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    Predefinito Gianfranco Fini - Intervento al Congresso fondativo del PDL

    Il testo integrale


    Laicità e riforme

    di Gianfranco Fini


    Care delegate e cari delegati del 1° Congresso nazionale del Popolo della libertà, vi ringrazio per questo applauso che certamente sta a significare tante cose: in primo luogo, la validità, la bontà e, se me lo permettete, l’intelligenza di una scelta strategica che è stata operata da coloro che hanno deciso di dare vita al Popolo della Libertà. Permettetemi innanzitutto di ringraziare il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per la chiarezza e anche per la generosità con cui ieri, nel suo intervento introduttivo del Congresso, in un colpo solo, ha spazzato via tanti luoghi comuni e – perché no? – tante interpretazioni maliziose o interessate, in alcuni casi tante legittime paure. Silvio Berlusconi ieri è stato chiarissimo nel dire che cosa è il Popolo della libertà.

    Il Popolo della libertà non è Forza Italia allargata, non è la fusione più o meno fredda tra diversi soggetti politici. Il Popolo della libertà non è un semplice cartello elettorale, ma è un nuovo grande soggetto politico di popolo, sintesi dei valori, delle storie, dei patrimoni e delle esperienze di donne e di uomini che avevano storie politiche diverse, ma sempre avevano avuto ben chiaro che l’obiettivo di una politica, quando è una politica alta, con la “P” maiuscola, è innanzitutto quello del bene comune. Il Popolo della libertà è un grande incontro di donne e di uomini liberi che hanno nel cuore il desiderio e il sogno di un’Italia migliore. Silvio Berlusconi l’ha detto non soltanto con cristallina chiarezza (come emerge, del resto, oggi dai commenti di tutti coloro che stanno seguendo la genesi del Popolo della libertà), ma anche facendo omaggio – di questo personalmente lo ringrazio – ad un uomo che aveva creduto nel Popolo della libertà quando era difficile crederci. Il richiamo, caro Silvio, che ieri hai fatto a Pinuccio Tatarella non è stato soltanto per me e per gli amici di Alleanza nazionale un bel riferimento ad un amico che non c’è più. È stato in qualche modo – così l’abbiamo letto – l’omaggio ad un’intuizione politica.

    Permettetemi di rendere omaggio ad un altro uomo che aveva creduto nel Popolo della libertà quanto Pinuccio, quanto i dirigenti di Alleanza nazionale, e che per una sorta di tragica ironia del destino proprio questa mattina ci ha lasciato: il sottosegretario Ugo Martinat, già segretario regionale di Alleanza nazionale in Piemonte. Era, anch’egli, un uomo che amava l’Italia, che credeva nella forza delle idee, un uomo del fare, come tante volte ama dire il presidente del Consiglio; l’idealismo e al tempo stesso il pragmatismo, la concretezza. Da lassù ci aiuteranno in questo cammino.

    È altrettanto vero che se ieri Berlusconi ha spazzato via le possibili interpretazioni maliziose è doveroso, da parte mia, riconoscere al presidente del Consiglio che, nonostante tante buone intenzioni, nonostante la lungimiranza di alcuni, nonostante l’impegno, il Popolo della libertà non sarebbe nato senza quella lucida follia che in alcune circostanze davvero sembra guidare l’azione del presidente del Consiglio. Berlusconi ha creduto nel Popolo della libertà anche quando sembrava davvero molto, molto difficile realizzarlo. Ma questa, ormai, è storia di ieri. Oggi il partito c’è, ha una leadership che è di tutta evidenza, la leadership naturale, la leadership di chi in qualche modo l’ha fortemente voluto e costruito. Proprio perché è un grande partito di popolo, in capo alla leadership di Berlusconi vi saranno oneri e onori. Certamente l’onere di garantire che il Popolo della libertà sia sempre di più quel che può e deve essere, un grande partito di popolo e, quindi, un grande partito democratico, il che non dovrà mai significare un partito diviso in correnti.

    La divisione in correnti è in molti casi la caricatura della democrazia. Dovrà essere, dunque, un grande partito democratico, un grande partito che discute, un grande partito che si confronta, un grande partito plurale: plurale perché è sintesi positiva, non compromesso al ribasso, sintesi in qualche modo evolutiva di posizioni, di storie, di tradizioni. Un grande partito plurale che non potrà mai essere anarchico e non lo sarà proprio perché, come è risultato chiaramente anche dagli interventi di ieri, alla base di quella che è la piattaforma ideale e la sintesi dei valori del Popolo della libertà, c’è un unico manifesto, il manifesto del Partito Popolare Europeo. Pluralismo e sostanziale unità, democrazia senza correntismo sono forme organizzative che un partito moderno, un partito proiettato per il futuro deve saper garantire. Sono certo che, proprio perché non è in discussione, la leadership di Berlusconi riuscirà a garantire questa metodologia e modalità organizzativa che è indispensabile per far compiere ulteriori passi avanti al nostro Paese. Il Popolo della libertà è un grande soggetto politico, sintesi di storie e di culture diverse, che entra sulla scena politica al pari di quel che due anni fa ha fatto il Partito democratico.

    Non è questa la sede – e la mia veste istituzionale in qualche modo mi obbliga al rispetto doveroso nei confronti degli avversari – per giudicare se il Partito democratico abbia dato vita ad una sintesi felice o meno di storie, di culture e di tradizioni diverse. Certo è che in Italia vi sono due grandi raggruppamenti politici, che hanno delle precise ascendenze di tipo europeo, anche se è di tutta evidenza che una differenza di fondo esiste tra Partito democratico e Popolo della libertà: mentre il Popolo della libertà ha ben chiaro che ha a pieno titolo nella famiglia del popolarismo europeo la sua casa madre, il Partito democratico ancora oggi si dibatte circa l’opportunità di schierarsi a Bruxelles nell’uno o nell’altro fronte, a riprova – questa non è polemica, ma soltanto considerazione oggettiva – che forse quella sintesi di valori è più apparente che reale.

    È comunque certo che il Popolo della libertà e il Partito democratico rendono l’Italia più europea, rendono l’Italia più vicina a quelle democrazie in cui è regola l’alternanza, rendono l’Italia più simile a quella democrazia europea che è basata su un sistema intimamente bipolare. Nella lunga relazione di Berlusconi, ieri, vi è stato un riferimento che non è stato forse colto a sufficienza dagli osservatori e che mi permetto rapidissimamente di riprendere: Berlusconi, rivendicando anche al Popolo della libertà questa capacità di far marciare l’Italia verso una dimensione più europea, ha detto «forse il bipolarismo potrebbe anche evolversi in senso bipartitico». Non so se sono maturi i tempi, non so se ci sono le condizioni, certo è, caro Silvio e cari delegati, che il Popolo della libertà dovrà mettere quanto prima all’ordine del giorno del suo dibattito interno quale atteggiamento assumere in occasione di quel referendum elettorale già fissato per il 7 giugno che, al di là del merito della legge elettorale, rappresenterebbe inevitabilmente una forte accelerazione verso un sistema bipartitico. Non lo dico soltanto perché, al pari di altri, ho contribuito alla raccolta delle firme per rendere possibile il referendum, ma perché il referendum è sempre la forma più evidente di democrazia diretta, il massimo livello di coinvolgimento di un popolo. Se siamo Popolo della libertà, credo quindi che non si possa derubricare l’appuntamento del 7 giugno come un piccolo incidente di percorso, anche se, lo sappiamo perfettamente, può creare la necessità di discutere tra di noi e con i nostri alleati. Questo però è il peso della politica e il dovere di un grande partito plurale, di un grande partito che ha una strategia .

