Il testo integrale
Laicità e riforme
di Gianfranco Fini
Care delegate e cari delegati del 1° Congresso nazionale del Popolo della libertà, vi ringrazio per questo applauso che certamente sta a significare tante cose: in primo luogo, la validità, la bontà e, se me lo permettete, l’intelligenza di una scelta strategica che è stata operata da coloro che hanno deciso di dare vita al Popolo della Libertà. Permettetemi innanzitutto di ringraziare il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per la chiarezza e anche per la generosità con cui ieri, nel suo intervento introduttivo del Congresso, in un colpo solo, ha spazzato via tanti luoghi comuni e – perché no? – tante interpretazioni maliziose o interessate, in alcuni casi tante legittime paure. Silvio Berlusconi ieri è stato chiarissimo nel dire che cosa è il Popolo della libertà.
Il Popolo della libertà non è Forza Italia allargata, non è la fusione più o meno fredda tra diversi soggetti politici. Il Popolo della libertà non è un semplice cartello elettorale, ma è un nuovo grande soggetto politico di popolo, sintesi dei valori, delle storie, dei patrimoni e delle esperienze di donne e di uomini che avevano storie politiche diverse, ma sempre avevano avuto ben chiaro che l’obiettivo di una politica, quando è una politica alta, con la “P” maiuscola, è innanzitutto quello del bene comune. Il Popolo della libertà è un grande incontro di donne e di uomini liberi che hanno nel cuore il desiderio e il sogno di un’Italia migliore. Silvio Berlusconi l’ha detto non soltanto con cristallina chiarezza (come emerge, del resto, oggi dai commenti di tutti coloro che stanno seguendo la genesi del Popolo della libertà), ma anche facendo omaggio – di questo personalmente lo ringrazio – ad un uomo che aveva creduto nel Popolo della libertà quando era difficile crederci. Il richiamo, caro Silvio, che ieri hai fatto a Pinuccio Tatarella non è stato soltanto per me e per gli amici di Alleanza nazionale un bel riferimento ad un amico che non c’è più. È stato in qualche modo – così l’abbiamo letto – l’omaggio ad un’intuizione politica.
Permettetemi di rendere omaggio ad un altro uomo che aveva creduto nel Popolo della libertà quanto Pinuccio, quanto i dirigenti di Alleanza nazionale, e che per una sorta di tragica ironia del destino proprio questa mattina ci ha lasciato: il sottosegretario Ugo Martinat, già segretario regionale di Alleanza nazionale in Piemonte. Era, anch’egli, un uomo che amava l’Italia, che credeva nella forza delle idee, un uomo del fare, come tante volte ama dire il presidente del Consiglio; l’idealismo e al tempo stesso il pragmatismo, la concretezza. Da lassù ci aiuteranno in questo cammino.
È altrettanto vero che se ieri Berlusconi ha spazzato via le possibili interpretazioni maliziose è doveroso, da parte mia, riconoscere al presidente del Consiglio che, nonostante tante buone intenzioni, nonostante la lungimiranza di alcuni, nonostante l’impegno, il Popolo della libertà non sarebbe nato senza quella lucida follia che in alcune circostanze davvero sembra guidare l’azione del presidente del Consiglio. Berlusconi ha creduto nel Popolo della libertà anche quando sembrava davvero molto, molto difficile realizzarlo. Ma questa, ormai, è storia di ieri. Oggi il partito c’è, ha una leadership che è di tutta evidenza, la leadership naturale, la leadership di chi in qualche modo l’ha fortemente voluto e costruito. Proprio perché è un grande partito di popolo, in capo alla leadership di Berlusconi vi saranno oneri e onori. Certamente l’onere di garantire che il Popolo della libertà sia sempre di più quel che può e deve essere, un grande partito di popolo e, quindi, un grande partito democratico, il che non dovrà mai significare un partito diviso in correnti.
