, i quali - ne siamo certi - non mancheranno ora di prendere le distanze da quel macroscopico peccato di gioventù, imposto dalla fede cieca e assoluta nel centralismo democratico).
    Passano gli anni, 31 per la precisione, ma per Sarzana la rossa è come se fossimo ancora ai tempi del «Piccolo Padre» Stalin o del «Grande Timoniere» Mao. Si dà il caso che un consigliere del Pdl nel parlamentino lo*cale, Andrea Camaiora, che già aveva sollevato la questione nel 2006, ora torni alla carica:«Cancelliamo questa brutta pagina di storia cittadina, togliamo la cittadi*nanza a Kim Il Sung ». La proposta è spalleggiata dal collega Carlo Rampi e pure dal leghista Spartaco Bagnone.
    Apriti cielo! Il presidente del consiglio comunale Paolo Mione si oppone con una motivazione degna delle migliori acrobazie dialettiche: «È una pagina dimenticata, caduta nell’oblìo». Insomma, non se ne parla proprio. Si va alla conta, che con i voti del Pd e del dipietrista Massimo Forcieri (astenuti Sel e Udc) conferma la gratificazione al dittatore, al «Grande Leader», al taumaturgo, al guaritore, al divino Kim Il Sung, e chi più ne ha più ne metta. Va a finire che dobbiamo dar ragione a chi dice: il comunismo è morto, ma i comunisti sopravvivono. E continuano - da veri comunisti- a non capire niente della Storia.
    Se lo spietato dittatore coreano resta «sarzanese ad honorem» - IlGiornale.it


    COMPAGNO, DILLO AL CAUDILLO - I RIFONDAROLI NOSTRANI, SPARITI DALLA SCENA POLITICA, GODONO CON GLI ORGASMI ALTRUI - DA RIZZO A BERTINIGHTS, È TUTTO UN BRODO DI LODI PER IL DITTATORE VENEZUELANO “AMICO DEL POPOLO” - NICHI DA BRIVIDI PER I CATTO-PIDDINI: “AL NETTO DI ERRORI, COME L'AMICIZIA CON L'IRAN E QUALCHE TENTAZIONE LUCIFERINA, CHÁVEZ È PROTAGONISTA DI UNA LOTTA CONTRO LA POVERTÀ”
    Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera"
    Alle quattro del pomeriggio, Fausto Bertinotti sa tutto, ha letto tutto, ha visto tutto (del resto, a quest'ora, molti altri personaggi di una certa sinistra italiana sono pronti a valutare e festeggiare l'ennesimo successo elettorale di Hugo Chávez: Nichi Vendola sta filando in macchina verso Bari, ci sono gallerie, il cellulare non prende, «ma se mi richiama tra un po', le faccio un bel ragionamento»).
    Bertinotti - ex líder máximo rifondarolo ed ex presidente della Camera - è a casa. «Vuol sapere se sono sorpreso della vittoria di Chávez? No, io non avevo alcun dubbio che sarebbe finita così». Un ottimismo, il suo, non scontato.
    «Ma no, al contrario... Vede, Chávez ha vinto ormai troppe elezioni, e le ha vinte tutte democraticamente: e questo sa cosa significa? Che il suo successo ha basi solide, che siamo ben oltre forme di carisma, siamo al di là dell'estemporaneità...».
    Basi solide. Con qualche crepa di scarsa democrazia.
    «Ecco! Con che spocchia, mi chiedo, noi che in Italia e in Europa viviamo davvero nella costante sospensione della democrazia, ci permettiamo di criticare... Sì, lì ci sono dei limiti, è vero: ma noi, da qui, noi davvero possiamo dare lezioni di democrazia a Chávez? Io mi soffermerei su altro».
    Per esempio?
    «Sul modello di welfare creato da Chávez. Un modello che si può discutere, che passa dalle case date ai poveri e arriva a una politica forse troppo assistenzialista: ma che ha la forza di essere stato creato addosso a quel Paese, tagliato su misura come un sarto taglia un vestito. Non sfuggirà anche ai più tenaci nemici di Chávez che il Venezuela è il paese sudamericano dove minore è la distanza tra poveri e ricchi».
    Mezz'ora dopo, Nichi Vendola - presidente della Regione Puglia, gran capo di Sel e candidato alle primarie del Pd - usa toni anche più enfatici di Bertinotti. Sentite.
    «Al netto di errori, anche grossi, come l'amicizia con l'Iran e qualche altra tentazione luciferina, al netto di tutto questo Chávez resta l'artefice, il protagonista d'una sperimentazione concreta di lotta contro la povertà».