    Certo è che la nascita del Popolo della libertà garantirà la stabilità al nostro sistema e anche all’attuale Esecutivo, perché l’esperienza recente ha insegnato che quando all’interno di un’alleanza vi è la necessità per identità o visibilità di partito di assumere posizioni che in alcuni casi sono non omogenee a quelle degli altri, si determina prima o poi una frizione che può anche sfociare in una tensione, in un indebolimento dell’azione dell’Esecutivo. Un unico grande partito, il Popolo della libertà alleato con la Lega e con l’Mpa di Lombardo, garantisce che l’Esecutivo sarà più stabile e che l’azione di governo – che nasce dal mandato affidato dagli italiani con una percentuale di consenso che impone quel rispetto che tutti oggi in Europa hanno nei confronti del Popolo della libertà – e l’unità sostanziale di intenti darà certamente stabilità e possibilità all’Esecutivo di camminare sollecitamente verso gli obiettivi che ha posto al centro della sua azione di governo.

    Questa mattina, però, non voglio parlare di questo, perché credo che il Popolo della libertà, proprio perché è un grande partito di popolo e ha un grande consenso, debba in qualche modo pensare alla sua missione strategica, definire il suo progetto di media e lunga durata. Credo che la grande scommessa del Popolo della libertà sia innanzitutto dimostrare che quando c’è buon governo, democrazia dell’alternanza, non significa, come in Italia qualcuno sembra credere, che in una legislatura governa il centrodestra e nell’altra il centrosinistra. Il Popolo della libertà può dimostrare, se ne è capace – e ne può essere capace –, che quando si hanno idee e progetti per il medio e lungo termine, la democrazia dell’alternanza non coincide con una legislatura. La missione del Popolo della libertà deve essere quella di governare bene e al tempo stesso disegnare l’Italia dell’immediato domani, pensare alle sue politiche, alle sue strategie in un arco che va al di là della legislatura, immaginare l’Italia che verrà, pensare all’Italia di domani e costruirla giorno per giorno, perché non siamo un circolo culturale, ma siamo il grande partito italiano, il partito degli italiani, abbiamo la possibilità di incidere nell’azione di governo.

    Pensare all’Italia non è sufficiente, bisogna costruirla giorno per giorno, e per farlo credo che occorra innanzitutto avere ben chiaro che dobbiamo guardare nel profondo della nostra società. Dobbiamo innanzitutto essere coscienti che la nostra è una società sempre più atomizzata, sempre più individualistica, in cui si è perso il senso di una profonda coesione. Dobbiamo essere capaci, cari amici, di alimentare una speranza collettiva, offrire un grande sogno al nostro popolo, ridare un senso al nostro essere nazione . Dobbiamo ridare agli italiani il senso di appartenenza a una comunità. Abbiamo il dovere di farlo non soltanto perché siamo alla vigilia di una ricorrenza storica, perché nel 2011 ricorrerà il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Dobbiamo chiederci cosa significa essere italiani oggi, pensare all’Italia che verrà, l’Italia che è già alle porte delle nostre case. Per farlo voglio dare al Congresso e, se me lo permette, al presidente del Consiglio, anche per l’azione quotidiana del Governo, oltre che per le conclusioni di domani, che come ha giustamente anticipato saranno rivolte al futuro, e voglio dare a quello che sento il mio partito – il fatto che io sia il presidente della Camera, e quindi abbia il dovere di rispettare le Istituzioni e di essere super partes, non significa certo rinunciare ad avere delle idee e ad alimentarne il dibattito –qualche suggestione. Cosa significa pensare all’Italia che verrà? Cosa significa cercare di comprendere la natura della nostra società? Credo che significhi interrogarsi, fare analisi, indicare delle linee di azione su tre grandi questioni.

    La prima è quella relativa alla qualità della nostra democrazia, il che vuol dire, in modo diretto o indiretto, discutere e riflettere sul nostro assetto istituzionale. In occasione del Congresso di Alleanza nazionale ho citato una bella espressione di un Centro studi, che paragonava l’Italia, fino a qualche anno fa, a un calabrone che, contro la legge della fisica, si alzava e volava. Poi, un’Italia crisalide, in perenne transizione. Io credo che il compito del Popolo della libertà sia quello di far uscire la farfalla da quella crisalide e di porre termine alla troppo lunga transizione. La qualità della nostra democrazia passa attraverso la capacità che avremo di dar vita a delle istituzioni che rispondano alle due grandi necessità valoriali di ogni democrazia, perché una democrazia è davvero capace di risolvere i problemi della gente quando è autenticamente rappresentativa e, al tempo stesso, quando è autenticamente governante. Non può esserci contraddizione, né in termini culturali, né in termini istituzionali, tra democrazia intesa come diritto del popolo di far sentire la propria voce attraverso i propri rappresentanti e una democrazia capace di governare, non soltanto di discutere, non soltanto di analizzare, ma capace di decidere. È la grande sfida dei tempi moderni. Rispetto a qualche tempo fa, la democrazia o è rappresentativa e governante oppure, se pone il suo baricentro soltanto sotto l’aspetto della rappresentatività senza tenere nel dovuto conto la necessità di rispondere in tempi reali a sfide che sono sempre più impellenti, rischia di apparire non in sintonia con le esigenze più profonde di un popolo.

    Democrazia rappresentativa, democrazia governante, qualità complessiva del nostro sistema democratico: ciò vuol dire, cari amici, riprendere il discorso, troppe volte interrotto, su quelle riforme istituzionali che sono indispensabili in un paese come l’Italia che, se vuole vincere la sfida della modernità, deve modernizzare la sua Costituzione. Non credo che ci siano dubbi sul fatto che gli articoli della prima parte della Costituzione meritano sicuramente rispetto perché hanno assunto, anche nella loro quotidiana declinazione, un valore che è il valore di tutti gli italiani. Se posso permettermi, al riguardo credo che tra i punti fondamentali della Costituzione, in una Costituzione così ampia come la nostra, nella prima parte non guasterebbe un riferimento a quella Europa di cui l’Italia è uno dei padri fondatori. Non si poteva certo pretendere che, nella stagione costituente, nel 1946-48, i nostri padri costituenti individuassero nell’Unione europea la casa comune di tutti gli europei, cosa che oggi in qualche modo è realtà; ma se si vuol parlare di riforma della Costituzione, fermo restando che la prima parte non merita particolari modifiche – se non, forse, l’inserimento di un ideale e ben preciso valore europeo – cari amici, la seconda parte della Costituzione si deve cambiare. La seconda parte della Costituzione si deve cambiare perché altrimenti rischiamo di non far uscire la farfalla che è nella crisalide; perché rischiamo di non rendere qualitativamente migliore la nostra democrazia; perché rischiamo di non cogliere l’aspetto importante di una democrazia che deve essere rappresentativa e governante.

