Interessante intervento di uno dei più importanti teologi valdesi su Scrittura, Interpretazione, adulterio e coppie gay..
E' vero o no che siamo «il popolo della Bibbia»?
di
Paolo Ricca
Paolo Ricca - Facoltà Valdese di Teologia di Roma
...«tutta la vita e la sostanza della Chiesa sta nella parola di Dio», e questa Parola risuona viva e potente nella Bibbia, ecco che non c’è Chiesa, né fede né cristianesimo fuori o lontano dalla Bibbia.
In una lettera a «Riforma» (n. 11 del 18 marzo), riferendosi a un articolo della past. Daniela Di Carlo di commento a Esodo 20, 14 («Non commettere adulterio»), Graziella Tron lamentava una certa fragilità teologica. In particolare, di fronte alla affermazione della past. Di Carlo: «Ho le idee confuse sull’adulterio», Tron rivendicava la necessità di «trovare su un tema tanto attuale e tanto scottante, un commento al passo biblico che mi aiuti a farmi un’idea su come, in questo momento storico, lo posso interpretare». E aggiungeva: «Dev’essere successo qualcosa nella Facoltà valdese di Teologia se gran parte dei pastori e pastore tra i 45 e i 60 anni sono condizionati in molte loro manifestazioni dal non voler sembrare quelli che si mettono in cattedra pretendendo di possedere la verità». Personalmente mi sono trovata in perfetto accordo con Graziella Tron, se non che, discutendone con un amico, mi sono sentita rispondere: «Certo, tu sei la solita fondamentalista». Allora ho pensato: ecco, ci risiamo con le solite contrapposizioni! Da un lato chi, davanti al testo biblico, privilegia la soggettività, e dall’altro chi lo inchioda, per così dire, a una interpretazione letterale; da un lato chi lo relativizza a partire dalla sua soggettività, dall’altro chi lo assolutizza imprigionandolo nella lettera. Potremmo dire: relativisti e fondamentalisti, se non fosse che si tratta di due parole che possono significare tante cose diverse. Il fatto è che io non mi riconosco in questa contrapposizione perché entrambi gli approcci mi sembrano la brutta faccia della stessa medaglia. Entrambi infatti non mettono in giusta luce il testo biblico, che invece dovrebbe rimanere al centro del discorso, con cui dialogare con attenzione e umiltà. Allora mi chiedo: non dovremmo metterci un po’ da parte e lasciar parlare il testo? Ecco che, forse, abbandonando facili forzature, il testo parlerebbe anche al nostro presente, meglio di quanto possano fare, talvolta, i nostri sprovveduti tentativi di attualizzarlo.
Sabina Baral – Villar Perosa
Questa lettera ha due grandi meriti: il primo è di sollevare un problema cruciale per la fede e per la Chiesa, e cioè il rapporto con la Bibbia e la sua autorità; il secondo è indicare con chiarezza qual è, secondo la nostra lettrice, il giusto rapporto con la Bibbia. Difatti ce ne sono anche di sbagliati.
1. Il primo merito è sostenere che siccome, come diceva Lutero, «tutta la vita e la sostanza della Chiesa sta nella parola di Dio», e questa Parola risuona viva e potente nella Bibbia, ecco che non c’è Chiesa, né fede né cristianesimo fuori o lontano dalla Bibbia. Essa è il libro della rivelazione divina, dal quale attingiamo la verità su Dio, sul mondo e su noi stessi; è la fonte della conoscenza e della sapienza, la sorgente della dottrina cristiana e di ogni buon insegnamento; è il cibo dell’anima e la guida sicura nel labirinto dell’esistenza; è la norma superiore che governa la Chiesa, la bussola che orienta il suo cammino nella storia, l’autorità prima e ultima alla quale la Chiesa liberamente si è sottomessa fin dai giorni lontani in cui l’ha costituita come suo «canone», cioè come regola sovrana della sua fede e della sua vita. Questo dovrebbe essere vero per tutte le Chiese che si definiscono «cristiane», ma tanto per quelle che, come la nostra, si definiscono «riformate», cioè figlie della Riforma, il cui cardine teologico fu, come è noto, il sola Scriptura, che tutte le chiese evangeliche, senza eccezioni, hanno poi adottato, a differenza del cattolicesimo romano che, come si sa, affianca all’autorità della Scrittura, quella della Tradizione e, più ancora, quella del Magistero, soprattutto quello papale.