    Meglio sarebbe se certe sperimentazioni avvenissero in un'atmosfera di concreta libertà.
    «Guardi, noi non dobbiamo più cercare tipi o idealtipi...» (a Vendola, quando s'appassiona, e capita di frequente, scappano termini complessi ed eleganti).
    Tipi o idealtipi che... prosegua...
    «Beh, sì, insomma: che ci compensino della rivoluzione smarrita... Quindi, come è chiaro che sul tema delle libertà civili non possiamo fare sconti a nessuno, è altrettanto chiaro che, per un'altra volta ancora, Chávez esce vincitore dal responso delle urne grazie anche ad una straordinaria mobilitazione delle fasce più povere».
    Una mobilitazione che, secondo alcuni osservatori, non sarebbe stata del tutto spontanea. «Senta: io non ho il mito di Chávez, però ho una profonda simpatia per quel laboratorio chiamato "rivoluzione bolivariana", un'esperienza che ha fatto invecchiare la stella di Cuba, perché Chávez, questa è la profonda verità, riesce dove Fidel ha fallito».
    I suoi discorsi faranno sobbalzare molti nel Pd.
    «Ah ah ah! Sì sì, certo, immagino... e allora le aggiungo pure che dal Sudamerica arriva una bella lezione anche per la sinistra italiana: perché lì non ci si misura con le biografie dei protagonisti politici, ma con i problemi reali della gente».
    Riepilogando: nient'affatto feriti da certe importanti delusioni tropicali del passato (da Fidel Castro ai sandinisti di Daniel Ortega) gli esponenti della sinistra italiana più radicale ora si coccolano Chávez «el mago de las emociones», come lo definì - in un pamphlet - lo psichiatra e antropologo Luis José Uzcategui.





    Fratelli Cervi, il mito oscura la storia
    Il romanzo di Dario Fertilio ripropone il dubbio: le icone della lotta antifascista immolate sull'altare del Partito Comunista?
    Mario Cervi
    Con rispetto e ammirazione ma senza condizionamenti Dario Fertilio si china a ripercorrere la tragedia dei fratelli Cervi: arrestati dai fascisti, nella loro casa colonica, il 25 novembre 1943 e fucilati dopo torture nel poligono di tiro di Reggio Emilia, il 28 dicembre successivo.
    I sette fratelli Cervi
    Vicenda che ha avuto una eco immensa anche perché contrassegnata, come è stato rilevato, da un numero epico e leggendario. Sette i fratelli martiri come i Sette samurai di Akira Kurosawa, come i sette figli di Niobe, come i sette fratelli di Andromaca, come le porte di Tebe. Fu lasciato vivo, oltre alle donne, solo il capostipite Alcide che trascinò il suo immenso dolore fino al 1970.A questo libro, che s'intitola L'ultima notte dei fratelli Cervi. Un giallo nel triangolo della morte (Marsilio, pagg. 254, euro 17), Fertilio ha voluto dare la qualifica di romanzo. E lo è per la presenza d'un personaggio di fantasia, il partigiano «Archimede», il quale della strage diventa narratore e dei suoi segreti custode. Ma i fatti sono autentici, i dubbi sono angosciosi. Se n'è ben reso conto lo stesso Fertilio, interrogandosi sull'opportunità di riscoprire un mito senza intaccarne l'eroismo ma liberandolo da indebite sovrastrutture ideologiche. «Fino a che punto - la domanda viene da Fertilio - è legittimo imboccare vie differenti, ipotesi suggestive, percorsi alternativi alla narrazione consolidata di un mito?».
    Fertilio propone molti interrogativi. Sulla utilizzazione - non voglio scrivere manipolazione - cui il mito fu assoggettato con raffinata abilità dal Pci, sull'ipotesi, di sicuro non campata in aria, che nella notte prima della cattura i Cervi abbiano vagato in cerca d'uno di quei rifugi clandestini che il partito aveva approntato - le cosiddette case di latitanza - e che si siano trovati davanti a porte sbarrate, tanto da tornare, rassegnati, alla loro cascina. Respinti, si suppone, perché troppo indipendenti (addirittura in sentore d'anarchia), e perché riluttanti a spargere sangue. Intrecciate ai dubbi sono in queste pagine storie di fascisti che diventano cospiratori comunisti, che forse hanno tradito i Cervi, che a guerra finita riuscirono a occupare posizioni importanti nel Pci locale. Diversamente da altri eccidi d'allora, questo riguarda esclusivamente gli italiani. Italiane le vittime, italiani i fucilatori, italiani i delatori.