    Questo vuol dire affrontare i temi che fanno parte da anni del dibattito politico: il tema del rapporto tra Governo e Parlamento, di quale rapporto debba esservi all’interno del Parlamento tra le due Camere, perché credo che sia davvero arrivato il momento di prevedere che il federalismo, di cui parlerò di qui ad un attimo – abbia completa attuazione, attraverso quel federalismo istituzionale che comporta necessariamente che una delle due Camere del nostro sistema parlamentare sia la Camera delle Regioni, o delle autonomie, o del territorio, o come meglio si ritiene di chiamarlo. E se si dà vita ad una nuova forma di Stato – ed è un processo che, in qualche modo, si è avviato negli anni passati e che può trovare compimento attraverso l’introduzione di un Senato federale o delle autonomie – è doveroso discutere di quale sarà la forma di governo. Credo che, anche da questo punto di vista, il dibattito che abbiamo alle spalle, ma soprattutto, quella sintesi di culture politiche che abbiamo posto al centro del Popolo della libertà, possa indicare una strada; una strada che faccia piazza pulita anche di polemiche che in alcuni casi non hanno ragione di esistere.

    È di tutta evidenza, infatti, che, in questa Costituzione, i Presidenti della Camera e del Senato hanno il dovere di rispettare la Costituzione vigente e, quindi, di rimarcare, in qualche modo, il ruolo centrale del Parlamento nel processo legislativo. E bene fa il presidente del Consiglio a rivendicare la necessità di un rafforzamento dei poteri dell’Esecutivo che gli consenta non soltanto maggiore tempestività e incisività nell’azione del Governo, ma che gli consenta anche di avere una squadra di Governo che sia strettamente collegata alla valutazione che il presidente del Consiglio dà della capacità dei singoli ministri. Se vogliamo, tuttavia, evitare che, in modo ricorrente, la polemica esca dalle pagine dei giornali, abbiamo un’unica strada: porre quanto prima in Parlamento la discussione della forma di governo e della forma di Stato e rilanciare, come Popolo della libertà, una grande stagione costituente. Se vogliamo tirare allo scoperto la sinistra, se vogliamo comprendere se è passatista o proiettata verso il futuro, se vogliamo verificare la sua reale volontà di ammodernare il sistema italiano, non dobbiamo fare altro che dare seguito a quello che saggiamente, alla Camera, l’altro giorno ha detto il ministro Calderoli. A fronte dell’ordine del giorno Franceschini, che chiedeva alla maggioranza di porre nell’agenda della I Commissione Affari Costituzionali la discussione della cosiddetta “bozza Violante”, il ministro Calderoli, molto saggiamente, a nome del Governo, ha detto: «Siamo d’accordo e ci impegniamo a farlo». Amici miei, bisogna farlo per davvero, perché la modifica dei regolamenti parlamentari è un anello di una grande stagione di riforme.

    Riformiamo il Parlamento, riformiamo la forma di governo, riformiamo i regolamenti parlamentari, cerchiamo di costruire un’Italia proiettata in avanti. Sarà quella la cartina di tornasole non del riformismo del Popolo della Libertà, che è di tutta evidenza, ma sarà la cartina di tornasole della volontà della sinistra italiana di essere per davvero con lo sguardo proiettato in avanti o di essere, al contrario, nostalgica di una stagione sostanzialmente consociativa, di paralisi delle azioni dell’Esecutivo e di sostanziale impossibilità del Parlamento di legiferare con i tempi e secondo le esigenze imposte dalla società in cui viviamo. È una grande sfida, che, in qualche modo, rappresenta quel primo piano di analisi che pongo all’attenzione del congresso.

    Immaginiamo l’Italia che verrà. Il primo piano di analisi è la qualità della nostra democrazia, l’assetto delle nostre istituzioni. Il secondo piano d’analisi è, per certi aspetti, ancora più impegnativo, ed è relativo alla qualità della vita degli italiani nel prossimo futuro; è, in qualche modo, la questione connessa a quale sarà l’assetto economico che l’Italia assumerà quando saremo usciti da questa crisi. So bene che non è questione che riguarda soltanto noi: è la grande questione sulla quale si interrogano, in tutto l’occidente, le istituzioni, i partiti, i sindacati, i ceti dirigenti, i popoli interi. È certo, comunque, che si tratta di una domanda – quale sarà l’assetto economico dell’Italia, quale sarà la reale condizione di vita degli italiani nei prossimi anni – che pone delle domande e impone ovviamente delle risposte, che possono essere fornite soltanto se si parte da alcune consapevolezze, che a mio modo di vedere nel Popolo della Libertà ci sono. La prima consapevolezza è che questa non è una crisi come le altre, non è una crisi congiunturale, non è uno dei tanti momenti ciclici: questa è una crisi strutturale, questa è una crisi che chiama in causa la natura stessa del capitalismo, così come il capitalismo si era strutturato negli anni passati. Credo che sia andata irrimediabilmente in pezzi l’immagine un po’ autoconsolatoria di un capitalismo senza regole, un capitalismo in cui gli spiriti animali riescono sempre e comunque a determinare un avanzamento, un progresso della società. È risultato evidente a tutti che la crisi attuale è una crisi che ha le sue radici anche nel fatto che le economie negli ultimi tempi avevano messo il baricentro sulla finanza più che sulla produzione reale di ricchezza . È una crisi in cui basta risalire a quello che è stato il momento iniziale, la vicenda Enron, per comprendere che c’era una patologia intrinseca nel nostro sistema liberalcapitalista, se un grande colosso dell’energia decideva di investire i suoi utili non per migliorare il prodotto, non per occupare nuove fette di mercato, ma unicamente per speculazioni di Borsa che potevano consentire di aumentare i dividendi e di premiare con stipendi molto elevati i manager. Questa, poi, è stata l’origine della crisi di quel colosso e di quella slavina che si è abbattuta sull’economia statunitense e poi, a scacchiera, sull’economia mondiale.


    - Continua -
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    Predefinito Riferimento: Gianfranco Fini - Intervento al Congresso fondativo del PDL

    È la crisi di quella nuova ideologia che Giulio Tremonti ha individuato molto bene nel bel libro La paura e la speranza. È il mercatismo; un mercatismo senza regole, un mercatismo totem assoluto, un mercatismo in cui la finanza finisce per essere il sostituto dell’economia. Badate, nessuno può essere così stolto da pensare che le banche o la finanza siano la causa del male. Senza le banche, senza la finanza non c’è liberalcapitalismo, non ci sarebbe la possibilità di far crescere per davvero l’economia reale delle società. C’è stata una degenerazione negli ultimi anni che è sotto gli occhi di tutti, ma se questo è in qualche modo il problema, qual è la risposta? La risposta è nei valori tradizionali. Non abbiamo per certi aspetti nulla da inventare, né da scoprire, perché la risposta ad una crisi finanziaria dell’economia sta innanzitutto nella consapevolezza della necessità di nuove regole, che ovviamente non possono essere regole nazionali. Parlo di regole che la collettività internazionale dovrà darsi e si saprà dare, ma regole che ripongano al centro dell’economia il lavoro, inteso come capacità concreta di produrre ricchezza reale; non soltanto speculazione, non dividendi, ma concretezza del fare. Sono questi valori tradizionali che richiamano a quella visione di un’economia di mercato in cui l’aggettivo sociale non è un orpello, ma è strettamente connaturato alla natura dell’economia, perché o l’economia è sociale o per certi aspetti rischia di essere un’economia antisociale nello stesso momento in cui si riflette negativamente sulle condizioni di vita di popoli interi.