Ma qual è il problema? È che la Bibbia è un testo scritto, e come ogni testo scritto ha bisogno di essere interpretato, e questa interpretazione è affidata a noi uomini. È vero che la Riforma ha detto che «la Scrittura è interprete di se stessa», cioè che bisogna spiegare la Scrittura con la Scrittura (e non con pensieri che le sono estranei); ed è anche vero che lo Spirito Santo è dato per guidarci nell’opera non sempre facile dell’interpretazione; resta però il fatto che alla fine siamo sempre noi, con la nostra umanità variamente condizionata, che interpretiamo la Bibbia, assumendocene la responsabilità. Quindi: per essere insegnata e predicata la Bibbia deve essere interpretata, e a noi, come comunità di fede e come singoli credenti, spetta il compito di interpretarla. A questo punto emerge il secondo merito della lettera.
2. Il secondo merito è questo: «Davanti al testo biblico - si chiede la nostra lettrice – non dovremmo metterci un po’ da parte, accantonare le nostre interpretazioni personali, e lasciar parlare il testo», ascoltandolo «con attenzione e umiltà»? Sì, dovremmo proprio fare così. Ma che cosa vuol dire, concretamente, «lasciar parlare il testo», dato che poi, alla fine, siamo sempre noi che parliamo? Vuol dire una cosa molto semplice, ma molto difficile da praticare: davanti al testo biblico, restare discepoli (discepolo vuol dire «colui che impara», cioè che ascolta), e non voler essere subito maestri. Ricordiamo Plutarco (vissuto dal 50 circa al 127 d. C.) che nel suo L’arte di ascoltare scrive: «Nel tessere gli elogi di Epaminonda, Spintaro diceva che non era facile incontrare uno che sapesse di più e che parlasse di meno. E la natura, si dice, ha dato a ciascuno di noi due orecchie, ma una lingua sola, perché siamo tenuti ad ascoltare più che a parlare». Soprattutto davanti al testo biblico, maestro muto, ma straordinariamente eloquente. «Lasciarlo parlare» vuol dire fare silenzio dentro di noi, perché solo se si tace si può ascoltare: chi parla non ascolta. Davanti al testo biblico, non avere fretta di parlare, di spiegare e commentare, di togliere la parola al testo e prenderla noi, con il rischio ovvio di sovrapporre la nostra parola a quella della Bibbia e di far dire alla Bibbia quello che vorremmo che dicesse e che invece non dice. Il testo biblico – non dimentichiamolo – è totalmente indifeso, possiamo farne quello che vogliamo, è in balia delle nostre interpretazioni, con le quali possiamo servirlo oppure tradirlo. Le nostre interpretazioni o spiegazioni possono essere al servizio del testo biblico, per «lasciarlo parlare», dischiudendone il significato per noi oggi; oppure possono essere al nostro servizio, per prevaricare sul testo, non lasciargli dire quello che dice, ma fargli dire quello che vogliamo che dica. Insomma: il testo come pretesto per parlare noi, anziché per ascoltare Dio.
