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    Predefinito Re: Rif: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    Se i compagni fanno le ronde son "passeggiate di sicurezza"
    Intellettuali, comici e stampa di sinistra avevano messo in croce i "barbari" padani. Ora a Chiaravalle fanno lo stesso. Ma è una "esigenza di sicurezza partecipata"
    di Giannino della Frattina
    La ricordate quanto erano brutte le «ronde» proposte dalla Lega per mandare gli abitanti di quartieri difficili a spasso nei medesimi quartieri per scoraggiare i malintenzionati? Magari armati, ma di macchina fotografica per documentare degrado e situazioni imbarazzanti? Cose da barbari padani affetti da machismo acuto e assolutamente incapaci di adeguarsi alle norme del comune vivere civile di cui si ciba quotidianamente solo la sinistra al caviale dei salotti buoni. Roba che scatenò le proteste dei sinceri democratici e la riprovazione mista a ironia di giornali e comici autodefiniti progressisti e sempre pronti a fustigare le ronde altrui. Perché oggi si scopre che con un semplice tocco della bacchetta arancione, nel meraviglioso mondo di Pisapie le ronde si son trasformate come per incanto in «passeggiate per la sicurezza».
    Son partite da Chiaravalle per decisione del consiglio di Zona 5 presieduto da Aldo Ugliano (Pd) e su Repubblica quello che prima era un obbrobrio degno solo di quei trogloditi dei leghisti, ora si trasforma in una giusta esigenza di cittadini spaventati dal crescere della delinquenza intorno a casa. Neppure la fatica di camuffare un po’ l’iniziativa dato che si tratta di semplici cittadini, associazioni di quartiere, vigili urbani e consiglieri di zona. Per di più armati di macchina fotografica per segnalare alle istituzioni i problemi del quartiere e «garantire la sicurezza partecipata, prevenendo il degrado urbano».
    Sicurezza partecipata? Ma non era lo slogan di Letizia Moratti e del suo vicesindaco Riccardo De Corato sempre dipinto come un irriducibile sceriffo? Potere della parola, ora basta un cambio di nome. Un’iniziativa estemporanea? Macché, perché le «passeggiate per la sicurezza» si terranno una volta al mese con uscite prima pomeridiane e poi «serali e notturne». E poco importa se gli abitanti di via Padova abbiano già chiesto il ritorno dei militari di pattuglia cacciati da Pisapia. Così come hanno fatto pendolari, residenti e negozianti intorno alla Stazione Centrale, disgustati e preoccupati dal ritorno della microcriminalità. Difficile riconoscere che spesso il banale appiattirsi sul presunto politicamente corretto, cozza contro esigenze spicciole, ma fondamentali. Come poter andare a far la spesa senza la paura di essere scippati sotto casa. Ché anche la percezione della sicurezza aiuta a viver meglio. Come aiuterebbe a viver meglio il cominciare a chiamar le cose con il proprio nome. E le ronde son sempre ronde e quelli di sinistra che impediscono al presidente della Provincia di parlare all’anniversario di piazza Fontana per ricordare una strage ancora senza colpevoli, sono dei violenti. Semplicemente dei violenti che non meritano di essere protetti dietro un comunicato a dir poco reticente. Come quello diramato a notte fatta dal sindaco Pisapia.
    http://www.ilgiornale.it/milano/se_c...e=0-comments=1

    Vigili sulle barricate: «Pisapia ha sbagliato a cacciare i militari»
    di Chiara Campo
    Ce l'hanno con quella «metà della giunta che vorrebbe riportarci indietro nel tempo, agli anni Settanta». I vigili incassano i complimenti dell'assessore comunale alla Sicurezza Marco Granelli, che ieri dopo l'inseguimento e la sparatoria sui Navigli ha ringraziato i due agenti, «sono stati professionali - ha ammesso -, non hanno creato danni per i cittadini e chi ha sparato lo ha fatto nel modo corretto». Ma i sindacati dei ghisa denunciano - come avevano fatto dopo la tragica morte del vigile di quartiere Nicolò Savarino, investito da un suv il 12 gennaio - che «il ruolo della polizia locale è diventato pericoloso. Non vogliamo tornare, come vorrebbe qualcuno della giunta, ad occuparci solo di viabilità o ambiente. Difendiamo i nostri reparti operativi e investigativi, ma ci servono strumenti e addestramento. E vogliamo uno status giuridico adeguato al nuovo ruolo per questo manifesteremo in piazza a Roma». Per il portavoce del Sulpm Daniele Vincini cancellare alcuni reparti «sarebbe una mossa ideologica, la sicurezza è un diritto dei cittadini e noi vogliamo fare la nostra parte, senza che venga riportata indietro la lancetta del tempo per metterci solo agli incroci. Nello stesso tempo «vogliamo garantire anche la nostra sicurezza». E frutto di quell'ideologia di sinistra, lascia intendere, un'altra scelta «che per noi è stata profondamente sbagliata». Rinunciare ai militari che presidiavano il territorio in pattuglie miste con polizia e carabinieri. Il sindaco Giuliano Pisapia tra i primi atti dell'amministrazione ha rifiutato il presidio dei soldati inviati dal governo, mentre i Comuni dell'hinterland si mettevano in fila per accaparrarsi il contingente scartato dalla sinistra perchè «Milano non è Beirut». «I militari dovevano rimanere - sostiene il rappresentante dei vigili -, liberavano risorse utili sul territorio, le forze dell'ordine potevano dedicarsi ad altre attività di controllo». Dopo la morte di Savarino il sindaco aveva incontrato le sigle della polizia locale, «ora chiediamo che apra i tavoli che ha promesso sulla sicurezza del personale». Insiste, «più corsi di addestramento», e «non eliminare i nuclei operativi». A rischio l'Nttp (che opera a tutela dei trasporti pubblici), Problemi del territorio (soprattutto nei campi rom), il nucleo Cinofili, Fotosegnalamento, Polizia scientifica.
    Il consigliere Pdl Riccardo De Corato ricorda che dopo il vigile travolto e ucciso e la manager rapinata in bici e ancora ricoverata al Policlinico in coma farmacologico «è il terzo grave fatto di criminalità predatoria in poche settimane. Ma il sindaco non vuol parlare di emergenza sicurezza, spieghi perchè ha mandato via l'esercito e i presidi volontari».
    http://www.ilgiornale.it/milano/vigi...e=0-comments=1



    I rivoluzionari adesso cadono sulla pensione
    Guzzanti: "Che imbecille, ci ho rimesso la pensione". Riondino: "Quei soldi servivano per farmi la casa". I comici anti capitalisti comprano ciò che disprezzano
    di Cristiano Gatti -
    Lo stragista della finanza facile, quell’istrionico Madoff dei Parioli che promise guadagni da favola e assicurò un fallimento epocale da duecento milioni, vanta sul suo personalissimo curriculum vittime molto illustri. Vip (Very ingenuous people), nobili, professionisti, attoroni e attorucoli: chi più chi meno, ci hanno lasciato la zampa fior di personaggi del bel mondo romano. In questi giorni, i depredati sfilano in malinconico pellegrinaggio davanti al tribunale, raccontando il sanguinoso raggiro subìto dal finanziere bidone.
    Nonostante l’Italia sia ormai un Paese di Robespierre, che sogna solo forca e vendetta per ricchi e privilegiati, non è un bell’ascolto. Non è bello sentire di tanti euro finiti in cenere nel breve giro di pochi mesi. Non è bello godere dei rovesci altrui. Nemmeno dei rovesci di chi gode dei rovesci altrui. Nell’ultima udienza tocca a Sabina Guzzanti, comica di sinistra cattivista, alternativa e disobbediente.



    In dieci anni, a partire dal ’99, l’artista affida oltre 500mila euro al guru delle palanche. Dal 2008, con l'arrivo della grande crisi, il rapporto fiduciario frana nella rovina: 150mila la perdita secca. E adesso è qui, chiamata a testimoniare, con la forte sensazione «di sentirsi pure un’imbecille».
    Prima di lei sfila David Riondino, anch’egli attore comico di sinistra, 450mila la sua seccante perdita.



    Dal loro racconto, oltre alla rabbia per il danno subito dagli stregoni della finanza creativa, emerge un grande rimpianto: è finita in fumo, confessano, la loro idea regina da bravo figlio, farsi una pensioncina per la vecchiaia. Viste da qui, dal limbo dell’italiano medio, dove tutto è mediocre, scontato, insignificante, dove i valori di casetta e pensione restano prioritari, benché grigi e alienanti, come i comici aggressivi e scapigliati hanno sempre denunciato e caricaturato, svergognato e demolito, viste da qui queste amare testimonianze suonano quasi più comiche dei loro monologhi.
    Confessiamolo senza tanti sensi di colpa, anche se magari non è proprio politicamente corretto: già l’idea che un certo genere di antagonisti dello spettacolo, così corrosivi e spietati contro i nostri poveri stili di vita e di pensiero, non avessero esitato a consegnare le proprie fortune a finanzieri spregiudicati - altro bersaglio molto caro nei monologhi rivoluzionari - , tra l’altro con la dichiarata intenzione di farle fruttare all’estero (e quindi scudate), esattamente come tanti cumenda e tanti squali dell’imprenditoria italiana con due piedi nei paradisi fiscali, ecco, già questo suonava abbastanza imbarazzante, fuori posto e fuori ruolo.
    Sentendoli in televisione e a teatro, al cinema e nelle piazze, noi della borghesia piccina e banalotta li immaginavamo impegnatissimi nel sociale, o comunque nel ruolo coerente di investitori etici, mezzo patrimonio in Bot patriottici e mezzo a finanziare gli impianti di desalinazione nella sventurata area sahariana.
    Adesso apprendiamo che non solo le sostanze erano investite negli stessi canali della borghesia negletta, ma pure i sogni e le aspirazioni, quella pensioncina per una vecchiaia tranquilla, tanto ridicolizzata negli sketch che smontano il pensiero debole dell’uomo comune. Magari, un giorno, chissà, si sarebbero concessi anche lo sfizio della Ferrari. Come i calciatori e come i piccoli cumenda brianzoli. Se solo quel fetentissimo Madoff de noantri non avesse buttato tutto a mare... Il bilancio è disastroso: i feroci grilli parlanti della satira ci hanno rimesso molti soldi, ma più che altro anche la faccia.
    http://www.ilgiornale.it/interni/i_r...e=0-comments=1

    Dario Fo quando diceva che “in Cina ognuno dice quel che pensa”
    Antonio Margheriti Mastino
    Che Dario Fo fosse un pupazzo, credo nessuna persona ragionevole ne abbia mai dubitato. Una volta andai a vedere un suo spettacolo teatrale a Roma. “L’Anomalo Bicefalo”, naturalmente contro Berlusconi: l’unica sceneggiata scritta da lui, e, va da sè, fu una porcata. Penoso quello “spettacolo” per lo squallore intellettuale, artistico e morale. Un comiziaccio di Di Pietro, al confronto, sarebbe stato uno squarcio di eloquenza. Un premio nobel a lui, che in vita sua non ha scritto neppure una riga, davvero equivale alla margarita ante porcum (ma del resto, dopo che lo hanno dato a prescindere a Obama, è lecito rifilarlo a tutti) . Un furto.
    Tanto mi fece schifo lui e quella zingara che si portava appresso, che qualcuno trovò pure il coraggio di violentare al Circeo



    che gli augurai morte subitanea sul palco.
    Non morì, ma in cambio mentre si era mascherato da Berlusconi precipitò in un buco del palco massacrandosi una gamba. Purtroppo la lingua si muoveva ancora.
    Ma è di altro che vorrei dirvi. Ho letto il bel libro di Enzo Biagi sulla Cina, che dà i brividi per come dipinge, con distacco, la ferocia del regime maoista. E badate bene: Biagi era un socialista e il libro risale agli anni ’70. Quando ancora non si “sapeva” (non si voleva). Dunque la fonte è attendibile. Ebbene, in questo libro ritrovo questo emblematiche dichiarazioni (siamo nel 1976) di Dario Fo a favore della “democrazia” cinese maoista.
    <Ho una visione della Cina entusiastica, e ha la mia totale approvazione. Ognuno dice veramente quello che pensa. C’è uno spazio grandissimo per il dissenso. Dai dibattiti, se sei un po’ sveglio, lo capisci benissimo. Così salta fuori il burocrate e il vero rivoluzionario. Tutto è scoperto, e alla luce del sole. Certamente ci saranno gli scontenti, I SOLITI INTELLETTUALI BORGHESI COL MUGUGNO. Ma in Cina c’è l’uomo nuovo, perchè c’è una nuova filosofia>
    …”Ognuno dice veramente quello che pensa”: evidentemente gli studenti di Piazza Tinen an Men, dicevano quel che NON pensavano. Così i 60 milioni di morti programmati a tavolino, per pianificazione politico-economica, da Mao e dai comunisti filistei.
    http://www.apostolidellareginadellap...pensa%E2%80%9D


  2. #12
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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    Il valdese rotante si riscopre proletario
    Roberto Manfredini
    Parlare dei nostri politici ormai è tempo perso, lo sappiamo; tuttavia qualcosina su questo Paolo Ferrero voglio dirla comunque. Sembra che il segretario di Rifondazione Comunista sia diventato il nuovo eroe proletario, colui che ha il coraggio di tuonare contro padroni e banchieri: anche Bruno Vespa gli ha concesso il posto d’onore una volta occupato (quotidianamente) dall’augusto predecessore Fausto Bertinotti.
    Quindi a chiacchiere questo Ferrero sembra un leone: ma guardiamo ai fatti. Il politico valdese (sì, fa parte di quella setta piemontese che non fa beneficenza) è stato Ministro della Solidarietà Sociale del Governo Prodi dal 2006 al 2008. Che cosa ha fatto per i lavoratori, i giovani e i precari in due anni? Diamo un’occhiata:
    «In tema di tossicodipendenze sua è la proposta nel giugno del 2006 di istituire anche in Italia le cosiddette “shooting room” (già attivate in Germania) nell’ambito della politica di “riduzione del danno”: la proposta suscita polemiche talmente accese nella stessa maggioranza che viene subito abbandonata» (da Wikipedia).
    «La nuova Consulta nazionale sulle tossicodipendenze, presentata ieri a Palazzo Chigi dal ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, ha preso il via nel mezzo di una feroce polemica scatenata dalla presenza, tra i suoi settanta componenti, di Susanna Ronconi, ex brigatista anche se da molti anni operatrice e studiosa del problema delle dipendenze» (Corriere, 6/12/2006). Per questa vicenda Ferrero venne anche indagato per abuso d’ufficio.
    «Rosy Bindi non invita gli omosessuali alla Conferenza nazionale sulla famiglia di Firenze e nella maggioranza scoppia la polemica. Emma Bonino e Paolo Ferrero annunciano che il 24 maggio diserteranno l’iniziativa. E con loro resteranno a casa i parlamentari di Rifondazione e della Rosa nel pugno. […] “Non condivido la scelta del ministro Bindi di non invitare le organizzazioni omosessuali al convegno nazionale sulla famiglia di Firenze. Ritengo pertanto che nemmeno la mia partecipazione sia opportuna”, fa sapere Paolo Ferrero» (Repubblica, 8/5/2007).
    «Ho sottoscritto con l’Arcigay un impegno politico per il riconoscimento dei diritti civili ai cittadini di diverso orientamento sessuale: istituendo la possibilità di unioni civili omosessuali questa città [Padova] si è mostrata all’avanguardia. Bisognerebbe fare in Italia ciò che Zapatero ha fatto in Spagna. Oggi c’è una realtà importante di persone omosessuali in questo Paese, non si capisce perché non possano convivere con dei diritti e non possano legittimamente avere l’aspettativa di allevarsi un figlio» (intervista sul suo sito, 27/4/2008).
    «Esprimo tutta la mia solidarietà all’iniziativa di inaugurare la prima Gay Street in Italia e, pur non potendo essere là con voi, voglio testimoniarvi la mia vicinanza. Credo che in questo Paese sia ancora molta la strada da percorrere in fatto di democrazia, libertà e rispetto e la vostra iniziativa va in questa direzione. Le espressioni di intolleranza e violenza nei confronti di ciò che si percepisce come “diversità” sono spesso frutto della paura, che è alimentata dalla diffidenza, dal pregiudizio e dall’ignoranza» (Comunicato stampa del 2/8/2007)
    «Vladimir Luxuria rappresenta una compagna, una persona che ha un elevato grado di solidarietà, di fratellanza, di reciprocità con il prossimo, di eguaglianza e, nello stesso tempo, è una persona molto sensibile e molto attenta agli altri e alle dinamiche. È un modello antropologico molto positivo dal mio punto di vista» (Affaritaliani, 29/11/2008)
    Non infierisco oltre: l’unico dato positivo è questo fenomeno anche da ministro scese in piazza contro il suo stesso governo («Io dico che è stata una giornata molto felice: centomila persone in piazza, senza incidenti, a protestare democraticamente contro il Governo così da cambiare il senso comune del Paese», Sole24Ore, 6/11/2006). Tralasciamo anche quello che Ferrero ha detto dopo il Prodi-bis, perché le sue opinioni sul celibato dei preti francamente non interessano a nessuno.
    Vogliamo tuttavia invitare anche chi è in “buona fede” (si fa per dire!) a valutare i rifondaroli senza paraocchi ideologici. A queste persone la realtà non interessa: vogliono arrivare al governo per far vedere che anche loro “fanno qualcosa”, concentrandosi solo su boiate pazzesche come i problemi dei drogati e dei gay.
    Caro Cipputi, non hai ancora capito? Tu che hai votato Pisapippa maledicendo la Moratti, e ora ti ritrovi ad affrontare una stangata dopo l’altra (irpef, biglietti del tram, area c…) perché non ti fai un piccolo esame di coscienza?
    Vuoi davvero sapere che cosa hanno fatto quei cari compagni contro il precariato giovanile? Bene, te lo ha detto l’allora Ministro del Lavoro Cesare Damiano (CGIL) che cosa ha fatto il governo Prodi contro il precariato e le morti sul lavoro:
    «Stiamo ipotizzando […] un numero verde del ministero del Lavoro dedicato esclusivamente ai temi della sicurezza. […] La settimana scorsa sono stato a Firenze insieme al presidente della Regione Claudio Martini e ad Oliviero Toscani. Era la giornata finale di un concorso, una provocazione lanciata da Toscani: “Il lavoro uccide”. È stato un momento importante, ecco credo che quell’iniziativa debba essere estesa in tutti i licei artistici italiani. Quei manifesti e quegli spot realizzati dagli allievi di alcune scuole d’arte toscane dovrebbero essere stampati e trasmessi anche da giornali e tivù» (da Repubblica 27/11/2006).
    Questa è la morale: quando la sinistra è all’opposizione incita alla rivolta sociale contro il precariato; quando arriva al governo, propone come ricetta un numero verde e tanti cartelloni colorati…
    Il valdese rotante si riscopre proletario



