LA DOTTRINA POLITICA DEL FASCISMO (*)

(*) Discorso pronunziato il 30 agosto 1925 a Perugia nell’Aula dei Notari al
palazzo dei Priori.


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II.
ORIGINI COMUNI E COMUNE FONDAMENTO DELLE DOTTRINE
POLITICHE MODERNE: DAL LIBERALISMO AL SOCIALISMO
Il pensiero politico moderno è stato, fino ad ieri, in Italia e fuori
d’Italia, sotto il dominio assoluto di quelle dottrine, che trassero la loro
origine prossima dalla riforma protestante, trovarono il loro svolgimento nei giusnaturalisti dei secoli XVII e XVIII, vennero consacrate nelle istituzioni e nel costume dalla rivoluzione inglese, da quella americana e da quella francese: e sotto forme diverse e fra di loro talvolta contrastanti, hanno caratterizzato tutte le teorie politiche e sociali, tutti i movimenti politici e sociali del secolo XIX e del XX fino al fascismo. Base comune di tutte dottrine, che vanno da Languet, da Buchanan e da Altusio, fino a Marx, a Wilson e a Lenin, è la concezione, che chiamerò atomistica e meccanica della società e dello Stato.
La Società non è, secondo questa concezione, che una somma di individui, una pluralità, che solvitur in singularitates; gli scopi della Società non sono pertanto che gli scopi degli individui: la Società vive per i singoli. Questa concezione atomistica è anche, necessariamente, una concezione antistorica, che considera cioè la Società nello spazio, non nel tempo, riducendo la vita sociale alla vita di una singola generazione. La Società diviene infatti, così concepita, somma di individui determinati: quelli della generazione in ciascun momento vivente. Dottrina dunque atomistica, antistorica, e perciò, anche (malgrado i travestimenti) materialistica, perché, isolando la generazione presente dalle passate e dalle future, nega que lpatrimonio, essenzialmente spirituale, di idee e di sentimenti che ciascuna generazione riceve dalle generazioni passate e trasmette alle
future, e distrugge l’unità e la vita stessa spirituale delle società umane, cioè dei diversi popoli.

Questa comune base spiega la intima connessione logica, che lega tutte le dottrine politiche, la sostanziale solidarietà che unisce tutti i movimenti politici, che fino ad ieri hanno dominato in Europa, dal liberalismo al socialismo. Divise e contrastanti nei metodi, tutte queste scuole avevano comuni i fini. Tutte assegnavano come fine della Società il benessere e la felicità dei singoli, e nella considerazione dei singoli si arrestavano alla generazione vivente. Tutte facevano della Società, e della sua giuridica organizzazione, lo Stato, il mezzo, lo strumento dei fini individuali di una singola generazione. La differenza tra le varie scuole e i vari partiti, era, come si è detto, puramente di metodo.
[…]
In tal modo, liberalismo, democrazia, socialismo, ci appaiono, come sono realmente, non solo filiazioni di una identica teoria della società e dello Stato, ma anche come derivazioni logiche l’uno
dell’altro. Lo sviluppo logico del liberalismo conduce alla democrazia, lo sviluppo logico della democrazia conduce al socialismo. È vero che per lunghi anni il socialismo fu considerato il sistema economico-politico antitetico al liberalismo: e, in un certo senso, a ragione. Ma l’antitesi è puramente relativa, ed è tutta racchiusa entro la comunanza delle origini e del fondamento delle due concezioni. L’antitesi, in altri termini, è di metodo, non di fine; il fine è comune: il benessere dei singoli; salvo che il liberalismo crede di conseguirlo con la libertà, il socialismo con l’organizzazione collettiva della produzione. Nessuna divergenza, dunque, e meno che mai antitesi, nella concezione della essenza e dei fini della società e dello Stato, e dei rapporti tra società ed individuo, ma solo valutazione diversa dei modi di realizzazione di quei fini e di quei rapporti; diversità che dipende, sostanzialmente, dalle diverse condizioni dell’economia mondiale del periodo storico in cui l’uno e l’altro sorsero e si svilupparono: il liberalismo nasce e prospera
nella fase della piccola e media industria; il socialismo in quella della grande industria e della espansione capitalistica. Il dissenso, e sia pure l’antitesi, sono pertanto limitati al punto di vista economico. Il socialismo è antiliberale solo nel campo della organizzazione della produzione e della distribuzione della ricchezza; ma nel campo morale, intellettuale, religioso è liberale, come è liberale e democratico nel campo politico. L’antiliberalismo e l’antidemocrazia del bolscevismo
russo sono in sé pura contingenza: il bolscevismo è antiliberale e antidemocratico in quanto è rivoluzionario, non in quanto è socialista; ché se l’antiliberalismo e l’antidemocraticismo bolscevico dovessero conservarsi, questo significherebbe senz’altro, che il bolscevismo cesserebbe di essere socialista. Nuova prova, questa, della identità dei contrari.