Ci sono molti modi di tradire il testo biblico. Uno – il più frequente – è ignorarlo, metterlo a tacere facendo finta che non ci sia. Un altro è quello or ora accennato: manomettere il testo, con una spiegazione che gli fare dire cose diverse o addirittura opposte a quelle che dice. Un altro è contraddire apertamente il testo, dichiarandolo superato. Un altro ancora è imprigionarlo nella sua formulazione letterale, identificando Lettera e Parola e facendo della Lettera la tomba, anziché la culla, dello Spirito. Ora è chiaro – e tutti lo sanno – che nella Bibbia ci sono molte cose che, per un cristiano, non hanno più valore, come a esempio tutta la legislazione cerimoniale dell’Antico Testamento legata al tempio di Gerusalemme, ma anche molte norme morali che non hanno più posto nella nuova «economia» inaugurata da Gesù. È quindi essenziale saper distinguere «le cose vecchie» che sono passate da quelle «nuove» dell’Evangelo cristiano. Ma è altrettanto essenziale saper discernere, nell’insieme della rivelazione biblica, le parole e gli insegnamenti che «non passano», mentre il cielo e la terra «passeranno» (Marco 13, 31). A esempio, i Dieci Comandamenti non passeranno, e nessuna interpretazione potrà far dire loro qualcosa di diverso da quello che dicono. Ce ne ha dato l’esempio Gesù stesso, che nel Sermone sul Monte ne ha citati un paio («Non uccidere» e «Non commettere adulterio»), non però per accantonarli, ma, al contrario, per riproporli in una versione più radicale ancora, dicendo che si può uccidere anche con la parola (oltre che con la spada), e che si può commettere adulterio anche «con il cuore», senza andare a letto con nessuno. Questo adulterio, tutto e solo interiore, segreto e invisibile, è, secondo Gesù, altrettanto grave quanto quello materialmente praticato, perché è altrettanto pericoloso per il vincolo coniugale, che Gesù intende proteggere.
Oggi, lo sappiamo, la nostra società non ha solo depenalizzato l’adulterio (che quindi, per lo Stato, non è più reato), confinandolo nell’ambito privato dei rapporti di coppia, ma ne ha anche, nell’opinione corrente, molto minimizzato la gravità, giungendo persino, da parte di qualcuno, a proporlo come terapia «estrema» di salvare un rapporto coniugale in crisi. In questo contesto, dovremmo anche noi, come comunità cristiana, relativizzare questo comandamento dicendo che, in fondo, ha fatto il suo tempo e non vediamo più quale rilevanza possa avere per la nostra generazione e, presumibilmente, quelle future? Ribadire il valore di questo comandamento significa essere «fondamentalisti»? O non dobbiamo piuttosto pensare che allontanarsi dai Dieci Comandamenti significa allontanarsi dalla volontà di Dio e imboccare un vicolo cieco? Vale la pena meditare questa affermazione del filosofo e teologo ebreo Filone di Alessandria, contemporaneo di Gesù, che nel suo Decalogo scrive: «Dobbiamo esaminare con cura ciascuno dei comandamenti e non trattare nessuno di essi come secondario. L’origine trascendente di tutto ciò che esiste è Dio, come la pietà lo è della virtù».
Si fa presto a dire «fondamentalista»! La nostra lettrice è stata classificata tale solo perché chiedeva che il testo biblico venisse ascoltato «con attenzione e umiltà», cioè venisse preso sul serio. Ma allora anche Valdo di Lione, quando prese alla lettera la parola di Gesù al giovane ricco («Va’, vendi ciò che hai, e dallo ai poveri…» – Matteo 19,21), fu fondamentalista». Altrettanto lo fu – e come! – Francesco d’Assisi, quando rivelò che Cristo in persona gli aveva detto che la sua Regola, cioè l’Evangelo, doveva essere osservata «alla lettera, alla lettera, alla lettera! Senza commenti, senza commenti, senza commenti!» (Fonti Francescane, n. 1672). E certamente saranno etichettati come «fondamentalisti» coloro che, come il sottoscritto, ritengono che quando il nostro Sinodo, lo scorso anno, ha dato «fuoco verde» alla benedizione delle coppie omosessuali, ha deciso, come dicevano gli antichi, praeter Scripturam ( = al di fuori della Scrittura). Ci sono – penso – altri modi, migliori, per manifestare anche pubblicamente e liturgicamente l’accoglienza e il riconoscimento dovuti alle coppie omosessuali da parte della comunità cristiana. L’appello francescano «alla lettera!» ripetuto tre volte non è, malgrado le apparenze, un invito a essere fondamentalisti (la Lettera può essere, come ho detto, la tomba dello Spirito), è invece un modo per farci capire l’importanza decisiva del testo, che certo va interpretato, ma lasciandolo parlare, e non parlando noi al posto suo.
Tratto dalla rubrica Dialoghi con Paolo Ricca del settimanale Riforma del 3 giugno 2011
Chiesa Evangelica Valdese - Unione delle chiese Metodiste e Valdesi