    A chi sceglie il rito civile Palazzo Marino regala Lopez al posto di Manzoni
    Milano in mano agli sposi promessi
    Alessandro Zaccuri
    L’equivoco è in agguato e la premessa, quindi, è quanto mai necessaria. Guido Lopez è stato uno studioso e uno scrittore più che rispettabile, autore tra l’altro di un best seller di notorietà non soltanto locale, "Milano in mano", che basterebbe da solo a certificare la sua passione per il capoluogo lombardo. Ma proprio perché era una persona seria, l’ottimo Lopez sapeva benissimo di non poter competere con Alessandro Manzoni. "Milano in mano" non è "I promessi sposi", insomma, e non lo è neppure "Storia e storie di Milano", il volume del compianto Lopez (è morto nel 2010, all’età di 86 anni) che l’amministrazione meneghina ha appena deciso di donare alle coppie che scelgono di celebrare il matrimonio con rito civile a Palazzo Reale.
    Nulla di strano, non fosse che fino a qualche giorno fa il libro-strenna era un altro: "I promessi sposi", appunto. L’iniziativa era stata introdotta nel 2003 dal sindaco Albertini e prevedeva, insieme con l’omaggio letterario, anche la consegna di un Tricolore alle nuove famiglie. Della bandiera non si sa, ma a quanto pare a Palazzo Marino sono finite le scorte del romanzo di don Lisander (e sì che la Casa del Manzoni è lì a due passi, senz’altro una buona parola con i librai si poteva mettere).



    Fuori Manzoni, avanti con Lopez, il cui libro – spiega il comunicato diffuso dall’assessore alla Municipalità e servizi civili, Daniela Benelli – vuole essere «un invito a scoprire la città in modo slow».
    Ora, a parte il fatto che se si scriveva "adagio" andava bene lo stesso (è un bellissimo avverbio, oltretutto, milanese e italiano nello stesso tempo, proprio come Manzoni e il Tricolore), provate a immaginare che cosa penserebbero a Londra se, per dire, si volesse sostituire Dickens con una guida Lonely Planet o con il pur indispensabile London A-Z. Non diversamente dai Promessi sposi, "Oliver Twist" è un mondo, non la mappa di un mondo: qualunque lettore di Dickens prova il desiderio di visitare Londra, mentre non è affatto detto che un turista a spasso per Piccadilly senta il bisogno di commuoversi per "La piccola Dorrit".
    Prima obiezione: Dickens sarebbe uno spasso, Manzoni una lagna. Perdonabile luogo comune, favorito dal pregiudizio scolastico e dalla mancata conoscenza del monumentale e prolisso “Dombey e figlio”. Se poi si prova a leggerlo sul serio, il grande romanzo manzoniano, ci si accorge che la Milano conosciuta dal povero Renzo non è poi così diversa dalla metropoli con la quale devono vedersela due sposini del 2012. Niente peste e niente caccia agli untori, però la crisi economica morde adesso come mordeva allora (avete presente l’assalto al forno delle grucce?). E sposarsi continua a non essere una passeggiata, slow o adagio che sia.
    Seconda obiezione, più preoccupante: c’è da aggiornarsi, c’è da andare al passo con i tempi. Vero, ma allora sarebbe il caso di accelerare sulla roadmap di Expo 2015 (ricorriamo all’inglese per non fare la figura dei provinciali: oh yes, direbbe il milanese Jannacci) e lasciare che i classici facciano il loro mestiere, che è quello di essere i contemporanei del futuro, secondo la formula scelta da Giuseppe Pontiggia come titolo di una sua raccolta di saggi. Anche perché, a leggerli nel modo giusto, I promessi sposi sono ancora adesso, e resteranno a lungo, una bella lezione di ironia, di saggezza, e pure di complessità. Ci ricordano, se non altro, che ogni progetto d’amore si pone sempre al cospetto della storia e che con la storia deve fare i conti. Mica male, specie di questi tempi.
    Milano in mano agli sposi promessi E in Comune le nozze diventano slow | Commenti | www.avvenire.it




  3. #13
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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    L'ultima carnevalata, il ballo del terrorista
    di Rino Cammilleri
    Leggo sul Corsera.it dell’8 febbraio 2012 che il terrorista Cesare Battisti, latitante in Brasile, ha intenzione di sfilare al Carnevale di Rio con il Bloco do Cordão da Bola Preta, «una delle maggiori scuole di samba della città carioca». Lo ha confermato l’interessato stesso al sito brasiliano Pernambuco.com. Condannato ad alcuni ergastoli in Italia per quattro omicidi, l’ex Pac-man (cioè, esponente dei Proletari armati per il Comunismo) ha rivelato di essere diventato amico di uno dei direttori della scuola di samba summenzionata, in grado di coinvolgere due milioni di persone.
    Alberto Torregiani, ridotto sulla sedia rotelle da uno dei colpi di Battisti, intervistato dal Corriere ha detto che, sicuramente, il latitante italiano sta cercando di guadagnare popolarità allo scopo di, perché no, presentarsi alla elezioni brasiliane. Non ci stupirebbe, dal momento che la politica è, per definizione, l’idolo a cui i terroristi hanno sacrificato (gli altri). Ci chiediamo, semmai, se Battisti dovrà seguire i corsi di samba alla scuola del Bloco. Com’è noto, le scuole di samba, in Brasile, impegnano gli iscritti per un anno intero: imparano a ballare e soprattutto a vestirsi con piume e lustrini, onde sfilare seminudi e sorridenti nel Carnevale di Rio. Confessiamo di non aver mai capito perché ci voglia un anno intero per questo, dal momento che i passi di samba che vediamo -in diretta dall’evento- sono solo due o tre, e che per conciarsi da pappagallo amazzonico dovrebbero bastare pochi minuti. Mah, vedremo.
    Speriamo che la telecronaca sia affidata a Beppe Grillo, che ai tempi del suo programma «Te la dò io l’America» sfilò a Rio durante il Carnevale (s)vestito da azteco con tanto di cresta di penne verdi e gialle legata in testa. Lui dovrebbe intendersene. Per quanto riguarda Battisti, già sappiamo come ci rimarranno, alla vista del suo spettacolo, i parenti delle vittime e i sopravvissuti in carrozzina. Quel che ci incuriosisce, semmai, è come reagiranno i supporters del latitante, che in Italia (e in Francia) non sono pochi. Sono quasi tutti scrittori di noir, gialli e fantascienza. Se siete curiosi, li trovate elencati nel bel libro "Gli amici del terrorista" di Giuseppe Cruciani (Sperling & Kupfer).
    Sì, perché, al di là del compiacimento allo spettacolo del loro beniamino che se la spassa in mondovisione, l’immagine di Battisti travestito che balla il samba per strada stride non poco con quella, antica, di Colui che Sfidava il Capitalismo e i suoi Servitori. Il robinhood del proletariato comunista, il romantico eroe a mano armata che ammazzava semplici macellai credendo di mirare alle Istituzioni Capitalistiche, lo si vedeva più volentieri nei panni dimessi e sobri (termine, quest’ultimo, tornato in gran voga) della primula rossa (rossa in senso ideologico), dello zorro de noantri, dell’Imprendibile che sfida il governo italiano (quello politico Berlusconi-Lega, non quello «tecnico» attuale, al quale dell’estradizione di Battisti non può frega’ de meno), dell’Esule preferito da Carlà. Invece, toccherà loro sorbirsi quest’altra carnevalata brasiliana, un Battisti desnudo e impennacchiato e ballerino.
    Che farà, dunque, il Battisti sfilante a Rio? Troneggerà in cima a un carro allegorico, attorniato da donnine in mutande e sculettanti? O marcerà col Popolo, in perizoma, magari picchiando su un tamburo? Certo, dovrà cantare anche lui la canzone intonata dalla sua scuola di samba. Il che ci fa pensare a una buona soluzione per il prossimo Sanremo: perché affidarsi al solito Celentano quando si può avere un clamore molto più ampio invitando Battisti? Ah, già: gli ergastoli appena tocca terra italiana. Niente paura, c’è il collegamento internazionale.
    La Bussola Quotidiana quotidiano cattolico di opinione online: L'ultima carnevalata il ballo del terrorista



    Plinio: «Via la targa a Togliatti, complice delle purghe di Stalin»
    di Redazione -
    «Cancelliamo via Palmiro Togliatti». Una sola frase, scritta su un biglietto. È quella che Gianni Plinio chiede ai genovesi di spedire per posta al sindaco Marta Vincenzi, ripredendo l'appello al rispetto della storia oltre che dei morti, lanciato proprio ieri dal Giornale. Una sorta di petizione indiretta per intasare la cassetta delle lettere del sindaco e far capire che i «complici dei dittatori» non meritano di essere onorati dalla città che si vanta di essere patria dei diritti.
    Il responsabile sicurezza del Pdl ligure ricorda quello che la storia ha appurato a proposito dello storico segretario comunista nato proprio a Genova: «Quella che indica via Togliatti è una targa che non fa onore a Genova - incalza Plinio -. La complicità del leader comunista nelle feroci purghe staliniane è stata inoppugnabilmente accertata. Togliatti fu un entusiasta sostenitore della invasione dell'Ungheria da parte dei carri armati sovietici nel 1956 e vergognosa fu l'apologia di Stalin che fece alla Camera dei Deputati nel 1953 in occasione della morte del sanguinario dittatore comunista. Per non dire delle ombre che continuano a gravare su un suo scritto del 1943 circa la sorte da riservare ai soldati italiani prigionieri in Russia. So che una iniziativa analoga è in atto Bologna su input del deputato Pdl Fabio Garagnani e spero che altre possano avviarsi in tutte le città italiane in cui esiste una via Togliatti che potrebbe essere sostituita da via vittime del comunismo».
    Anche perchè la toponomastica cittadina sembra meritare una bella bocciatura in storia. Sempre che di ignoranza si tratti e non già di volontaria malafede da parte di chi ha fatto incidere le targhe commemorative. «La targa stradale dedicata in Albaro a Emanuele Strasserra ove si legge Caduto per la Libertà - conclude infatti Plinio - andrebbe integrata con assassinato da partigiani comunisti. Fu, infatti, massacrato insieme ad altri quattro partigiani bianchi e a due mogli di questi ad opera di partigiani comunisti guidati da Francesco Moranino detto Gemisto (successivamente deputato del Partito comunista italiano) che la Corte di Assise di Firenze, nel 1956, per questo eccidio condannò all'ergastolo salvo ottenere successivamente la grazia dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. La toponomastica per risultare utile deve essere prima di tutto seria».
    Plinio: «Via la targa a Togliatti, complice delle purghe di Stalin» - Genova - ilGiornale.it


  4. #14
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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    Carnevale, festa riservata ai compagni
    SABATO GRASSO
    Le polemiche sui fondi del Comune. Tagliata la sfilata degli oratori ma per quella dei popoli stanziati 185mila euro. La Lega: "Strano quel bando...".
    di Chiara Campo
    La sfilata degli oratori milanesi? É un clou del Carnevale ambrosiano da trentasette anni e il 25 febbraio ci sarà e ispirato a musica e jukebox, ma il percorso dei nove carri dal corso Venezia al Duomo si accorcia drasticamente. Dal retro della cattedrale alla piazza.
    «Il Comune non può transennare il tradizionale tragitto per le vie del centro», dalla Fondazione oratori milanesi si accontentano, anche perchè fino a qualche giorno fa non era neanche confermato il budget. Con i conti in rosso continua a ripeterlo l’assessore al Bilancio, c’è poco da festeggiare. E infatti, per dire, la onlus che organizzava ogni anno la festa con clown e coriandoli in cinque ospedali - dal Sacco al Fatebenefratelli - ha bussato a tutte le porte ancora questa settimana ma non ha trovato dagli assessorati gli undicimila euro per portare un po’ di allegria ai ricoverati. Eppure: il bando pubblico flash lanciato dal Comune la scorsa settimana offre 185mila euro alla società che organizzerà l’evento del Sabato grasso. Un avviso on line a cui, provoca il capogruppo della Lega Matteo Salvini, «sembra che manchi solo il nome e il cognome del vincitore». Sottolinea «alcune stranezze». La durata della gara intanto: dal 3 al 13 febbraio, per una grande manifestazione che si terrà dodici giorni dopo. Chi vince dovrà «correre». Anche perchè, come prescrive il bando, il «Carnevale dei popoli» dovrà essere «ricco di eventi per ogni target di pubblico», dovrà individuare cinque comunità/associazioni straniere che potranno rispettivamente esibirsi, a partire dalla mattinata, in altrettante piazze del centro dando luogo a parate, esibizioni in costume, spettacoli di acrobazie e musicali di ogni genere sulla base delle proprie tradizioni culturali, costumi e usanze».
    A titolo di esempio, il Comune cita «la parata festosa del Carnevale brasiliano» o «la battaglia dei colori in polvere che connota quello indiano». Dalle 18 alle 20 i cinque popoli confluiranno in piazza Duomo per la festa che potrà allungarsi fino a mezzanotte, altri eventi per i bimbi in piazza San Babila, san Fedele, Palazzo Marino. «Tutto bellissimo, ma intanto passiamo da Cecca e Meneghino al carnevale di Mohamed e Abdul - ironizza Salvini -, poi si trovano 185mila euro da dare a un’organizzazione privata che organizzi eventi con le comunità straniere, e tagliamo i fondi a oratori e piccole associazioni. Mi sembra un’organizzazione raffazzonata, frettolosa e con una tempistica estremamente sospetta».
    Quella del sabato grasso è una fetta del budget, la giunta ha approvato una delibera da 290mila euro per il Carnevale ambrosiano, coinvolgendo anche le zone. Possono distribuire fondi alle associazioni di quartiere. Ma viste le risorse strette, anche lì la distribuzione è sotto controllo. Al Niguarda, per dire, l’associazione «Amici di zona 9» ha inviato alla presidente Pd Beatrice Uguccioni la richiesta di un contributo da 2.500 euro per «l’attesa manifestazione “Sì all’acqua pubblica, No al nucleare», sfilata di carri realizzati da scuole e associazioni che si terrà il 25 febbraio. Un genitore ci scrive e protesta: «Cosa c’entra il tema politico individuato con il carnevale? Vorrei che la manifestazione ritrovasse lo spirito autentico con maschere, giochi e intrattenimenti per i bambini, e il Carnevale in Bicocca possa ritornare la festa di tutti».
    Sul Sabato grasso da quasi duecentomila euro anche l’ex vicesindaco Riccardo De Corato è critico, «vorremmo sapere dall’assessore alla Cultura Stefano Boeri - domanda - se non gli sembrano un po’ troppi per una sola giornata mentre Milano e il resto dell Paese attraversano un momento di grave crisi. Per il pomeriggio del 25 febbraio forse un gran finale un po’ più sobrio non avrebbe guastato».
    Carnevale, festa riservata ai compagni - Milano - ilGiornale.it