    Parlo di valori tradizionali perché non c’è nulla di nuovo sotto il sole, non c’è nulla da scoprire al riguardo. Quello che ha detto il presidente Martens ieri, richiamando il manifesto del Partito Popolare Europeo, non soltanto è iscritto in una lunga tradizione culturale della miglior dottrina europea, ma in qualche modo è linea guida dell’azione di tanti Governi nel vecchio continente. Parlo di quell’economia sociale di mercato che ovviamente cammina di pari passo con la valorizzazione di quel principio di sussidiarietà che fa sì che ci sia sempre collaborazione tra ceti intermedi, sia nella versione cosiddetta orizzontale, sia in quella capacità che l’economia sociale deve avere di far fare alle istituzioni superiori soltanto quello che le istituzioni immediatamente inferiori non riescono a garantire. Sono considerazioni note, ma a ben vedere dimostrano chiaramente come la risposta alla crisi globale che è in atto possa essere fornita soltanto da categorie culturali che per certi aspetti continuano ad essere estranee se non sconosciute a quella che è la cultura della sinistra italiana ed europea.

    La crisi vera della sinistra italiana non è tanto una crisi di consenso, ma è una profonda crisi di idee, è una profonda crisi di valori di riferimento. È una crisi che deriva dal fatto che si è spenta da tempo nella società italiana ed europea quella egemonia di gramsciana memoria che faceva sì che per anni fossero soltanto i maitre à penser cosiddetti di sinistra a comprendere ciò che si muoveva nella società italiana e a orientarne il cammino secondo quelli che erano i punti di riferimento di quella cultura. Se questa chiave di lettura è giusta o comunque accettabile, dobbiamo compiere un passo avanti e chiederci che cosa significa declinare questa categoria valoriale, questo riferimento all’economia sociale di mercato, alla centralità del lavoro nell’economia, declinarla nella realtà nazionale in un’Italia in cui è forte, come a tutti noto, il ruolo delle piccole e medie imprese, in cui uno dei principali ammortizzatori sociali continua a essere la famiglia, in cui certamente c’è una miriade di associazioni di volontariato, di no profit. Il nostro è un paese che, pur avendo da anni una struttura liberalcapitalista, è assai diverso nella sua configurazione sociale da molti altri paesi che hanno abbracciato la logica del mercato.

    Che cosa significa tutto ciò? Anche qui senza alcuna presunzione, suggerisco qualche idea, qualche spunto, qualche considerazione utile per un dibattito interno e per l’individuazione di politiche coerenti. Credo che in una logica italiana significhi innanzitutto avere consapevolezza della necessità di tre grandi accordi, che devono essere preparati e realizzati nel corso degli ultimi anni, tre grandi patti. Il primo patto, amici miei, è un patto tra generazioni. Dobbiamo far sentire i padri e i figli dalla stessa parte della barricata, li dobbiamo far sentire non soltanto partecipi di una sfida comune, ma capaci di costruire un futuro in comune. Dobbiamo elaborare le linee di azione per trasformare, vivificare un welfare che garantisce la solidarietà e quindi la tutela ai più deboli, modernizzandolo in una logica che lo renda il welfare delle opportunità, perché oggi la grande vera sfida non è soltanto tutelare i più deboli, ma garantire loro opportunità, guardando in particolar modo ai giovani, ecco perché patto tra le generazioni. Può forse avere qualche ricaduta nella riforma della previdenza, ma non sta a me dirlo, ma immaginare politiche economiche e sociali conseguenti a un patto tra generazioni può fornire un contributo alla domanda iniziale di far sentire il nostro popolo figlio di una medesima comunità e portato a realizzare una medesima speranza.

    Un altro patto, un altro accordo, forse più attuale e al tempo stesso più richiamato nel passato, il vero grande accordo che occorre realizzare tra il capitale e il lavoro, perché le vecchie categorie marxiane sono irrimediabilmente datate, del secolo scorso. Non c’è più una società divisa in proletari e borghesi. Non se ne sono ancora accorti alcuni che a sinistra continuano a pensare all’Italia esattamente come era nell’epoca della ricostruzione, del fordismo, del dopoguerra. Oggi, siamo tutti produttori e al tempo stesso consumatori. C’è una grande Italia di consumatori, che possono vivere di reddito a lavoro dipendente o autonomo, ma sono il superamento di una logica classista. E se così è, come credo, dobbiamo fare in modo che un grande partito come il nostro si impegni per promuovere un’autentica concordia sociale. Se vogliamo davvero tagliare radicalmente e definitivamente l’erba sotto i piedi della sinistra, che più si attarda con una visione ottocentesca nell’esame della situazione della società italiana, dobbiamo promuovere la concordia tra le categorie, dobbiamo attivare quei meccanismi per cui datori di lavoro e lavoratori si sentano anch’essi interessati a un unico progetto. Se la politica promuove concordia sociale, amici miei, è compito delle istituzioni distribuire nel modo più giusto la ricchezza prodotta. Credo che anche questa sia una grande, grande sfida, un grande patto che bisogna realizzare tra le generazioni tra il capitale e il lavoro.
    Il terzo grande patto per capire quale sarà la qualità della vita degli italiani di domani è il patto tra nord e sud. Il nostro Meridione rischia di pagare più di altri il costo della crisi per mille ragioni storiche. Se vogliamo garantire davvero una ritrovata coesione nazionale, dobbiamo partire dalla coesione sociale. Non temo affatto il federalismo fiscale per quel che riguarda l’impatto che può avere nel Meridione, perché per certi aspetti il federalismo fiscale può rappresentare una grande opportunità per liberare energie, per rompere condizionamenti, per mandare finalmente al macero la logica clientelare, la logica del favore che diventa la garanzia per l’ottenimento di un successo. Certo è, però, che dobbiamo essere coscienti che se il federalismo fiscale è una grande opportunità per tutta l’Italia, per il sud può essere opportunità soltanto se lo Stato non soltanto c’è, ma afferma anche la sua presenza. Se lo Stato viene percepito unicamente come participio passato del verbo «essere», il federalismo fiscale può essere davvero un elemento di disgregazione.

    Ecco perché, per certi aspetti, quel che è accaduto ad Acerra l’altro giorno assume un valore simbolico di altissimo rilievo: perché quando lo Stato c’è e riafferma la sua presenza nel meridione per garantire condizioni di competizione e di pari opportunità con il nord, quando il meridione si libera dalla piaga dei rifiuti che il nord non conosce, o conosce in misura assai minore, lo Stato afferma una presenza positiva. Non dobbiamo temere il federalismo fiscale, dobbiamo temere la latitanza delle Istituzioni nel meridione e questo vuol dire, se vogliamo dar vita ad un patto nord/sud, che le politiche del Governo devono tener conto della necessità di ripianare dei deficit storici. È certamente molto bello che si possa andare oggi da Roma a Milano in tre ore e quaranta con un treno super veloce, ma credo che se si voglia dare veramente al meridione la possibilità, anche col federalismo fiscale, di competere col nord, e se si vuol quindi rendere l’Italia più coesa in termini sociali, ci si deve impegnare per la Napoli-Reggio Calabria, per la Reggio Calabria-Salerno, per tutto quello che è deficit di infrastruttura e, amici miei, deficit di legalità. Il patto nord-sud viene siglato soltanto nello stesso momento in cui le Istituzioni fanno propria la bandiera della legalità, che va alzata ovunque ma che nel meridione deve essere alzata ancor prima e sventolata con ancora maggiore nettezza, perché il meridione non si alza se continua una situazione che è ai margini della legalità. Se siamo il Popolo della libertà, libertà vuol dire innanzitutto libertà dalle mafie, dalle clientele, dal malaffare. Dobbiamo liberare la società meridionale anche da quel ceto politico che in tante circostanze sembra più attento a fare accordi finalizzati al mantenimento del proprio potere piuttosto che a fare quel salto in avanti che è indispensabile.

