L'associazione rimpatriati: "Gheddafi? Un uomo che ha rovinato inutilmente la vita degli italiani in Libia"
Il colonnello Gheddafi impiegò meno di ventiquattrore per decidere l'espulsione immediata di ventimila italiani e la requisizione dei loro beni. Era un assolato luglio del 1970 e il governo italiano era distratto dalle imminenti vacanze o troppo impegnato a gestire l’instabilità politica per occuparsi della sorte degli "italiani di Libia". Tra promesse di indennizzi e agevolazioni irrisorie, il Belpaese si accontentò di salvaguardare gli interessi dell’Eni e della Fiat. Quegli italiani si sono portati la Tripolitania e la Cirenaica nel cuore. La loro storia è stata "diplomaticamente" dimenticata a favore degli accordi che si sono succeduti negli anni, fino alle tende di Gheddafi piantate nelle ville romane con il sorriso compiaciuto di Silvio Berlusconi. La rivolta contro il Colonnello ha riportato alla luce questa storia e in questi giorni il telefono dell’Airl (Associazione italiana rimpatriati di Libia) non smette di squillare. La presidente dell'associazione, Giovanna Ortu, ha ricostruito per Tiscali Notizie la storia dei rimpatriati italiani non prima di aver augurato al popolo libico di "trovare velocemente la propria strada senza altro spargimento di sangue".Dott.ssa Ortu, in Libia è esplosa la rivolta contro Gheddafi, quali sono i suoi sentimenti?
"Provo una grande ammirazione per il coraggio dei rivoltosi e una grande pietà per le vittime. Tutto questo pone in secondo piano la soddisfazione che dovrei provare nel vedere la fine di un uomo che ha rovinato inutilmente la nostra vita".Perché inutilmente?
"Non aveva bisogno di cacciare gli italiani per rafforzarsi internamente. Non è vero che l’averci tolto i nostri risparmi abbia contribuito a rendere più florida l’economia libica, anche se la confisca di beni gli fruttò 400 milioni di lire ovvero circa 3 miliardi di euro di oggi. Quei soldi ci sono stati restituiti in minima parte e solo recentemente, quindi a distanza di quarant’anni. Sono ancora in pagamento ma con dei coefficienti talmente irrisori che, per esempio, chi ha perso un appartamento ora può comprarsi al massimo un divano".Torniamo al 1970, voi avevate sentore del clima antitaliano che sarebbe esploso?
"Assolutamente no. Fino al 1969 il governo di re Idris sembrava andare avanti senza problemi perché anche se c’era corruzione lui era un capo carismatico e godeva dell’appoggio dei governi occidentali. La presa del potere di Gheddafi, del tutto incruenta, fu inaspettata. Agli inizi, esattamente come oggi, non si capì quali sarebbero stati gli indirizzi politici del regime anche perché fece dei grandi proclami di fratellanza con l’Italia, ma sin dai primi provvedimenti adottati capimmo che il nostro futuro in Libia non sarebbe stato molto facile".La situazione interna in Italia non vi agevolò, è così?
"C’era una forte instabilità politica che aveva portato a marzo al terzo governo Rumor. L’Italia era troppo presa dalle vacanze estive e dalla crisi di governo (Rumor cadde il 6 agosto del 1970 ndr.) per occuparsi delle nostre vicende. Decisero di affidare la protezione degli italiani in Libia all’Egitto, il quale ovviamente non fece nulla. Da alcuni recenti documenti della Farnesina, fino a oggi riservati, è emerso che l’Italia scelse di tutelare gli interessi dell’Eni e della Fiat e sacrificare le proprietà degli italiani. Era stato deciso di provare a difendere i nostri beni o indennizzarci, ma non riuscirono a difenderci e non ci indennizzarono. L’Italia da allora ha ceduto a tutte le richieste di Gheddafi e questo atteggiamento è stato portato alle estreme conseguenze dall’ultimo governo Berlusconi con la sigla del trattato (accordo di amicizia e cooperazione del 30 agosto 2008 ndr.)".Cosa è rimasto della Libia dentro di voi?
"E’ rimasto moltissimo. Nonostante molti di noi fossero nati a Tripoli ci è stato negato per anni, con la complicità del governo italiano, di ottenere il visto turistico (divieto per tutti gli italiani nati in Libia dal 1941 al 1969 ndr.) Siamo tornati a distanza di trentacinque anni e abbiamo finanziato i lavori di restauro del cimitero italiano di Hammangi a Tripoli che versava in condizioni pietose. Nessuno della nostra ambasciata o delle tante ditte che fanno affari d’oro in Libia si era preoccupato di restaurarlo".Siete stati espulsi perché venivate considerati oltre che italiani, fascisti?
"No. La colonizzazione italiana risale a prima del fascismo e poi dopo la sconfitta della Seconda guerra mondiale c’era stato il protettorato britannico. Poi molti dimenticano che nel 1951 era stato siglato un trattato, e come tutti i trattati doveva sopravvivere al cambio istituzionale, in cui veniva garantita la nostra permanenza in Libia. Dal 1951 al 1970 la nostra vita è andata avanti indisturbata. Non era in Libia, ma in Italia che alcuni ci chiamavano fascisti. Questa etichetta ci è stata messa addosso da cosiddetti storici legati all’ideologia postcomunista. Io credo nel valore del diritto, della democrazia e nella conservazione dei principi che reggono uno stato democratico".Il rientro in Italia è stato traumatico?
"Non è stato un buon ritorno perché qualsiasi tragedia nazionale, vera o presunta tale, ci è passata davanti. Siamo stati trattati da poveracci. Abbiamo avuto dei posti riservati per accedere senza concorso all’amministrazione pubblica ma non potevamo ambire a un ruolo più alto del fattorino anche se eravamo laureati. Abbiamo avuto delle agevolazioni per riprendere in patria le attività che avevamo lasciato in Libia, ma abbiamo dovuto aspettare dieci anni per avere delle provvidenze e non abbiamo avuto nessun adeguamento alla svalutazione monetaria".Un’ultima domanda: dove vuole essere seppellita?
"Non mi dispiacerebbe riposare per sempre a Tripoli".
22 febbraio 2011
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