    I Cervi - del ceppo emiliano come l'attore Gino, dal ceppo cremonese veniva invece la mia famiglia - furono messi a morte per rappresaglia. Un commando dei gap aveva ucciso un gerarchetto, il segretario comunale di Bagnolo Vincenzo Onfiani, e la furia fascista s'era scatenata. L'utilità delle rappresaglie l'aveva spiegata bene uno dei Gap, ad Archimede: «“A noi serve, assolutamente serve, colpire il nemico e le sue spie per spingerlo alle rappresaglie”. “Ma le rappresaglie (obiezione di Archimede, ndr) fanno fuori gli innocenti”. ”Bravo. Loro fanno fuori gli innocenti. E sai che cosa pensa la gente dei fascisti che fanno fuori gli innocenti? Pensa che siano bestie, come infatti sono. E più la gente ci pensa più si allontana da loro. Proprio quello che noi vogliamo. Le rappresaglie sono utili alla causa”».
    Nelle pagine che precedono il romanzo vero e proprio Dario Fertilio riassume con grande efficacia il percorso che il «mito» dei fratelli Cervi ha compiuto, diventando granitico non unicamente nell'essenza, che granitica è, ma anche nel ruolo del partito. Si capisce quale. I Cervi erano comunisti. Credevano nel ruolo salvifico dell'Urss, auspicavano - da contadini autodidatti - un futuro in cui quel tipo di mirabile società fosse realizzato anche in Italia. Alcide Cervi ha firmato un bellissimo libro di memorie, I miei sette figli, che in realtà fu scritto da Renato Nicolai, scrittore e sceneggiatore, e rivisto da Italo Calvino. Divenne, e lo meritava, un bestseller. Vi erano coniate frasi di raffinata solennità. «L'unico modo per non avere padroni cattivi è non avere padroni». Alla vecchia quercia Alcide furono conferite dalla dirigenza sovietica medaglie per la «guerra patriottica». Un film con Gian Maria Volonté completò la risonanza popolare e culturale del sacrificio dei Cervi. Nella tragedia Palmiro Togliatti aveva, come si dice volgarmente, inzuppato il pane. I Cervi diventarono simbolo d'una fede che aveva la sua casa madre a Mosca. Ma nella casa madre c'erano stati cambiamenti. Con un procedimento orwelliano in gran voga per l'enciclopedia sovietica le memorie di papà Cervi furono nelle ristampe aggiornate e adeguate al mutare del contesto politico. «Furono eliminati tutti i riferimenti aperti all'Unione Sovietica e all'opera benefica di Stalin, quelli che in prima edizione avevano fatto della cascina Cervi un kolkoz. Modificando per pennellate successive il ritratto di famiglia comunista si ottenne un album narrativo più sfumato, “democratico”, cancellando i riferimenti ideologici filosovietici, moltiplicando le presenze tutelari dei riformisti Andrea Costa e Camillo Prampolini», annota Fertilio. Il «giallo» di cui al sottotitolo del libro riguarda soprattutto un'ambigua figura, quella di Riccardo Cocconi, oscillante tra fascismo e comunismo. Secondo un signor X e secondo i fratelli Giorgio e Paolo Pisanò, all'origine della cattura dei sette vi sarebbe stata la delazione d'un infiltrato doppiogiochista. I miti, come le statue, sono esposti all'oltraggio dello sterco.
    Fratelli Cervi, il mito oscura la storia - IlGiornale.it

    ELA&C.
    Rino Cammilleri
    Un lettore mi ha chiesto di dedicare un Antidoto all’articolo comparso (in traduzione) l’11 maggio 2012 sul “Fatto” e dedicato a descrivere (meglio: a insinuare) le complicità vaticane con i fatti dei “desaparecidos” argentini al tempo del presidente Jorge Videla. L’articolo è sconclusionato e basato su una testimonianza inverificabile. Dal complesso risulta contraddittorio, perché prima parla di complicità e poi dell’”irrilevanza” della Chiesa in Argentina. Ma, se ci avete fatto caso, in questo blog non perdo tempo a confutare quel che appare su fogli schierati ideologicamente a sinistra: la propaganda demonizzante l’hanno inventata loro e vi sono maestri (anche perché non hanno altro).
    Il sinistrismo è solo una perfetta macchina per prendere il potere. Ottenuto il quale, non sa che farne e instaura il solito, vecchio giacobinismo fatto di povertà diffusa, repressione a tutti i livelli, propaganda ossessiva e nomenklatura. Da sempre, i “sinistri” hanno fatto di mestiere il giornalista (Marat, Proudhomme, Mazzini, Marx, Lenin…). O il regista, il comico, il cantante…
    La propaganda è il loro pane e l’unica loro ragione di vita, per la quale sono disposti a sacrificarsi e morire (dopo aver sacrificato e impiccato gli altri). Ci vuole il tempo pieno per ribattere, rintuzzare punto su punto, querelare se del caso, procurarsi una scorta armata per difendersi dai loro picchiatori. Il Vaticano ha tutto questo: lo usi. I laici di buona volontà hanno dato e danno. Ma i più esperienti (tra cui chi scrive) sanno benissimo che, in caso di guai, verranno lasciati soli.