    La rivoluzione di Pisapia: negli asili nido entrano i figli di immigrati irregolari
    Nidi aperti ai figli degli immigrati privi di permesso di soggiorno e libertà di scegliere fra tutte le scuole dell’infanzia, pure quelle non necessariamente più vicine a casa
    di Luca Romano
    Negli asili di Milano è pronta la rivoluzione firmata Giuliano Pisapia. Nidi aperti anche ai figli degli immigrati privi di permesso di soggiorno e libertà di scegliere fra tutte le scuole dell’infanzia cittadine, anche quelle non necessariamente più vicine a casa.
    Le novità sono contenute nella circolare che regolamenta le iscrizioni ai nidi. L’assessore all’Educazione, Maria Grazia Guida, ha deciso, come riporta il dorso milanese di Repubblica, di permettere alle famiglie di "indicare in ordine di preferenza, secondo le proprie esigenze, fino ad un massimo di quattro sedi di nido d’infanzia o sezione primavera comunali, a gestione diretta e/o comunali accreditati e/o privati accreditati".
    La nuova amministrazione ha poi precisato che i figli degli stranieri non ancora in regola con la residenza anagrafica, ma semplicemente domiciliati a Milano, potranno essere iscritti a scuola. "Non viene richiesto il permesso di soggiorno, a differenza di quel che avveniva con la giunta Moratti", ha concluso la Guida.


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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    "I soldi in beneficenza promessi da Benigni? Non li abbiamo visti"
    Il premio Oscar nel 2011 prese 250mila euro che avrebbe dovuto devolvere. Il direttore dell'ospedale Meyer di Firenze: "Quei soldi non sono arrivati"
    di Fabrizio Boschi
    Alla scorsa edizione del Festival di Sanremo, 15 milioni 398 mila spettatori seguirono lo special guest Roberto Benigni e la sua sorprendente performance che raggranellò il 50,23% di share. Virtualmente i suoi fan raddoppiarono quando trapelò la notizia che il compenso che avrebbe ricevuto dalla Rai, 250 mila euro per una sola sera, sarebbe stato devoluto all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, per la costruzione di un nuovo padiglione. Decisione che, si tenne a precisare, era stata presa prima di firmare il contratto con l’azienda per la presenza dell’artista sul palco di Sanremo, e non come gesto riparatore per l’indignazione popolare che il suo cachet aveva scatenato. Può anche essere, infatti lascia ancora più perplessi venire a sapere oggi che, dopo un anno esatto, quei soldi al Meyer non sono mai arrivati.
    «Chiedete a Benigni!», risponde un po’ stizzita l’addetta stampa del pediatrico fiorentino. «A me non risulta che sia arrivato mai nulla», conferma sereno il direttore generale del centro di eccellenza per la cura delle malattie dei bambini, Tommaso Langiano.
    Per carità, non ci sarebbe nulla di particolarmente grave qualora Benigni avesse deciso di non dare nulla a nessuno e tenersi tutto in tasca, se non fosse per il fatto che la donazione era già stata data per certa da tutti e pubblicizzata su siti e giornali che osannavano il toscanaccio per il beau geste. Ci avevano creduto tutti, tranne i dirigenti del Meyer, i quali ancora oggi quasi cascano dalle nuvole: «Io non sapevo nemmeno che Benigni avesse voluto darci qualcosa», dice Langiano.
    L’agente del comico toscano, Lucio Presta, commentò la notizia della beneficenza al Meyer sostenendo che Benigni non rende mai pubbliche le sue frequenti donazioni, lasciando intendere che un’eventuale opera pia sarebbe potuta avvenire anche in forma anonima. Suona strano allora che al Meyer, dal febbraio scorso, non abbiano mai visto donazioni simili sul conto corrente. Eppure l’anno scorso, proprio l’agente di Benigni ebbe anche a infervorarsi contro la Lega Nord che si permise di lamentarsi del maxi ingaggio al premio Oscar: «A differenza di Benigni, politici e parlamentari non si sognerebbero mai di devolvere una cifra simile in beneficenza. Ma la Lega, non è un segreto, è nota per i suoi eccessi di populismo fuori luogo».
    Sarà pure fuori luogo muovere critiche, ma almeno un sospetto oggi sorge spontaneo. Nell’edizione di quest’anno lo special guest Celentano ha copiato Benigni, replicando l’opera di bene: «Questi 700 mila euro (per due serate, ndr) saranno devoluti a Emergency e a famiglie povere italiane».
    Qualcuno diceva: «A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si azzecca».



    Chi non si firma, è perduto
    di Luigi Mascheroni
    Quando gli intellettuali non sanno cosa fare, scrivono. E quando si sentono impotenti, firmano. Datemi un appello, e mi solleverò il morale. Moralisti in servizio permanente effettivo, depositari per appalto divino della capacità di separare il Bene dal Male e per destino culturale firmatari infallibili sempre dalla parte giusta del foglio, l’intellighenzia trova soltanto un’altra cosa più irresistibile del firmare appelli. Leggerli il giorno dopo sui giornali con il proprio nome sotto. E, in ossequio al primo principio della lectio accademica secondo il quale repetita iuvant, i nomi dei firmatari sono sempre quelli, e le motivazioni ideologiche contro le quali firmano, pure: qualcosa, o qualcuno, che abbia a che fare, a largo spettro, con la cultura e la politica della Destra. J’accuse, j’accuse...
    L’ultimo attacco di «firmite», in ordine di tempo, è di ieri l’altro, quando un gruppo di «big della cultura», da Guido Rossi a Vittorio Gregotti, da Ermanno Olmi a Eva Cantarella, ha firmato un appello al sindaco di Milano Giuliano Pisapia chiedendo di intervenire contro la nomina a presidente della Triennale di Claudio De Albertis (personalità che ha due vizi imperdonabili: è un imprenditore e non spiace alla destra).
    E, andando a ritroso negli ultimi mesi, «eminenti personalità del mondo della cultura e dello spettacolo» hanno firmato appelli per: chiedere una legge che tuteli l’Accademia della Crusca (Tullio De Mauro, Rosanna Bettarini...), per fermare le ricerche dell’affresco perduto di Leonardo da Vinci a Palazzo Vecchio (Salvatore Settis, Cesare De Seta, Antonio Pinelli), per fermare la chiusura del canale tv «Rai Med» dedicato al Mediterraneo (Luciano Canfora, Tullio De Mauro, Dacia Maraini...), contro la nomina di Giulio Malgara a presidente della Biennale di Venezia (Salvatore Settis, Cesare De Seta, Antonio Pinelli, Corrado Stajano...), contro la Fiat a sostegno della Fiom (Paolo Flores D’Arcais, Margherita Hack, Gianni Vattimo, Andrea Camilleri..), contro l’intervento della polizia in Val di Susa per la Tav (Don Ciotti, padre Zanotelli, Carlo Petrini, Maurizio Landini...)... Sembra incredibile, ma buona parte degli intellettuali ancora vivi che firmarono (quarant’anni fa!) il famigerato appello contro il commissario Calabresi - la lettera pubblicata sull’Espresso il 13 giugno 1971 - continuano ancora a sottoscrivere manifesti&petizioni, come Dario Fo, Furio Colombo, Margherita Hack, Eugenio Scalfari, Umberto Eco [Nell’appello, riferendosi ai proclami dei membri di “Lotta Continua”, gli esimi intellettuali affermavano: ”Quando essi dicono ”se è vero che i padroni sono dei ladri, è giusto andarci a riprendere quello che hanno rubato”, lo diciamo con loro. Quando essi gridano ”lotta di classe, armiamo le masse”, lo gridiamo con loro. Quando essi si impegnano ”a combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento”, ci impegnamo con loro.” ]
    L’intellighenzia di giro, e di grido, è sempre quella. Il giro di Micromega, quello di Repubblica, quello degli editori contro la legge bavaglio, quello del Teatro Valle, quello dei Centoautori... Moralmente impeccabili e mediaticamente influenti. E così l’appello di un gruppo di intellettuali diventa - per proprietà transitiva - la posizione ufficiale dell’intero mondo della cultura. Se non t’indigni, non esisti. E chi non si firma, è perduto.
    Chi non si firma, è perduto* - Cultura - ilGiornale.it

    Sesso, favori e assunzioni: scandalo rosso in Umbria
    Concorsi truccati e violenze nei verbali dell’inchiesta sul Comune di Gubbio. In manette l’ex sindaco comunista, ora vicepresidente del Consiglio regionale
    di Gian Marco Chiocci
    Il cantico delle creature (femminili, disponibili, raccomandate) e il bunga bunga comunista. Nell’incantevole paese di San Francesco e il lupo il vicepresidente del consiglio regionale umbro a guida Pd, il rifondarolo comunista Orfeo Goracci, già sindaco di Gubbio e deputato bertinottiano, è stato arrestato insieme al suo seguito di amiche, amanti, fedelissime in amore. Allo spasimante seriale della sezione Lenin e alla spietata «macchina gorracciana» che dal 2001 al 2006 ha gestito la cosa pubblica come nemmeno ai tempi dell’amata Unione Sovietica (minacce, spiate, pedinamenti, ritorsioni, licenziamenti dei «nemici») un attonito gip di Perugia contesta la qualunque. Per descrivere «lo scenario di illegalità diffusa e di connivenze illecite» parte dalla violenza sessuale in danno delle bellezze locali e finisce con l’associazione per delinquere allargata all’abuso d’ufficio, al falso per soppressione, alla concussione e abuso di potere. In un «clima di intimidazione e paura nel Comune» tutto truccavano i compagni di merende: i concorsi, le assunzioni, le delibere amministrative, le assegnazioni degli immobili comunali. E da difensori dei più deboli e degli oppressi se la prendevano con chiunque dissentisse: sindacalisti, impiegati monoreddito. Nel carcere perugino di Capanne da ieri albergano anche l’ex vicesindaco comunista Maria Cristina Ercoli (la sorella Nadia è ai domiciliari) l’ex assessore all’Ambiente rosso Lucio Panfili e l’ex collega assessore Graziano Cappannelli, Idv. Altri cinque sono «ristretti» a casa.
    I VERBALI E LE «AMAZZONI»
    Quant’era frenetica l’attività sessuale di Goracci. Ci provava con le impiegate a tempo che aspiravano al posto fisso. Con tante altre ci si fidanzava, ricambiato da fedeltà assoluta. Nelle annotazioni del Ros si fa riferimento ad Antonella Stocchi (ai domiciliari) «consigliere comunale legata anche sentimentalmente al Goracci e persona di sua fiducia», che avrebbe sottratto documenti al Comune e minacciato un impiegato perché sospettato di essere l’autore «di scritti anonimi sulle molti amanti del Goracci». E che dire di Lucia Cecili «dipendente comunale legata anche sentimentalmente al Goracci e persona di sua assoluta fiducia», impegnata a trovare telefoni sicuri, a informare i sodali sulle indagini, a distruggere carte sul concorso per l’assunzione dell’avvocato del Comune «vinto da Filippetti Ilenia, legata sentimentalmente al Goracci».
    «MI BACIAVA, NON VOLEVO...».
    Tra chi si è ribellata al focoso Orfeo c’è Morena Sabrina, vigilessa part-time, colpevole d’aver detto che «tanto si sa chi vincerà» il concorso a tempo indeterminato. L’allora sindaco se l’era presa, ma Sabrina aveva azzeccato il pronostico. A verbale dirà: «Fin dal mio arrivo in Comune Goracci aveva iniziato a rivolgermi apprezzamenti fisici e a inviarmi sms» con cui la invitava nel suo ufficio «o fuori dall’ufficio». E lei: «Rifiutai sempre». Un’altra volta però il sindaco «mi prese la mano che avevo teso in segno di saluto e mi attirò a sé», abbracciandola per le spalle e «cercando di baciarmi sulle labbra». Un altro tentativo andò a vuoto. «La Morena - scrive il gip - gli aveva detto di piantarla, che aveva moglie e figli». Orfeo non mollò la presa: «Per tre anni mi ha mandato sms». La ritorsione fu puntuale quanto paradossale. Venne minacciata di essere sottoposta a procedimento disciplinare «per aver cantato in chiesa con il colletto azzurro della divisa da vigile visibile sotto la veste da chiesa». Chiosa il gip: «Una presunta mancanza la cui futilità non merita commenti». Tempestata di messaggini e proposte anche la testimone Luigina Procacci. Confesserà: «La logica era chiara: o eri donna e cedevi alle avances del sindaco, o eri uomo e avevi agganci politici o di amicizia col Goracci (...) oppure eri fuori dai giochi». E fa il caso dell’«assunzione contro ogni regola vigente, nona in graduatoria sui primi 5 posti disponibili, di (...) per aver avuto una relazione con Goracci». La vera svolta all’indagine, partita con esposti di sindacalisti e impiegati mobbizzati, la dà l’attuale sindaco Diego Guerrini, d’area Pd, che al momento della candidatura venne avvicinato così dagli sgherri «gorracciani»: «O sei con noi o contro di noi». Lui tirò dritto. Vinse e fece piazza pulita del gruppo «a cominciare dall’ing. Casagrande».
    IL PRG E LA VENDETTA PD
    Che aveva elaborato «un Piano regolatore a zig zag che denunciava il perseguimento di esclusive finalità di consenso elettorale». Al magistrato ha descritto il tetro clima in Comune e di qualcuno che «spiava» la sua agenda. Più pesante ancora la denuncia di Nadia Minelli contraria a promuovere a capo della Polizia Municipale Nadia Ercoli, sorella dell’ex vicesindaco, «che non aveva un adeguato profilo professionale». Lei denunciava e loro trovavano nuove strade. Lei denunciava di nuovo e loro provavano a farla fuori coi membri del Nucleo Interno di Valutazione. È stata retrocessa col massimo del punteggio.
    BAR RIFONDAZIONE
    Se il funzionario Gabriele Silvestri si ribella per la punizione incassata dall’essersi opposto alla sottoscrizione di Rifondazione comunista («Sindaco, è necessaria l’affiliazione al potere dominante per svolgere serenamente senza timori di ritorsioni un incarico di dirigente al Comune di Gubbio?») il dirigente Rughi addetto al Patrimonio confessa le continue sollecitazioni per consegnare immobili e il bar del teatro romano a persone legate al partito di Bertinotti: «Ho ricevuto così tante pressioni che ho perso il conto». Hasta la minaccia, siempre!
    Sesso, favori e assunzioni: scandalo rosso in Umbria - Interni - ilGiornale.it


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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    Quando internet dimentica gli scandali rossi
    Giovanni De Merulis
    Esiste, ed è fra i più letti organi d’informazione italiani online, un sito che si chiama ilpost, diretto da Luca Sofri, figlio del più noto Adriano e compagno di Daria Bignardi, nonché titolare di un altro blog dal roboante nome di Wittgenstein.