    Ecco cosa intendo quando parlo di una sfida per capire la qualità della vita degli italiani nel prossimo futuro, la qualità della democrazia, la qualità di vita. È il terzo piano di analisi, quello che sarà la qualità o, per meglio dire, la natura del nostro essere comunità nazionale. È la sfida più difficile e l’argomento sul quale, anche al nostro interno, occorre maggior capacità e volontà di discussione, perché quando dico che dobbiamo capire cosa intendiamo per comunità nazionale, dobbiamo cercare di immaginare poi di costruire l’Italia del domani. Non penso soltanto alla qualità di vita, non penso soltanto alla qualità della nostra democrazia, penso alla misura della nostra identità, perché ci dobbiamo abituare a pensare l’Italia con un’ottica e con una visione molto diverse rispetto al passato. Saranno sempre di più, inevitabilmente, gli italiani di colore; saranno sempre di più, inevitabilmente, gli italiani con i tratti orientali; saranno sempre di più, inevitabilmente, gli italiani che non credono nella nostra religione; saranno sempre di più gli italiani che sono figli di genitori che non sono nati in Italia, e non dobbiamo guardare a questa prospettiva con paura ma con la presunzione di poterlo guidare, un processo storico così impegnativo. Lo dobbiamo fare in ragione della nostra storia perché, come abbiamo detto tante altre volte, oggi ci confrontiamo col tema drammatico e difficile dell’immigrazione, ma ricordiamoci che siamo pur sempre un popolo figlio di migranti, e il tema dell’emigrazione non riguardava soltanto calabresi, campani e siciliani. Quanti veneti, quanti lombardi negli anni difficili sono stati costretti ad andare lontano dalla terra in cui erano nati per cercare fortuna e lavoro!

    Non dobbiamo aver paura dello straniero; dobbiamo guidare questo processo così complesso, un processo che necessita di un confronto di valori e di un confronto di idee, perché l’integrazione non significa necessariamente assimilazione, perché l’integrazione non può che svolgersi nel pieno rispetto della legalità. Quando diciamo, però, che il Manifesto del Partito Popolare è la nostra stella polare nei comportamenti, perché da quei valori facciamo discendere le politiche, ricordiamoci, amici miei, che in quel Manifesto c’è scritto – e non potrebbe essere altrimenti – che il centro di ogni azione deve essere il rispetto della dignità della persona umana. Un bambino o un ammalato sono in primo luogo una persona umana; poi, eventualmente, sono immigrati. Se non si hanno ben chiare queste categorie di tipo culturale, si rischia non solo di non guidare il difficile processo di integrazione, ma si rischia di esserne travolti, oltre che di alimentare quella xenofobia che è sempre dietro l’angolo quando si è in presenza di momenti epocali e di timore nei confronti di ciò che non si conosce.

    Che cosa comporta tutto ciò? Comporta che dovremmo riflettere nel partito per dare anche qualche utile suggerimento – mi auguro – all’azione di governo sull’opportunità o meno di prevedere nuovi percorsi per la cittadinanza. Non dobbiamo aver timore del futuro: o il futuro lo costruiamo oppure il futuro ci arriva in casa senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Creare nuovi percorsi per la cittadinanza vuol dire valorizzare il ruolo della scuola, perché ogni qualvolta si guarda al di fuori dei confini nazionali, quando si guarda a Paesi che hanno conosciuto il tema di società multietnica e multirazziale prima di noi, ogni qualvolta si compie questa azione di sguardo fuori dai confini nazionali, si scopre quanto sia centrale il valore dell’educazione, si scopre la centralità del processo educativo e quindi il ruolo strategico che ha la scuola; un ruolo strategico che va di pari passo con il pieno apprendimento della nostra lingua, perché sempre di più l’integrazione è possesso dello strumento primo di integrazione, ovvero la lingua nazionale. Ciò può anche significare, come è stato ipotizzato, una sorta di giuramento di fedeltà alla nostra Costituzione. Non voglio farla troppo lunga, però discutiamone.

    Non vogliamo certe posizioni né come fughe in avanti, né tantomeno come strizzatine d’occhio alla sinistra; se c’è, infatti, un’autentica sciocchezza è proprio quella di pensare che soltanto la sinistra si possa e si debba occupare del rapporto con lo straniero, del rapporto con l’integrazione, del rapporto con quelle comunità che vengono qui per discutere di quello che è anche il nostro futuro. E lo dobbiamo fare proprio in una sana e leale competizione, anche con i nostri alleati. Essere alleati significa, in primo luogo, avere delle opinioni da confrontare. Su questi temi, amici miei e amici del Popolo della libertà, urge un’opinione quanto più largamente condivisa, elaborata dal Popolo della libertà. Soltanto in questo modo possiamo guidare per davvero il consenso.

    Infine, pensare alla società di domani, pensarla in questa dimensione nuova significa, a ben vedere, avere ben chiaro che urge saper contrapporre a quella che è stata per tanti anni la cultura di una doverosa tutela dei diritti, una precisa etica dei doveri, non in termini di rivalità, ma in termini di complementarietà. Se vogliamo preparare la società di domani, dobbiamo indicare a tutti coloro che vogliono essere buoni italiani, a prescindere dal fatto che siano nati qui, che abbiano o meno il colore della nostra pelle o che siano uomini e donne che credono in un altro Dio, una precisa etica del dovere. Dobbiamo fare in modo che ci sia una scala di valori irrinunciabili, perché se si sottolinea, specie per lo straniero, soltanto la cultura dei diritti, non si dà vita ad alcun tipo di integrazione, ma si può creare soltanto una momentanea ospitalità. Etica dei doveri vuol dire individuare – ed è una proposta – quelli che potrebbero essere i buoni cittadini da indicare come esempio alla comunità nazionale.

    Forse, caro Silvio – ma lo hai detto, o almeno me lo hai detto in una occasione –, è arrivato il momento di riscoprire il ruolo dell’educazione civica: educare in qualche modo ai doveri, doveri cui devono essere chiamati ad attenersi sia coloro che sono italiani, sia coloro che lo vogliono diventare. Forse non sarebbe male individuare, ogni anno, quei cittadini, vecchi o nuovi, che hanno fatto propria l’etica dei doveri. In una delle versioni forse più cabarettistiche, forse più deteriori dell’essere italiani, c’è quella della tradizionale distinzione tra i furbi e i fessi: una piccola, limitata categoria di furbi e un popolo di fessi. Cerchiamo, amici miei, di dimostrare con i fatti che stiamo dalla parte di coloro che vengono giudicati ingiustamente i fessi. Individuiamo ogni anno quei dieci, quindici, cinquanta cittadini modello, gli eroi anonimi del giorno per giorno, quelli che fanno e rispettano le regole, quelli che hanno chiaro una gerarchia dei doveri, quelli che danno il loro contributo a rendere l’Italia una nazione e un’autentica patria per tutti coloro che hanno l’onore e/o la possibilità di vivere nel nostro Paese. Un’etica dei doveri, una grande stagione di assunzione di responsabilità, proprio per educare i più giovani.