    Perciò, l’articolo di cui sopra è stato sicuramente letto da chi di dovere: provveda, se vuole. Questo lo dico per tutti quei lettori che mi segnalano articoli sperando che io controbatta ogni volta, come fa Paolo Granzotto sul “Giornale”. Solo che lui è pagato, e bene, per farlo, e ha a disposizione gli avvocati dell’editore. Io no.
    Antidoti contro i veleni della cultura contemporanea

    La storia parla chiaro: Carrillo era un europeo, ma pur sempre comunista
    Claudio Siniscalchi
    Chi è stato Santiago Carrillo, avventuroso uomo politico spagnolo, morto quasi centenario il 18 settembre a Madrid? Vediamo cosa dicono i moderni strumenti della comunicazione. Apriamo il computer, e colleghiamoci con Google. Troviamo un articolo del «Corriere della Sera» e uno di «la Repubblica». Dunque i più diffusi quotidiani italiani. Da «la Repubblica» apprendiamo che Carrillo è stato segretario del partito comunista spagnolo dal 1960 al 1982. Poi una biografia striminzita.
    Nel dopoguerra, leggiamo, adottò una «politica moderata e riformista, che gli fece seguire il segretario del partito comunista italiano Enrico Berlinguer e quello del partito comunista francese Georges Marchais nell’adesione a quello che venne chiamato “eurocomunismo”», adesione che «gli costò l’espulsione dal Pce nel 1985». Passiamo al «Corriere». C’è poco di più. La biografia è riassunta in tre foto esemplari della sua vita. Povera di informazione è anche la voce italiana di Wikipedia. Più ricco di spunti è un lungo resoconto di «The Guardian» (ma bisogna conoscere l’inglese). E, soprattutto, la voce spagnola di Wikipedia (ma bisogna conoscere lo spagnolo). Da lì apprendiamo che sulla figura di Santiago Carrillo pesano le ombre della guerra civile, combattuta dalla parte dei repubblicani, in stretto collegamento con i sovietici agli ordini di Stalin. Su Carrillo pesano varie responsabilità, tra cui - la più grave e gravida di sangue - della fucilazione di massa, senza troppi riguardi e senza processi o prove concrete, di migliaia di prigionieri, falangisti, simpatizzanti di Franco, religiosi, borghesi.
    Santiago Carrillo nella difesa di Madrid aveva un ruolo di primo piano. Quando fu chiaro che Franco stava per entrare nella città, la “pulizia ideologica” divenne spietata. È impossibile, sul piano storico, negare le sue responsabilità nella mattanza. Naturalmente i tempi erano drammatici, e le “guerre civili” assumono fisionomie più drammatiche di qualsiasi altro conflitto. Ma nella notte oscura in cui è caduto il comunismo (con i sui immensi crimini) nella memoria delle occidentali, perché stare a perdere tempo nel ricordare un dettaglio insignificante, che magari interessa soltanto gli spagnoli (e magari anche gli spagnoli non hanno nessuna voglia di ricordarlo)? Sorvoliamo allora sui crimini, che restano e resteranno. Soffermiamoci su un altro aspetto della biografia di Carrillo, non macchiato dal sangue: l’eurocomunismo. Il «Corriere» parla della scelta di Carrillo di aderire ad un progetto «europeista del comunismo occidentale guidato dall’amico italiano Enrico Berlinguer».
    Ricordiamo cosa è stato l’eurocomunismo. Il 3 marzo 1977 a Madrid si ritrovano Enrico Berlinguer e Georges Marchais, ospiti di Santiago Carrillo. Sono i rispettivi leaders dei partiti comunisti italiano, francese e spagnolo, i più forti e autorevoli dell’Europa occidentale. L’incontro di Madrid serve per lanciare una nuova formula politica: l’eurocomunismo. Berlinguer è sicuro che il Pci sia giunto alle soglie del potere. Nel 1976 alle lezioni politiche ha riportato una confortante vittoria. La Dc raggiunge il 38,9%, il Pci il 33,8%. Indro Montanelli ha invitato gli italiani, nella cabina elettorale, al fine di evitare il sorpasso, di turarsi il naso e votare Dc, con la sola accortezza di usare con intelligenza le preferenze. E gli italiani l’hanno ascoltato. Aldo Moro, l’interlocutore democristiano privilegiato da Berlinguer, sta lavorando alla strategia di coinvolgimento nelle responsabilità governative dei comunisti. In cambio di un appoggio esterno al nuovo governo, il terzo, di Giulio Andreotti, il Pci ottiene la presidenza della Camera per Pietro Ingrao. È solo il primo atto per passare dal governo delle “astensioni” ad un vero e proprio governo di “solidarietà nazionale”. Berlinguer deve però trovare una veste nuova al Pci.