    E’ un sito molto frequentato e pieno di commenti su molti argomenti. Come tutti gli organi d’informazione democratica all’epoca del bunga-bunga pubblico tutte le informazioni fin nei dettagli per mesi. Ora però che è esploso lo scandalo del Vice Presidente della Regione Umbria, un signore di Rifondazione Comunista che prometteva quand’era Sindaco di Gubbio a donne piacenti di mantenerle al loro posto se soddisfacevano i suoi appetiti sessuali, salvo degradarle e ostracizzarle se dicevano di no, ilpost ha dato la notizia, che non ha interessato nessuno, e provocato, oltre ai miei commenti, solo commenti di un paio di individui che anziché domandare nuove informazioni sul bunga-bunga alla norcina, si domandavano chi mi pagasse, cioè chi pagasse ME.
    Dopo quell’episodio la notizia è scomparsa, così com’è scomparsa da tutti i principali quotidiani italiani. Ho quindi ritenuto necessario scrivere in altri articoli commenti a sollecito di notizie sulla vicenda. Questi commenti sono stati prima trattenuti in moderazione per ore e adesso sono spariti. I noveaux democratics (molto noveaux, direi, e quindi inesperti dell’argomento), sono, evidentemente, sempre più uguali a quelli che una volta si chiamavano fra loro “sinceri democratici” e non riescono proprio a liberarsi dalla necessita di agire da ministero della verità di orwelliana memoria.
    Fra l’altro nei miei messaggi non me la prendevo nemmeno con loro ma con i moralisti del Palasharp e con le donne di “se non ora quando”, tutta gente che scendeva in piazza contro Berlusconi e che adesso tace in maniera assordante. Chiedevo di sapere quando, se non ora, avessero intenzione di scendere in Piazza. Chiedevo di sapere cosa ne pensassero Vendola e Ferrero di questa vicenda, visto che non si sa.
    Ma la vicenda Goracci, come usava dire negli anni trenta del secolo scorso, non è “notiziabile” perché se negli anni trenta del novecento, sotto il regime fascista, la criminalità non poteva esistere e quindi non si poteva dare notizia dell’esistenza dei criminali, negli anni dieci del duemila la gente di sinistra è tutta bella, buona e moralmente irreprensibile. E quindi Goracci semplicemente non esiste, Goracci non è mai esistito.
    Quando internet dimentica gli scandali rossi : Il Culturista



    Puglia, telepass gratis ai consiglieri di Vendola
    Ecco l’ennesimo benefit dopo Ipad, telefonate e parcheggi. Vendola ha 2.800 euro al mese per i rapporti con gli elettori
    di Giacomo Susca
    Nell’impero di Nichi non tramontano mai gli sprechi. La Casta pugliese ha trovato il modo di accorciare le distanze e, allo stesso tempo, di allungarsi la lista dei privilegi. Nelle trasferte romane e nelle ospitate in tv il governatore Vendola predica sobrietà e austerità, due paroline in rima per lui che si diletta da poeta. Eppure tace sulle fresche determine dirigenziali che regalano ai consiglieri del suo regno tessere Viacard e Telepass per prendere l’autostrada quando gli pare ma soprattutto senza sborsare un euro. E pazienza se i rappresentanti brindisini e leccesi, ad esempio, per raggiungere l’assemblea di Bari al casello non dovrebbero nemmeno presentarsi, visto che l’autostrada non c’è: la A14 finisce a Taranto.
    Bravi, benefit, bis. Ai settanta inquilini del parlamentino della Puglia non bastavano i pc portatili e gli iPad di ultima generazione (circa 60mila euro di spesa approvata solo lo scorso ottobre), le telefonate pagate e i parcheggi gratis. Adesso garantire a tutti loro pure il diritto alla «mobilità» (a due o tre corsie) costa ai contribuenti altri 100mila euro, 71mila dei quali destinati alla società Autostrade appunto per dotare di lasciapassare elettronico i politici al volante. Rassegnatevi cittadini, sono loro «la Puglia migliore», come recita uno degli slogan dell’era Vendola. Sette anni, finora, non certo all’insegna della parsimonia.
    Nonostante l’annunciata sforbiciata ai costi della politica, il governatore tra indennità e note spese continua a portarsi a casa 14mila e 595 euro al mese: il doppio dei colleghi Errani in Emilia-Romagna e Rossi in Toscana. Così come un esponente della sua giunta incassa 4.847 euro in più rispetto all’omologo di Bologna e 5.122 euro in più in confronto a un assessore di Firenze. Quanto ai consiglieri, 13.830 al mese sembrerebbero già una manna in tempi di loden e vacche magre. Però meno di un anno fa s’erano lasciati sfuggire per un soffio il termine massimo per presentare ricorso contro il taglio del 10 per cento ai trattamenti economici, imposto dalla Finanziaria 2006. Un bottino da 63mila euro a testa, 5 milioni in totale. Diversi consiglieri, con intesa miracolosamente bipartisan, avevano tentato la carta delle vie legali per vedersi restituito il «maltolto». Per fortuna, fu scampato pericolo.
    Eppure persa una battaglia, ecco la rivincita. Mentre i presidenti di Senato e Camera ordinano il passaggio immediato al sistema contributivo per i vitalizi parlamentari, il consiglio regionale pugliese sulla carta si adegua ma rende la riforma effettiva soltanto dal 2015. Ovvero, affari dei futuri eletti. Oppure, a proposito di trasparenza, le dichiarazioni dei redditi di politici e manager delle società controllate in Puglia sono ferme al 2008. Figuriamoci se mettono online case, terreni e barche di proprietà.
    Ciliegina sulla torta di questa abbuffata, oltre all’indennità di mandato e alla diaria, ciascun consigliere «merita» un rimborso di 884 euro per «mantenere il rapporto con gli elettori», naturalmente a scalare lungo la piramide del potere locale. Così diventano 2.075 euro per ogni membro della squadra vendoliana e 2.820 euro per il governatore in persona. Ora, per impiegare a dovere il nuovo omaggio sottoforma di Telepass e Viacard, i fortunati eletti pugliesi per mantenere il «rapporto» con chi li ha votati dovrebbero andare a trovarli uno ad uno a domicilio. L’importante è che prendano l’autostrada.
    Puglia, telepass gratis ai consiglieri di Vendola - Interni - ilGiornale.it



    Pisapia nega l'omaggio al vice brigadiere Custra ammazzato dai terroristi
    Oltraggiata la memoria dell’agente: il sindaco di Milano contro il minuto di silenzio per il poliziotto ucciso. E l’ex terrorista Azzolini resta al suo posto
    di Giannino della Frattina
    Milano - Una promozione e un posto da capo di gabinetto del vice sindaco per Maurizio Azzollini, l’estremista rosso che sparò ad altezza d’uomo contro la polizia.



    E nemmeno un minuto di silenzio per ricordare e pensare ad Antonio Custra, il vice brigadiere della polizia ucciso dai manifestanti il 14 maggio del 1977 a Milano in via De Amicis, durante una delle tante manifestazioni che sconvolsero la città.







    Dopo la difesa del sindaco Giuliano Pisapia, anche lui un militante dell’ultrasinistra in quegli anni di piombo e di sangue, e della sua vice Maria Grazia Guida, ieri il consiglio comunale rosso-arancione si è allineato. E, nonostante la richiesta del consigliere del Pdl Carmine Abagnale, il presidente Basilio Rizzo, storico esponente della sinistra milanese issato da Pisapia sullo scranno più alto dell’aula, ha negato a Custra anche un semplice momento di ricordo.
    Quasi uno schiaffo proprio ad Abagnale, il poliziotto che in quella terribile giornata prestava servizio a fianco di Custra.



    E oltre al dolore per la morte del collega, proprio ieri in aula ha ricordato «gli insulti, gli sputi, il lancio di ogni oggetto dentro a un clima d’odio verso la polizia» e una «guerra metropolitana voluta e condotta da persone come Azzollini» quando «c’è stata per fortuna la saggezza di tanti poliziotti che al fuoco non hanno risposto col fuoco». Parole che avrebbero dovuto far riflettere. Situazioni così terribilmente attuali.
    Ferma anche la posizione del vice sindaco Guida. Che ha confermato di non avere nessuna intenzione di rivedere la sua decisone di promuovere Azzolini. Nessun turbamento nemmeno per le parole della vedova Custra che proprio al sindaco Pisapia, che difendeva il diritto al reinserimento, ha replicato «non è vero che non importa. Che è tutto passato e che tutto si può fare in nome del diritto all’oblio». Non solo. «Un conto - ha detto lei che ha perso un marito di 24 anni - è consentire a chi ha sbagliato di emanciparsi dagli errori, un altro è approfittare dell’oblio per elevarlo a posizioni di responsabilità pubblica, quando per la storia ne ha ben altre». Con la Guida che, a proposito delle richieste di un passo indietro, parla di «reazioni spropositate e indebite» e della necessità di «darsi il tempo per una riflessione». Tempo che non è stato concesso ad Antonia, la figlia di Custra nata un mese e mezzo dopo la morte del padre. E che di sé al Giornale ha detto, «nata senza papà e cresciuta già morta».
    Oggi, dopo che lo Stato per risarcirla in un primo momento le offrì un posto da operatore ecologico, ovvero spazzina, è anche lei poliziotta. Destini diversi, strade diverse. Un’unica ingiustizia.
    Pisapia nega l'omaggio al vice brigadiere Custra ammazzato dai terroristi - Interni - ilGiornale.it





    Cinquanta sacerdoti tra le vittime delle foibe
    Il racconto di Piero Tarticchio, parente di un sacerdote martire di quel periodo
    ROMA, domenica, 12 febbraio 2005 (ZENIT.org).- Giovedì scorso si è celebrata in tutta Italia la “giornata del ricordo” per le vittime delle foibe.
    La storia delle foibe è legata al trattato di pace firmato a Parigi il 10 Febbraio 1947, che impose all’Italia la cessione alla Jugoslavia di Zara – in Dalmazia –, dell’Istria con Fiume e di gran parte della Venezia Giulia, con Trieste costituita territorio libero tornato poi all’Italia alla fine del 1954.
    Dal 1947 al 1954 le truppe jugoslave di Tito, in collaborazione con i comunisti italiani, commisero un’opera di vera e propria pulizia etnica mettendo in atto gesti di inaudita ferocia.
    Sono 350.000 gli Italiani che abbandonarono l’Istria, Fiume e la Dalmazia, e più di 20.000 le persone che, prima di essere gettate nelle foibe (cavità carsiche profonde fino a 200 metri), subirono ogni sorta di tortura. Intere famiglie italiane vennero massacrate, molti venivano legati con filo spinato a cadaveri e gettati nelle voragini vivi, decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi. Nella sola foiba di Basovizza sono stati ritrovati quattrocento metri cubi di cadaveri.
    Per decenni questa barbarie è stata nascosta, tanto che l’agenzia di stampa “Astro 9 colonne”, nel fare un conteggio dei lanci di agenzia pubblicati dal dopoguerra ad oggi sul tema delle foibe, ha scoperto che fino al 1990 erano stati poco più di 30.
    Negli anni Novanta l’attenzione per il tema è aumentata: oltre 100 fino al 1995, l’anno successivo i lanci sono stati ben 155. Negli anni recenti ogni anno ce ne sono stati addirittura più di 200.
    Dopo anni di silenzio la vicenda è arrivata in Parlamento, e con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 è stato istituito il "Giorno del Ricordo", per conservare la memoria della tragedia delle foibe.
    Calcolare esattamente il numero delle vittime è difficile, ma sono stati almeno 50 i sacerdoti uccisi dalle truppe comuniste di Tito.
    Interpellato da ZENIT, Piero Tarticchio, che all’epoca dei fatti aveva sette anni, ha ricordato la tanta gente che partecipò al funerale del suo parente don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino e attivo nell’opera caritativa di assistenza ai poveri, ucciso il 19 settembre del 1943 e sepolto il 4 novembre.
    Il sacerdote venne preso di notte dai partigiani comunisti jugoslavi, insultato e incarcerato nel castello dei Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo averlo torturato, lo trascinarono presso Baksoti (Lindaro), dove assieme a 43 prigionieri legati con filo spinato venne ucciso con una raffica di mitragliatrice e gettato in una cava di bauxite.
    Tarticchio ha raccontato a ZENIT che il 31 ottobre, quando venne riesumato il cadavere, si vide che in segno di scherno gli assassini avevano messo una corona di filo spinato in testa a don Angelo. Don Tarticchio viene oggi ricordato come il primo martire delle foibe.
    Un’altra delle vittime fu don Francesco Bonifacio, un sacerdote istriano che per la sua bontà e generosità veniva chiamato in seminario “el santin”. Cappellano a Volla Gardossi, presso Buie, don Bonifacio era noto per la sua opera di carità e zelo evangelico. La persecuzione contro la fede delle truppe comuniste era tale che non poté sfuggire al martirio.
    La sera dell’11 settembre 1946 venne preso da alcune “guardie popolari”, che lo portarono nel bosco. Da allora di Don Bonifacio non si è saputo più nulla; neanche i resti del suo cadavere sono mai stati trovati.
    Il fratello, che lo cercò immediatamente, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie false. Per anni la vicenda è rimasta sconosciuta, finché un regista teatrale è riuscito a contattare una delle “guardie popolari” che avevano preso don Bonifacio.
    Questi raccontò che il sacerdote era stato caricato su un’auto, picchiato, spogliato, colpito con un sasso sul viso e finito con due coltellate prima di essere gettato in una foiba. Per don Francesco Bonifacio il 26 maggio 1997 è stata introdotta la causa di beatificazione, per essere stato ucciso “in odium fidei”.
    In “odium fidei” fu ucciso il 24 agosto del 1947 anche don Miroslav Buselic, parroco di Mompaderno e vicedirettore del seminario di Pisino.
    A causa della guerra in molte parrocchie della sua zona non era stato possibile amministrare la cresima, così don Miroslav accompagnò monsignor Jacob Ukmar per amministrare le cresime in 24 chiese diverse. I comunisti, però, avevano proibito l’amministrazione.
    Alla chiesa parrocchiale di Antignana i comunisti impedirono l’ingresso a monsignor Ukmae e don Miroslav. Nella chiesa parrocchiale di Pinguente una massa di facinorosi impedì la cresima per 250 ragazzi, lanciando uova marce e pomodori, tra insulti e bestemmie.
    Il 24 agosto nella chiesa di Lanischie, che i comunisti chiamavano “il Vaticano” per la fedeltà alla chiesa dei parrocchiani, monsignor Ukmar e don Milo riuscirono a cresimare 237 ragazzi.
    Alla fine della liturgia i due sacerdoti si chiusero in canonica insieme al parroco, ma i comunisti fecero irruzione, sgozzarono don Miroslav e picchiarono credendolo morto monsignor Ukmar, mentre don Stjepan Cek, il parroco, riuscì a nascondersi.
    Alcuni testimoni hanno raccontato che prima di essere sgozzato don Miloslav avrebbe detto “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
    Al funerale i comunisti non permisero ai treni pieni di gente di fermarsi, nemmeno nelle stazioni vicine. Al processo i giudici accusarono monsignor Ukmar e il parroco di aver provocato gli incidenti, così il monsignore, dopo aver trascorso un mese in ospedale per le percosse ricevute, venne condannato ad un mese di prigione. Il parroco fu invece condannato a sei anni di lavori forzati.
    Su don Milo, il tribunale del popolo sostenne che non era provato che “fosse stato veramente ucciso”. Poteva essersi “suicidato a scopo intimidatorio”. Le prove erano però così evidenti che l’assassino venne condannato a cinque mesi di prigione per “troppo zelo nella contestazione”.
    Nel 1956, in pieno regime comunista la diocesi avviò segretamente il processo di beatificazione di don Miloslav Buselic, ed è diffusa ancora oggi la fama di santità di don Miro tra i cattolici d’Istria.
    ZENIT - Cinquanta sacerdoti tra le vittime delle foibe