III.
LA DOTTRINA FASCISTA COME DOTTRINA INTEGRALE DELLA SOCIALITÀ
E LA SUA ANTITESI CON L’ATOMISMO LIBERALE -DEMOCRATICO -SOCIALIST A

Quella che si trova, invece, risolutamente, in antitesi, non con questa o quella conseguenza della concezione liberale-democratica-socialista della società e dello Stato, ma con la stessa concezione, è la dottrina fascista. Mentre il dissenso tra liberalismo e democrazia, fra liberalismo e socialismo, è dissenso di metodo, il dissenso fra liberalismo, democrazia e socialismo da una parte, e fascismo dall’altra, è dissenso di concezione. Anzi, il fascismo non fa questione di mezzi, e questo spiega come possa, nell’azione pratica, applicare volta a volta il metodo liberale, il democratico e il socialista, prestando il fianco alla critica di incoerenza degli avversari superficiali. Il fascismo fa questione di fini, e pertanto anche quando adopera gli stessi mezzi, proponendosi un fine profondamente diverso, agisce con spirito diverso e con diversi risultati. E nella concezione dell’essenza della società, e dello Stato, dei suoi scopi, dei rapporti fra società e individui, il fascismo rigetta in blocco la dottrina derivata più o meno direttamente dal giusnaturalismo del XVI, XVII, XVIII secolo, che sta a base dell’ideologia liberale-democratica-socialista.
Non intendo far qui una esposizione della dottrina politica del fascismo: occorrerebbe un volume. Mi limito ad un breve riassunto dei concetti fondamentali.
L’uomo, animale politico, secondo la definizione aristotelica, vive in società. Un uomo che non vive in società, è inconcepibile, è un non- uomo. Tutta l’umanità come specie, vive raggruppata in società, che sono, ancor oggi, numerosissime e diverse, di diversa importanza e di varia organizzazione, dalle tribù del centro dell’Africa ai più grandi imperi civili.
Le varie società sono dunque frazioni della specie umana, aventi una organizzazione unitaria. Poiché una organizzazione unitaria di tutta la specie umana non esiste, non vi è una società umana, vi sono delle società umane. L’umanità pertanto esiste solo come concetto biologico, non come concetto sociale. Le diverse società umane invece esistono come concetto biologico e come concetto sociale; socialmente sono frazioni della specie umana, aventi una organizzazione unitaria per il raggiungimento dei fini propri della specie.

Con questa definizione si pongono in luce tutti gli elementi del fenomeno sociale e non solamente quelli della conservazione e della perpetuazione della specie; l’uomo non è solo materia, ma spirito, e i fini della specie umana non sono soltanto quelli puramente materialistici, comuni alle altre specie animali; sono anche e sopratutto quelli spirituali propri dell’uomo, che ciascuna società umana raggiunge secondo il grado della propria civiltà. Così l’organizzazione di ogni società, in minore o maggiore misura, è pervasa da questi elementi spirituali: unità di cultura, di religione, di tradizioni, di costumi, di linguaggio e in genere di sentimenti e di volontà, che sono essenziali quanto gli elementi materialistici: l’unità di interessi economici, di condizioni di vita, di territorio. Ma questa definizione mette in luce altresì una verità, che le dottrine sociali e politiche degli ultimi quattro secoli, su cui si fondano i sistemi politici fin oggi dominanti, hanno trascurato: e la verità è che il concetto di società è un concetto sociale, ma anche un concetto biologico, in quanto le società sono frazioni della specie umana, frazioni aventi organizzazione propria, un proprio grado di civiltà, propri bisogni e propri fini, e quindi una propria vita. Ma se le società umane non sono che frazioni della specie umana, esse hanno le stesse fondamentali caratteristiche della specie umana e sopratutto quella di non essere una somma di individui, ma una successione di generazioni.