    La fiducia internazionale è scarsissima, e gli americani non guardano favorevolmente il “compromesso storico”. Il settimanale «Time» ha messo in copertina Berlinguer con questo titolo: «minaccia rossa». Berlinguer trova la formula magica dell’eurocomunismo. Lo schema di fondo ideologico è la riforma del comunismo, che deve rianimarsi all’interno dell’Europa. Berlinguer da un po’ di tempo era alla ricerca di uno schema nuovo per collocare il Pci nell’area governativa italiana. Berlinguer era cosciente che lo strettissimo legame del Pci con Mosca, voluto da Togliatti e dalla classe dirigente stalinista, non reggeva più. Occorreva pertanto fare qualcosa. L’eurocomunismo sembrò la medicina adatta. Ma Berlinguer fallì. Partendo da premesse giuste, attuò una strategia sbagliata. Era intenzionato a riformare il comunismo, e l’esempio italiano avrebbe dovuto servire da modello per tutti i partiti dell’Europa occidentale. Non riuscì nell’impresa poiché, pur avvertendo il declino del comunismo, la spinta trasformatrice non doveva confluire, come sarebbe stato logico, nella tradizione socialdemocratica, ma sempre in quella comunista. Sulla lungimiranza eurocomunista di Enrico Berlinguer verrà costruita una vera e propria “mitologia berlingueriana”, dovuta soprattutto alla pubblicistica di alcuni suoi “ragazzi”: Massimo D’Alema, Waler Veltroni, Pietro Folena, Gavino Angius e Achille Occhetto. Ma nessuno sarà capace di fare davvero i conti con l’eurocomunismo, cioè con l’impossibilità di riformare il comunismo. Lo storico del Pci Giuseppe Vacca, arrampicandosi sugli specchi, ha sostenuto la tesi dell’eurocomunismo quale nuovo modello di socialismo. In realtà Berlinguer pensò sempre ad un nuovo modello di comunismo. Il leader del Pci, pur attenuando lo spirito polemico, rimase anticapitalista, antiamericano e incapace di evolversi verso le socialdemocrazie europee e diffidente ad ogni forma di liberalismo.
    Per il Pci l’eurocomunismo fu un treno perso e l’inizio della fine. Potevano arrivare alla Bolognina trent’anni prima. Ma non ne furono culturalmente e politicamente capaci. Nello stesso 1977, a dicembre, alla Biennale di Venezia venne organizzata una coraggiosa mostra sul dissenso nei regimi dell’Est. Si parlava di arte, letteratura, cinema e naturalmente di libertà di espressione. Berlinguer non gradì quell’iniziativa, e si adoperò molto per ostacolarla. Innanzitutto perché messa in piedi da un ex-comunista, divenuto socialista, Carlo Ripa di Meana. Ma in realtà perché una tematica del genere usciva fuori dalla sua mentalità. La mentalità di un eurocomunista. Europeo: ma pur sempre comunista. E lo stesso si può dire dell’avventurosa e lunga esistenza di Santiago Carrillo: un europeo, ma pur sempre comunista. E dimenticarlo, per Berlinguer come per Carillo, significa travisare il senso della storia. Scambiare la storia del comunismo con quella del socialismo ormai non ha più senso.




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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    OCCHIO BELLOCCHIO, DENTE PER DENTE - GLI INTOCCABILI “RADICAL CHOC”, DA VECCHIONI A BELLOCCHIO, CIANCIANO DI LIBERTÀ E DEMOCRAZIA MA SE NE METTI A NUDO LE MAGAGNE S’INCAZZANO COME LE IENE E NON RISPONDONO ALLE DOMANDE - ALLA CASA DEL CINEMA A ROMA, IL REGISTA “CON I PUGNI IN TASCA” CON LA SMORFIA DI DISGUSTO, METTE ALL’INDICE DAGOSPIA CHE HA RACCONTATO DEL SUO FILM PRESO A SCHIAFFI DAI GIURATI E AL BOX OFFICE - PROSSIMO FILM: “LE PUGNETTE IN TASCA”…
    Francesco Persili per Dagospia
    Eccone un altro. Dopo il gran rifiuto di Roberto Vecchioni, anche il regista Marco Bellocchio, un'altra anima bella dei sinistrati, si rifiuta di parlare con Dagospia: «Non ho fiducia in voi...» Pugni in tasca, scomunica in bella vista. Ormai si può parlare di una (de) generazione di Intoccabili "radical choc" che in pubblico discettano di libertà e democrazia, e poi, in privato si abbandonano a vizi e vezzi da "maestri unici" del Verbo scansando testate (e domande) scomode.