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    Le due Cine ancora in guerra: colpa della stella del basket
    Jeremy Lin, l’asso emergente del basket Usa, sta facendo impazzire l’Oriente. Ma ha un difetto: è originario di Taiwan. E non si può dire...
    di Roberto Gotta
    Altro che diplomazia del pingpong, qui siamo vicini al fallo tecnico. Stati Uniti e Cina si scontrano, stavolta su un campo da basket, attraverso Taiwan, l'isolastato che la Cina stessa continua a riconoscere come sua provincia, e non nazione indipendente. Motivo, o meglio pretesto, del contendere, che in realtà coinvolge più Cina e Taiwan che gli Usa, è l'emergere di Jeremy Lin, 23 anni, point guard cioè cervello in regia dei New York Knicks della Nba. Conosciuto solo a pochi appassionati fino agli ultimi giorni di gennaio, ora superstar globale, nome che un appassionato di sport americani non può più permettersi di non conoscere.
    Lin è cittadino americano di famiglia taiwanese, nato a Los Angeles nell'agosto del 1986 e cresciuto nella Bay Area, che vuol dire la zona che fa capo a San Francisco e Oakland. Bravissimo nel basket e negli studi al liceo di Palo Alto, aspirava a una borsa di studio per meriti sportivi di uno dei grandi college californiani ma nessuno di essi lo ritenne sufficientemente abile da meritarla, e allora, costretto a pagarsi la retta, scelse di andare dalla parte opposta degli Usa e iscriversi a una grande università come Harvard, che gli offriva la possibilità di giocare. Lo fece bene ma dovette accontentarsi di un contratto senza garanzie, con la trafila della lega estiva di perfezionamento, poi la prima stagione Nba con i Golden State Warriors (Oakland, vicino a casa) e uno sprazzo di notorietà prima che una serie di circostanze sfavorevoli lo portassero a essere lasciato libero ai primi di dicembre del 2011: lo presero gli Houston Rockets che però lo mandarono a casa alla vigilia di Natale, consentendo così ai Knicks di offrirgli un contratto per tappare un buco di organico.Senza troppa convinzione però, tanto che poche ore dopo una pessima partita a Boston, il 3 febbraio, avevano addirittura pensato di cacciarlo. Mentre i dirigenti temporeggiavano, il 4 febbraio Lin giocava una super partita contro i New Jersey Nets, guadagnandosi il posto nel quintetto iniziale in quella successiva. Da quel momento non si è più fermato, mettendo assieme nelle sue prime sette partite da titolare un numero di punti e di assist nettamente superiore a quello di personaggi che hanno fatto la storia del basket.
    Cognome atto a quei giochi di parole che la flessibilità della lingua inglese facilita, Lin è diventato uno degli atleti più noti del pianeta grazie anche alla popolarità della Nba e alle indubbie circostanze fa favola in cui nel giro di pochi giorni è assurto alla gloria. La cosiddetta Lin-sanity , una sorta di furore generato dalle sue imprese, è sfociata in una serie di fenomeni non sempre positivi: come se non fosse stato sufficientemente difficile per lui superare pregiudizi e stereotipi legati alla presunta scarsa attitudine degli atleti di origine asiatica al basket, adesso Lin è diventato involontario protagonista di un confronto politico e diplomatico strisciante. Il padre Gie-Ming era emigrato da Taiwan negli Stati Uniti verso la fine degli anni Settanta, portando con sè una passione per il basket che non gli era stato facile coltivare in patria, e sulle origini di Lin è nato ora lo scontro. Come noto, la Cina non considera Taiwan una nazione ma una sua provincia, e l'orgoglio per l'emergere di un taiwanese nella Nba ha da un lato fatto aumentare l'audience delle partite in Cina, mercato che la Lega considera cruciale, ma dall'altro ha fatto riavvampare decennali contrasti.
    Acuiti dal fatto che Lin è cristiano convinto - indossa adesso speciali braccialetti con una dichiarazione di fede - e non manca di menzionare l'Altissimo nelle sue interviste: in almeno un caso, nei sottotitoli in mandarino di una frase di Lin in inglese è stato omesso il riferimento religioso contenuto nell'originale, e nella diatriba è stato trascinato anche Yao Ming, formidabile atleta cinese ritiratosi lo scorso anno dopo una breve ma interessante carriera nella Nba. Yao aveva rilasciato dichiarazioni di ammirazione per Lin e la sua storia, ma nel suo ruolo di proprietario di una delle squadre della lega cinese e soprattutto di consulente governativo a Shanghai è stato subito etichettato dai media di casa come un «vero» cinese nella contrapposizione a Lin. Che in tutto questo non c'entra nulla: vero che le radici della sua famiglia erano in Cina, ma il ragazzo è cresciuto in America, ha parlata, mentalità e gusti americani e forse solo in casa, da ragazzino, ha sentito parlare di quella lontana terra costantemente sballottata da trattati e accordi diplomatici. Lin allora continua a giocare, e intanto sopra alla sua testa si è riaccesa la diatriba tra due nazioni con riporto di una, gli Usa. Siamo alle solite.
    Le due Cine ancora in guerra: colpa della stella del basket - Il Giornale - Libero 24x7



    Campagne I casi degli artisti che spingono il loro radicalismo ai limiti estremi
    Quando Hollywood è anti-americana
    Dal «terzomondista» Penn all'«iraniano» Stone:
    le superstar crociati delle cause perdute
    Massimo Gaggi
    NEW YORK - «Da sincero anticolonialista quale sicuramente è, Sean Penn si sbrighi a restituire al popolo messicano la sua lussuosa tenuta di Malibù: la sua occupazione di un terreno che è stato sottratto dagli Stati Uniti al Messico con un'aggressione spietata e imperialista è inaccettabile». Quella del Daily Telegraph è la più ironica e anche una delle più pacate tra le reazioni britanniche alle sortite dell'attore americano a favore delle rivendicazioni di Buenos Aires sulle isole Falklands.
    «Le Malvinas sono argentine» ha detto giorni fa, incontrando nella capitale sudamericana il presidente Cristina Kirchner. Davanti alla reazione furente dell'opinione pubblica e della stampa britannica che l'hanno accusato di giustificare una guerra a suo tempo scatenata da una giunta militare contro un pezzo di territorio legittimamente posseduto da una democrazia liberale, il protagonista di «Dead Man Walking», «Mystic River» e «Milk», un premio Oscar noto per le sue posizioni radicali, ha rincarato la dose: se l'è presa con la stampa («il buon giornalismo salva il mondo, quello cattivo lo distrugge») e col principe William, definendo la sua presenza nell'arcipelago dell'Atlantico meridionale (dov'è in servizio come pilota dei velivoli di soccorso) una «gratuita provocazione».
    Nel mondo del cinema gli attori e i registi che sposano cause di estrema sinistra - personaggi a volte etichettati come «radical-chic» - sono molti. Di polemiche contro le «star» che inneggiano al riscatto del proletariato dalle loro mega-ville a Cortina, in passato ne abbiamo viste molte anche in Italia. Negli Usa c'è, però, un piccolo drappello di artisti che entrano «a gamba tesa» sulla scena internazionale, spingendo il loro radicalismo fino a ignorare i presupposti di legalità e perfino le condanne della comunità internazionale.
    Insieme a Penn, in questi giorni a offrire ai giornali titoli da prima pagine ci sono Oliver Stone e suo figlio Sean, che si è appena convertito all'Islam sciita in una moschea di Isfahan. Sean, che ha da poco realizzato un documentario sulla vita e la cultura iraniana e che starebbe preparando il terreno per un film del padre su Ahmadinejad (Oliver dovrebbe arrivare presto a Teheran), era noto da tempo per le sue posizioni negazioniste sull'Olocausto e per aver messo in discussione la legittimità dello Stato di Israele. Ora si spinge ancora più in là, sostenendo la piena legittimità del programma nucleare iraniano anche nella sua parte militare. Quella delle conversioni non è una storia nuova nella famiglia Stone: Oliver, ebreo in gioventù, è diventato poi un cristiano episcopale per poi approdare al buddismo. E il figlio ora musulmano che ha cambiato il nome in Sean Alì, sostiene di non aver ripudiato cristianesimo ed ebraismo. Ora, però, si comporta soprattutto da seguace del presidente Ahmadinejad che lo ha premiato per il suo cortometraggio.
    Da George Clooney ad Angelina Jolie, di attori «liberal» impegnati nel sociale e che sostengono le cause dei popoli che considerano oppressi, ce ne sono molti. Ci sono, poi, i militanti sempre pronti a prendere posizioni di rottura come Jonathan Demme, il regista del «Silenzio degli innocenti» e di «Philadelphia» che ha fatto molto discutere col suo documentario sulla questione palestinese «Jimmy Carter, Man from Plains».
    Ma solo Stone, Penn e Michael Moore hanno portato il loro radicalismo fino al punto di raccontare storie in modo totalmente unilaterale. Dalla Cuba «paradiso» della sanità pubblica di Moore al regista di «Platoon» e «Nato il 4 luglio» che è addirittura arrivato a rifiutarsi di ascoltare le voci dei dissidenti quando, con «A Sud del confine», ha esaltato la figura del dittatore venezuelano Hugo Chávez. La «rinascita socialista» dell'America Latina narrata da Oliver Stone affascina anche Sean Penn, pure lui a suo agio tra Cuba, il Venezuela e la Bolivia di Evo Morales con quale si è fatto ritrarre pochi giorni fa, un poncho sulle spalle e l'elmetto da minatore in testa.


    Abbagliati dal Sol dell’avvenire
    di Luigi Mascheroni
    Mirella Serri, docente di Letteratura italiana e Giornalismo alla Sapienza di Roma, ha scritto due libri importanti sul rapporto tra cultura e potere. Il primo, I redenti (2009), sugli «intellettuali che vissero due volte», quelli che prima furono fascisti poi vicini o dentro i partiti di sinistra. Il secondo, I profeti disarmati, sull'«altra» intellighenzia italiana, quella che non si lasciò attrarre dalle seduzioni del Pci. Ora ne ha scritto un altro, perfetta conclusione di un'impietosa trilogia sulle «relazioni pericolose» tra uomini di idee e Ideologia. S'intitola Sorvegliati speciali (Longanesi), porta il sottotitolo «Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-80)», e sulla base di rapporti di polizia fino a oggi inediti, chiusi in faldoni d'archivio mai prima esplorati, rivela una vicenda forse sospettabile, ma comunque sorprendente.
    Questa: dall'immediato dopoguerra fino agli anni '80 i governi a maggioranza democristiana, con un picco nell'epoca Scelba, spiarono attraverso agenti di polizia e uomini dei servizi segreti moltissimi intellettuali organici al Pci e al Psi, ritenuti pericolosi fomentatori e megafoni per una possibile sovversione del sistema. Dai documenti top secret, redatti dagli occhiuti funzionari della Polizia di Stato ad uso delle Prefetture e del ministero degli Interni, emerge un incredibile e a volte grottesco mondo culturale, fatto di riunioni, mostre, convegni, cineforum, incontri nelle sezioni di partito o nella sede, molto ben frequentata, della Casa della Cultura di via Borgogna a Milano. Un via vai di scrittori, giornalisti, registi, compassati filologi e infervorati uomini di spettacolo. Rileva l'appoggio irrazionale, a prova di dubbi, concesso all'Urss e alle sue meraviglie da parte delle teste d'uovo del Pci. Sempre graniticamente sicuri di essere dalla parte del «giusto», gli intellettuali-portabandiera del verbo togliattiano-gramsciano-stalianiano, continuano a cantare, fino agli anni '80, sempre con l'identica fermezza, sempre senza incertezze, i trionfi, il benessere, le conquiste economiche e culturali del popolo russo e dei Paesi del socialismo realizzato. I maître à penser di Botteghe Oscure abbagliati dal Sol dell'Avvenire.
    E qui, i brogliacci redatti dai segugi di Stato che s'intrufolano nelle casematte gramsciane (associazioni teatrali, giornali, case editrici, centri studi, scuole...) mettono a nudo l'atroce illusione della sinistra. I capitoli 10 e 11 del saggio della Serri, in particolare, offrono un campionario stupefacente e impietoso degli intellettuali «Folgorati sulla via di Mosca» ostinatamente convinti che «A Est si ride e a Ovest si piange». «Cattivi maestri - scrive l'autrice - che hanno tranquillamente continuato a pontificare dai pulpiti più prestigiosi, accademici e non, senza mai essere chiamati a rendere conto». E senza mai un pentimento pubblico, aggiungiamo noi. Qualche esempio.
    Italo Calvino, di ritorno dall'Urss, nel '52, sfiorando l'apologia di comunismo, scrive: «Alla prima occhiata, capisco subito che qui c'è una società diversa, sento la presenza d'un elemento nuovo: l'uguaglianza». Emilo Lussu, negli anni di Stalin, elogia la pacifica e pacifista Russia: «Ai bambini sovietici sono sconosciuti i giocattoli che riproducono ordigni di guerra ... là si coltivano sentimenti di bontà e di fraternità». Carlo Salinari, anch'egli reduce da un tour moscovita, racconta di «aver riportato la chiara sensazione che in Russia i lavoratori, a differenza di quelli italiani, operano in un ambiente di assoluta serenità e di grande conforto». Antonio Banfi arriva a dire che «Se il mondo sovietico dovesse sparire, sparirebbe insieme a lui la speranza di vita migliore e il simbolo cui si rivolge fiducioso ogni cuore oppresso dall'ingiustizia». Luchino Visconti, nel '63, sostiene che «solo una società socialista può garantire le forme di concreta libertà di ricerca e di espressione». E Natalino Sapegno esalta l'Urss, «dove vi sono democrazia e libertà. Non libertà come da noi, dove c'è quella di morire di fame dominati dal Vaticano e dall'America». Ancora nel 1970 l'intellighenzia italica festeggia compatta il centenario della nascita di Lenin. E nel '67, per i 50 anni della Rivoluzione russa, Umberto Terracini da un palco definisce l'Urss «lo Stato più avanzato del mondo».
    Stati di allucinazione progressista. Come da titolo di un capitolo: «Teste d'uovo arruolansi». Per ottime frittate ideologiche.
    Abbagliati dal Sol dell’avvenire - Cultura - ilGiornale.it

    Il mistero miserabile di Fo
    di Roberta Vinerba
    Ho appena letto di come Dario Fo, il premio Nobel per la letteratura nel 1997, (Nobel per la letteratura si noti bene, dato ad un attore: si vede che l’idea di letteratura a Stoccolma è piuttosto relativa), ha boicottato un gruppo di volontari cattolici incaricati di svolgere una raccolta di beneficienza ai margini di un suo spettacolo. Siamo a Varese, Fo mette in scena Mistero buffo e al contempo fa dire ai volontari dell’associazione cattolica “Banco nonsolopane onlus” che non avrebbe fatto nessun annuncio dal palco in favore della raccolta fondi per i meno abbienti (come richiesto, in accordo con il direttore del teatro, dai volontari) perché il suo pubblico di sinistra non avrebbe capito la presenza, contigua al suo spettacolo, di un banchetto di volontari ciellini.
    La notizia di per sé si commenta da sola. L’uomo in questione, l’artista che è universalmente (sic) riconosciuto come libero e ribelle, geniale, l’inquieto cantore dell’animo umano, si mostra invece ossequiosamente, miseramente obbediente e asservito alle logiche della più crassa e vecchia ideologia. Sì, perché a interessare non è l’uomo che ha fame, che ha bisogno di una casa, che deve pagare le bollette, no, si sa: le ideologie hanno sempre avuto problemi con il principio di realtà. Per esse, la realtà è ciò che deve diventare a partire da un’idea “geniale” di uomo e di umanità che è sempre un a-priori. L’uomo e il suo mondo devono piegarsi ad entrare nelle categorie ideologiche che confezionano il mondo perfetto, chi non ci stà è cacciato fuori dal consesso umano. L’ideologia non vede l’uomo, vede l’uomo-che-vorrebbe-fosse. Così Fo ha voluto vedere l’uomo come un essere-di-sinistra rispetto ad uno-di-destra. Quello di sinistra ha i suoi codici e i suoi benefattori che non devono assolutamente interagire con i poveri e i benefattori di destra. Viene da ridere, lo ammetto, se non fosse che di questo pensiero miserabile ne sono ancora intessuti non solo i dinosauri come Fo, ma anche i tanti loro nipotini prigionieri anch’essi di un pensiero ideologico che non ha mai ripudiato quella falce e quel martello che insieme alla svastica hanno massacrato, nel nome del loro uomo, milioni di esseri umani. Veri, quelli, tragicamente di carne ed ossa. Dimenticavo: il raffinato filantropico pubblico di Dario Fo ha offerto ben 15 euro per i poveracci. Ma si sa, il pane è per il popolino, le arti per gli intellettuali. Così è, se vi pare