È dunque evidente, come la specie umana non è la somma degli individui viventi nel mondo, così le varie società umane, che la compongono, non sono la somma dei vari individui che, a un dato momento, vi appartengono, ma la serie infinita delle generazioni passate, presenti e future, che ne hanno fatto, ne fanno e ne faranno parte. E come i fini della specie umana non sono i fini dei singoli individui in un certo momento viventi, anzi, possono essere con questi eventualmente in contrasto, così i fini delle varie società umane non sono i fini degli individui che in un dato momento le compongono, ma possono essere con questi eventualmente in contrasto. È noto che la conservazione e lo sviluppo della specie può, qualche volta, implicare il sacrificio degli individui. Il fenomeno bellico ne è il più grande esempio.
Alla vecchia concezione atomistica e meccanica della società e dello Stato, base della dottrina liberale, democratica e socialista, il fascismo sostituisce una concezione organica e storica. Organica, non nel senso che raffiguri la società come un organismo, non perciò alla maniera delle cosidette teorie organiche dello Stato, ma nel senso che conferisce alle società, come frazioni della specie, scopi e vita oltrepassanti gli scopi e la vita degli individui e comprendenti invece
quelli della serie indefinita delle generazioni. Che nella società, come frazione della specie, si voglia o non si voglia vedere un organismo, diventa a questo punto perfettamente superfluo. Concezione organica, poi, vuol dire, applicata alla società umana, essenzialmente concezione storica in quanto essa considera la società nella sua vita continuativa, oltre quella degli individui.
Il rapporto pertanto fra società ed individuo appare nella dottrina del fascismo perfettamente rovesciato. Alla formula delle dottrine liberali, democratiche e socialistiche: la società per l’individuo, il fascismo sostituisce l’altra: l’individuo per la società. Ma con questa
differenza, che mentre quelle dottrine annullavano la società nell’individuo, il fascismo non annulla l’individuo nella società. Lo subordina, non l’annulla, perché l’individuo, come parte della sua
generazione, è pur sempre elemento, sia pure infinitesimale e transeunte, della società. Lo sviluppo e la prosperità degli individui di ciascuna generazione, quando siano proporzionati ed armonici, diventano condizioni dello sviluppo e della prosperità di tutta l’unità sociale. Vi è dunque un interesse delle società alla prosperità degli individui.
A questo punto l’antitesi tra la concezione fascista e la concezione liberale-democratica-socialista, appare - come è - assoluta e totale. Per il liberalismo (come per la democrazia e il socialismo) le
società umane sono la somma degli individui viventi; per il fascismo le società sono l’unità riassuntiva della serie indefinita delle generazioni. Per il liberalismo (come per la democrazia e il socialismo) la società non ha scopi distinti da quelli dei singoli che la compongono a un dato momento. Per il fascismo la società ha scopi suoi storici ed immanenti, di conservazione, di espansione, di perfezionamento, distinti dagli scopi dei singoli individui che, pro tempore, la compongono, e che possono eventualmente anche essere in contrasto con gli scopi individuali. Di qui la possibilità, che le dottrine dominanti non concepiscono, del sacrificio anche totale dell’individuo alla società e la spiegazione del fatto bellico, legge eterna della specie umana, che quelle dottrine non spiegano, se non come una assurda degenerazione o una mostruosa pazzia.
Per il liberalismo (come per la democrazia e il socialismo) la società non ha vita distinta dalla vita degli individui, solvitur in singularitates. Per il fascismo la vita della società sorpassa di molto
quella degli individui e si prolunga attraverso le generazioni, per secoli
e per millenni; gli individui nascono, crescono, muoiono, sono sostituiti da altri, e l’unità sociale, attraverso il tempo, resta sempre identicamente sé stessa.