    Infine, sempre senza alcuna presunzione, ma solo con la volontà di fornire qualche idea ad un dibattito che ci deve essere, dico che la società che verrà, proprio perché molto diversa da quella attuale, comporta necessariamente l’obbligo per le istituzioni di essere laiche. So che questa è la questione che più fa discutere, so che è anche la questione sulla quale – e non me ne dolgo – mi è capitato e mi capiterà di essere in minoranza all’interno del Popolo della libertà, ma dobbiamo tutti abituarci, su alcune grandi questioni, a ritrovarci in una condizione minoritaria, se la maggioranza sarà di avviso diverso. È evidente che quando si dice laicità delle istituzioni, non si può e non si deve intendere in alcun modo la posizione di chi nega quello che è il magistero morale della Chiesa; la posizione di chi rinnega quello che è l’alto ruolo sociale che ha svolto, e svolge; la posizione di chi nega – ammesso che esista – il contributo essenziale che, specie il cattolicesimo, ha dato nella definizione della identità italiana. Badate, non c’è alcuna contraddizione – o almeno io non la vedo – tra difendere, come abbiamo fatto in Europa, l’identità europea, riconoscendone le radici cristiane e la matrice di quell’identità, e poi chiedere che le istituzioni siano laiche.

    Non c’è contraddizione perché la laicità è innanzitutto separazione delle due sfere. Come è ben chiaro, in particolar modo ai cattolici più avveduti – li posso definire così, con la speranza di non offendere gli altri – voglio citare (ed è l’unica citazione) una bella frase di Mario Mauro, al quale auguro di poter davvero diventare il presidente del Parlamento europeo. Mario Mauro ha detto testualmente: «La laicità è il frutto della maturità del cristianesimo, in quanto chiarisce sin da subito ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, e lo fa perché non si possa prendere Dio come pretesto per uno scopo di potere. La laicità è garanzia anti-ideologica». Questa è la laicità positiva: laicità come garanzia anti-ideologica.

    Allora, in cauda venenum, siamo proprio sicuri, amici del Popolo della libertà, che il testamento biologico approvato al Senato sia per davvero laicità? Quando, infatti, si impone per legge un precetto, si è più vicini ad una concezione da Stato etico che da Stato laico; ma ne discuteremo, perché la politica oggi deve essere fatta anche di discussione. So perfettamente che è una posizione minoritaria, ma è una posizione che forse può aiutare, o perlomeno è una posizione che va compresa all’interno delle altre per fare un partito, non solo plurale, ma un partito di contenuti, un partito che cerca di guardare ai problemi di domani e che perlomeno si interroga.

    Allora concludendo: abbiamo certamente un leader che si è imposto per il suo carisma, per la sua capacità di costruire il partito, per quel che ha fatto in questi quindici anni. Abbiamo certamente un popolo che è un popolo di consenso, abbiamo certamente un’enorme potenzialità organizzativa. Abbiamo un leader, un popolo, abbiamo una grande organizzazione. Dobbiamo impegnarci per dimostrare di avere anche le idee giuste per immaginare l’Italia di domani e per costruirla. Sono convinto che, se continueremo come in questi quindici anni a marciare insieme all’insegna di un dovere che è innanzitutto quello della lealtà, senza la quale non si va mai da nessuna parte, se continueremo a dibattere e a confrontarci quando sarà necessario, se continueremo ad assumere posizioni diverse, ma all’interno di valori condivisi, il tempo dimostrerà che non abbiamo soltanto un leader, un popolo, un mare di consensi, ma abbiamo nei nostri valori e nelle politiche conseguenti quella capacità di capire il futuro e di cominciare a costruirlo, per far sì che l’Italia di domani sia davvero migliore dell’Italia di oggi. Questo vuol dire quell’autentica grande rivoluzione liberale, nazionale, popolare, interclassista richiamata ieri dal Presidente del Consiglio. Viva il Popolo della Libertà, viva l’Italia!

    Intervento al I Congresso del Pdl, 28 marzo 2009


    - Fine -


    http://www.ffwebmagazine.it/ffw/page...nfranco%20fini
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  4. #4
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    Predefinito Riferimento: Gianfranco Fini - Intervento al Congresso fondativo del PDL

    Ottimo lavoro Mr. right. L'invito è di inserire sempre tag quando si apre una discussione in modo da consentire una maggiore indicizzazione delle nostre pagine in rete.

  5. #5
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    Predefinito Riferimento: Gianfranco Fini - Intervento al Congresso fondativo del PDL

    3: Fini ha deviato completamente dal sano conservatorismo rinunciando alla difesa dell'etica e della morale sostenuta anche dalla Chiesa....è stato favorevole all'omicidio di Eluana... è diventato favorevole all'aborto, è favorevole ora all'uso indiscriminato degli embrioni....magari la mamma avesse CONGELATO il suo...:446:

    C'è una bella intervista con tanto di rimprovero da parte di Donna Assunta Almirante....
    Stiamo entrando nella Settimana Santa, per me c'è astinenza dalle polemiche ergo ci rileggiamo dopo Pasqua....

    Fraternamente CaterinaLD

  6. #6
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    Predefinito Riferimento: Gianfranco Fini - Intervento al Congresso fondativo del PDL

    Il nuovo conservatorismo di Gianfranco Fini


    C'era grande attesa per l'intervento di Gianfranco Fini al Congresso fondativo del PDL, dopo quello, molto apprezzato dalla stampa, che appena una settimana prima aveva sancito la chiusura di Alleanza Nazionale.

    Fini ha subito riconosciuto il partito come "suo" e la leadership “che è di tutta evidenza”, stroncando sul nascere le voci di una sua messa in discussione del ruolo di Silvio Berlusconi. Rispetto a quest’ultimo, che nel suo intervento aveva esaltato il PDL come popolo, Fini sembra privilegiare la forma tradizionale di partito e offre il suo contributo per la formazione di un “grande partito democratico”, che se dovrà evitare la divisione in correnti, dovrà tuttavia essere “un grande partito che discute, (…) sintesi in qualche modo evolutiva di posizioni, di storie, di tradizioni”. Un partito plurale, sottolinea Fini, “che non potrà mai essere anarchico”, sottintendendo con questa affermazione che il PDL non sarà una Forza Italia allargata – come alcuni tendono ad insinuare – con riferimento al partito monarchico e insieme anarchico del Cavaliere.

    Dopo aver affermato che il PDL si identificherà nel manifesto del Partito Popolare Europeo, ed espresso, data la sua veste istituzionale - il doveroso rispetto nei confronti degli avversari, Fini riprende un riferimento fatto da Berlusconi ad una possibile evoluzione della politica italiana in senso bipartitico. In relazione a ciò, ricorda l’avvento, ormai prossimo, del referendum elettorale fissato per il 7 giugno, al quale aveva personalmente aderito contribuendo alla raccolta delle firme, e che “rappresenterebbe inevitabilmente una forte accelerazione verso un sistema bipartitico”, nonostante – omette di dire – possa oggettivamente creare dissidi con l’alleato leghista.