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    I cattolici democratici? Permalosi e vendicativi
    Da Prodi a Rosy Bindi, l’antropologia dei credenti di sinistra: cattivi e con poco senso dell’umorismo. E Riccardi è soltanto l’ultimo esempio
    di Paolo Guzzanti
    Ipotesi: i cattolici di sinistra appartengono a una specie a parte. Non che costituiscano una razza, ci mancherebbe, ma delineano forse una antropologia. Hanno cioè qualcosa che li distingue. Che cosa? Una certa viperesca cattiveria. A chi penso? A Romano Prodi, certamente, che malgrado la sovrastimata aria paciosa da mortadella, è cattivissimo e se la lega al dito. Ma non solo a lui. A questa cattiveria corrisponde un noto effetto collaterale: assenza del senso dell’umorismo.
    È vero, anche Mario Monti è cattolico, ma non fa parte della covata di sinistra e infatti sfoggia con eleganza un freddo senso dell’umorismo all’inglese e da professore universitario. I cattolici di sinistra sono persone come il vicepresidente della Camera e presidente Pd Rosy Bindi (ride con gusto, ma soltanto se la risata è di parte, della sua parte)



    oppure il ministro Andrea Riccardi



    che ieri l’altro è diventato protagonista di un fastidioso episodio. È noto ma lo riassumiamo: si è fatto sentire dai giornalisti parlamentari mentre diceva che la politica e i politici gli fanno schifo, riferendosi in particolare al segretario del Pdl Angelino Alfano che per suoi motivi politici (su cui si può dissentire o consentire) ha disdetto un vertice con il presidente Monti e gli altri segretari politici, per sue valutazioni politiche.
    In democrazia è così: i politici agiscono per motivi politici e si beccano senza batter ciglio le critiche anche feroci degli avversari. Avrà fatto bene? Avrà fatto male? È una questione politica. Riccardi non è invece un politico perché non ha legittimazione democratica (nel senso che non l’ha eletto nessuno) e dunque ha fatto malissimo a impicciarsi in modo malaccorto di una faccenda politica fra politici per poi comunicare al mondo la sua nausea e il suo schifo, salvo aggravare poi la sua posizione perché, anziché smentire come richiedono le regole, ha preferito confermare declassando goffamente i suoi malori di stomaco al livello delle chiacchiere da bar, benché fossero presenti altri due ministri, Severino e Balduzzi. Tutto ciò è stato detto e sottolineato in modo molto fermo e severo dall’imponente deputato Crosetto. Ma al di là del fatto che quel commento nauseato era improprio, imprudente, inopportuno e incompatibile con la funzione di ministro «tecnico e non politico» (non si può manifestare schifo per chi in Parlamento ti dà i voti grazie ai quali tu esisti) c’è la questione di cui dicevamo all’inizio. La cattiveria sprezzante, corporale, dei cattolici di sinistra.
    Anche grandi uomini della sinistra cattolica del passato come La Pira e Dossetti avevano in comune la quasi assoluta impermeabilità all’ironia, alla leggerezza, al senso dell’umorismo. Quando i democristiani di allora ebbero nelle loro file un cattolico dotato di una ironia sferzante e un senso dell’umorismo da premio Nobel, Mario Melloni, lo misero in fuga e quello diventò il corsivista principe dell’ Unità. Tutti i membri di quella antropologia manifestano o hanno manifestato forti idee sociali intransigenti e tassative, ma sopra tutto una velenosa voglia di colpire con rabbia.
    Vittorio Messori, un grande intellettuale cattolico, diceva anni fa in una intervista al Mondo mentre Romano Prodi era al governo: «Temo molto più un cattolico di sinistra di un postcomunista. È un gruppo ristretto di gente che scrive sui giornali, va in tv, guida organizzazioni, mentre la maggioranza dei cattolici, che partecipano alla vita della parrocchia, non si riconosce in Prodi, anzi». E ancora: «Oggi gli ultimi maoisti sono i frati sudamericani, le ultime a credere nella psicanalisi sono le suore americane. Ecco perché temo molto più un cattolico di sinistra di un postcomunista. È gente che ancora non ha scoperto che dietro termini come solidarietà e Stato sociale, apparentemente così nobili da apparire evangelici, in realtà c’è il trucco. Una mistificazione che spaccia per solidarietà le pensioni ai quarantenni o ai falsi invalidi».
    Messori non indicava allora l’astiosità, per non dire la cattiveria di questa tipologia, ma lo facciamo noi perché ci è parso di leggere proprio nelle parole di Riccardi quando si esprime in quel modo così corporeo e schifato nausea, vomito - l’inclinazione scatologica che confina nello scherzo da prete, fondato sui calci negli stinchi, molta retorica sulla povertà e la ricchezza, la prima sempre santa e la seconda sempre merda del diavolo. Proporrò personalmente una leggina per dotare il ministro di un sacchettino da vomito di quelli da aereo, da usare obbligatoriamente quando metterà piede in Parlamento.
    I cattolici democratici? Permalosi e vendicativi - Interni - ilGiornale.it


    Caso Urru, Borghezio:«Volontariato moda
    radical chic. Anche in Italia c'è bisogno»
    «Il volontariato? Una moda cattocomunista e radical chic spesso poco trasparente». La cruda analisi – riportata dall'agenzia di stampa Iris Press – è stata consegnata al giornalista Klaus Davi dall’europarlamentare leghista Mario Borghezio durante l’ultima puntata di KlausCondicio, il salotto tv in onda su You Tube. «Ovviamente – ha detto Borghezio –, in questo momento a prevalere su tutto è la speranza che la notizia della liberazione venga confermata al più presto ai familiari, e la più netta condanna per come Rossella Urru sia ingiustamente trattata. Ma questo non ci esenta da una riflessione netta su cosa sia il fenomeno di un certo volontariato. Ovvero, rappresenta una moda radical chic, inventata da un certo catto-comunismo, dall’ipocrisia di una parte del mondo cattolico di sinistra, che ama flagellarsi sulle colpe dell’Occidente, senza rendersi conto che nel Terzo Mondo l’Occidente ha qualche colpa, ma anche dei meriti giganteschi».
    Nel corso del programma, Borghezio ha poi precisato: «Bisogna comunque distinguere: un Albert Schweitzer resta un’icona dell’amore e della solidarietà; ma ci sono tante persone, tanti ‘professionisti’ dell’aiuto al Terzo Mondo, a cominciare da certe signore che vediamo ‘trotterellare’ in certe trasmissioni in prima serata, che poi si sa che non sono dipendenti degli organismi Onu, ma più che altro clienti degli hotel a cinque stelle. Alla faccia dei veri poveri».
    Alla domanda di Klaus Davi, «Secondo lei sarebbe meglio se i volontari esercitassero le loro missioni in Italia?», Borghezio ha risposto: «Io conosco tante zone non solo del Sud, ma anche del Nord Italia, per esempio tutte le zone di montagna, dove c’è tanta gente che vive da sola e avrebbe bisogno di conforto morale, oltre che materiale».
    Caso Urru, Borghezio:«Volontariato moda radical chic. Anche in Italia c'è bisogno» - Cronaca - Ravenna & Dintorni


    CINA: IL REALITY SHOW COI CONDANNATI A MORTE
    di REDAZIONE
    Molti piangono, una giovane donna si butta in ginocchio e chiama la mamma. Solo un uomo sulla trentina guarda dritto nella telecamera e dice: «Ora vado», mentre due poliziotti lo prendono per le braccia e lo portano verso il luogo dell’ esecuzione. Sono i condannati a morte cinesi che parlano con la giornalista Ding Yu, della televisione dell’Henan (Cina centrale) per il programma «Interviste prima dell’esecuzione», che va in onda il sabato, in prima serata, dal 2006, e che ha avuto fino a 40 milioni di spettatori.
    Guardando e ascoltando alcune delle interviste risulta difficile spiegarsi come Ding abbia ottenuto la collaborazione delle autorità provinciali per realizzare questo «reality» agghiacciante, nel quale i condannati vengono intervistati a distanza di poche ore, in alcuni casi di pochi minuti, dall’esecuzione. Secondo la rete televisiva americana Abc il programma, che va in onda dal 2006, sarebbe stato sospeso a partire da questa settimana.
    La notizia non è stata confermata nè smentita dalla televisione dell’Henan. La britannica Bbc ha annunciato che lunedì prossimo manderà in onda un documentario sul programma, allarmando probabilmente le autorità. Sembra che il programma sia stato autorizzato perchè le autorità hanno ritenuto che «Interviste prima dell’ esecuzione» possa servire ad «educare» il pubblico, facendo diminuire la criminalità. In Cina le esecuzioni capitali sono migliaia ogni anno. Il loro numero è un segreto di Stato ma secondo le valutazioni dei gruppi umanitari sarebbero tra le duemila e le ottomila all’ anno.
    I reati per i quali la pena di morte può essere comminata sono 55, tra cui molti reati non di sangue, come la corruzione. Alcuni dei «dead men talking» – cadaveri che parlano, il titolo di un documentario sul programma del regista australiano Robin Newell – intervistati da Ding sono giovanissimi. A volte le testimonianze sono strazianti, come quella di un uomo che si rivolge dai teleschermi alla figlia per dirle che «papà è tanto dispiaciuto». Come lo sono alcune scene, ad esempio quella di una giovane donna che piange disperatamente mentre – dall’ altra parte di una vetrata chiusa – il padre la saluta agitando una mano mentre viene portato all’ esecuzione.
    CINA: IL REALITY SHOW COI CONDANNATI A MORTE | L'Indipendenza


  9. #19
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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    Il paese dei demoni rossi.
    Di Libertà e Persona
    Inizia in questi giorni il processo ai Kmer rossi cambogiani. Eppure
    ben pochi sanno, in Italia, chi siano costoro. Complice una storiografia
    adulterata dalla propaganda delle sinistre massimaliste, che hanno
    monopolizzato la cultura per decenni, nel nostro paese...per questo
    riportiamo un bellissimo contributo dello storico Matteo D'Amico, sul tema.
    Gli Khmer rossi prendono il potere il 17 aprile 1975 e lo conservano fino
    al gennaio del 1979, La loro ascesa al potere era stata preceduta da almeno
    un decennio di guerra civile e di guerriglia continua, innestata dal fatto
    che è in corso la guerra del Vietnam e che il territorio cambogiano
    è utilizzato dalle truppe vietcong per rifornire di armi la guerriglia
    del sud.
    Il genocidio realizzato da Pol Pot (dal 10% al 40 % della popolazione
    eliminata in poco più di tre anni di dittatura) sembra in contrasto con
    il fatto che Pol Pot aveva dato ordine agli suoi quadri di moltiplicare
    la Popolazione cambogiana da 7 milioni a 20 milioni in 10 anni.
    Due milioni circa su 7 milioni di abitanti scompaiono nel nulla.
    Eppure Pol Pot voleva 20 milioni di abitanti per avere una grande
    Cambogia industrializzata!
    Il problema è che il suo pensiero gnostico e contro-esistenziale
    è irrealistico, è utopistico e quindi si hanno 2 milioni di morti:
    il crollo più assoluto della natalità, con il 64 % delle donne
    cambogiane vedove nel 1990.
    Dopo la presa del potere viene immediatamente dato corso
    al Regime comunista più violento forse della Storia.
    Fin'ora, nei Regimi comunisti c'erano i campi di concentramento,
    con milioni d'internati. La Cambogia supera questo criterio
    e diventa lei, tutta, un unico enorme campo di concentramento
    a cielo aperto.
    Normalmente i regimi totalitari comunisti deportano la popolazione.
    I Cambogiani sono tutti permanentemente sottoposti a regime
    di deportazione, spostati incessantemente da un posto all'altro
    come bestiame.
    Per esempio, in 3 giorni una città di 2 milioni e mezzo d'abitanti,
    Phom Penh, viene svuotata di tutti gl'abitanti.
    Con marce della morte folli che costano circa 20.000 morti.
    La descrizione di come è ridotta la capitale dopo lo svuotamento
    sono impressionanti. È come svuotare Roma o Milano in 2
    giorni di tutti i suoi abitanti a piedi, lasciando tutto in casa.
    Non solo, dopo la prima deportazione, la popolazione ciclicamente
    viene spostata a milioni, da una zona all'altra della Cambogia.
    In alcune regioni è proibito per legge ridere o cantare.
    Sono bandite le religioni.
    Passaporti interni anche solo per spostarsi da un quartiere
    all'altro delle città per chi poi viene riportato in città!
    Divieto di possedere attrezzi da cucina personali.
    Si può tenere con sé solo un cucchiaio.
    Cucine rigorosamente solo comunitarie, con la dipendenza
    di tutti dagli abusi dei cucinieri.
    Divieto di raccogliere frutta o altro cibo o fonte di alimentazione
    anche se è caduta a terra.
    La frutta viene lasciata marcire, la pena di morte viene applicata
    regolarmente e più severamente su questo tema che per qualunque
    altra infrazione.
    Il divieto sommo è alimentarsi in modo autonomo!
    Sequestro di ogni possesso personale.
    Dai 7 anni, i bambini sono tolti alla famiglia e vivono
    in asili con istruttori che iniziano a formarli alla politica
    comunista attraverso l'uso di canzoni particolari.
    Divieto ai genitori di castigare i figli!
    Ai mariti è vietato sgridare le mogli: la pena è la morte
    Divieto di ogni segno d'affetto in pubblico anche fra marito e moglie.
    Obbligo per legge di stare, per un uomo non sposato, ad almeno
    3 metri da qualsiasi donna.
    Progetto di ricostruire tutti i villaggi come nell'antico totalitarismo
    incas, con casette totalmente uguali e uniformi.
    Obbligo di trasformare tutte le risaie in risaie di 1 ettaro quadrato esatto
    con la rovina di tutta l'agricoltura cambogiana e la carestia (perché
    il sistema irriguo preesistente era molto diverso come partizione).
    Obbligo per legge di vestire tutti una divisa nera unisex,
    che poi non è altro che una specie di pigiama tradizionale.
    Divieto di indossare un qualsiasi oggetto colorato.
    Capelli alla maschietta per tutte le donne indifferentemente.
    La pena di morte viene comminata anche per i reati minori:
    infatti se tutto, come in ogni regime comunista, appartiene allo Stato,
    ogni delitto, anche il più piccolo, è di lesa maestà.
    Eliminazione dei 60 mila monaci buddisti ridotti a circa 1000
    alla fine del Regime.
    Sterminio metodico di tutti i giornalisti e intellettuali
    se non rinunciano al possesso di libri e se non buttano gli occhiali.
    Non si potevano mantenere gli occhiali perché significava
    conoscere la cultura passata.
    Naturalmente, viene anche condannato, in genere alla morte,
    chi sa il francese la lingua degli ex-colonizzatori.
    Gruppo soggetto in proporzione al più duro sterminio:
    i cattolici, con il 48,9% di morti.
    Pol Pot considera la malattia come un atto di sabotaggio,
    che viene spesso punito con la morte.
    La razione alimentare già ridotta viene ridotta
    della metà a chi è ammalato.
    Marito e moglie non possono dormire insieme; le guardie rosse
    prendono nota del ciclo mestruale femminile per mandare in base
    a calcoli medici, i mariti a dormire con le donne solo quando
    sono in un periodo potenzialmente fecondo (non dimentichiamo
    il sogno totalmente irrealistico di raddoppiare la popolazione!).
    Vietata la cremazione tradizionale dei cadaveri.
    Vietato per legge l'uso della parola morte, che va sostituita
    con l'espressione corpo che scompare (davvero interessante
    questa inimicizia dei comunisti per l'idea tradizionale
    di morte: ci ricorda la frase fatta scrivere durante
    la Rivoluzione francese sui cimiteri: "La morte è un sonno eterno")
    Massacri eugenetici di feriti, pazzi, mutilati, handicappati.
    Soppressa per legge la parola "io", sostituita con la parola "noi".
    Divieto di usare le parole papà e mamma anche per i bambini,
    con la sostituzione delle parole vietate con "zio o zia",
    termini più impersonali.
    Per legge vengono bruciate le carte d'identità, i diplomi scolastici
    e gli album di fotografie.[Perchè ricordavano la cultura del passato,
    che doveva essere sostituta integralmente dalla cultura comunista]
    Le pene più pesanti e più frequenti sono per chi si alimenta da solo
    sfuggendo alle mense collettive. Conseguenze: da 1 milione e mezzo
    a 3 milioni di morti in 3 anni di dittatura. Un milione di persone
    muoiono di fame e malattie legate alla fame.
    Un terzo della popolazione è cronicamente sotto alimentato e ammalato.
    Il Campo SS-21, il luogo centrale di tortura, inghiotte 1000 persone
    al mese, 20 mila in 3 anni: tutte morte tranne 3 che sono sopravissute
    e che sono i testimoni di un interessantissimo documentario.
    Fra le altre cose un numero altissimo di persone finite al SS-21
    veniva ucciso prelevandogli tutto il sangue per il vicino ospedale.
    Durante la dittatura Khmer muore il 33,9% degli uomini adulti
    e il 15,7% delle donne cambogiane, il 54% dei vecchi oltre i 60 anni.
    Vi è un crollo completo della natalità: vent'anni dopo la fine
    della dittatura comunista la popolazione cambogiana
    non è ancora arrivata al livello a cui era giunta nel 1970.
    Vengono uccisi l'82% degli Ufficiali e dei funzionari del Regime precedente.
    Uccisi anche il 51 % dei laureati e il 41,9% dei abitanti di Phom Penh.
    La superficie a riso nel 1976, dopo un anno di dittatura, è il 50% della
    superficie di riso di prima dell'inizio della dittatura.
    20.000 fosse comuni scavate vicine ai campi per usare i cadaveri come
    concimi per le risaie.
    La modalità della morte: 29% fucilazione, 53% sfondamento del cranio,
    6% impiccati, 5% sgozzati, 5% percossi.
    Corsi di rieducazione per tutti gli intellettuali attraverso il lavoro
    sforzato e la denutrizione.
    Distruzione della Biblioteca nazionale e di tutte le biblioteche per fare
    carta da macero [per eliminare ogni riferimento alla cultura passata]
    Abolizione del denaro; divieto del baratto e di qualunque attività
    di commercio.
    Monopolio assoluto di ogni fonte alimentare quindi da parte
    di un potere totalitario e inumano.
    È il primo Stato schiavista della Storia moderna.
    Vi è qui un salto qualitativo rispetto allo stato totalitario;
    nello stato totalitario si è schiavi solo metaforicamente
    (a parte i deportati), qui tutti sono deportati e tutti sono schiavi.
    Infine, obbligo di piantare il grano, per convincere gli intellettuali
    a redimersi, anche in campi di pallacanestro o di cemento armato!
    Lavaggio del cervello attraverso la redazione di autobiografie
    e autocritiche continue.
    Avvento di una neolingua con la cancellazione, fra le altre parole,
    della parola "bellezza", che non si poteva dire, "comodità"
    che non si poteva dire, e "colore" che viene vietato per legge.
    Divieto di giocattoli per i bambini e di qualunque attività sportiva,
    considerata borghese.
    Totale isolamento postale, telefonico, aereo, marittimo della Cambogia:
    impossibilità assoluta di viaggi turistici. Lo scopo di tutto questo insieme
    di norme spesso anche in contraddizione fra loro era, attraverso un inferno
    attentamente programmato, plasmare gnosticamente un uomo nuovo.
    Siamo di fronte al primo stato schiavista della storia moderna, nel quale
    lo schiavo non può decidere nemmeno cosa mangiare, dove dormire,
    chi sposare.