    E pensare che durante il dialogo con Marco Travaglio intorno al tema «Follia e Potere» andato in scena alla Casa del Cinema di Villa Borghese, Bellocchio aveva concionato a lungo sulle contraddizioni della politica. Davvero curioso, il regista engagè, tutto impegno civile, rigore morale, coerenza di principi e laicità (che è prima di tutto un metodo: di confronto, apertura, ricerca e dubbio), non accetta di mettere in discussione le proprie idee.
    Altro che Discutiamo, discutiamo, episodio finale del sessantottardo Amore e rabbia, nel compagno Bellocchio sembra prevalere il dogmatismo della sua militanza maoista. Da Servire il popolo a "servire il due di picche" a Dagospia, con tanti saluti al rottamatore cinematografico delle consuetudini borghesi pre-Sessantotto.
    Il regista che fu rivoluzionario aveva già mostrato in merito alle polemiche sul film "La bella addormentata" non premiato al festival del cinema di Venezia una certa vocazione all'autoreferenzialità dichiarando come non possano essere gli americani e gli inglesi a dirci cosa possiamo raccontare con il nostro cinema. Loro no, il pubblico che ha disertato in massa le sale, potrebbe aiutare, invece, aiutare a capire un po' di più.
    L'atteggiamento di chi indurisce la mascella e bofonchia di non accettare lezioni di cinema assomiglia troppo agli alti lai della gauche novecentesca portata a giustificare le proprie sconfitte con l'invocazione auto-consolatoria dei complotti etero-diretti e la presunzione di essere comunque seduti - che Brecht li perdoni - dalla parte della ragione, e non certo del torto, ché lì si sta scomodi, e soprattutto, non ci sono politici e giornali amici a farti il coro.
    Con il nasino arricciato e la smorfia di disgusto, Bellocchio mette all'indice Dagospia che ha raccontato del suo film preso a schiaffi dai giurati e al box office ma, del resto, è sempre cosa buona e giusta coltivare la pratica del dubbio.
    Così lo ascolti accusare ex cathedra la classe politica «di non avere alcun progetto se non quello di conservare se stessa» e, qualche minuto dopo, opporre un niet a chi vuole sapere, ad esempio, se il discorso sui potenti che non mollano il potere valga anche per il cinema italiano con registi che fanno valere il nome e la rendita di posizione (maturata magari con film di mezzo secolo fa) per accedere ai finanziamenti a detrimento di giovani emergenti che magari hanno linguaggi nuovi e storie di qualità.
    E pensare che c'era il pensiero (critico), l'apocalittico Bellocchio chiude l'incontro dicendo di «temere che si possa prefigurare una catastrofe, come è avvenuto nell'agonia di certe tirannidi» ma, intanto, la vera catastrofe culturale è registrare, ancora una volta, come un venerato maestro dell'intellighenzia sinistrata si elevi a re-censore delle testate che meritano fiducia abbandonandosi agli schematismi vetero-maoisti di chi si sente arbitro in terra del bene e del male.



    L'ex colonia Uk non rinuncia alla libertà educativa
    Se Hong Kong (malgrado il comunismo) ha ancora voglia di democrazia
    Michele Marsonet
    Non ha ricevuto molta attenzione sulla stampa italiana una notizia di politica estera che è invece, ad avviso di chi scrive, piuttosto importante. Riguarda Hong Kong, l’ex colonia britannica restituita alla Cina nel 1997, rispettando gli accordi stipulati nel 1898 tra il Regno Unito e l’allora Impero cinese.
    Hong Kong, come ben sa chiunque abbia visitato la città e i suoi dintorni, ha conservato, anche dopo la restituzione alla Cina, delle specificità che la rendono diversa da qualsiasi altro luogo del colosso asiatico. Non si tratta solo delle tipiche cabine telefoniche rosse inglesi agli angoli delle strade o degli autobus a due piani che rammentano immediatamente Londra.
    Si respira soprattutto un clima di libertà e un’apertura alla dimensione internazionale che la rendono tuttora una sorta di “isola” all’interno di un Paese dalle dimensioni continentali.