Per il liberalismo (come per la democrazia e il socialismo), l’individuo è fine, la società è mezzo; né è concepibile che l’individuo, che è fine, possa mai assumere il valore di mezzo. Per il fascismo la
società è fine e l’individuo è mezzo, e tutta la vita della società consiste nell’assumere l’individuo come strumento dei fini sociali. L’individuo è bensì tutelato e favorito nel suo benessere e nel suo sviluppo, ma ciò non avviene mai nell’interesse esclusivo del singolo, ma sempre per
una convergenza tra l’interesse del singolo e l’interesse sociale. Si spiegano così istituti, come la pena di morte, che il liberalismo condanna in nome della preminenza dei fini dell’individuo.
Per il liberalismo (come per la democrazia e il socialismo) il problema fondamentale della società e dello Stato è il problema dei diritti del singolo. Sarà per il liberalismo il diritto alla libertà, per la democrazia il diritto al governo della cosa pubblica, per il socialismo il diritto alla giustizia economica, ma è sempre il diritto dell’individuo o di gruppi di individui (classi), in questione. Per il fascismo il problema preminente è quello del diritto dello Stato e del dovere dell’individuo e
delle classi; i diritti dell’individuo non sono che riflesso dei diritti dello Stato, che il singolo fa valere come portatore di un interesse proprio e come organo di un interesse sociale con quello convergente. In questa preminenza del dovere sta il più alto valore etico del fascismo.

IV.
I PROBLEMI DELLA LIBERTÀ, DEL GOVERNO E DELLA GIUSTIZIA SOCIALE
NELLA DOTTRINA POLITICA DEL FASCISMO
Questo non significa, badiamo, che i problemi sollevati dalle altre ideologie siano indifferenti al fascismo: solo esso li pone e quindi li risolve diversamente.
Così per il problema della libertà, che preoccupa il liberalismo. Vi è una concezione liberale, ma vi è anche una concezione fascista della libertà. Anche il fascismo crede che occorra garantire all’individuo le condizioni necessarie per il libero sviluppo delle sue facoltà; anche il fascismo crede che un annullamento e una mortificazione della personalità individuale siano da escludersi nello Stato moderno. Ma ciò non perché riconosca un diritto dell’individuo alla libertà, superiore allo Stato, da farsi valere contro gli interessi stessi dello Stato, ma perché crede che lo sviluppo della personalità umana sia un interesse dello Stato. Se gli individui sono gli elementi infinitesimali e transeunti della complessa e permanente vita della società, è chiaro che un normale sviluppo della vita individuale è necessario allo sviluppo sociale. Necessario, ma purché sia normale; un enorme e disordinato sviluppo di alcuni individui o gruppi di individui sarebbe per la società ciò che è per l’organismo animale l’enorme e disordinato sviluppo di alcune cellule: una malattia mortale. La libertà, pertanto, è data all’individuo e ai gruppi nell’interesse sociale ed entro i limiti dell’interesse sociale.
E ciò che si dice per la libertà civile, vale per la libertà economica. Il fascismo non accetta la libertà economica come dogma assoluto, perché non considera i problemi economici come problemi della vita individuale, che interessino i singoli, da abbandonarsi pertanto all’arbitrio dei singoli. Al contrario, considera lo sviluppo economico, sopratutto per ciò che concerne la produzione della ricchezza, come un interesse eminentemente sociale, perché la ricchezza è per la società elemento essenziale di prosperità e di potenza. Ma il fascismo crede che sia normalmente utile lasciare all’iniziativa individuale lo svolgimento del fenomeno economico, tanto nella fase della produzione, quanto in quella della distribuzione della ricchezza, perché, nel mondo economico, nessun mezzo più efficace vi è per ottenere il massimo risultato col minimo sforzo, che far valere la spinta dell’interesse individuale. Anche la concezione fascista della libertà economica è
dunque essenzialmente diversa dalla concezione liberale. Per il liberalismo, la libertà è un principio, per il fascismo è un metodo. Per il liberalismo, la libertà è riconosciuta nell’interesse dell’individuo, per il fascismo è concessa nell’interesse sociale. O - in altri termini - per il fascismo l’individuo è fatto organo o strumento dell’interesse sociale;strumento che si adopera, finché serve allo scopo e si sostituisce, quando non serve. In tal modo il fascismo risolve l’eterno problema della libertà economica e dell’intervento statale, considerando l’una e l’altra come puri metodi, che possono essere volta a volta applicati o messi in disparte.