La divisione in correnti è in molti casi la caricatura della democrazia. Dovrà essere, dunque, un grande partito democratico, un grande partito che discute, un grande partito che si confronta, un grande partito plurale: plurale perché è sintesi positiva, non compromesso al ribasso, sintesi in qualche modo evolutiva di posizioni, di storie, di tradizioni. Un grande partito plurale che non potrà mai essere anarchico e non lo sarà proprio perché, come è risultato chiaramente anche dagli interventi di ieri, alla base di quella che è la piattaforma ideale e la sintesi dei valori del Popolo della libertà, c’è un unico manifesto, il manifesto del Partito Popolare Europeo. Pluralismo e sostanziale unità, democrazia senza correntismo sono forme organizzative che un partito moderno, un partito proiettato per il futuro deve saper garantire. Sono certo che, proprio perché non è in discussione, la leadership di Berlusconi riuscirà a garantire questa metodologia e modalità organizzativa che è indispensabile per far compiere ulteriori passi avanti al nostro Paese. Il Popolo della libertà è un grande soggetto politico, sintesi di storie e di culture diverse, che entra sulla scena politica al pari di quel che due anni fa ha fatto il Partito democratico.
Non è questa la sede – e la mia veste istituzionale in qualche modo mi obbliga al rispetto doveroso nei confronti degli avversari – per giudicare se il Partito democratico abbia dato vita ad una sintesi felice o meno di storie, di culture e di tradizioni diverse. Certo è che in Italia vi sono due grandi raggruppamenti politici, che hanno delle precise ascendenze di tipo europeo, anche se è di tutta evidenza che una differenza di fondo esiste tra Partito democratico e Popolo della libertà: mentre il Popolo della libertà ha ben chiaro che ha a pieno titolo nella famiglia del popolarismo europeo la sua casa madre, il Partito democratico ancora oggi si dibatte circa l’opportunità di schierarsi a Bruxelles nell’uno o nell’altro fronte, a riprova – questa non è polemica, ma soltanto considerazione oggettiva – che forse quella sintesi di valori è più apparente che reale.
È comunque certo che il Popolo della libertà e il Partito democratico rendono l’Italia più europea, rendono l’Italia più vicina a quelle democrazie in cui è regola l’alternanza, rendono l’Italia più simile a quella democrazia europea che è basata su un sistema intimamente bipolare. Nella lunga relazione di Berlusconi, ieri, vi è stato un riferimento che non è stato forse colto a sufficienza dagli osservatori e che mi permetto rapidissimamente di riprendere: Berlusconi, rivendicando anche al Popolo della libertà questa capacità di far marciare l’Italia verso una dimensione più europea, ha detto «forse il bipolarismo potrebbe anche evolversi in senso bipartitico». Non so se sono maturi i tempi, non so se ci sono le condizioni, certo è, caro Silvio e cari delegati, che il Popolo della libertà dovrà mettere quanto prima all’ordine del giorno del suo dibattito interno quale atteggiamento assumere in occasione di quel referendum elettorale già fissato per il 7 giugno che, al di là del merito della legge elettorale, rappresenterebbe inevitabilmente una forte accelerazione verso un sistema bipartitico. Non lo dico soltanto perché, al pari di altri, ho contribuito alla raccolta delle firme per rendere possibile il referendum, ma perché il referendum è sempre la forma più evidente di democrazia diretta, il massimo livello di coinvolgimento di un popolo. Se siamo Popolo della libertà, credo quindi che non si possa derubricare l’appuntamento del 7 giugno come un piccolo incidente di percorso, anche se, lo sappiamo perfettamente, può creare la necessità di discutere tra di noi e con i nostri alleati. Questo però è il peso della politica e il dovere di un grande partito plurale, di un grande partito che ha una strategia .
Certo è che la nascita del Popolo della libertà garantirà la stabilità al nostro sistema e anche all’attuale Esecutivo, perché l’esperienza recente ha insegnato che quando all’interno di un’alleanza vi è la necessità per identità o visibilità di partito di assumere posizioni che in alcuni casi sono non omogenee a quelle degli altri, si determina prima o poi una frizione che può anche sfociare in una tensione, in un indebolimento dell’azione dell’Esecutivo. Un unico grande partito, il Popolo della libertà alleato con la Lega e con l’Mpa di Lombardo, garantisce che l’Esecutivo sarà più stabile e che l’azione di governo – che nasce dal mandato affidato dagli italiani con una percentuale di consenso che impone quel rispetto che tutti oggi in Europa hanno nei confronti del Popolo della libertà – e l’unità sostanziale di intenti darà certamente stabilità e possibilità all’Esecutivo di camminare sollecitamente verso gli obiettivi che ha posto al centro della sua azione di governo.