    Finora le autorità cinesi hanno chiuso un occhio sul mantenimento di tali specificità, e con buone ragioni. Hong Kong consente alla Cina di affacciarsi sul mondo senza troppe pastoie burocratiche. E’ inoltre sede di oltre 100 consolati stranieri, superando in questo caso persino New York. Attira investitori stranieri in grande quantità e ha un’economia di tipo liberista, piuttosto diversa da quella cinese che è pianificata (anche se in modo meno rigido rispetto ai tempi di Mao).
    Inoltre nella ex colonia britannica, che ha conservato la propria bandiera, viene commemorato ogni anno il massacro di Piazza Tienanmen del 1989, mentre in Cina manifestazioni simili sono assolutamente proibite. I mass media mantengono una relativa libertà, ed esiste un Google di Hong Kong che spesso è l’unico canale attraverso cui ricevere notizie in tempo reale su quanto accade nel grande Paese asiatico.
    Negli ultimi tempi, tuttavia, Pechino e il Partito Comunista Cinese si sono per così dire “stancati” di questa parziale autonomia avviando una campagna di “rieducazione patriottica” volta, da un lato, a rimarcare la piena appartenenza della città alla Repubblica Popolare Cinese e, dall’altro, a introdurre nelle scuole locali il marxismo-leninismo quale materia educativa di base.
    Nonostante le sue piccole dimensioni, la città ha opposto una resistenza passiva che ha avuto un certo successo, tanto che il primo ministro del governo locale, Leung Chun-ying, ha potuto dire che “saranno gli istituti scolastici a decidere come e quando introdurre l’educazione morale e nazionale nell’ambito del corso di studi”. Affermazione assolutamente impronunciabile in qualsiasi altro luogo della Cina.
    Ma non è tutto. Nello scorso mese di settembre si sono tenute a Hong Kong le elezioni generali. Il suffragio universale non esiste poiché i cittadini possono votare solo la metà dei loro rappresentanti. Il resto viene “cooptato” dalle corporazioni professionali influenzate dal regime. Eppure il 60% dei voti è stato conquistato dai partiti democratici, i quali saranno comunque in minoranza nel Parlamento locale grazie alle regole imposte dalla Cina.
    Non è poco per un piccolo territorio con 7 milioni di abitanti incluso in una nazione totalitaria che conta una popolazione di un miliardo e 300 milioni di cittadini. Hong Kong ha in ogni caso votato in maggioranza per partiti di stampo democratico, e ha difeso con successo la propria libertà in campo educativo. Un indubbio esempio di coraggio, che speriamo non venga punito con azioni repressive dalla Cina.
    Se Hong Kong (malgrado il comunismo) ha ancora voglia di democrazia | l'Occidentale



    Morte di un comunista
    È morto uno dei grandi nomi di quello che lui stesso chiamò 'il secolo breve'. Non è da tutti dare nome ad un secolo. Eric Hobsbawm ne dette una definizione affascinante, una lettura che tutti noi abbiamo imparato al liceo e incontrato nuovamente all'università. Quando scompare un uomo di cultura di tanta fama, siamo ormai abituati a leggere su tutti i giornali fac-simile di editoriali, prodighi di lodi sperticate e genuflessioni adoranti. E in questi giorni, sui quotidiani nazionali ed esteri, ne abbiamo letti molti.
    Spesso in Italia ci troviamo a discutere sull'orientamento politico delle università e delle élite culturali, descrivendole come un mondo vicino alla sinistra. Gli altri paesi non sono esenti dalla stessa discussione. E la morte di Hobsbawm ha fatto riemergere per l'ennesima volta questo annoso dibattito.
    Lo storico britannico Michael Burleigh, sul Telegraph di lunedì primo ottobre, firma un editoriale controcorrente, cercando di dare una visione critica e meno artefatta (e forse proprio per questo più umana e meno santificata) del celebre storico, mettendo in evidenza i suoi limiti e i vizi della sua ricerca.