    Fini passa quindi a delineare quella che dovrà essere la strategia del Popolo della Libertà, che, oltre a governare bene, “deve al tempo stesso disegnare l’Italia dell’immediato domani, (…) immaginare l’Italia che verrà, (…) costruirla giorno per giorno”. Per fare ciò, continua, “dobbiamo guardare nel profondo della nostra società. Dobbiamo innanzitutto essere coscienti che la nostra è una società sempre più atomizzata, sempre più individualistica, in cui si è perso il senso di una profonda coesione. Dobbiamo essere capaci, cari amici, di alimentare una speranza collettiva, offrire un grande sogno al nostro popolo, ridare un senso al nostro essere nazione. Dobbiamo ridare agli italiani il senso di appartenenza a una comunità.”

    Chiedersi “cosa significa essere italiani oggi” significa, per Fini, “pensare all’Italia che verrà, (…) interrogarsi, fare analisi, indicare delle linee di azione su tre grandi questioni.”

    La qualità della democrazia

    Porsi il problema della qualità della nostra democrazia significa per Fini innanzitutto “riflettere sul nostro assetto istituzionale (…) perché una democrazia è davvero capace di risolvere i problemi della gente quando è autenticamente rappresentativa e, al tempo stesso, quando è autenticamente governante”. Bisogna “riprendere il discorso, troppe volte interrotto, su quelle riforme istituzionali che sono indispensabili in un paese come l’Italia che, se vuole vincere la sfida della modernità, deve modernizzare la sua Costituzione”. Dopo aver auspicato il riferimento, nella prima parte, all’Unione europea – di cui l’Italia è uno dei padri fondatori - quale casa comune di tutti gli europei, Fini afferma che la seconda parte della Costituzione va necessariamente cambiata.

    Bisogna affrontare il tema del rapporto tra Governo e Parlamento e all’interno di quest’ultimo, tra le due Camere, affinché il federalismo “abbia completa attuazione” con l’introduzione di un Senato federale.

    Riguardo la discussione della forma di governo e della forma di Stato si deve invece “rilanciare, come Popolo della libertà, una grande stagione costituente”. Nell’occasione, il PDL deve stanare la sinistra, per verificarne la reale volontà riformatrice.

    La qualità della vita degli italiani nel prossimo futuro

    Il secondo piano d’analisi riguarda “la qualità della vita degli italiani nel prossimo futuro”, una questione, ammette Fini, “connessa a quale sarà l’assetto economico che l’Italia assumerà quando saremo usciti da questa crisi”. La crisi attuale, a suo dire, non è “come le altre, non è una crisi congiunturale, non è uno dei tanti momenti ciclici”, ma è “una crisi strutturale, (…) che chiama in causa la natura stessa del capitalismo, così come il capitalismo si era strutturato negli anni passati”. Per Fini è “andata irrimediabilmente in pezzi l’immagine un po’ autoconsolatoria di un capitalismo senza regole, un capitalismo in cui gli spiriti animali riescono sempre e comunque a determinare un avanzamento, un progresso della società. (…) La crisi attuale è una crisi che ha le sue radici anche nel fatto che le economie negli ultimi tempi avevano messo il baricentro sulla finanza più che sulla produzione reale di ricchezza”. Fini pone la vicenda Enron a rappresentazione di “una patologia intrinseca nel nostro sistema liberalcapitalista, se un grande colosso dell’energia decideva di investire i suoi utili non per migliorare il prodotto, non per occupare nuove fette di mercato, ma unicamente per speculazioni di Borsa”.
    Qui Fini si ricollega alle analisi di Tremonti citando il suo “bel libro” La paura e la speranza. Anche per Fini, come per Tremonti “è il mercatismo; un mercatismo senza regole, un mercatismo totem assoluto, un mercatismo in cui la finanza finisce per essere il sostituto dell’economia”. Quello di Fini non è un attacco diretto alle banche o al liberalcapitalismo, senza il quale, afferma, “non ci sarebbe la possibilità di far crescere per davvero l’economia reale delle società”. Fini punta il dito contro la degenerazione avutasi negli ultimi anni a cui si può rispondere, anche qui riprendendo l’intuizione di Tremonti, con il recupero dei valori tradizionali. Mentre il ministro in platea annuisce soddisfatto, Fini parla della “necessità di nuove regole, che ovviamente non possono essere regole nazionali”. Regole che “ripongano al centro dell’economia il lavoro, inteso come capacità concreta di produrre ricchezza reale; non soltanto speculazione, non dividendi, ma concretezza del fare. Sono questi valori tradizionali che richiamano a quella visione di un’economia di mercato in cui l’aggettivo sociale non è un orpello, ma è strettamente connaturato alla natura dell’economia, perché o l’economia è sociale o per certi aspetti rischia di essere un’economia antisociale nello stesso momento in cui si riflette negativamente sulle condizioni di vita di popoli interi”.

    Riguardo al recupero dei valori tradizionali Fini si richiama esplicitamente al manifesto del Partito Popolare Europeo, ispirato all’economia sociale di mercato e a “quel principio di sussidiarietà che fa sì che ci sia sempre collaborazione tra ceti intermedi”, in un’Italia “in cui è forte il ruolo delle piccole e medie imprese, in cui uno dei principali ammortizzatori sociali continua a essere la famiglia, (…) un paese che, pur avendo da anni una struttura liberalcapitalista, è assai diverso nella sua configurazione sociale da molti altri paesi che hanno abbracciato la logica del mercato”.

    A questo punto Fini suggerisce quindi “qualche considerazione utile per un dibattito interno e per l’individuazione di politiche coerenti”, parlando della “necessità di tre grandi accordi, che devono essere preparati e realizzati nel corso degli ultimi anni, tre grandi patti.”

    Il primo patto è un patto tra generazioni, che porti “i padri e i figli dalla stessa parte”, facendoli “sentire non soltanto partecipi di una sfida comune, ma capaci di costruire un futuro in comune”. Quindi, “vivificare un welfare che garantisce la solidarietà e la tutela ai più deboli, modernizzandolo in una logica che lo renda il welfare delle opportunità, perché oggi la grande vera sfida non è soltanto tutelare i più deboli, ma garantire loro opportunità, guardando in particolar modo ai giovani”. Tutto ciò, aggiunge poi Fini, “può forse avere qualche ricaduta nella riforma della previdenza”, ma la questione è soltanto preannunciata.

    Il secondo patto è un patto tra il capitale e il lavoro, in quanto “le vecchie categorie marxiane sono irrimediabilmente datate” e “non c’è più una società divisa in proletari e borghesi”, per quanto la sinistra non se ne sia finora accorta.

    Fini sottolinea come “oggi siamo tutti produttori e al tempo stesso consumatori (…), che possono vivere di reddito a lavoro dipendente o autonomo, ma sono il superamento di una logica classista”. Il PDL deve impegnarsi per “promuovere un’autentica concordia sociale”, tagliando così le gambe ad una sinistra che “si attarda con una visione ottocentesca”. Il deve “promuovere la concordia tra le categorie, (…) attivare quei meccanismi per cui datori di lavoro e lavoratori si sentano anch’essi interessati a un unico progetto. Se la politica promuove concordia sociale, amici miei, è compito delle istituzioni distribuire nel modo più giusto la ricchezza prodotta.” In questa parte dell’intervento di Fini si risente ancora la voce della destra sociale, da sempre sospettosa verso il libero mercato e portavoce di un ruolo attivo dello Stato nell’economia. A parere di chi scrive è la parte dell’intervento più discutibile da un punto di vista conservatore.