Questa mattina, però, non voglio parlare di questo, perché credo che il Popolo della libertà, proprio perché è un grande partito di popolo e ha un grande consenso, debba in qualche modo pensare alla sua missione strategica, definire il suo progetto di media e lunga durata. Credo che la grande scommessa del Popolo della libertà sia innanzitutto dimostrare che quando c’è buon governo, democrazia dell’alternanza, non significa, come in Italia qualcuno sembra credere, che in una legislatura governa il centrodestra e nell’altra il centrosinistra. Il Popolo della libertà può dimostrare, se ne è capace – e ne può essere capace –, che quando si hanno idee e progetti per il medio e lungo termine, la democrazia dell’alternanza non coincide con una legislatura. La missione del Popolo della libertà deve essere quella di governare bene e al tempo stesso disegnare l’Italia dell’immediato domani, pensare alle sue politiche, alle sue strategie in un arco che va al di là della legislatura, immaginare l’Italia che verrà, pensare all’Italia di domani e costruirla giorno per giorno, perché non siamo un circolo culturale, ma siamo il grande partito italiano, il partito degli italiani, abbiamo la possibilità di incidere nell’azione di governo.
Pensare all’Italia non è sufficiente, bisogna costruirla giorno per giorno, e per farlo credo che occorra innanzitutto avere ben chiaro che dobbiamo guardare nel profondo della nostra società. Dobbiamo innanzitutto essere coscienti che la nostra è una società sempre più atomizzata, sempre più individualistica, in cui si è perso il senso di una profonda coesione. Dobbiamo essere capaci, cari amici, di alimentare una speranza collettiva, offrire un grande sogno al nostro popolo, ridare un senso al nostro essere nazione . Dobbiamo ridare agli italiani il senso di appartenenza a una comunità. Abbiamo il dovere di farlo non soltanto perché siamo alla vigilia di una ricorrenza storica, perché nel 2011 ricorrerà il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Dobbiamo chiederci cosa significa essere italiani oggi, pensare all’Italia che verrà, l’Italia che è già alle porte delle nostre case. Per farlo voglio dare al Congresso e, se me lo permette, al presidente del Consiglio, anche per l’azione quotidiana del Governo, oltre che per le conclusioni di domani, che come ha giustamente anticipato saranno rivolte al futuro, e voglio dare a quello che sento il mio partito – il fatto che io sia il presidente della Camera, e quindi abbia il dovere di rispettare le Istituzioni e di essere super partes, non significa certo rinunciare ad avere delle idee e ad alimentarne il dibattito –qualche suggestione. Cosa significa pensare all’Italia che verrà? Cosa significa cercare di comprendere la natura della nostra società? Credo che significhi interrogarsi, fare analisi, indicare delle linee di azione su tre grandi questioni.
La prima è quella relativa alla qualità della nostra democrazia, il che vuol dire, in modo diretto o indiretto, discutere e riflettere sul nostro assetto istituzionale. In occasione del Congresso di Alleanza nazionale ho citato una bella espressione di un Centro studi, che paragonava l’Italia, fino a qualche anno fa, a un calabrone che, contro la legge della fisica, si alzava e volava. Poi, un’Italia crisalide, in perenne transizione. Io credo che il compito del Popolo della libertà sia quello di far uscire la farfalla da quella crisalide e di porre termine alla troppo lunga transizione. La qualità della nostra democrazia passa attraverso la capacità che avremo di dar vita a delle istituzioni che rispondano alle due grandi necessità valoriali di ogni democrazia, perché una democrazia è davvero capace di risolvere i problemi della gente quando è autenticamente rappresentativa e, al tempo stesso, quando è autenticamente governante. Non può esserci contraddizione, né in termini culturali, né in termini istituzionali, tra democrazia intesa come diritto del popolo di far sentire la propria voce attraverso i propri rappresentanti e una democrazia capace di governare, non soltanto di discutere, non soltanto di analizzare, ma capace di decidere. È la grande sfida dei tempi moderni. Rispetto a qualche tempo fa, la democrazia o è rappresentativa e governante oppure, se pone il suo baricentro soltanto sotto l’aspetto della rappresentatività senza tenere nel dovuto conto la necessità di rispondere in tempi reali a sfide che sono sempre più impellenti, rischia di apparire non in sintonia con le esigenze più profonde di un popolo.