    L'editoriale si apre con una presa di distanza netta dalle posizione marxiste di Hobsbawm (che Burleigh, liberal-conservatore, non può certo condividere), e con la premessa che la sinistra inglese è ancora ampiamente egemonica nei dipartimenti di scienze umane e sociali delle università del Regno Unito. La vocazione politica di Hobsbawm, infatti, non fu mai un mistero. Si definì pienamente in giovane età, con la sua adesione alla Association of Socialist Pupils, fronte della Young Communist League, passando per la sua posizione dominante all'interno del Communist Party Historians Group. Ciò che Burleigh cerca di spiegare è che la fede politica di Hobsbawm gli impedì di svolgere in modo intellettualmente onesto la professione di storico. Come? Hobsbawm rifiutò dogmaticamente che la Rivoluzione Bolscevica era stata un sanguinario fallimento. A questo proposito Burleigh ricorda come lo storico rispose affermativamente quando un giornalista canadese gli domandò se la morte di 20 milioni di esseri umani nell'URSS si sarebbe potuta giustificare se fosse servita a realizzare l'Utopia Rossa. "Tutto ciò che Hobsbawm scrisse" - continua Burleigh - "minimizzò ingannevolmente il losco ruolo dei comunisti nella Spagna degli anni 30 o l'atto di forza dei colpi di stato che i sovietici portarono avanti nell'Europa dell'est dopo il 1945. Un intellettuale così cosmopolita, ironicamente imprigionato in un ghetto ideologico tanto provinciale".
    Ma Burleigh non punta il dito tanto (o solo) verso la sinistra inglese, quanto verso la destra, che negli anni ha permesso che figure del genere potessero "dominare la soft culture della BBC e le nostre università".
    The Right Nation - Morte di un comunista

    Finalmente Vauro riesce a far ridere: «vi saluto compagni, con il pugno chiuso!»
    Luciano Magnini
    Mai il vignettista anticlericale Vauro Senesi ha fatto più ridere che con la sua patetica lettera di addio a “Il Manifesto” con il quale ha collaborato per 30 anni. Ha scaricato un po’ codardamente il quotidiano comunista, in liquidazione e profonda crisi, per approdare a “Il Fatto Quotidiano”, anch’esso in crisi ma in modo meno serio. In poche parole l’orgoglioso comunista Vauro ha salutato i “compagni” per andare in un quotidiano non di sinistra dove viene pagato meglio, non c’è male come ipocrisia.
    Vauro è uno dei tanti volgari personaggi che sfruttano la libertà di satira per sfogare le loro frustrazioni. Ma ci si può nascondere dietro la libertà d’espressione giustificando ogni insulto e ogni offesa possibile?
    Si può ridere dei due marò addetti alla protezione della petroliera Enrica Lexie fermati il 20 febbraio a Kochi perché sospettati di aver sparato a due pescatori indiani scambiandoli per pirati? Si può, al grido “la satira è libertà”, ridere sui morti causati dal terremoto dell’Aquila nel 2009? Si può dare libero sfogo al sessismo e alla misoginia con le proprie vignette? Si possono offendere milioni di credenti e cristiani ridicolizzando un Gesù in croce tentato dall’autoerotismo?
    Evidentemente sì, dato che Vauro lo ha sempre fatto, spostando a piacimento i confini della satira che secondo lui autorizza a qualsiasi tipo di offesa. Don Maurizio Patriciello, uno dei tanti preti -diffamati da Vauro- che lavorano per i più bisognosi, gli ha risposto scrivendo: «Sono un uomo che rispetta tutti e chiede di essere rispettato. Che non offende e gradirebbe di non essere offeso, infangato. Il signor Vauro con le sue vignette che dovrebbero far ridere tutti e invece, spesso, mortificano e uccidono nell’animo tanti innocenti. Ma non si deve dire. È politicamente scorretto. È la satira. Il nuovo idolo davanti al quale inchinarsi. La satira, cioè il diritto dato ad alcuni di dire, offendere, infangare, calunniare gli altri senza correre rischi di alcun genere».
    Per capire meglio l’ideologia di questo personaggio è utile leggersi l’imbarazzante lettera, citata sopra, con la quale ha salutato i lettori de “Il Manifesto” l’altro giorno. Un uomo che nel 2012 e dopo l’orrore degli stati totalitari del ’900 non si vergogna di proclamarsi “comunista”, magari uno dei tanti nostalgici dell’Unione Sovietica. Sentite il ridicolo anacronismo di Vauro…provate anche con “Bella ciao” come sottofondo: «un saluto a tutti i compagni e le compagne del giornale [...]. Ho in mano una copia de “Il Manifesto”. Sotto la testata, in caratteri più piccoli, c’è ancora scritto “quotidiano comunista“. C’è chi sostiene che comunista sia ormai un termine obsoleto che non significa più niente o peggio. Per me significa molto. E allora saluti comunisti compagni. A pugno chiuso».
    Compagno? Pugno chiuso? Ma che tristezza.. davvero senza senso del ridicolo, senza rispetto per le vittime del comunismo, il più grande progetto mai realizzato contro la dignità dell’essere umano. Almeno per una volta Vauro è riuscito a farci sorridere, seppur amaramente.
    Finalmente Vauro riesce a far ridere: «vi saluto compagni, con il pugno chiuso!» | UCCR


 

 
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