    Abbiamo aspettato30 anni invano?
    Il processo ai Khmer rossi, un evento epocale che i media ignorano
    Enrico Testini
    Sono passati trentatre anni da quando il 7 gennaio del 1979 il regime dei Khmer rossi di Saloth Sar, universalmente noto come Pol Pot, capitolava. Al potere in Cambogia dal maggio del 1975, in quattro anni la dittatura Khmer, di stampo comunista-maoista, diede vita ad una delle pagine più allucinanti della storia dell'umanità. L'imperativo fu ricominciare tutto dall'anno zero attraverso l'annientamento totale di ogni forma di modernità, della società e dell'essere umano stesso.
    La distruzione di automobili, elettrodomestici, macchinari, libri; l'abolizione delle scuole, della moneta, del commercio, degli affetti, furono solo il brevissimo preludio ai campi di lavoro forzato, alle torture, alle esecuzioni di massa, alle fosse comuni. Chiunque sapesse leggere o scrivere, parlasse lingue straniere, portasse gli occhiali, era considerato un nemico e quindi eliminato. Ben presto la maniacale visione dei Khmer portò a considerare chiunque un nemico. Il risultato fu la trasformazione del paese in un raccapricciante campo di sterminio a cielo aperto dove 2 milioni di persone, il 25% della popolazione, furono massacrate. I responsabili di questa barbarie, sono rimasti impuniti sino ad oggi.
    Con un ritardo macroscopico, dovuto all'ostracismo del governo locale, gli esponenti di spicco del regime Khmer sono finalmente alla sbarra per rispondere di crimini contro l'umanità, di crimini di guerra e di genocidio. Arrestati solo nel 2007, a giudicarli sarà l'ECCC, tribunale istituito ad hoc nel 2003, composto in maggioranza da giudici nazionali ed in parte da giudici internazionali. Compaiono il numero due del regime, Nuon Chea, insieme all’ex Capo di Stato Khieu Samphan e all’ex Ministro degli Esteri, Ieng Sary. Eppure l'epilogo di questo dramma non sembra scontato e non perché manchi all'appello Pol Pot ideatore e deus ex machina dell'inferno cambogiano morto impunito nel 1998, ma perché il tribunale stesso sembra svuotato di potere.
    Dopo 8 anni di lavoro ed un costo di milioni di euro un solo obiettivo raggiunto, la condanna di Kaing Guek Eav, alias compagno Duch, il macellaio di Phnom Penh, torturatore di professione, direttore del carcere Tuol Sleng, efficientissima macchina organizzata per sterminare esseri umani, 600 al giorno; i 35 anni comminatigli, addirittura ridotti a 19 a causa del periodo già scontato in carcere e per altre motivazioni tecniche, non sono un'assoluzione, ma 15mila ergastoli (tante furono le vittime del campo) avrebbero dato una parvenza di giustizia. Per gli altri imputati il processo è appena iniziato, ma non è un mistero che il tribunale sia accusato di subire pressioni politiche e ritardi. Troppi, perché gli imputati sono ormai tutti ultraottantenni e malati, o dichiaratisi tali.
    E così la signora Ieng Thirith, all'epoca Ministro degli Affari Sociali, dichiarata affetta da morbo di Alzheimer, non verrà mai processata, ma prima di essere rilasciata ha augurato ai suoi accusatori di finire “maledetti nel settimo girone infernale”. Nuon Chea ha dichiarato che i Khmer “uccidevano soltanto i cattivi e non i buoni”, aggiungendo “non voglio che le nuove generazioni pensino che i Khmer fossero cattivi”. Per Khieu Samphan e Ieng Saryfu nessuna altisonante dichiarazione, non c'è n'era bisogno, per loro parlano i fatti.
    A leggere i capi di imputazione dei tre principali gerarchi del regime, i 15.000 ergastoli auspicati per Duch, quantomeno reo confesso, sono pochi. Considerati da Pol Pot i “fratelli”, proprio in quel paese dove i legami e gli affetti parentali furono criminalizzati per prevenire ogni forma di corruzione borghese, il loro delirio era trasformare la Cambogia in un unica campagna senza città e senza oppositori attraverso epurazioni di massa. Lo fecero, loro sì, senza perdere tempo.
    In minima parte fucilati, perché le pallottole innanzitutto costano e poi non trasmettono quel senso di terrore e disgusto, sicché molti venivano uccisi tramite soffocamento con buste di plastica oppure operati vivi con arnesi incandescenti. Quello che si dice “settimo girone infernale”. Nei famigerati killing fields rimanere esseri umani era impossibile. L'orrore imposto dai khmer ha vinto anche sui sopravvissuti, su un intera generazione di cambogiani, eliminando qualsiasi forma di entusiasmo, trasformando l’uomo in oggetto.
    Sono passati 30 anni, adesso il tempo stringe, anche per i più accaniti garantisti la parola d'ordine non può che essere sbrigarsi, far sì che il processo viaggi spedito e si concluda nel più breve tempo possibile. Ma tra dimissioni di giudici internazionali e neanche troppo velate minacce del governo locale si capisce come questo sia un processo ad un intero paese, ad un intera nomenklatura rimasta al potere anche dopo la caduta del regime che tutto vuole tranne che giustizia sia fatta. Mentre il regime di paura persiste, il tempismo con il quale il tribunale si affanna ad archiviare nuovi casi è quantomeno imbarazzante rispetto alla lentezza palesata nel procedimento principale. Sembra essere certo, ormai, che nessuno avallerà mai la possibilità di aprire nuovi casi, solo quattro persone saranno processate per lo sterminio cambogiano, tantissimi i responsabili di atrocità che rimarranno impuniti. Poco male: i cambogiani hanno imparato a convivere accanto ai propri aguzzini, anche con questo tipo che durante la sua deposizione ha riferito: “la stuprammo....sapete eravamo giovani e gli ormoni....la picchiammo poi per 5 giorni finché lei non confessò”. La fine la immaginiamo tutti. Migliaia le confessioni estorte in questa maniera. Tutte storie da prima pagina, evidentemente la latitudine gioca contro.
    Invece i “fratelli”, sorboniani di formazione, conoscono benissimo l'importanza della retorica; non possono più far uccidere i loro giudici, ma utilizzare a proprio vantaggio l'isolamento del tribunale, sì. L'opinione pubblica internazionale costituirebbe un fattore di pressione importante. Un avvenimento epocale come questo dovrebbe essere portato alla ribalta dai media, ed invece la quasi totalità dei mezzi di comunicazione lo ignora. E se il tribunale non trovasse la forza per togliersi da questa impasse? Niente di che, i morti sono morti, anche gli imputati se ne andranno presto, milioni di cambogiani saranno umiliati, una figlia si chiederà se il padre torturato e ucciso tanto tempo fa non fosse davvero un uomo cattivo; non sarà da biasimare il compagno Duch se l'unico rimpianto che dovesse avere nei prossimi anni fosse quello di aver confessato, o di non essersi fermato alla quota di 5.000 vittime, penserà, forse, che avrebbe potuto essere già libero. Il vero rischio insomma è che la nuova Norimberga si trasformi in un boomerang.
    Allora sì, sarebbe stato meglio lasciare che la legge naturale fosse arrivata per prima a seppellire Khmer e vittime, affidandosi all'adagio di Voltaire per il quale il tempo sistema tutto, lasciando poi alla storia il compito di dare l'intera responsabilità a Pol Pot. Triste, troppo per essere accettato. L'unico modo per spostare l'ago della bilancia è quello di far tuonare tra le mura del tribunale la voce della morale collettiva internazionale attraverso carta stampata e telegiornali. Ma su questo fronte tutto tace e l'indifferenza con la quale i media occidentali trattano, o meglio non trattano, la vicenda non fa altro che alimentare la sfiducia ed il senso di abbandono che la Cambogia vive da decenni.
    Paola, che lavora a Phnom Penh dal 2007 come consulente per una ONG cambogiana, racconta: “Noi stiamo pubblicizzando il processo in ogni modo, ma nostro malgrado abbiamo registrato una sorta di apatia, effetto di qualcosa ancora radicato nelle mente dei cambogiani. Il processo non è importante solo per quello che è stato ma anche per quello che sarà, per le nuove generazioni, per i bambini cambogiani”. Il terrore impone l'oblio, constatò sulla pelle del suo popolo Hannah Arendt, il silenzio perpetra l'ingiustizia, aggiungiamo noi. Abbiamo aspettato 30 anni invano?
    Il processo ai Khmer rossi, un evento epocale che i media ignorano | l'Occidentale


    EMPI ED ATEI SECONDO PADRE LIBERATORE
    di LEONARDO FACCO
    Nel 1989, sotto le macerie delle sue imposture, è crollato ufficialmente (ma non realmente) il comunismo. Eppure, molto prima che il Muro di Berlino venisse giù, Ludwig von Mises aveva prospettato senza mezzi termini la fine del socialismo, nonostante la propaganda continuasse a perorare le cause di un sistema sorretto perlopiù dal terrore e dalla miseria generalizzata.
    Molti anni prima dello studioso austriaco, però, un sacerdote di Avella di Nola aveva già capito tutto. Padre Luciano Liberatore, nel 1850 – ovvero a soli due anni dall’Internazionale socialista e dalla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels – diede alle stampe uno straordinario libro intitolato “Il Comunismo e Socialismo nelle loro stravaganze riguardo alla religione ed al politico”. Si tratta di un manuale profetico che, per primo al mondo forse, ha denunciato la fallacia di un’ideologia di cui solo oggi conosciamo (in parte) le tremende conseguenze. L’opera di Padre Liberatore venne, da subito, relegata nell’oblio, fors’anche perché in quegli anni l’onda giacobina e risorgimentale stava facendo prendere alla storia una piega tutt’altro che liberale.
    Oggi, grazie alla meritoria opera di Piero Pazzi della “Biblioteca orafa di Sant’Antonio Abate” di Venezia, per mezzo di una ristampa anastatica, il libro è stato rimesso in circolazione, seppur in tiratura limitata, e la sua lettura è al contempo istruttiva e strabiliante.
    Innanzitutto, lo scritto di Padre Liberatore, basato sulla sola lettura di quanto editato da Marx, è una vera e propria intuizione, un vaticinio di quanto sarebbe accaduto nel Novecento allora prossimo venturo. Il sacerdote della Congregazione del SS.mo Redentore aveva capito in nuce i guasti di un’ideologia che, a quei tempi, era solo in fase embrionale. Ciononostante, l’autore era riuscito a prevedere tutto senza aver potuto essere testimone né della Comune di Parigi (1870), né della Rivoluzione d’ottobre (1917), né dell’invasione sovietica dei paesi dell’Est europeo del 1945. In un clima, tra l’altro, denso di eventi ed incognite per l’instabilità degli Stati della penisola italiana, questo religioso è riuscito ad andare più in là del quotidiano, intuendo che dietro al socialismo e al comunismo si celava un sorprendente futuro, costruito a danno di ogni valore civile e morale.
    La preoccupazione principale di Padre Liberatore, sin dalle prime pagine, è quella di prendere le distanze dai “traditori della Religione”, ovvero dagli epigoni della nuova ideologia che vengono senza mezzi termini apostrofati come “geni torbidi e facinorosi, degli scellerati unicamente intesi a sconvolgere la società…che non anelano che di regnare nel Mondo”. “Empi, increduli e nefandi” sono alcuni degli epiteti rivolti contro “coloro che non lasciano mai d’interessare il potere e la forza dello Stato per distruggere la Religione”. “Essi – continua l’autore – ammetterebbero tutte le stravaganze di una ragione in delirio, basta che non sieno le verità di Dio stesse rivelate”.
    I nemici di Dio, secondo il religioso, non possono essere altro che nemici di qualunque società ordinata: “Questi uomini – si legge – turbolenti e rivoltosi non vivono che di pubbliche calamità e non si pascono se non del piacere di agitare i popoli traviati e sempre miseri, di loro ispirare delle massime di spaventose ribellioni e di congiure, e di precipitare la società nel più profondo delle sciagure e delle barbarie sotto colore di migliorarla…”. Profetico no?
    All’analisi dettagliatissima sulla sgradevolezza dell’ateismo dei socialisti e dei comunisti, il padre aggiunge anche una serie di valutazioni socio-politiche del pensiero marxista: “Ma in quanto a quei che si dicono Comunisti e Socialisti, per l’altro canto sarebbe desiderabile che fossero scolpiti in bronzo ed in marmi i loro infami sistemi, per servire di ammaestramenti ai nostri più tardi nipoti, onde far loro conoscere che uno spirito invaso dall’orgoglio, ed un cuore immerso e soffocato nella più completa corruzione, non trova mai nè fondo, nè fine ai suoi traviamenti, anche i più vergognosi e spaventevoli”. Si noti bene che si tratta di concetti risalenti al 1850.
    Contro le promesse del materialismo storico, Padre Liberatore ha parole di fuoco: “Si aspettava il nostro secolo di lumi e di scienza per uscire alla luce del giorno delle teorie le più ripugnanti alla natura, e le più contrarie ad ogni esperienza”. Di più: “Ma è assai più sorprendente che possa alcuno persuadersi che la nostra felicità consista nel soddisfare alle nostre passioni; e che tutto il nostro paradiso sia in questa terra col fruire dei suoi piaceri e dei suoi beni; mentre non solo gli occhi, ma tutti gli organi del corpo, la ragione, lo spirito, il cuore, il senso intimo, il senso comune, l’esperienza quotidiana di sè medesimo, ed il testimonio costante di tutto il genere umano gli mostrano il contrario colla più luminosa evidenza”. E al paradiso terrestre viene contrapposto il Regno dei Cieli: “Per rendere l’uomo felice non basterebbero nemmeno tutt’i beni e tutt’i piaceri del Mondo; per farlo infelice basta egli solo a sè stesso”. Atesismo e materialismo sono i nemici giurati, sono il fine fallace predicato dai comunisti.
    Il sacerdote, alla “Setta detestabile dei Comunisti o Socialisti” (si noti come vengano identificati come un unico soggetto con due nomi diversi) non perdona nemmeno l’attacco alla proprietà privata: “Le leggi di giustizia e di proprietà non sono da loro riputate che aperte violazioni delle leggi della natura; e, secondo già va spacciando il medesimo Apostolo del Comunismo, la proprietà è un furto, ed i proprietari non sono che tanti ladri”. Di più: “Ora, accordate loro queste massime, e l’Universo cade in un caos fatale, e tutto è confusione sulla terra, poiché col fare svanire tutte le leggi più inviolabili della società, perisce pure l’armonia del corpo politico…”.
    In conclusione, quale è il pensiero che può sintetizzare idee e gesta di “Comunisti e Socialisti” secondo Padre Liberatore? “Non mai si è veduto un egoismo più crudele, e distrutte le dolci espansioni della natura – dice di loro il sacerdote – che come sotto l’amorosa tirannìa di questi Filantropi inumani, fabbri d’impostura; più furbi e maligni, ma non meno distruggitori della società che gli Unni ed i Vandali. Questi nuovi barbari non sono differenti dagli antichi, se non in quanto i primi non avevano mai preteso di travagliare la felicità dei Vinti”.
    Beata verità.
    EMPI ED ATEI SECONDO PADRE LIBERATORE | L'Indipendenza