Democrazia rappresentativa, democrazia governante, qualità complessiva del nostro sistema democratico: ciò vuol dire, cari amici, riprendere il discorso, troppe volte interrotto, su quelle riforme istituzionali che sono indispensabili in un paese come l’Italia che, se vuole vincere la sfida della modernità, deve modernizzare la sua Costituzione. Non credo che ci siano dubbi sul fatto che gli articoli della prima parte della Costituzione meritano sicuramente rispetto perché hanno assunto, anche nella loro quotidiana declinazione, un valore che è il valore di tutti gli italiani. Se posso permettermi, al riguardo credo che tra i punti fondamentali della Costituzione, in una Costituzione così ampia come la nostra, nella prima parte non guasterebbe un riferimento a quella Europa di cui l’Italia è uno dei padri fondatori. Non si poteva certo pretendere che, nella stagione costituente, nel 1946-48, i nostri padri costituenti individuassero nell’Unione europea la casa comune di tutti gli europei, cosa che oggi in qualche modo è realtà; ma se si vuol parlare di riforma della Costituzione, fermo restando che la prima parte non merita particolari modifiche – se non, forse, l’inserimento di un ideale e ben preciso valore europeo – cari amici, la seconda parte della Costituzione si deve cambiare. La seconda parte della Costituzione si deve cambiare perché altrimenti rischiamo di non far uscire la farfalla che è nella crisalide; perché rischiamo di non rendere qualitativamente migliore la nostra democrazia; perché rischiamo di non cogliere l’aspetto importante di una democrazia che deve essere rappresentativa e governante.
Questo vuol dire affrontare i temi che fanno parte da anni del dibattito politico: il tema del rapporto tra Governo e Parlamento, di quale rapporto debba esservi all’interno del Parlamento tra le due Camere, perché credo che sia davvero arrivato il momento di prevedere che il federalismo, di cui parlerò di qui ad un attimo – abbia completa attuazione, attraverso quel federalismo istituzionale che comporta necessariamente che una delle due Camere del nostro sistema parlamentare sia la Camera delle Regioni, o delle autonomie, o del territorio, o come meglio si ritiene di chiamarlo. E se si dà vita ad una nuova forma di Stato – ed è un processo che, in qualche modo, si è avviato negli anni passati e che può trovare compimento attraverso l’introduzione di un Senato federale o delle autonomie – è doveroso discutere di quale sarà la forma di governo. Credo che, anche da questo punto di vista, il dibattito che abbiamo alle spalle, ma soprattutto, quella sintesi di culture politiche che abbiamo posto al centro del Popolo della libertà, possa indicare una strada; una strada che faccia piazza pulita anche di polemiche che in alcuni casi non hanno ragione di esistere.