    Il terzo patto è un patto tra nord e sud. Fini non teme il federalismo fiscale per l’impatto che può avere nel Meridione, in quanto “può rappresentare una grande opportunità per liberare energie, per rompere condizionamenti, per mandare finalmente al macero la logica clientelare, la logica del favore che diventa la garanzia per l’ottenimento di un successo”. Tuttavia, il federalismo fiscale può essere opportunità per il sud “soltanto se lo Stato non soltanto c’è, ma afferma anche la sua presenza”. Fini sottolinea poi come se si voglia dar vita ad un patto nord/sud, “le politiche del Governo devono tener conto della necessità di ripianare dei deficit storici”. La coesione sociale dell’Italia passa per la Napoli-Reggio Calabria, per la Reggio Calabria-Salerno, “per tutto quello che è deficit di infrastruttura e di legalità”. Per Fini la bandiera della legalità “va alzata ovunque ma che nel meridione deve essere alzata ancor prima e sventolata con ancora maggiore nettezza”, e il PDL deve essere in prima linea nel liberare il sud “dalle mafie, dalle clientele, dal malaffare (…) e “anche da quel ceto politico che in tante circostanze sembra più attento a fare accordi finalizzati al mantenimento del proprio potere piuttosto che a fare quel salto in avanti che è indispensabile”.

    La natura del nostro essere comunità nazionale

    Centrale in Gianfranco Fini è il pensiero per la comunità nazionale. “Dobbiamo cercare di immaginare poi di costruire l’Italia del domani”, sottolinea. “Ci dobbiamo abituare a pensare l’Italia con un’ottica e con una visione molto diverse rispetto al passato. Saranno sempre di più, inevitabilmente, gli italiani di colore; saranno sempre di più, inevitabilmente, gli italiani con i tratti orientali; saranno sempre di più, inevitabilmente, gli italiani che non credono nella nostra religione; saranno sempre di più gli italiani che sono figli di genitori che non sono nati in Italia, e non dobbiamo guardare a questa prospettiva con paura ma con la presunzione di poterlo guidare, un processo storico così impegnativo”. “Un processo che necessita di un confronto di valori e di un confronto di idee, perché l’integrazione non significa necessariamente assimilazione, perché l’integrazione non può che svolgersi nel pieno rispetto della legalità”.
    Fini ricorda quindi come per il Manifesto del Partito Popolare “il centro di ogni azione deve essere il rispetto della dignità della persona umana. Un bambino o un ammalato sono in primo luogo una persona umana; poi, eventualmente, sono immigrati. Se non si hanno ben chiare queste categorie di tipo culturale, si rischia non solo di non guidare il difficile processo di integrazione, ma si rischia di esserne travolti, oltre che di alimentare quella xenofobia che è sempre dietro l’angolo quando si è in presenza di momenti epocali e di timore nei confronti di ciò che non si conosce”.

    Fini suggerisce quindi al PDL di riflettere “sull’opportunità o meno di prevedere nuovi percorsi per la cittadinanza”, in quanto “o il futuro lo costruiamo oppure il futuro ci arriva in casa senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Creare nuovi percorsi per la cittadinanza vuol dire valorizzare il ruolo della scuola”. Fini sottolinea come l’integrazione avvenga “di pari passo con il pieno apprendimento della nostra lingua” e giudica “un’autentica sciocchezza” l’idea che “soltanto la sinistra si possa e si debba occupare del rapporto con lo straniero, del rapporto con l’integrazione, del rapporto con quelle comunità che vengono qui per discutere di quello che è anche il nostro futuro”.

    Pensare in questa dimensione nuova alla società di domani, significa in conclusione per Fini “contrapporre a quella che è stata per tanti anni la cultura di una doverosa tutela dei diritti, una precisa etica dei doveri, non in termini di rivalità, ma in termini di complementarietà. (…) Dobbiamo indicare a tutti coloro che vogliono essere buoni italiani, a prescindere dal fatto che siano nati qui, che abbiano o meno il colore della nostra pelle o che siano uomini e donne che credono in un altro Dio, una precisa etica del dovere. Dobbiamo fare in modo che ci sia una scala di valori irrinunciabili, perché se si sottolinea, specie per lo straniero, soltanto la cultura dei diritti, non si dà vita ad alcun tipo di integrazione, ma si può creare soltanto una momentanea ospitalità”.

    Etica dei doveri significa anche riscoprire il ruolo dell’educazione civica. Fini propone di individuare, anno per anno, “quei dieci, quindici, cinquanta cittadini modello, gli eroi anonimi del giorno per giorno, quelli che fanno e rispettano le regole, quelli che hanno chiaro una gerarchia dei doveri, quelli che danno il loro contributo a rendere l’Italia una nazione e un’autentica patria per tutti coloro che hanno l’onore e/o la possibilità di vivere nel nostro Paese”

    L’intervento di Fini si chiude, infine, e non poteva essere altrimenti, viste le polemiche che hanno diviso la società italiana negli ultimi anni, con il rimarcare la laicità delle istituzioni. Su questo aspetto Fini riconosce “di essere in minoranza all’interno del Popolo della libertà, ma dobbiamo tutti abituarci, su alcune grandi questioni, a ritrovarci in una condizione minoritaria, se la maggioranza sarà di avviso diverso”. Per laicità delle istituzioni, dice Fini, “non si deve intendere in alcun modo la posizione di chi nega quello che è il magistero morale della Chiesa”, né tanto meno rinnegare “il contributo essenziale che, specie il cattolicesimo, ha dato nella definizione della identità italiana”. La lacità, sottolinea Fini, citando Mario Mauro, è “il frutto della maturità del cristianesimo, in quanto chiarisce sin da subito ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, e lo fa perché non si possa prendere Dio come pretesto per uno scopo di potere. La laicità è garanzia anti-ideologica.”

    L’ultimo appunto è quindi riferito al testamento biologico, recentemente approvato al Senato. Al riguardo Fini, che ribadisce la sua nota posizione contraria, afferma polemicamente che “quando si impone per legge un precetto, si è più vicini ad una concezione da Stato etico che da Stato laico”. E’ questa forse l’unica frecciata verso i teocon berlusconiani ed è quella su cui più si concentreranno i commenti velenosi del centrosinistra.
    Tuttavia Fini, che sulle questioni etiche riconosce di dar voce ad una esigua minoranza all’interno del PDL, sembra preoccupato a far sì che il futuro centro-destra si caratterizzi per una pluralità di opinioni, affinché si possa parlare “di un partito di contenuti, un partito che cerca di guardare ai problemi di domani”.

    L’intervento, molto applaudito dai delegati del Popolo della Libertà e da Berlusconi stesso che lo ha definito “fantastico” ha rappresentato il tentativo di Fini, in accordo con la Fondazione FareFuturo che ne supporta l’azione, di caratterizzare il PDL che verrà, ovvero la fase post-berlusconiana in linea con il “nuovo conservatorismo” dei Cameron e Sarkozy. Un conservatorismo pragmatico, post-ideologico e modernizzatore che smorza i toni ruvidi e individualistici tipici degli anni ottanta e che preferisce toni più moderati, approfittando della crisi che ha investito i partiti progressisti europei per rubare loro alcune armi, dallo Stato interventista alle politiche ecologiche e pro-immigrazione. Non a caso il volume La destra nuova, che analizza i recenti sviluppi del conservatorismo francese, inglese e svedese, curato da Alessandro Campi e Angelo Mellone, per Marsilio, ci dicono fosse presente negli stands ed andato esaurito.


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