Quello che si dice per il liberalismo politico ed economico, vale per la democrazia. La democrazia si preoccupa sopratutto del problema della sovranità e del suo esercizio. Anche il fascismo se ne preoccupa, ma lo pone in modo profondamente diverso. Per la democrazia, la sovranità è del popolo, cioè della massa dei viventi. Per il fascismo, la sovranità è della società, in quanto si organizza giuridicamente, ossia dello Stato. E noi sappiamo che altra cosa è il popolo, altra cosa è la società. Mentre dunque la democrazia affida il Governo dello Stato nelle mani della moltitudine dei viventi perche lo adoperi nel proprio interesse, il fascismo vuole che il Governo sia nelle mani di uomini capaci di sollevarsi al di sopra della considerazione dei propri interessi e di realizzare gli interessi della collettività sociale, considerata come l’unità riassuntiva delle generazioni. Non solo dunque il fascismo respinge il dogma della sovranità popolare, per sostituirvi quello della
sovranità dello Stato, ma ritiene che, degli interessi della società, l’interprete meno adatta sia proprio la massa popolare, perché la capacità di sollevarsi dalla considerazione dei propri interessi a quella dei grandi interessi storici della società, è dote rarissima e privilegio di pochi. Molto può, in questo campo, la naturale intelligenza e la preparazione culturale; ma più forse ancora la chiaroveggenza istintiva di alcuni spiriti eletti, la tradizione, le qualità acquisite mediante
l’eredità. Ciò non significa che la moltitudine debba essere esclusa da ogni influenza sulla vita dello Stato. Anzi, specialmente presso i popoli di lunga storia e di grandi tradizioni, si forma, anche nei più umili strati sociali, un istinto delle necessità della stirpe, che nelle grandi ore della storia si rivela con sicurezza quasi infallibile. Dar modo a questo istinto di farsi valere, è altrettanto saggio quanto l’affidare agli spiriti più eletti il normale governo della cosa pubblica.
Quanto al socialismo, la dottrina fascista riconosce francamente che il problema che esso pone, quello dei rapporti fra capitale e lavoro, è gravissimo, forse il problema centrale del mondo moderno. Questo non significa che il mezzo proposto dal socialismo per risolverlo, la
socializzazione dei mezzi di produzione e l’organizzazione collettivistica della produzione, sia da accettare. Il difetto capitale del metodo socialista è stato messo in luce dalla esperienza di questi ultimi anni, e consiste in ciò, che esso non tiene conto della natura umana, e, perciò stesso, è fuori della realtà. La realtà è che la molla più potente delle azioni umane sta nella spinta dell’interesse individuale, e che eliminare dal campo economico l’interesse individuale significa introdurre in esso la paralisi. La soppressione della proprietà privata del capitale importa la soppressione del capitale, perché il capitale si forma col risparmio, e nessuno risparmia, ma ognuno preferisce consumare, quando sa di non poter conservare e trasmettere il frutto del proprio risparmio. Ma la dispersione e la fine del capitale, vuol dire la fine della produzione, perché il capitale, a chiunque sia in mano, è pur sempre un elemento indispensabile della produzione. L ’organizzazione collettiva della produzione vuol dire la paralisi della produzione perché, soppresso nel meccanismo produttivo lo stimolo degli interessi individuali, la produzione diventa più scarsa e più costosa. Il socialismo, dunque, e l’esperienza lo ha confermato, conduce all’aumento del consumo, alla diminuzione della produzione, alla dispersione dei capitali, cioè alla miseria. Che vale dunque costruire un meccanismo per una migliore distribuzione della ricchezza, se è la ricchezza stessa che quel meccanismo inaridisce nelle sue fonti?
L’errore fondamentale del socialismo è quello di fare della proprietà privata una questione di giustizia, mentre essa è un problema di utilità e di necessità sociale. Anche nel riconoscimento della proprietà individuale, non è il punto di vista individuale, bensì il punto di vista sociale, che trionfa.