È di tutta evidenza, infatti, che, in questa Costituzione, i Presidenti della Camera e del Senato hanno il dovere di rispettare la Costituzione vigente e, quindi, di rimarcare, in qualche modo, il ruolo centrale del Parlamento nel processo legislativo. E bene fa il presidente del Consiglio a rivendicare la necessità di un rafforzamento dei poteri dell’Esecutivo che gli consenta non soltanto maggiore tempestività e incisività nell’azione del Governo, ma che gli consenta anche di avere una squadra di Governo che sia strettamente collegata alla valutazione che il presidente del Consiglio dà della capacità dei singoli ministri. Se vogliamo, tuttavia, evitare che, in modo ricorrente, la polemica esca dalle pagine dei giornali, abbiamo un’unica strada: porre quanto prima in Parlamento la discussione della forma di governo e della forma di Stato e rilanciare, come Popolo della libertà, una grande stagione costituente. Se vogliamo tirare allo scoperto la sinistra, se vogliamo comprendere se è passatista o proiettata verso il futuro, se vogliamo verificare la sua reale volontà di ammodernare il sistema italiano, non dobbiamo fare altro che dare seguito a quello che saggiamente, alla Camera, l’altro giorno ha detto il ministro Calderoli. A fronte dell’ordine del giorno Franceschini, che chiedeva alla maggioranza di porre nell’agenda della I Commissione Affari Costituzionali la discussione della cosiddetta “bozza Violante”, il ministro Calderoli, molto saggiamente, a nome del Governo, ha detto: «Siamo d’accordo e ci impegniamo a farlo». Amici miei, bisogna farlo per davvero, perché la modifica dei regolamenti parlamentari è un anello di una grande stagione di riforme.
Riformiamo il Parlamento, riformiamo la forma di governo, riformiamo i regolamenti parlamentari, cerchiamo di costruire un’Italia proiettata in avanti. Sarà quella la cartina di tornasole non del riformismo del Popolo della Libertà, che è di tutta evidenza, ma sarà la cartina di tornasole della volontà della sinistra italiana di essere per davvero con lo sguardo proiettato in avanti o di essere, al contrario, nostalgica di una stagione sostanzialmente consociativa, di paralisi delle azioni dell’Esecutivo e di sostanziale impossibilità del Parlamento di legiferare con i tempi e secondo le esigenze imposte dalla società in cui viviamo. È una grande sfida, che, in qualche modo, rappresenta quel primo piano di analisi che pongo all’attenzione del congresso.
Immaginiamo l’Italia che verrà. Il primo piano di analisi è la qualità della nostra democrazia, l’assetto delle nostre istituzioni. Il secondo piano d’analisi è, per certi aspetti, ancora più impegnativo, ed è relativo alla qualità della vita degli italiani nel prossimo futuro; è, in qualche modo, la questione connessa a quale sarà l’assetto economico che l’Italia assumerà quando saremo usciti da questa crisi. So bene che non è questione che riguarda soltanto noi: è la grande questione sulla quale si interrogano, in tutto l’occidente, le istituzioni, i partiti, i sindacati, i ceti dirigenti, i popoli interi. È certo, comunque, che si tratta di una domanda – quale sarà l’assetto economico dell’Italia, quale sarà la reale condizione di vita degli italiani nei prossimi anni – che pone delle domande e impone ovviamente delle risposte, che possono essere fornite soltanto se si parte da alcune consapevolezze, che a mio modo di vedere nel Popolo della Libertà ci sono. La prima consapevolezza è che questa non è una crisi come le altre, non è una crisi congiunturale, non è uno dei tanti momenti ciclici: questa è una crisi strutturale, questa è una crisi che chiama in causa la natura stessa del capitalismo, così come il capitalismo si era strutturato negli anni passati. Credo che sia andata irrimediabilmente in pezzi l’immagine un po’ autoconsolatoria di un capitalismo senza regole, un capitalismo in cui gli spiriti animali riescono sempre e comunque a determinare un avanzamento, un progresso della società. È risultato evidente a tutti che la crisi attuale è una crisi che ha le sue radici anche nel fatto che le economie negli ultimi tempi avevano messo il baricentro sulla finanza più che sulla produzione reale di ricchezza . È una crisi in cui basta risalire a quello che è stato il momento iniziale, la vicenda Enron, per comprendere che c’era una patologia intrinseca nel nostro sistema liberalcapitalista, se un grande colosso dell’energia decideva di investire i suoi utili non per migliorare il prodotto, non per occupare nuove fette di mercato, ma unicamente per speculazioni di Borsa che potevano consentire di aumentare i dividendi e di premiare con stipendi molto elevati i manager. Questa, poi, è stata l’origine della crisi di quel colosso e di quella slavina che si è abbattuta sull’economia statunitense e poi, a scacchiera, sull’economia mondiale.
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