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    Predefinito Re: Comunisti, progressisti, sinistrati & affini…

    Il Comunismo: una rivoluzione nata già morta (di fame)
    di Giampietro Berti
    Il pregevole libro di Silvio Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale. 1917-1991 (Einaudi, pagg. 419, euro) ricostruisce con equilibrio la vicenda comunista, partendo dal presupposto che essa sia stata, prima di tutto, un progetto di rivoluzione mondiale. Pons ne analizza i maggiori passaggi storici. La sua parabola si è svolta in sei tempi: la fase rivoluzionaria vera e propria, l'edificazione dello Stato sovietico, la seconda guerra mondiale, l'espansione imperialistica dell'Urss, il suo successivo declino, la crisi e la dissoluzione. Sottolineiamo, per quanto ci riguarda, che la vera contrapposizione che attraversa il Novecento non è quella tra democrazie e fascismi, ma tra democrazie e totalitarismi. Aggiungiamo anche che il comunismo poco si identifica con l'Occidente. Lo conferma il caso dell'Europa orientale, finita sotto Stalin per l'imposizione dell'armata rossa. Nell'Occidente non c'è mai stata una vera e decisiva affermazione comunista. Gli stessi successi elettorali dei comunisti italiani avvenuti negli anni Settanta sono stati dovuti al fatto che il Pci si presentava, almeno in parte, con un volto «socialdemocratico».
    Dalla ricostruzione di Pons emerge in modo inconfutabile la seguente considerazione: il comunismo è stato un movimento politico, culturale, ideologico e militare; non è stato invece, mai, una realtà economico-sociale, naturalmente se per realtà economico-sociale si intende l'esistenza decente di una società civile. In questo senso, esso non ha mai costituito, nemmeno per un momento, una reale alternativa al capitalismo.
    Come ha scritto François Furet, riferendosi alla maggiore esperienza comunista, quella Sovietica, «la sua rapida dissoluzione non ha lasciato nulla: nè principi, nè codici, nè istituzioni, neanche una storia. Essa è stata una superpotenza senza aver incarnato una civiltà». Pons, insomma, non può misurarsi con quello che non c'è stato, e dunque il suo libro difetta della spiegazione decisiva del fallimento comunista, che non fu dovuto solo a motivi politici, militari o culturali, ma soprattutto al fatto, indubitabile, che l'economia collettivista non ha mai funzionato e non funziona: in Russia come in Cina, a Cuba come nei Paesi del Sud-est asiatico, essa ha portato il «socialismo reale» alla catastrofe. Il vero confronto fra il capitalismo e il comunismo è avvenuto nei vent'anni successivi alla fine della guerra fredda, quando la competizione fu liberata da ogni elemento guerresco. E ciò, naturalmente, la dice lunga sulla natura della vittoria e della sconfitta dell'uno e dell'altro modello, dato che è proprio sul piano della libera comparazione che si può veramente constatare chi è in grado di offrire maggiore civiltà, maggiore benessere, maggiore uguaglianza e maggiore libertà.
    Il Comunismo: una rivoluzione nata già morta (di fame) - Cultura - ilGiornale.it

    BLITZ
    Il 6 novembre 2004 a Roma, i c.d. «disobbedienti» fecero spesa proletaria in un supermercato e in una libreria. In 39 furono denunciati per rapina aggravata e lesioni. Tra essi, il consigliere comunale Nunzio D’Erme e il famoso Luca Casarini. Dopo otto anni, tutti assolti. I giudici hanno aderito alla loro linea di difesa, in quanto si trattava solo di un’«operazione mediatica». Fonte: «Il Giornale» del 29 marzo 2012 (trafiletto).
    Antidoti contro i veleni della cultura contemporanea » BLITZ


    In Corea del Nord, dove comandano i morti, si festeggia: «Sapone ed erbe selvatiche per tutti»
    L'attuale presidente è morto da quasi vent'anni, il segretario generale da quattro mesi. Ma sono loro i "leader eterni". Quelli "supremi" si limitano a lanciare missili e a festeggiare i defunti con ricche distribuzioni di cibo: «Riso, 10 uova, erbe, dentifricio, cavolo cinese e alcol».
    Di Leone Grotti
    Che la Corea del Nord non fosse un paese particolarmente allegro, lo si sapeva già. Ma la decisione presa ieri dalla quarta Assemblea dei delegati del Partito dei lavoratori non migliora certo la fama del paese che viene considerato il "buco nero" della Terra. La carica di "segretario generale eterno" del Partito dei lavoratori è stata infatti assegnata ad un morto: Kim Jong-il, che continuerà a partecipare ai processi decisionali del paese, secondo le sue "ultime volontà".
    L'ex dittatore della Corea del Nord, morto il 17 dicembre scorso, va così a fare compagnia al padre, Kim il-sung, che detiene la carica di "presidente eterno" del paese dal luglio 1994, anno della sua morte. Visto che tutte le cariche più importanti del paese sono già occupate da persone decedute, Kim Jong-un si è fatto nominare primo segretario del Partito dei lavoratori, carica che ricorda quella assunta nell'Unione Sovietica da Nikita Khrushchev, succeduto al segretario generale Stalin, o quella attualmente ricoperta da Raul Castro, il fratello del fondatore Fidel.
    Il "leader supremo" e attuale dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un ha fatto anche nominare suoi uomini fidati in ruoli chiave. La sua prima mossa da primo segretario del Partito dovrebbe essere quella di ordinare il lancio del tanto temuto Kwangmyongsong-3, satellite di osservazione terrestre che prende il nome da un componimento poetico in cinese di Kim Il-sung. Se questa decisione è avversata da tutte le nazioni del mondo, Cina compresa, è perché il fantomatico lancio di satellite in orbita, che nonostante secondo l'agenzia di Stato riescano sempre poi nessuno riesce mai a individuare nello spazio, è in realtà un vero e proprio test missilistico. A essere lanciato è infatti il Taepodong-2, missile balistico in grado di arrivare a 4.500 chilometri di distanza. Il Giappone si è già mobilitato per intercettarlo e abbatterlo, nel caso ci sia il rischio che entri in collisione con il suolo nipponico.
    Il lancio è stato annunciato in una data che oscilla tra oggi e il 16 aprile e gli Stati Uniti se la sono presa molto visto che il 28 febbraio, per la gioia di un raggiante Barack Obama, avevano raggiunto il seguente accordo con il paese comunista: Pyongyang interrompe il programma nucleare e il lancio di missili in cambio di 240 mila tonnellate di aiuti alimentari. Appena pochi giorni dopo è saltato tutto, con l'agenzia ufficiale di Stato che tuonava essere un loro diritto perseguire un programma spaziale.
    Ad oggi il "satellite" non è ancora stato lanciato ma si pensa che verrà fatto il 15 aprile per il 100mo anniversario della nascita del "presidente eterno" Kim Il-sung. Per l'occasione, tutti i locali quadri di partito dovranno assicurarsi che alla popolazione vengano distribuiti per l'eccezionale occasione: riso (2 kg), olio di semi di soia (1 litro), maiale (2 kg), zucchero (1kg), alcol (2 bottiglie), pesce (1 kg), snack (1 kg), dolciumi (1 kg), 10 uova, frutta (1 kg), cavolo cinese (2 kg), germogli di fagiolo (1 kg), erbe selvatiche, sapone e dentifricio. Di solito la distribuzione di cibo comprende appena tre generi alimentari, comprendenti alcol e olio di semi di soia.
    Secondo una fonte contattata da Daily Nk della Provincia Hamkyung nord, «i responsabili di partito non sanno che pesci pigliare, nel senso che hanno ricevuto le istruzioni ma non i soldi per metterle in pratica. Alcuni chiedono in prestito soldi, altri li chiedono ai lavoratori stessi per comprare il maiale al mercato. Molti hanno imposto ai contadini di coltivare i fagioli. Alle donne è stato chiesto di raccogliere erbe selvatiche nelle zone di montagna». Perché in Corea del Nord si può anche morire per non avere celebrato in modo degno il compleanno dell'attuale (anche se morto da quasi vent'anni) presidente del paese.
    In Corea del Nord, dove comandano i morti, si festeggia: «Sapone ed erbe selvatiche per tutti» | Tempi


    Corea del Nord, fallito il lancio del missile a lungo raggio: non ha raggiunto l'orbita
    Seul, 13 apr. (Adnkronos/Dpa) - La Corea del Nord ha tentato questa mattina senza successo di mandare in orbita un missile a lungo raggio, in un'operazione che aveva già provocato aspre reazioni internazionali. Il missile non ha raggiunto l'orbita e i tecnici stanno cercando di capire le cause del fallimento, ha reso noto l'agenzia stampa ufficiale nordcoreana Kcna. "Il satellite di osservazione terrestre non è riuscito a entrare nella sua orbita - ha riferito la Kcna - scienziati, tecnici ed esperti stanno cercando di capire le cause del fallimento".


    La Cgil si ribella al preside che vuol far lavorare i prof
    Il preside di una scuola di Cisliano, paesino alle porte di Milano, vuole usare per le ripetizioni durante l’anno i 15 giorni già pagati in cui non si fa lezione. Risparmi da 1 miliardo. Ma il sindacato dice no
    di Maria Sorbi
    Fanno la voce grossa contro licenziamenti e precariato dei docenti. Giusto la voce. Quando però arriva una proposta concreta (e sensata) per gestire meglio le risorse delle scuole, allora battono la ritirata.
    Sono i sindacalisti della Cgil scuola Lombardia. Che, colpo di scena, sono refrattari al cambiamento, soprattutto se è a costo zero. Nient’affatto disposti a intaccare «lo stato attuale dei privilegi» degli insegnanti.
    Partiamo dall’inizio della storia. A Cisliano, paesino di 4mila anime alle porte di Milano, Luciano Giorgi, preside dell’istituto comprensivo Erasmo da Rotterdam, si arma di buon senso e fa due conti con il calendario alla mano. E si accorge che nel periodo tra il primo luglio e il 31 agosto i docenti (salvo i giorni di ferie e i fine settimana) hanno 15 giorni lavorativi regolarmente retribuiti. Praticamente regalati. Perché allora non utilizzare quel monte ore durante l’anno? Ad esempio per ripetizioni agli alunni, proposte didattiche extra lezione o altre attività? O per tutto ciò che l’autonomia scolastica consente di fare a ogni singolo istituto?
    Il preside fa di più: estende il suo ragionamento a tutta Italia e scrive a ministri e al direttore regionale scolastico: «Gli insegnanti della scuola pubblica sono 700mila e in totale - spiega Giorgi - le giornate retribuite da utilizzare sarebbero 10,5 milioni». Poiché ognuna di queste giornate costa in media 100 euro, l’esborso è pari a 1,5 miliardi di euro. Questa cifra, anziché essere corrisposta per una sorta di reperibilità mai sfruttata, «potrebbe essere erogata a fronte di una prestazione di lavoro effettiva e non più meramente virtuale».
    Insomma, il preside di un microscopico paesino di provincia trova il modo per far risparmiare alla scuola oltre un miliardo all’anno. O meglio, trova il modo per utilizzare quel denaro con criterio, senza che vada sprecato. Un antidoto anti crisi che dovrebbe essere apprezzato. Semmai rivisto e corretto nella forma ma se non altro preso in considerazione.
    E invece che cosa si sente rispondere il preside? Che la sua è soltanto «una provocazione». A dirglielo non sono certo i ministri a cui si è rivolto ma i sindacalisti della Cgil Lombardia che, senza tanti giri di parole, bocciano la proposta: «Far recuperare ai docenti i 15 giorni a disposizione per salvare la scuola italiana è quanto di più demagogico si possa proporre» sostiene Pippo Frisone, Cgil. «Si dimentica - continua il sindacalista - che la prestazione lavorativa dell’insegnante è diversa da quella di un lavoratore amministrativo. Le ore settimanali di insegnamento sono legate al calendario regionale delle lezioni».
    Insomma, i sindacati vedono la proposta come un affronto «al cuore del contratto di lavoro nazionale». Alla faccia della flessibilità. Alla faccia degli antidoti alla crisi. I rappresentanti sindacali precisano che è «demagogico far credere ai docenti che abbiano chissà quali debiti o recuperi morali da fare per la salvezza del nostro Paese».
    La proposta del preside salva-scuola di Cisliano, tuttavia piace ad alcuni suoi colleghi. Tra questi anche un dirigente scolastico siciliano: Salvatore Indelicato, Iti Cannizzaro di Catania. «È ovvio che nessuno si sogna di toccare le ferie ai professori, né di farli lavorare ad agosto - sostiene il preside - ma la scuola ha necessità di superare il vecchio schema della lezione frontale in aula, di recuperare la dispersione, potenziare l’offerta formativa e creare un rapporto individualizzato con i ragazzi».
    Ci sono oltre 10 milioni di ore «buche», pronte per essere riempite a questi scopi. Ma sentire che i sindacati si scandalizzano per l’audacia della proposta è avvilente e lascia poche speranze sul cambiamento della scuola italiana.
    La Cgil si ribella al preside che vuol far lavorare i prof - Milano - ilGiornale.it


 

 
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